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Fantascienza e pregiudizi

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Gravity, il film di Alfonso Cuarón premiato dappertutto, fornisce l’ennesimo pretesto per riflettere sull’insensatezza delle classificazioni di genere e sui pregiudizi che ne derivano. Sebbene la vicenda si svolga al 99% nello spazio, la fantascienza si limita a fare da cornice e da riflesso a un dramma psicologico ed esistenziale – quello della protagonista, unica sopravvissuta dell’equipaggio di una missione infelice. Il suo smarrimento comincia molto prima dell’incidente spaziale che metterà a dura prova la sua resistenza di persona e di donna.

«Perché ti chiami Ryan? Non è un nome femminile.» «Papà voleva un maschio.» È così, con secchi scambi di battute tra lei e il semisconosciuto astronauta con cui condivide un tratto di odissea, che la sceneggiatura ricostruisce il mondo di solitudine e dolore che la donna, ricercatrice scientifica, si porta sulle spalle. La tremenda esperienza spaziale, con il suo prolungato tête-à-tête con la morte, accende infine in lei la voglia di vivere, nonostante tutto.
Sandra Bullock in una scena di Gravity.

Non so se Gravity sia un capolavoro: di certo è un racconto originale, emozionante e dignitoso. Mentre non ho dubbi sul fatto che 2001: Odissea nello spazio sia stato e sempre sarà uno dei film più belli in assoluto della storia del cinema. Lo cito perché ho ritrovato per caso, in una vecchia raccolta di recensioni di Alberto Moravia,[1] quello che a me pare uno sproloquio inaccettabile:

«Dicono che 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrik [sic] sia costato sette miliardi. Di fronte a questa somma colossale, i meno di cento milioni che sono stati spesi, per esempio, per un film d’arte come I pugni in tasca di Marco Bellocchio formano un contrasto pieno di significato. Per molti questo significato, certo, si riassumerebbe così: “Vergogna! Il buon cinema si può fare con pochi soldi! Sprechi inauditi! Arte commerciale!” Ma crediamo che sarebbe un commento affrettato. Diciamo, invece, che I pugni in tasca sono un’opera d’arte; e il film di Kubrik [sic] un prodotto.»

Moravia ammette che si tratta di un «ottimo prodotto», perché il film evidentemente non gli è dispiaciuto; ma tutto preso dal pregiudizio di partenza insiste sul ruolo determinante del denaro sulla riuscita dell’idea, mentre il vero «film d’arte» non ha bisogno di soldi per reggersi in piedi.

E ancora: «2001 non è un’opera individuale ma collettiva, come, del resto, tutti i prodotti.» Credo che qualsiasi film, sotto il profilo della realizzazione, sia da intendersi come opera collettiva e come prodotto: I pugni in tasca non fa eccezione, anche se Marco Bellocchio ne è stato l’ideatore, lo sceneggiatore e il regista. Ma come si fa a negare a Kubrick la statura di autore? Non aveva forse già superato gli esami con Orizzonti di gloria, Spartacus, Lolita, Il dottor Stranamore? O depone a suo sfavore il fatto di aver tratto materia di narrazione da romanzi e libri (Humphrey Cobb per Orizzonti di gloria, il grande Nabokov per Lolita) e concepito Spartacus con la collaborazione di uno scriptwriter di talento come Dalton Trumbo? Moravia aveva letto Red alert di Peter George? Io no; ma il film che Kubrick ne ricavò – Il dottor Stranamore– mi sembra tranquillamente separabile dalla fonte, una commedia tragica e straordinaria sulla stupidità della guerra e dell’uomo: indimenticabile.

Moravia è stato per molti anni un maître à penser degno di rispetto: lo stimo nonostante le eresie riversate nella recensione di Kubrick. Ho letto gran parte dei suoi scritti, narrativi e non. Ha anche operato nel cinema, come soggettista e sceneggiatore. Ma le sue opinioni sulle presunte differenze tra prodotto commerciale e prodotto artistico mi lasciano perplesso, non tanto per il fatto che le abbia enunciate (viva la libertà), quanto perché si tratta di luoghi comuni molto diffusi tra gli intellettuali italiani.

Sentite come va a finire il suo commento sull’opera che non è individuale ma collettiva, come, del resto, tutti i prodotti: «In maniera analoga ai grattacieli e ai ponti di New York, non ci dice niente sul suo autore e molto sull’America: l’infantilismo di una società che inventa i missili e si diverte coi fumetti; il titanismo avveniristico; il terrore che questo titanismo un giorno possa essere punito dal Dio biblico, un po’ come furono puniti i giganti che eressero la torre di Babele.» Alla faccia della misura: era forse a Moravia e al moravismo che alludeva Umberto Eco quando scrisse Apocalittici e integrati?

L’arte è come il tempo: non si può definire. Non in modo perentorio, almeno. Diffido di tutte le definizioni, fors’anche perché non ne sento il bisogno. L’arte è qualcosa di indefinibile e prezioso, una risorsa misteriosa attraverso la quale l’uomo cerca risposte non scontate alle questioni che lo assillano. Ed è anche la sublimazione, non importa se individuale o collettiva, della creatività, dell’aspirazione a creare qualcosa e a lasciare un segno. Fui turbato e commosso da I pugni in tasca di Marco Bellocchio, ma mi commuovono anche il Chrysler Building, il ponte di Brooklyn, l’impronta di Mies van der Rohe e del Bauhaus sull’architettura di Manhattan, che sarà pure babelica ma è la più bella delle città moderne. E non ho niente, ma proprio niente, contro i fumetti, mentre trovo infantile qualsiasi tipo di preconcetto – anche se non sono sicuro di esserne totalmente immune.

P.B.



[1]Al cinema. Centoquarantotto film d’autore, Milano: Bompiani, 1975. 

Piede di porco

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Piede di porco


Ogni volta che sentivo Bessie Smith, Bille Holiday o Nina Simone cantare Gimme a pigfoot and a bottle of beer mi chiedevo cosa diavolo fosse quel pigfoot, che alla lettera sta per “piede di porco”. Di certo non poteva essere l’attrezzo utile ai pompieri, ai poliziotti e ai soliti ignoti per forzare le serrature. Ingenuamente pensavo che si trattasse di un boccale a forma di piede di porco: nelle birrerie e in certi bazar per turisti se ne vedono tanti a forma di stivale, mi dicevo, e siccome gli artigiani del kitsch hanno una fantasia senza limiti qualcuno avrà pur concepito un boccale a forma di piede di porco. Ma solo un maiale in carne e ossa, vivente e in buona salute, sarebbe capace di tenere in piedi i suoi piedi; se il piede è di vetro è facile che si rovesci su un lato, e addio birra, congetturavo; a meno di non incastonarlo in una base solida che gli faccia – letteralmente – da piedistallo, il che trascenderebbe però non solo la logica del design industriale ma anche quella del mauvais goût più spregiudicato.

Dal momento che questa e le altre quattrocento e più canzoni composte da Wesley Wilson negli anni ruggenti sono scritte in uno slang afroamericano a tratti impenetrabile, risolsi che il significato di pigfoot andasse cercato altrove. Il mio Pocket Dictionary of American Slang, curato da Wentworth e Flexner, soccorrevole in altri casi, qui non mi è stato di alcun aiuto; ho dovuto perciò indagare alquanto sul web alla ricerca di qualche traccia consistente e sperabilmente attendibile, giacché la rete ingloba anche informazioni bislacche, approssimative e ingannevoli. Per fortuna, in mezzo alla fuffa elettronica, non mancano buoni dizionari, anche idiomatici.

Tra le scoperte che ho fatto la più interessante, sebbene non risolutiva, riguarda una specialità gastronomica del profondo sud statunitense: i pickled pig feet, ovvero piedi di porco conservati sottaceto dopo essere stati bolliti, dimezzati longitudinalmente, disossati, sgrassati, insaporiti (con cipolla, peperoncino, sale, pepe in grani, senape) e aromatizzati (con alloro, coriandolo, chiodi di garofano, zenzero). Che Bessie Smith – o meglio Hannah Brown, il personaggio della canzone – ordinasse al cameriere una manciata di sottaceti da mandar giù con la birra a mo’ di spuntino, può anche starci. Senonché è proprio un altro verso di Gimme a pigfoot, verso la fine, a fornire l’indizio illuminante: il maiale non c’entra, Hannah vuole della marijuana. Perché l’altro verso suona così: Gimme a reefer and a gang of gin, dove reefer sta per “canna” o “spinello”, mentre gang of gin sta per “gin in quantità”.

«Dammi un po’ d’erba e una bottiglia di birra, / muoviti, bello, tanto chi se ne frega, / mi voglio dare alla pazza gioia, / dai un goccio anche al pianista perché mi sta facendo scendere il latte alle ginocchia...» Bessie Smith è più vera del vero: euforica e rabbiosa, non si risparmia nel growl, ruggito vocale da giungla e da jazz. Il suo impeto, realistico e bruciante, sfocia nel nuovo stile in voga al Cotton Club di Harlem e nei locali di New Orleans, lo swing: sincopato e nevrotico come può esserlo l’umore di una star in declino e di un paese ancora sotto il peso schiacciante della Depressione. Il testo sembra inneggiare all’imminente abolizione del proibizionismo. Bessie incide il motivo nel novembre 1933, quando mancano meno di due settimane alla ratifica del 21° emendamento che cancella – dopo tredici anni di contrabbando e guerra di gangster – la legge che vieta la produzione, la vendita e il trasporto di alcolici.

Può sorprendere che le canzoni di quel periodo parlassero di droga e alcool con disinvoltura, alla faccia del bacchettonismo e delle censure imperanti in America. È probabile che i censori non prestassero troppa attenzione alle canzoni dei neri e se ne infischiassero di cosa dicessero. Il loro mercato musicale era un mondo a parte, così come lo erano, negli stati del sud, i mezzi di trasporto, le scuole e i locali pubblici. I dischi riservati ai neri erano incisi sui cosiddetti race records, etichette etniche, prodotte anche dalle grandi compagnie discografiche: la Okeh, per la quale incidevano la Smith e Louis Armstrong, apparteneva alla Columbia.
Fanatismo anti-alcolista all'epoca del proibizionismo negli Stati Uniti.

Gli autori di canzoni, in generale, si prendevano parecchie libertà. Cole Porter, bianco e “rispettabile”, fu censurato per Love for sale (1930), che parlava esplicitamente di prostituzione, e per I get a kick out of you (1934), audacissima in questo passaggio:

Su qualcuno fa colpo la cocaina;
quanto a me sono certo che se la sniffassi una volta
la cosa non mi farebbe né caldo né freddo...

(nella sua versione, Frank Sinatra spara le effe come se sniffasse davvero).

Ma torniamo al pigfootdi Wesley Wilson e di Coot Grant, accreditata come co-autrice. Chi erano costoro? Una coppia di cantanti e strumentisti attivi sulla scena del vaudeville dal 1905 agli anni Trenta. Coot (da cutie, “sexy”)Grant era uno dei tanti pseudonimi usati da Leola B. Pettigrew, blues singer e chitarrista nata in Alabama. Wesley Wilson, partner artistico e – dal 1912 – anche coniuge, oltre a cantare suonava l’organo e il piano. Il duo si faceva chiamare ora Grant and Wilson, ora Kid and Coot, ora Hunter and Jenkins. E dietro nomi come Kid Wilson, Sox o Socks Wilson, Jenkins, Pigmeat Pete e persino Catjuice Charlie c’era sempre lui, Wesley Wilson.

Il duo sfornò centinaia di canzoni privilegiando simpatiche quanto sboccate storiacce di bassifondi: le case discografiche si rifiutarono di accettare uno dei loro pezzi più azzardati, Throat cutting blues («Blues dello sgozzamento»). In compenso, molte delle loro incisioni vantano collaborazioni jazzistiche di alto livello: Fletcher Henderson, Louis Armstrong, il quintetto di Mezz Mezzrow con Sidney Bechet. La Document ha ripubblicato in tre CD le loro registrazioni, ma Gimme a pigfoot non c’è.
Manifestazione pubblica contro il proibizionismo.

Notissima invece, e memorable, la già citata versione di Bessie Smith. Era la sua ultima seduta d’incisione dopo due anni di assenza dagli studi, e intorno a lei il produttore John Hammond aveva raccolto uno stuolo di astri nascenti del jazz: Frankie Newton (tromba), Jack Teagarden (trombone), Chu Berry (sax tenore), Buck Washington (piano), Bobby Johnson Jr. (chitarra), Billy Taylor Sr. (contrabbasso) e Benny Goodman (clarinetto). La carriera dell’«imperatrice del blues» era, dal 1930, in precipitevole discesa, sebbene la Smith fosse appena alle soglie della trentina. Cospirava contro di lei una maligna combinazione di fattori: il cambiamento dei gusti del pubblico, la cattiva gestione degli affari e, non ultima, la propensione alla bottiglia, abitudine contratta fin dall’adolescenza e che con gli anni crebbe a dismisura. A quella dipendenza alludono altre sue canzoni, come Gin house blues e Me and my gin; e sembra autobiografica la sua interpretazione dell’amarissima Nobody knows you when you’re down and out, «nessuno ti conosce quando la tua vita va a rotoli».

Gimme a pigfootè il vociante sfogo di una bevitrice, all’alba di domenica dopo una notte di bagordi, in un posto di Harlem dove si balla per un quarto di dollaro, si scolano barili di birra e di gin, si fuma marijuana, spuntano coltelli e pistole alla prima provocazione e spariscono con la stessa prontezza a ogni irruzione della polizia. Il club sembra comunque frequentato anche da gente altolocata e con la puzza sotto il naso, come si evince dai primi versi della canzone.

Gimme a pigfoot ha collezionato una serie di cover esemplari: non solo quelle di Billie Holiday e Nina Simone, ma anche una trascinante versione rhythm & blues di LaVern Baker in un album dedicato a Bessie Smith; con la grintosa cantante di Chicago suonano leggende del jazz come il trombettista Buck Clayton (presente anche nell’incisione della Holiday), il trombonista Vic Dickenson, il tenorsassofonista Paul Quinichette e il pianista Nat Pierce. Quel vecchio derivato del blues, gravido di alcool e scottante come brace, ha rivitalizzato persino un’ottantaseienne ma ancora indomita Anita O’Day che nel 2005, sette mesi prima del cimitero, ha inciso un ultimo disco appropriatamente intitolato Indestructible!

SELEZIONE DISCOGRAFICA:

1933, Bessie Smith, The Complete Recordings, Columbia.
1940, Frankie “Half-Pint” Jaxon, Complete Recorded Works, Vol. 3, Document.

1949, Billie Holiday, The Complete Original American Decca Recordings, MCA.
1957, Juanita Hall, Sings the Blues, Counterpoint.
1958, LaVern Baker, Sings Bessie Smith, Atlantic.
1958, Wynton Kelly, Newport Jazz Festival 1958: Blues in the Night No. 2, Phontastic.
1961, Nina Simone, The Colpix Years, Blue Note.
1964, Oscar Klein Quartet, Early Oscar Klein 1954-1964, RST Records. 
1966, Champion Jack Dupree, From New Orleans to Chicago, London.
1968, Mabel Mercer & Bobby Short, At Town Hall, Atlantic.
1972, Diana Ross, Lady Sings the Blues, Motown.
1973, Cleo Laine, Live at Carnegie Hall, RCA.
1973, Judith Durham, Judith Durham and The Hottest Band in Town, Pye. 
1973, Sylvester and The Hot Band, Sylvester and The Hot Band, Blue Thumb Records.
1973, Teresa Brewer with Count Basie, The Songs of Bessie Smith, Doctor Jazz.
1987, Abbey Lincoln, Abbey Sings Billie, Vol. 2, Enja.
1995, Jim Cullum Jazz Band, Bessie and the Blues, Riverwalk.
2005, Anita O’Day, Indestructible!, Kayo Stereophonic.

FILM:

1972, “Lady Sings the Blues” di Sidney J. Furie (“La signora del blues”), biografia di Billie Holiday; Diana Ross.

1991, “The Butcher’s Wife” di Terry Hughes (“Amore e magia”); Mary Steenburgen dirige un coro di voci bianche in chiesa, in esilarante contrasto con lo spregiudicato testo della canzone.

P.B.

Caino, Abele e le tenebre

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Caino, Abele e le tenebre


Il volto dell’ultimo mostro da prima pagina, quello – per intenderci – che ha sterminato la famiglia a Motta Visconti, manda definitivamente all’aria, se ancora ce ne fosse bisogno, le teorie di Cesare Lombroso. Trattasi, almeno visto nelle foto del matrimonio, di quel che si dice “un bel ragazzo”: fronte alta, sorriso aperto, dentatura in ordine, sguardo senza ombre. Lombroso ovviamente sbagliava, anche se ciò non vuol dire che fosse stupido o incompetente: i tempi erano quelli del positivismo e lui si era applicato agli studi fisiognomici col fervore scientifico dei criminologi, fidandosi più della statistica che della sociologia.

Gaetano Gandolfi, Caino uccide Abele, seconda metà del XVII secolo. Honolulu Academy of Arts.

Lombroso credeva in Darwin, ma forse era ancora troppo presto per valutare in tutta la sua estensione la portata – antropologica e filosofica – delle sue scoperte sull’evoluzione delle specie. Il cristianesimo ha liquidato in fretta il pensiero di Darwin, ritenendolo irrimediabilmente in contrasto con il dogma del creazionismo: non ha voluto, o saputo, pescare nella ricerca di Darwin quello che poteva essere un poderoso supporto scientifico, se non alla fede, almeno all’etica “naturale” dei dieci comandamenti.

Penso che esistano i presupposti per considerare il bene, il male e i tabù come criteri naturali, prima ancora che culturali, prodotti dalle specie per regolare e proteggere le condizioni della propria sopravvivenza. Mettiamola così: è bene ciò che serve alla difesa della specie nella sua integrità; è male ciò che vi si oppone; è tabù il ricorso a pratiche che possano compromettere gravemente l’equilibrio dell’insieme. Non è escluso che, nel corso del tempo, singoli aspetti di questa “ecoetica” possano modificarsi; sempre, però, nella prospettiva di evitare il male assoluto, l’estinzione.

Esempi di fisiognomica di criminali, secondo Lombroso: Rivoluzionari e criminali politici, matti e folli.

Delle formiche sappiamo ciò che fanno, ma ignoriamo ciò che pensano, ammesso che il pensiero faccia parte del loro corredo biologico. Come diversi altri esseri viventi, le formiche tengono in gran conto la società universale cui appartengono, e sembrano immuni – almeno al nostro sguardo – da tentazioni e deviazioni che possano compromettere l’incolumità della tribù. La stessa cosa non può dirsi dell’uomo: dotato della capacità di progettare e produrre strumenti inediti (ciò che chiamiamo cultura), introduce nell’equilibrio circostante una variante meravigliosa quanto pericolosa: la singolarità dell’ego. Il male salta fuori dal conflitto tra la fedeltà alla specie e l’affezione a sé stessi. Di conseguenza si può dire che è naturalmente ed eticamente accettabile ciò che è utile alla specie nella sua integrità; mentre è naturalmente ed eticamente inaccettabile il comportamento di individui che antepongono il proprio interesse a quello della specie, mettendone a rischio gli equilibri.

La guerra e l’assassinio occasionale costituiscono il più vistoso esempio di infrazione (di gruppo o individuale) al dettato naturale della specie umana, che sembra imporre a ciascuno dei suoi membri regole di coesistenza e di sviluppo comune.[1]

Pacifismo, tolleranza e in generale qualsiasi forma di adattamento alle ragioni della specie (considerata nella sua totalità) sono gli antidoti più efficaci all’autodistruzione, ovvero al massimo pericolo che l’uomo, in contraddizione con sé stesso, ha causato o sta causando su larga scala. Qualsiasi conflitto tra “il bene e il male” si riduce al conflitto, quasi ineluttabile, tra il nostro amore per la specie (l’amore verso il prossimo, secondo l’insegnamento di Gesù di Nazareth) e l’amore che nutriamo per noi stessi: che si traduce in desiderio di autoaffermazione e sconfina, troppo spesso, in perniciosi antagonismi, sopraffazioni e inaudite esplosioni di violenza contro gli altri e contro l’ambiente stesso.

Siamo dunque stati dotati, con la libertà di pensiero e di azione, di un’arma letale e “contro natura”? A che pro?

L’impulso narcisista all’autoaffermazione non sarebbe malefico di per sé. Sembra essere un trucco necessario all’autotutela individuale. L’uomo è una macchina talmente evoluta e complessa da aver bisogno di un doppio meccanismo di sicurezza: uno per la specie e uno per il singolo membro. Se è vero che le pecore precipitano in massa nel burrone per seguire meccanicamente l’errore del capofila, all’uomo è dato uno speciale dispositivo supplementare che gli impedisce di sacrificare inutilmente la propria esistenza.

Charles Darwin in un ritratto del 1878.

Tra il bene della specie e quello, vero o presunto, dell’individuo, l’uomo ha introdotto e codificato una serie di stazioni intermedie. Queste entità, simili tra loro ma diverse per consistenza numerica, sono la famiglia, il clan, la tribù, la nazione, lo stato, la civiltà, etc. In queste creazioni l’uomo ha riversato il bisogno imprescindibile di vivere in società, ma ha colorato quel bisogno di tinte e sfumature che appartengono al corredo individuale. Sono le idee e le ideologie, ovvero principii e sistemi di principii che danno origine a un’ampia varietà di combinazioni e comportamenti. Non sempre, per non dire raramente, queste combinazioni coincidono con gli interessi della specie. Come il singolo, anche i gruppi di appartenenza – alcuni più compatti, altri meno – tirano l’acqua al proprio mulino senza curarsi di un “bene comune” universale. Solo gli idealismi di stampo socialista, quando non degenerano a loro volta nel trash dell’odio e degli interessi particolari di traditori prepotenti, collimano – finché dura – con i bisogni generali della specie. Per questo tendo a proclamarmi “di sinistra” e non rinuncio alle mie utopie.

L’insegnamento del cristianesimo – da non confondere con l’autoritarismo della chiesa o delle chiese, il fondamentalismo dogmatico e qualsiasi altro layout predisposto da apparati religiosi – sembra essere mirabilmente in linea con la tesi fin qui sommariamente abbozzata. Checché ne dicano le dottrine sono proprio le scienze, e in primis l’antropologia, a fornirci le chiavi razionali per comprendere, apprezzare e condividere i principii cristiani.

Le più orride vicende del nostro tempo e di sempre – dai genocidi epocali, che continuano a ripetersi, ai casi di criminalità personale che fanno persino più audience dei primi – ci inducono talvolta a dubitare della nostra evoluzione, o almeno della sua linearità. Ma lo sviluppo di una specie non è affatto sincronico: i suoi tempi, oltre che sfasati, si misurano a millenni, mentre i nostri orologi sono fatti per durare al massimo qualche generazione. L’umanità, in altri termini, è ancora lontanissima dal traguardo della coesione: siamo tutti uguali, e allo stesso tempo tutti diversi, nei polpastrelli e nell’anima.[2]L’uomo delle caverne convive con l’uomo che riflette sul futuro e qualche milione di stadi intermedi, non senza gravi difficoltà di tutte le parti in causa per le spigolosità di una convivenza così asimmetrica. Né ci è dato sapere se, nell’anno 6014 (fine del mondo permettendo), l’evoluzione avrà preso una piega imprevista, trattando la coesione come un male e l’assassinio reciproco come ultimo e paradossale antidoto all’estinzione definitiva.

P.B.






[1] Si potrebbe obiettare che anche la soppressione dei propri simili faccia parte di un disegno naturale, un metodo come un altro per ovviare a problemi di sovrappopolazione. In realtà i problemi di sovrappopolazione che conosciamo sono dovuti più alla iniqua distribuzione delle risorse che a un mero dato numerico. E l’iniqua distribuzione delle risorse non sta scritta nelle leggi della natura ma è, ancora una volta, il risultato di volontà e poteri umani. Qualora, in un mondo idilliaco e perciò diversissimo da questo, tutti i membri della specie andassero d’amore e d’accordo come ci pare facciano le formiche, la natura saprebbe moltiplicare i suoi mezzi di riduzione della sovrappopolazione aggiungendo, alle catastrofi climatiche, malattie come l’infertilità e chissà quant’altro. Per non dire che anche la cultura, una volta assorbita nel profondo da varie generazioni, diventa a sua volta elemento inscindibile dall’ambiente e quindi “natura”; le misure contraccettive e il diffondersi della castità e dell’omosessualità, per esempio, potrebbero servire degnamente allo scopo di ridurre una eccessiva espansione demografica.
[2] Qui intesa unicamente come capacità di esprimere pensieri e scelte.


Cinema e musica

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Il perfido Adorno e altre storie


Trascrivo qui una conversazione a distanza intercorsa a puntate, via e-mail, tra Pia Elliott (PIA) e il sottoscritto (PAB) su un argomento che interessa entrambi. Pia è una mia amica ed ex collega di lavoro. Si occupa di storia e critica della pubblicità (ha recentemente pubblicato un saggio, Just Doing It, edito da Lupetti e di prossima uscita in altri paesi), ma la musica ha avuto una parte rilevante nella sua formazione, anche se di questa particolare competenza ha preferito fare un uso prevalentemente privato.

PIA -Secondo Adorno «...il peccato cardinale della musica per film consiste nell’esigenza di esserci» (cito a memoria). Quando ha scritto Composing for the Films, con Eisler[1]nel 1947, in pieno boom hollywoodiano, Adorno era a New York, dove gli avevano costruito su misura l’Institute of Social Research. Io credo che tutto quello che è stato scritto sulla musica per il cinema, da Adorno in poi, sia già racchiuso, in nuce, in quella frase. Un rapporto irrisolto, due linguaggi diversi, una storia che continua da sempre, teorizzata in modo balordo da cinéphiles pedanti. Alla base, credo, una distorsione temporale: il cinema era appena nato, balbettava mentre la musica era già molto, molto più avanti.

PAB - Non sapevo del libro che dici. Ho un cattivo rapporto con Adorno, è troppo severo con i musicisti. Ha maltrattato gente come Čajkovskij, Dvořák e persino Mahler per aver utilizzato, nelle loro composizioni, «stantii canti popolari, canzonacce e ballabili... i rozzi elementi tratti dalla mu­sica inferiore ven­gono rimescolati nella musica superiore come se ne fossero il lievito...»[2]Immagino che l’intransigenza (etica ed estetica) di Adorno sia in qualche modo rapportabile alle pessime connotazioni che la cultura völkisch aveva assunto in Germania, quando diventò una bandiera dei movimenti pangermanisti e del nazismo. Anch’io, forse, memore di un clima di demonizzazione dell’arte d’avanguardia (entartete Musik!) diventerei cattivo con Mahler e con la musica per film...
Theodor Adorno. Ritratto di autore sconosciuto.

PIA - Ho riletto il discorso commemorativo di Vienna, fatto da Adorno in occasione del centenario della nascita di Mahler[3], che non mi sembra affatto intransigente. Sottolinea solo, un po’ troppo volutamente e ripetutamente, la sua “austricità”.

PAB - Non ho nessuna teoria sulla musica da film e ne sono contento, perché questa verginità mi mette in condizione di dialogare liberamente e far venir fuori qualche idea non troppo condizionata o precostituita. Posso solo dire che al cinema mi disgustano i cliché musicali più prevedibili, quasi sempre codificati dal marketing più banale, e che non sopporto Morricone perché tende a divorare il film e a farne un’appendice alla sua musica, peraltro spesso discutibile di per sé. Non ho mai mancato di elogiare Stanley Kubrick per l’uso spiazzante che faceva di musiche note, colte o popolari che fossero. Quanto ad Adorno, ho ordinato il libro che dici: voglio capire se rifiuta l’idea della musica come funzione della narrazione e se ne rivendica l’autonomia assoluta.

PIA - Nel suo periodo americano, Adorno si trovò coinvolto in un’atmosfera e in progetti (come il Radio Research Project) che lo mettevano a contatto con una realtà diversa, un po’ caciarona, amatoriale, ma tanto tanto generosa e desiderosa di apprendere. Anche Hollywood con la sua musica doveva sembrargli il circo Barnum. E ancora di più all’amico Hanns Eisler, uno che a Berlino, nel suo entusiasmo per il comunismo, picchiava il pugno chiuso sulla tastiera. Credo che tutto il punto sia questo: che Adorno e Eisler hanno cercato di teorizzare e dare un senso logico a un tipo di musica che – almeno a quei tempi – rispondeva solo ai diktat degli studios di Hollywood: far piangere, inorridire o entusiasmare il pubblico. Ma ti immagini uno che aveva studiato con Alban Berg, che ascoltava Schoenberg, discuteva di Webern, suggeriva a Thomas Mann cosa scrivere, che si trova ad ascoltare la musica di Via col vento?
Bernard Herrmann (a sinistra) con Orson Welles, 1938 circa. Herrmann compose per Welles le colonne sonore del programma radiofonico La guerra dei mondi (1938) e dei film Quarto potere (1941) e L’orgoglio degli Amberson (1942) prima di diventare il punto di riferimento musicale di Alfred Hitchcock.


PAB - Non sarà stata anche una questione di puzza sotto il naso? Non sarei troppo duro col cinema popolare, quando il livello è quello di Via col vento. Gran polpettone, d’accordo, ma se non esistesse mi mancherebbe. Sì, certo, ai tempi di cui parliamo la musica per film era sostanzialmente descrittiva ed enfatica: oceani di note per anticipare o survoltare i clou del racconto. Lo si fa anche oggi e provo una certa repulsione quando tale procedimento è applicato al cinema contemporaneo; ma quando rivedo vecchi film vado in solluchero (per Waxman, Tiomkin, Elmer Bernstein e tanti altri, per non dire di Bernard Herrmann). Solo nostalgia? O qualcosa di più?

Sebbene sia un patito della musica, adori i musical e mi diverta come un bambino a montare fotovideo musicali, mi è capitato di apprezzare profondamente, in certi film d’autore, la totale assenza di commento musicale. Mi pare che il silenzio e l’asciuttezza esaltino l’autenticità e la drammaticità di certe situazioni più di quanto possa fare qualsiasi composizione musicale di supporto.

PIA - Per quanto mi riguarda, il discorso su musica e cinema si muove su due livelli. Il primo è quello, distaccato e didascalico, che adotto nel seminario che sto preparando per lo IED – “Come suona la pubblicità” – che è un pretesto per parlare di cinema e musica e anche un po’ di jingle e spot (è inevitabile). L’altro livello, invece, è quello personale, emozionale e a volte irrazionale che mi porta ad amare incondizionatamente il quintetto in do maggiore di Schubert, come Aquarium di Saint-Saëns[4]o la suite per pianoforte di Janáček, come il love theme di Rachel[5]o di In the Mood for Love[6]e a cercare morbosamente chi l’ha scritta o messa insieme, o chi è il sound designer... Esattamente quello che, secondo Adorno, non dovrebbe succedere, ma che inevitabilmente succede.

Tu parli di “silenzio” nei film. Il mio co-docente, Osvaldo Bargero (uno dei più bravi montatori del cinema italiano, temporaneamente disoccupato), ti direbbe subito che il silenzio non esiste. In un film può non esserci della musica, ma il sound c’è sempre.

PAB - Osvaldo ha ragione: il silenzio non esiste. Non è esistito nemmeno ai tempi del muto. Altro che silent movies; c’era sempre un pianista in sala, e nelle sale importanti persino l’orchestra. Da qualche parte ho letto che certi cinematografi potevano permettersi il lusso di ospitare organici di ottanta elementi. Non so se qualcuno abbia mai documentato la musica di quei tempi: in senso sistematico, intendo. So che uno degli standard più famosi del pianeta, il “tango tzigano” Jalousie, fu scritto nel 1925 da un violinista e compositore di Salonmusik danese, Jacob Gade, per un film[7]. La cosa curiosa, per noi cresciuti col sonoro, è che uno stesso film potesse tranquillamente convivere con musiche diverse, a seconda del luogo e delle circostanze.

PIA - C’è stato un periodo nella storia del cinema, tra il ’20 e il ’30, in cui le scatole di pellicola venivano corredate d’istruzioni precise, accompagnate dalle partiture corrispondenti e da fogli con il minutaggio. Nei diari di Paul Fosse – direttore del Gaumont-Palace, il più grande cinema del mondo, – sono annotati tutti i titoli dei film e l’elenco dei brani che li accompagnavano, e questo per 17 anni consecutivi. Nel fondamentale La Musique au cinéma, di Michel Chion (che non ho e non cercherò), teorico dell’ascolto e dell’audiovisione francese, tutta questa roba è raccontata con abbondanza di particolari e un interesse morboso, come se l’autore avesse studiato al microscopio l’evoluzione di una malattia contagiosa. 

PAB - I cineasti hanno sentito fin dalle origini un gran bisogno di musica. Più ancora che del parlato, a quanto pare: quello, almeno, si poteva abbozzare nei famosi cartelli, sintesi sommarie di informazioni e dialoghi. Ma scrivere in un cartello «immaginate ora di ascoltare la toccata e fuga BWV 565 di Bach» sarebbe stato francamente troppo. Per cui ecco l’ibrido interessante: immagini sullo schermo e musica live

Mi piacerebbe rivedere (e riascoltare) alcuni degli esperimenti più creativi di cinema e musica degli anni venti, per esempio il documentario su Berlino di Walter Ruttmann (1927) che, non a caso, era intitolato Berlino: Sinfonia di una grande città. Edmund Meisel, viennese, un vero pioniere della musica da film, fu incaricato del commento musicale dopo essersi messo in vista con lo score dell’edizione tedesca de La corazzata Potëmkin. Lo stesso Ėjzenštejn ne fu colpito al punto di chiedergli una collaborazione per Ottobre.

Šostakovič e Prokof’ev ebbero molto a che fare con il cinema sovietico. Credo che i compositori russi abbiano influenzato parecchio i musicisti di Hollywood. Ogni volta che riascolto uno dei miei soundtrack preferiti, quello di Bernard Herrmann per Psycho, mi vengono in mente Stravinskij e Šostakovič. Di fatto le musiche di Herrmann, pur incollatissime ai film di cui fanno parte, hanno una dignità indipendente e si possono ascoltare con interesse anche da sole.
Aleksandr Nevskij di Sergej Ėjzenštejn (1938): memorabile colonna sonora di Sergej Prokof’ev.

PIA - Non ti dico niente perché prevedo che continuerai a incazzarti. Eppure, il concetto di “inevitabilità” della musica nel cinema, a me, continua a intrigarmi, soprattutto se penso che il sonoro prima e la musica dopo si sono aggiunti ai film, originariamente muti, come la barba che spunta sulle guance di un adolescente, per evoluzione naturale e, ancora una volta, inevitabile. Ciò sebbene diversi artisti si opponessero sia al sonoro che alla musica, tanto che Chaplin decise che, se proprio doveva esserci, la musica se la sarebbe scritta da sé. Da un po’ c’è anche l’uso, un po’ bling bling, di “musicare” dal vivo film muti, o addirittura comporre musiche originali per vecchie pellicole, non necessariamente d’autore.

PAB - Sui rapporti tra Chaplin e i musicisti si raccontano aneddoti divertenti. Chaplin non conosceva la musica. Gli venivano in mente degli spunti melodici e usava dei professionisti per svilupparli, scriverli e arrangiarli. Con questi si comportava da schiavista. Per Tempi moderni licenziò il giovane David Raksin[8] dopo dieci giorni di torture. Anche con Alfred Newman[9], responsabile della direzione musicale del film, andò a finire a male parole. Smile, il tema di Tempi moderni, era orecchiato da Brahms: ricalcava la sequenza di note iniziale del Deutsches Requiem. Diventò una canzone e fece strada anche fuori dal film. Il sentimentalismo trabocca in modo torrenziale, da lacrima sul ciglio, ma non si può negare al brano una certa ariosa eleganza.

PIA - Sono stata presa da irrefrenabile curiosità, ma più che altro da pietà, quando ho letto che Eric Satie si manteneva suonando nei cinema di Montmartre, che l’avvento del sonoro mise sul lastrico decine e decine di pianisti forse non così bravi e che il povero Šostakovič produceva colonne sonore a manetta (ne ha scritte un centinaio), pur di sfuggire alle purghe staliniane (teneva sempre pronta sotto il letto una valigia). Per non parlare di Ėjzenštejn che esigeva da Prokof’ev degli storyboard musicali, con il risultato che la musica dell’Aleksandr Nevskij si continua ad ascoltare, mentre il film si vede solo nei cineclub sfigati.

E sai cosa dice ancora Michel Chion, sempre nel fondamentale La Musique au cinéma, della musica di Herrmann per Psycho? che la partitura in sé è di una monotonia terrificante, mentre nel film funziona in modo ideale.

Ma sono molte le cose che non ti piaceranno nel libro di Adorno e Eisler, soprattutto sul leit-motiv che, per i musicisti di Hollywood (e non solo), era un facile espediente per scrivere poco e guadagnare molto, mentre per Wagner, etc. etc.

E così torniamo a Morricone e a quelli che io penso siano i due difetti capitali della musica per film: che sia stata considerata una specie di sotto-genere musicale, e l’ignoranza dei registi, che di musica sanno poco o niente e che si permettono di farne tagliatelle in montaggio. Naturalmente ci sono le eccezioni, Welles, Hitchcock, Kubrick, Scorsese e altri. Secondo Franco Mannino, genero di Luchino Visconti, grande pianista che ho avuto occasione di conoscere, nonché compositore di colonne sonore, solo Visconti fra i registi italiani capiva di musica, essendo musicista egli stesso. Per gli altri, la musica di un film era l’ultima cosa cui pensare e, quando si arrivava alla colonna sonora, il budget era sempre esaurito. 

PAB - Ho trovato il libro di Adorno-Eisler (più del primo che del secondo, a quanto pare) e lo sto leggendo. In realtà è un testo delizioso, scintillante negli attacchi polemici e, sotto molti aspetti, assai utile per chi si occupa seriamente di cinema. Il pensiero sui leit-motiv e contro gli stereotipi in generale è condivisibile al 100%.

L’unica cosa che, a mio avviso, risulta datata è la continua separazione critica che fa tra la colonna musicale e il resto dell’opera. Un film, anche se creato e manipolato da molti, deve considerarsi comunque un tutt’uno; va da sé che ogni elemento che lo compone deve concorrere al meglio alla sua individualità, artistica o commerciale che sia.

Egli parte da un assioma non dimostrato (almeno in questo scritto), secondo il quale la musica deve badare innanzitutto a sé stessa e non può né deve essere concepita in subordine a necessità esterne, cinema compreso. Pensiero rispettabile ma pericoloso, perché è lo stesso di Morricone. Morricone tende a subordinare il film di turno alla propria “purezza” di compositore; e poco importa che il valore intrinseco di Morricone non sia paragonabile, per esempio, a quello di Schoenberg: è il principio che è discutibile, quale che ne sia l’esito.

Si avverte, fin dalle prime pagine, una sorta di disprezzo non tanto nei confronti del cinema dozzinale ma del cinema tout court. È pur vero che il testo risale agli anni quaranta; il cinema d’autore ha fatto ulteriori passi da allora, alcuni dei quali nient’affatto disprezzabili (p. es. la recitazione è mediamente migliorata, persino nei film dichiaratamente da box office). Adorno è morto nel 1969, in epoca di grandi fermenti nel cinema europeo, e mi chiedo cosa ne pensasse, per esempio, delle provocazioni di un Godard.

Adorno anticipa e brucia sul nascere anche le intuizioni di Altman, regista che non ha potuto conoscere per questioni di tempo. Chissà cosa avrebbe pensato di Nashville. Si sarebbe soffermato sulla bieca banalità delle canzoni, il peggio del country – che già di per sé non brilla di gran luce nemmeno nel comparto del pop? O avrebbe sorriso dell’ironia di Altman e della necessità drammaturgica di quella spazzatura? (Come ricorderai, Altman indusse gli attori principali del cast, una dozzina, a scriversi da sé le canzoni del film, non importa se e quanto esperti essi fossero o si sentissero in quell’ambito. Un’idea geniale e per niente inopportuna, dato che la vicenda era proprio imperniata su quelli che vanno a Nashville sognando di sfondare nella musica più easy e reazionaria d’America).

Insomma: persino il trash può risultare concettualmente rispettabile. Dipende dall’uso che se ne fa.
Orson Welles a Parigi nel 1952, in un ritratto del fotografo olandese Fred Brommet.

PIA - Il libro di Adorno e Eisler che hai trovato tu è quello Newton Compton con la prefazione di Massimo Mila? Devo assolutamente procurarmelo anch’io.

PAB - Sì, è proprio quello introdotto da Massimo Mila, 1974-1975, tradotto da Komposition für den Film nell’edizione 1969 di Monaco. La storia delle edizioni è curiosa. Scrive Mila che Eisler pubblicò col solo suo nome il libro nel 1947, sebbene fosse più che evidente (e dominante) la partecipazione del filosofo. Poi uscì col solo nome di Adorno... Scaramucce sui credits, come nei peggiori team pubblicitari. 

PIA - L’edizione Oxford University (almeno in origine) che invece ho io, è stata ripubblicata nel ’94 con una nuova introduzione di Graham McCann, Britain’s leading writer about film and TV. Niente a che fare con l’estetica della musica, ma utilissima a intuire molte cose su quella che doveva essere la vita quotidiana dei grandi émigré europei, chi a New York e chi – la gran parte – a Los Angeles, perché lì c’era la possibilità di guadagnare qualcosa lavorando per il cinema. Cosa che, più o meno, fecero tutti.

Vivevano un po’ sparsi qua e là, ma spesso s’incontravano ed era un vero e proprio circolo di artisti quello che si era formato a Santa Monica, 165 Mabery Road, a casa di Salka Viertel[10], dove capitavano attori come Peter Lorre e Luise Rainer, direttori d’orchestra come Otto Klemperer, registi come Fritz Lang, Lubitsch e Billy Wilder. E scrittori come Thomas e Heinrich Mann. Con Charles Laughton che prediligeva Hanns Eisler, non tanto per la sua musica, quanto per il suo accento tedesco. Ed è anche lì che Adorno e Thomas Mann portarono avanti il plot del Doctor Faustus. Una mistura straordinaria di bellezza (Greta Garbo, Ava Gardner) e di talenti (Orson Welles, Vladimir Horowitz, Igor Stravinskij). Più tardi poteva anche capitare che Schoenberg si mettesse a urlare a squarciagola, in un centro commerciale di Los Angeles, «Non ho mai avuto la sifilide!», per farsi sentire dalla moglie di un altro esule tedesco, lo scrittore Lion Feuchtwanger, e protestare contro Thomas Mann, che nel Doctor Faustus attribuiva appunto a un musicista sifilitico l’invenzione della dodecafonia.

Ma queste sono forse storie messe in giro da Alex Ross (The Rest Is Noise)[11]. Leggendo e rileggendo il suo libro ho finalmente capito perché John Wanamaker[12]si è guadagnato un posto nella Hall of Fame dell’advertising americana. Non solo per avere inventato il cartellino segna-prezzo o la formula “Your money back”, ma perché nel suo enorme Department Store di New York c’era anche una grande sala da concerto dove Richard Strauss, nel 1904, potè far riascoltare, a grande richiesta, la Symphonia domestica, il suo ultimo lavoro. E non lo fece solo per denaro, come scrissero tutti i critici europei, perché Strauss, a quel tempo, era già abbastanza ricco e si era già fatto costruire la villa di Garmisch.
Alexandre Desplat, compositore francese di colonne sonore. Sei nomination all’Oscar: per The Queen, Il curioso caso di Benjamin Button, Fantastic Mr. Fox, Il discorso del re, Argo, Philomena.

PAB - Tempi leggendari. La fabbrica, europea ma fuori sede, di un immaginario polimediale (il cinema) nel quale confluiscono tutti gli altri. A cominciare dall’architettura: l’America come appendice del Bauhaus.

Tutto questo, temo, sta per andare in dissolvenza finale. Tu ed io siamo nella generazione degli ultimi testimoni. Megasuccessi come quelli di Christian De Sica e Checco Zalone sparano il colpo di grazia, con il concorso della cittadinanza italiana, alla nuca di genitori e nonni, colpevoli di serbare ancora memoria di Billy Wilder.

Non c’entra nulla, ma volevo dirti che seguo con interesse, tra i musicisti per film dai cinquanta in giù, Alexandre Desplat e Jonny Greenwood. Il primo è nel mainstream ma più calibrato e pensoso di altri. Il secondo, membro dei Radiohead, ha voglia di sperimentare (Il petroliere). Greenwood ha partecipato nel 2011 a quello che mi sembra essere uno dei film più innovativi degli ultimi anni, ...E ora parliamo di Kevin, di Lynne Ramsay.
Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, polistrumentista e compositore, ha scritto le musiche per Il petroliere, Norwegian Wood, ...E ora parliamo di Kevin, The Master.

Continuo a leggere Adorno-Eisler: più vado avanti, più condivido. Ma un po’ mi stupisce, all’inizio, quello che mi sembra un pregiudizio di fondo verso la fotografia. Il cinema non può aspirare alla sfera dell’arte perché è fotografia, cioè riproduzione meccanica del mondo reale. Troppo categorico, e forse non vero.

Intanto ho rivisto per la terza o quarta volta Fuga da Alcatraz, un classico carcerario di Don Siegel del 1979, protagonista Clint Eastwood. La storia non ha niente di nuovo: un detenuto prepara meticolosamente la sua evasione. Nel frattempo, i consueti topic del genere: le persecuzioni del direttore sadico e del recluso violento, il crollo dei più deboli, gli scavi notturni in cella. Eppure è, a suo modo, un racconto magistrale, premiato da un successo non solo di pubblico ma anche di critica. Perché è asciuttissimo: Siegel mantiene un lodevole controllo sulle scene madri, limita il numero dei colpi di scena, sa che il troppo è troppo e dosa gli ingredienti col bilancino. Non avevo mai badato alla musica. Siegel e Jerry Fielding, il compositore, devono aver imparato a memoria la lezione di Adorno. Minimalismo assoluto e nessuna melodia tonale, mai. Frammenti piazzati ad hoc, che aiutano la tensione senza divorare la scena. Altrettanto notevole – per sottrazione – è la grafica nei titoli di testa e di coda: l’esatto contrario, poniamo, dei film di James Bond. Questo Alcatraz insomma ricorda, per tema e per misura, film europei di maggiore impegno intellettuale come Il buco di Jacques Becker, uscito quasi vent’anni prima. Fra i meriti che lo elevano rispetto agli schemi del film di genere c’è anche il trattamento musicale.

La riduzione dell’enfasi a tutti i livelli, dalla recitazione al soundtrack, dai dialoghi al montaggio, diminuisce le distanze tra cinema popolare e cinema d’autore. Ma gli attuali action movies vogliono stupire a tutti i costi, dalla prima all’ultima inquadratura. Sono così gonfi di effetti, esplosioni, incendi, violenza, stunting, frastuono e musica da risultare digeribili solo alla generazione che ci è cresciuta “dentro”. Persino i plot sono elaborati per eccesso, tanto che a volte non li capisco. C’è troppo think big a Hollywood, ci sarebbe bisogno di un freno. O, se proprio non si vuol fare a meno del fracasso, che almeno venga in soccorso l’ironia (Tarantino, per dirne uno, si salva – e non sempre – grazie a questo). 

PIA - A proposito di temi “funzionali”. Per le fiction sono determinanti. Pensa a XFileso a TwinPeaks, che ancora ce li li ricordiamo (almeno noi, ma anche la generazioni dei quarantenni, tipo mia figlia). Che però si guardano e amano alla follia anche cose tipo Breaking Bad... meno male che siamo all’ultima puntata. La prima volta che ho sentito Baby Blue cantata da quella band di sfigati che sono i Badfingers, mi sono sentita male. Poi ho capito che, a fiction di sfigati cattivi, poteva toccare solo una band di sfigati puri. Giuste, però, le lyrics, anche se vuoi mettere quelle di Bob Dylan?

Ma ancora non so e non capisco bene e a fondo. L’altra sera mi sono rivista una puntata di Downton Abbey (ebbene sì, sono una fan della serie, che mi piace assai di più di Breaking Bad) e mi sono accorta, a distanza di tempo, che il tema della fiction, che ricordavo come toccante e nostalgico, è in realtà un banale “lamento”, come direbbe Alex Ross (in italiano nel testo) in tonalità minore. Ma fa bene il suo lavoro, funzionale alla fiction, come lo sono certi temi funzionali ai commercial (non parlo di jingle). 

PAB - Non sono molto pratico di serial TV. Di solito li evito, anche quelli americani fatti ormai benissimo, non per partito preso ma perché non sopporto le narrazioni a puntate. Conosco solo i Sopranos e ovviamente MadMen, perché li ho seguiti su DVD senza break pubblicitari. Di solito se la cavano con un mucchio di canzoni note, che aiutano a stabilire epoche e atmosfere desiderate.[13]

I soundtrack fatti di canzoni esistenti e non create ad hoc sono una relativa novità nella cronologia del cinema; mi pare di ricordare che si sia incominciato negli anni sessanta. Anche in Italia. A volte funzionano mirabilmente, come ne Il sorpasso di Dino Risi e nei film di Altman.

Canzoni ad hoc, invece: spesso venivano scritte per i titoli di testa e/o di coda; per esempio quelle di Frankie Laine nei western. Ma la cosa buffa è che venivano scritte anche per i silent movie. Non servivano al cinema ma alla radio, per promuovere il film nelle sale. Merchandising sonoro. I soliti americani.

PIA - Lasciando da parte fiction e commercial dove la musica ha sicuramente una funzione indipensabile (non parlo di jingle), dove invece mi trovo a disagio e quasi in rotta di collisione è in film come Melancholia che, per quanto mi riguarda, è la messa in scena più commovente e suggestiva del Tristano (senza dover subire testi noiosi e cantanti in sovrappeso). Ma mi domando anche (tanto Lars von Trier non mi sente e, se anche mi sentisse, mi guarderebbe come un pidocchio da schiacciare): non è un po’ troppo facile lavorare su una musica così e trovarsi la pappa bella e fatta ? Forse sono un po’ bacchettona. Pensa che cosa avrebbe fatto Wagner se, ai suoi tempi, ci fosse stato il cinema. Forse si sarebbe inventato delle scene alla Méliès e non sopporteremmo più la sua musica (in fondo, la grotta di Ludwig col cigno...). Meglio i cantanti in sovrappeso.

PAB - Per me Wagner e Melancholia stanno un gran bene insieme. Facile? Forse, ma che importa? Funziona a meraviglia. Quel film è bellissimo e nuovo, davvero una figata. La fine del mondo da una prospettiva insolita, individuale... Non l’umanità intera, ma un crocchio di persone esposto alla catastrofe finale... Colpo di genio. E dire che di Lars von Trier non mi ero mai fidato. Lo sapevi che veniva dalla pubblicità? Faceva film comici supertrash. Io me ne ricordo uno solo, per un tabloid danese di gossip. Era ambientato in un bagno turco. Uno degli ospiti se ne serviva per nascondere un’erezione.

PIA - Su Melancholiadevo per forza essere d’accordo con te: è un film bellissimo, ma per accettarlo in toto devo pensare che l’accordo del Tristanoè così potente da aver generato e reso legittimo anche il film dell’amico danese. Il resto del cinema danese, beh, lasciamo stare.

Forse ogni cosa ha il suo tempo. Ma, nel caso della musica e del cinema, i tempi non coincidono. Proprio in Hugo Cabret, nella scena in cui si rivede il vecchio film di Georges Méliès, si sentono le Gnossiennes di Satie, che sarebbero il commento più appropriato visto che era proprio a quel tempo che Satie suonava nei cinema. Invece si capisce benissimo che la musica di Satie, in quel preciso momento, è solo una citazione storica, mentre sappiamo bene come le Gnossiennes e le Gymnopédies abbiano funzionato a meraviglia in centinaia di altre scene.

PAB - Anche Satie mi sembra OK con Hugo Cabret. Alla fine il parametro vincente, per me, è alquanto empirico: se esco da un film soddisfatto, vuol dire che nulla mi ha dato fastidio – quindi neanche la musica. Prendiamo un polpettone come Titanic: tutto si può sopportare, di quel film, tranne la smidollatissima canzone, un vero affronto alle mie pur tolleranti orecchie. E l’hanno persino gratificata di un Oscar! Nel momento, poi, in cui la canzone sparge il suo massimo pathos, siamo di fronte a un potenziale spot di Baci Perugina. La canzone è melensa, Céline Dion una cantante che detesto, ma va detto che in quel momento qualsiasi canzone sarebbe stata di pessimo gusto...

PIA - Fuga da Alcatraz l’ho rivisto più volte ma non ne ricordo la musica. Mentalmente lo associo a Shutter Islanddi Scorsese, che di musica ne ha fin troppa, tutta bellissima e tutta in qualche modo manipolata da Robbie Robertson, meno il Piano Quartet di Mahler, che viene lasciato intatto e rigorosamente diegetico. Una lezione bella e pronta su cinema e musica.
Leonardo DiCaprio in Shutter Island di Martin Scorsese, 2010.

PAB - Ho riascoltato le musiche di Shutter Island dal relativo CD, separatamente dalle immagini del film. L’effetto è incredibile. Sebbene si tratti di una compilation di brani eterogenei, firmati da una ventina di autori diversi, il risultato è concettualmente compatto, ogni brano regge benissimo con i suoi confinanti come se l’insieme fosse una suite monolitica. E molto visiva, è il caso di dirlo. L’accostamento è insolito e coraggioso: dalle avanguardie contemporanee al pop. Ci sono dentro Adams, Cage, Ligeti, Mahler, Penderecki, Schnittke, ma anche Lonnie Johnson e Dinah Washington. Ogni “movimento” contagia l’altro e tutti insieme sembrano raccontare un inquietante caso clinico. Scorsese è uno di quei registi, pochi, che amano la musica e se ne servono con competenza. Ha prodotto i sette documentari della serie The Blues dirigendone personalmente uno, Dal Mali al Mississippi.

La conversazione che abbiamo iniziato mi fa venir voglia di rivedere in un colpo solo due o tremila film di ogni epoca e provenienza, per analizzarne da vicino i meriti e le pecche musicali. Ieri sera ho preso un DVD a caso dalla mia collezione, un film del 1939 che di buono ha solo il titolo originale: Dark Victory. Incresciosa regia di Edmund Goulding. Pessime interpretazioni di Bette Davis, Humphrey Bogart e George Brent (attore bolsissimo in tutti i film che ho visto con lui; a differenza di un altro bolso famoso, Gregory Peck, era anche fisicamente insignificante).

Melodramma insopportabile. Piena era Max Steiner. Archi e pathos a profusione, roba da non credere, per un plot molto più scarso che nei fotoromanzi Grand Hôtel del dopoguerra (erano una mia passione!)

Mi è venuto da pensare a quanto il cinema di puro intrattenimento sia migliorato, almeno per quanto riguarda il controllo della recitazione, della musica, della drammaturgia. Migliorato, diciamo, fino agli anni ottanta, per poi essere spesso sopraffatto da una serie di nuovi cliché legati in parte alla tecnologia dello stupore e in parte al vezzo di complicare le trame in modo labirintico (non ho mai capito nessun film della serie Ocean’s Eleven). Il sound design degli attuali film d’azione, tecnicamente curatissimo, tende allo stesso obiettivo della parte visiva: creare un climax dopo l’altro, senza risparmio di mezzi. Per questo ti dicevo che adesso cado in solluchero per certi film (rari) completamente e volutamente orfani di musica.

PIA - Anch’io non ci ho capito mai niente di Ocean’s Eleven, nonostante Sky lo riproponga quasi ogni mese da almeno sei anni. Sul sound design, ti posso dire invece che è bellissimo sentirne parlare. Due anni fa, mi è capitato di ascoltare per quasi due ore – il tempo di una piacevolissima cena a casa mia – un amico di Robin Elliott che lavora come sound designer a Los Angeles e il compositore con cui collabora. Parlavano dei film che avevano fatto insieme, capivo benissimo quello che dicevano, come se avessi le tracce sonore sotto gli occhi. Due dei film, almeno, li avevo visti: Juno e Up in the Air[14], con George Clooney. Sarà stato per quest’ultimo o perché il film l’avevo visto al cinema, ma il sound di Up in the Airmi aveva praticamente travolto e colpito assai più del film. Non so dirti cos’era, neanche che tipo di musica. So solo che ascoltando quei due che ne parlavano, li capivo e li seguivo come la partitura di una sinfonia.

Oggi volevo solo dirti (sto uscendo e ho due crème caramel nel forno) che il merchandising sonoro gli americani lo facevano anche senza la radio – mezzo al quale hanno cominciato a credere solo dopo la seconda guerra mondiale – promuovendo i prodotti con tema musicale e parole sul pentagramma. Non ci volevo credere, ma quando ho visto The Chiquita Banana Song, del 1945... veramente da scemi, ma almeno sapevano leggere le note.

PAB - Promozioni musicali per l’advertising? Ci aveva pensato, prima di tutti, la solita Coca-Cola. Innanzitutto stampando su calendari, vassoi e altri oggetti di merchandising la faccia di una cantante di music hall, Hilda Clark, facendone la sua testimonial dal 1895 al 1903; poi patrocinando spartiti di canzoni popolari e aiutandone promozionalmente la divulgazione. Coca-Cola è stata una grande pioniera della comunicazione integrata, già in tempi assai remoti, e credo che non abbia trascurato niente, ma proprio niente, di ciò che altri hanno creduto di inventare con decenni di ritardo.
La cantante e attrice Hilda Clark, icona del merchandising Coca-Cola dal 1895 al 1903.

PIA - Sto leggendo per ragioni professionali un libro noiosissimo, quasi quanto un trattato di diritto istituzionale, The Sounds of Capitalism, di Timothy D. Taylor, 368 pagine di banalità assoluta. Con immagini irriproducibili, coperte da copyright di acciaio, ma che si possono vedere sul sito relativo. Ma valeva la pena di affannarsi tanto a cercarle? Se ci pensi, anche in MadMen si parla sempre, o quasi sempre, di stampa, sebbene la TV annunci la morte di Kennedy. In realtà, quella serie c’entra davvero poco con l’advertising vera. Ma è bella lo stesso. Con quell’apertura straziante – un altro lamento, e il richiamo al film di Otto Preminger. E qui è la domanda: passi la sigla musicale che tutti percepiscono come fortemente nostalgica, ma il manifesto di Anatomia di un omicidio chi poteva ricordarlo, tra il pubblico sia pur sofisticato della AMC ?
Il manifesto disegnato da Saul Bass per Anatomia di un omicidio (1959), il film di Otto Preminger con musiche originali di Duke Ellington.

PAB - Il manifesto di Saul Bass per Anatomy of a Murder in realtà è ricordatissimo, credo che faccia parte dell’immaginario collettivo, almeno negli USA. Il web trabocca di lavori di Saul Bass, specialmente di quelli fatti per il cinema. Quello del graphic design applicato ai film è un tema altrettanto appassionante dei soundtrack. La sigla di MadMenè effettivamente strepitosa nella sua semplicità: una bella citazione da Bass. Che pare abbia girato più di una scena di Psycho, dopo aver disegnato un meticoloso storyboard frame-by-frame e i titoli di testa. Bass ha fatto anche un film tutto suo, Phase IV, un cult conosciuto da pochi. Le formiche prendevano il sopravvento sull’uomo.

A proposito di Anatomy: dignitosissimo, ma senza le composizioni di Duke Ellington sarebbe probabilmente un po’ noioso. Uno di quei casi in cui il contorno (Saul Bass ed Ellington) sopravvive al film.

Rivisto or ora: Il terzo uomo. Mi sorprende ogni volta per la perfezione assoluta. Il cinema è questo. Mi domando quanti ragazzi, dai quaranta in giù, lo conoscono. Obbligatorio a scuola lo farei diventare.

Il minimalismo di quella cetra. Folk semplice, che si tinge di tutte le ombre e le obliquità dello shooting.

Welles. I primi tre minuti e mezzo di Touch of Evil! Il piano sequenza più ardito di sempre. Scandito dalla musica – inscindibile dalla scena – di Henry Mancini.

Beh, devo aver citato due dei migliori apporti musicali che siano mai stati concepiti per un film. Almeno secondo i codici che mi stanno a cuore.

Ma dimmi di quel libro di Chion, mi incuriosisce.

PIA - Il libro a cui mi riferivo è La Musique au cinéma. Les chemins de la musique. Paris: Fayard. ISBN 2-213-59466-X. Ma Michel Chion ne ha scritti talmente tanti di libri... Il più importante sembra essere L’Audio-Vision. Son et image au cinéma. [N.p.]: Nathan. ISBN 2-09-190704-9

Effettivamente io non ne ho neanche uno, l’ho solo visto citare decine e decine di volte da cinéphiles francesi, anche per aver creato termini come acusma, suono on the air, supercampo.... diventati d’uso comune negli studi sul cinema. 
A me, tutto questo teorizzare su musica e cinema dà un po’ fastidio. Anche perché non finiresti mai di classificare, catalogare... Che cos’era, per esempio, la cetra del Terzo uomo? Il suono di Vienna? Troppo letterale. Comunque, siccome a quei tempi c’ero, ti posso dire che quello che allora colpì non fu tanto Orson Welles, che si conosceva poco, ma il timbro di quello strumento mai sentito prima e lo sguardo di Alida Valli. Ricordo che la musica di Karas si sentiva ovunque e si comprava e si tentava di suonarla su qualsiasi strumento ci fosse in casa, dall’ocarina alla chitarra, al pianoforte. E i Madredeus “scoperti” a Lisbona dal fonico di Wim Wenders, cos’erano? Un esempio perfetto di musica “diegetica”? E Ry Cooder in Paris Texas? Forse era il suono della Route 66. E tanto per restare nel nostro campo, cos’è che resta appiccicato addosso, esattamente come un profumo, dopo gli spot di Chanel Coco Mademoiselle? Certo non la storia della bella-fuggitiva-in-moto a Place Vendôme, ma la canzone di James Brown[15], ricantata da Jess Stone. Ma lo ammetto: il target di Chanel Coco è femminile.
Alida Valli in una scena di The Third Man (Il terzo uomo) di Carol Reed, 1950.

Come avrai capito ho un modo molto personale di interpretare Adorno-Eisler: nonostante tutti i tentativi, dai più ingenui alla Eisler, ai più sofisticati e contemporanei, il rapporto musica-cinema non è ben definito e neanche teorizzabile perché, nel cinema, la musica non ci dovrebbe neanche essere, o se c’è non si dovrebbe notare, come spesso non si notano i sound effect. È il fatto di sentirla, di ricordarla, spesso più del film stesso, che costituisce uno dei fascini del cinema. E, come ha intuito genialmente Adorno, il suo peccato cardinale. Oggi possiamo dire che un altro peccato cardinale del cinema sono certi bei titoli di testa, certi bei packages che spesso non contengono nulla o quasi. 

Un’altra idea che mi gira per la testa è che forse, essendo il cinema l’ultimo arrivato rispetto a tante altre forme d’arte, assai più complesse, avanzate e sofisticate, ci viene spontaneo avere nei confronti del cinema un atteggiamento critico da anatomista e lo studiamo e dissezioniamo con bisturi e strumenti di ultima generazione, come se stessimo analizzando un dipinto di Vermeer o un balletto di Djagilev. 

Per adesso, direi, basta. C’è ancora molto da lavorare. A proposito di bei titoli di testa, guardati almeno l’incipit di Breaking Bad, puro Malevič.

© Pia Elliott e Pasquale Barbella







[1] Theodor W. Adorno – Hanns Eisler: Komposition für den Film; ed. it. La musica per film, Roma: Newton Compton, 1975.
[2] T. W. Adorno: Mahler. Eine musikalische Physiognomie. Frankfurt am Main: 1960; ed. it: Mahler. Una fisiognomica musicale, Torino: Einaudi, 1978.
[3] In Gustav Mahler: Il mio tempo verrà. Critici, scrittori e interpreti raccontano la sua musica, a cura di Gaston Fournier-Facio, Milano: Il Saggiatore, 2010.
[4] Da Le Carnaval des animaux.
[5] Musica di Vangelis per Blade Runner di Ridley Scott, 1982.
[6] Film di Kar Wai Wong, 2000; musica composta da Shigeru Umebayashi.
[7] La prima esecuzione ebbe luogo, a cura dello stesso Gade e di una sua orchestra di ventiquattro elementi, il 14 settembre 1925 al Palads Theatre di Copenhagen, per commentare le scene di un silent movieamericano con Douglas Fairbanks e Mary Astor, Don Q Son of Zorro di Donald Crisp (séguito de Il segno di Zorro del 1920, capostipite di vari remake).
[8] Raksin, uno dei due arrangiatori arruolati per stendere sul pentagramma i temi che Charles Chaplin andava fischiettando, canticchiando o accennando al pianoforte per Tempi moderni, sarebbe diventato di lì a otto anni l’autore di Laura e dell’intero soundtrack di Vertigine. All’epoca di Tempi moderni aveva solo 23 anni. Era il suo primo incarico per il cinema, dopo due anni di servizio presso la casa di edizioni musicali Harms. Chaplin esigeva obbedienza cieca e assoluta. Il promettente giovanotto, colpevole di voler pensare anche con la propria testa, fu licenziato da Chaplin dopo soli dieci giorni, ripescato al volo da Alfred Reeves, direttore generale della Chaplin Film Corporation, ed ebbe il suo bel da fare per portare a termine il gravoso compito: estendere i semplici spunti chapliniani a variazioni complesse e dimensioni sinfoniche, lavorando anche venti ore su ventiquattro e sfidando all’occorrenza il suo torturatore con il coraggio di educatissimi “ma”, “forse” e “no”.
[9] Alfred Newman (1901-1970) — compositore, direttore d’orchestra e direttore musicale — è stato uno dei più stimati curatori di colonne sonore hollywoodiane. Il suo nome compare nei credits di circa 200 film, la maggior parte della 20th Century Fox, e durante la sua carriera ha portato a casa nove Oscar. Di pari statura e prolificità, il fratello Lionel si è a sua volta distinto nello stesso campo.
[10]Trasferitasi negli Stati Uniti da Sambor (oggi in Ucraina) ai tempi dell’Impero Austro-Ungarico, Salka Steuermann Viertel fece carriera a Hollywood come attrice e sceneggiatrice.
[11] Ed. it. Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, Milano: Bompiani, 2009.
[12] Geniale uomo d’affari di Filadelfia, fondatore dei primi grandi centri commerciali e considerato, per le innovazioni introdotte nei sistemi di vendita, un pioniere del marketing.
[13] Incuriosito da Pia Elliott ho poi comprato i DVD della serie Downton Abbey e me ne sono innamorato anch’io.
[14]Juno (2007) e Up in the Air (Tra le nuvole, 2009) sono entrambi del regista canadese Jason Reitman. Le musiche sono rispettivamente di Mateo Messina e Rolfe Kent.
[15]It’s a Man’s, Man’s, Man’s World, in uno spot del 2011 con Keira Knightley.

Over 65

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Non sono e non sarò tra quelli che protestano per l’abolizione degli sconti ai senior sul biglietto di mostre e musei. Anche perché non li frequento tutti i giorni e l’incidenza annua della spesa non sarebbe tale da fare di me un homeless.

Foto di Steve McCurry / Magnum Photos, 2012.

E poi, che gusto c’è? Era divertente agli inizi, questo sì. Agli sportelli potevi incontrare due tipi di interlocutore. Il primo ti applicava lo sconto senza batter ciglio (maleducato!); il secondo, fissandoti severamente, pretendeva l’esibizione di un documento di identità. Gongolavo quando, gettandoti un altro sguardo di striscio, sembrava scusarsi. C’era persino chi sentiva il bisogno di pronunciare le tre parole più musicali del mondo per l’orecchio di un anziano ancora udente: «Non li dimostra.»

Da quando sono stato promosso alla categoria superiore (over 70), nessuno più ha l’aria di mettere in dubbio la mia età. Solo gli impiegati più fedeli all’ottusità della burocrazia lo fanno. Quelli che, per dire, convocano periodicamente all’Asl gli invalidi senza una gamba, per controllare che nel frattempo la natura non li abbia gratificati di un duplicato dell’arto in carne e ossa. Quelli che da Equitalia scrissero a mia madre, defunta da tre anni, per comunicarle di aver preso nota della sua dipartita e di averla perciò cancellata dall’elenco dei contribuenti.

Certo però che c’è uno squilibrio tra i senior normali e i senior senatori. Ai normali tolgono gli sconti culturali, a quegli altri concedono gli sconti giudiziari. Si vede che la qualifica di senatore ti espone di default a morbi, materiali e immateriali, che necessitano di immunoterapia.

P.B.


Libere erezioni

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Questa è una delle pubblicità più stupide degli anni settanta, ovvero di quarant’anni fa.

Mi è ricaduta sotto gli occhi per caso. Ricordo le risate mie e dei miei colleghi, quando uscì. E quanto disprezzo riversammo sulla Opit, l’agenzia – ormai dimenticata – che firmava l’exploit.

A rivederla ora fa tenerezza, tanto che quasi quasi la rivaluto. In fondo non offende nessuno, ed è più ingenua che truce. Certo rimane stupido il pensiero che l’ha partorita: perché la relazione tra una camicia e ciò che sfiora esiste, sì, ma qualunque secondo senso si voglia attribuire alla cosa è alquanto tirato per i capelli.

L’annuncio fu concepito per la stampa periodica. A sfogliare le riviste, oggi, si resta colpiti dalla generale assenza di nerbo – nei testi e nelle immagini.

Questa, almeno, il nerbo ce l’ha.

P.B.

Ricordo di Pirella

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Sono trascorsi più di quattro anni dalla scomparsa di Emanuele Pirella, il copywriter più influential della pubblicità italiana. Il testo che segue uscì sull’annual 2010 dell’Art Directors Club Italiano.

Chi lo ama, lo segua.

Scrivo queste righe a poche ore dalla scomparsa di Emanuele Pirella. Il primo pensiero che mi viene in mente è che sarebbe una doppia perdita dimenticarsi dei suoi insegnamenti; peggio ancora, sarebbe tristissimo inchiodarlo al ricordo sintetico di «Chi mi ama mi segua», che certo fu uno dei massimi scoop pubblicitari di trent’anni fa ma non rende appieno la complessità e la ricchezza del personaggio e del suo modo di sentire la comunicazione.
Pirella 1974 per Robe di Kappa. Agenzia Italia, art direction di Francesca Schiavoni, foto di Mario Zappalà con interventi di Peter Wishard. In altri manifesti della stessa serie il marchio Robe di Kappa compare sulla banana Chiquita, il ketchup Heinz, il pacchetto di Marlboro e i Baci Perugina.

Emanuele è stato il maestro che è stato per una ragione molto semplice: ha portato nella pubblicità un soffio di cultura – di amore per la lingua, la letteratura, l’ironia, il rifiuto dell’enfasi. Adorava Gadda e Flaiano e forse trovò in loro più ispirazione di quanta intendesse trarne da Ogilvy o Bernbach; e chiamò “Italia” la prima agenzia di cui fu fondatore, insieme a Göttsche e Muccini, per allontanare da sé ogni sospetto di appartenenza alla corrente anglosassone che andava allora affermandosi da noi e, soprattutto, per rivendicare l’urgenza di una svolta originale e moderna alla pubblicità italiana. Si fece paladino, insomma, di una rivoluzione culturale che nascesse e si sviluppasse autonomamente nel nostro paese, affrancata dalle incrostazioni e dal provincialismo ma anche da una eccessiva americodipendenza. Molti copywriter della generazione che lo aveva preceduto erano, come lui, degli intellettuali; ma fu il primo a saper coniugare fluidamente le proprie curiosità culturali con la pubblicità.

Quando mi affacciai alla professione, nel 1967, Pirella era già nel gruppo dei copywriter più corteggiati dalle agenzie milanesi, sebbene avesse un solo anno più di me. Stava alla Young & Rubicam, l’agenzia più in voga del momento tra i giovani; si diceva un gran bene del loro direttore creativo, un americano di nome Tucker, il quale stava valorizzando una compagine di cervelli freschi e brillanti. Da quel laboratorio uscirono campagne ammirevoli per nitore, arguzia e human touch: insieme a Göttsche, l’art director con cui lavorò per decenni, Emanuele firmò annunci bellissimi per Plasmon e Aspirina.
Da “Le mie memorie” di Pirella, pubblicate sul n. 2 di “Nuovo” (1982). Testi di Pirella, disegni di Paolo Martiradonna.

Il manifesto di Jesus, uscito nel 1973 dall’agenzia Italia, fece molto rumore; ma il Pirella che credo di aver conosciuto è stato un grande sussurratore. Parlava a voce bassissima, più bassa della mia che è solo un respiro, e il nostro primo incontro fu uno scambio di frasi impercettibili, di accenni volatili. Ci capimmo senza decibel: solo grazie alle espressioni facciali. Chi non lo conosceva abbastanza poteva essere indotto a scambiare la sua riservatezza per snobismo. Io credo invece che fosse un crooner, un cantante intimista e coltissimo passato dalla penombra dei nightclub all’interpretazione ironica dei costumi e dei vezzi del mondo; e quando anni dopo lessi da qualche parte che da teenager aveva tentato la carriera di cantante confidenziale non ne fui affatto sorpreso. Probabilmente questi suoi trascorsi musicali sono solo leggenda, ma che importa? A volte le piccole bugie che s’infiltrano nelle biografie del prossimo non sono meno verosimili del vero.

Mi è sembrato di conoscere Emanuele come uno di famiglia ma, se vado a caccia di memorie concrete, mi accorgo con stupore di averlo incontrato di persona in un numero limitato di occasioni, fatta eccezione per le solite manifestazioni pubbliche tra cui i convegni in cui eravamo entrambi invitati come relatori. Di tanto in tanto ci scambiavamo informazioni o commenti al telefono, più che altro per consultarci su questo o quel ragazzo da assumere; a volte ci congratulavamo per qualche lavoro uscito, suo o mio, un comportamento piuttosto anomalo fra concorrenti. Ci frequentammo un po’ di più nei primi anni ottanta, insieme ad altri cospiratori come Sandro Baldoni, Till Neuburg, Fabio Ritter, Hans Suter, Giorgio Tramontini, Fritz Tschirren, Marco Vecchia e altri, quando – sobillati da un editore povero ma illuminato, Enrico Robbiati – progettammo il primo magazine senza giornalisti: una «rivista italiana di pubblicità» destinata a raccogliere e smistare idee e provocazioni utili allo smantellamento dei cliché più diffusi e alla diffusione di una “creatività” più intelligente e radicale.
La copertina del primo numero di Nuovo, 1982.

Fu proprio Emanuele a suggerire il titolo della testata, “Nuovo”, la parola forse più semplice e più usata nel mondo del marketing e della pubblicità; e quando pronunciò, o meglio sospirò, quell’aggettivo così ovvio e inconsistente, ma al tempo stesso così inconfutabilmente preciso, pensava proprio ai flash, agli “strilli”, alle pecette squillanti che ti adescano sulle confezioni degli alimentari e dei detersivi. Nell’editoriale del primo numero, datato febbraio 1982, paragonò il lavoro quotidiano dei pubblicitari a quello di Masolino da Panicale e Masaccio, citandone un dialogo immaginario inventato da Roberto Longhi. L’uno rimproverava all’altro certe stravaganze stilistiche, l’altro replicava con accuse di astrazione dalla realtà; e dai due artisti impegnati a discettare «lavorando, fianco a fianco, in due cappelle della stessa chiesa», si passava ad analoghi scambi d’idee fra art director e copywriter sull’ingegneria pratica dei loro manufatti. «Le voci del contrasto», concludeva Emanuele, «possono essere tante quante sono le agenzie e quanti sono i creativi in Italia. Mi riconosco in una rivista che permette che questi discorsi mai fatti vengano espressi in un dibattito, magari sgradevole. Forse, tra qualche anno, parlandone tutti insieme, sapremo cos’è la qualità nella comunicazione pubblicitaria.»

Decidemmo di vederci almeno una volta all’anno, al tavolo di qualche ristorante, per scambiarci impressioni sull’andamento o sull’andazzo della professione. Negli anni ottanta ci capitava di cenare insieme a Cannes, durante il festival, in un ristorante cinese situato in uno slargo dietro il vecchio Palais du Cinéma. Lo dico perché non era esattamente il tipo di posto preso d’assalto dai pubblicitari; non era né Chez Astoux né uno dei santuari della cucina di Mougins. Un tavolo disponibile lo si trovava di sicuro, senza bisogno di prenotazione, e c’era il vantaggio di tornarsene in albergo a piedi. Emanuele non si trovava a suo agio nel baccano dei locali alla moda. Non l’ho mai visto ubriacarsi al Martinez. E a Milano sceglieva invariabilmente il Biffi Scala, pochissimo frequentato dai colleghi ma sufficientemente felpato per le nostre conversazioni sottovoce: che erano sempre molto dry, pensose e interrotte da pause prolungate.
Nel 1986 Pirella fa arrabbiare il Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, con la campagna Repubblica sveglia l’Italia. Agenzia: Pirella Göttsche Lowe. Copy e art: Aldo Cernuto, Roberto Pizzigoni.

A cementare la nostra complicità, fatta più di allusioni che di chiacchiere, aveva contribuito un mio scherzo del 1980, un annuncino intitolato «Ecco perché Pirella è più bravo di Barbella.» Si era divertito di cuore e mi aveva telefonato subito per farmelo sapere. L’annuncio era uscito sulla rivista Pubblicità Domani, in un numero monografico dedicato alla pubblicità comparativa. Rubai a sue spese un notevole incremento di notorietà, ma l’annuncio non era del tutto insincero. La stima che nutrivo per lui era ed è rimasta profondissima, al punto di osservarlo come si scruta uno specchio; non perché ci fosse qualche somiglianza fra lui e me, ma perché c’era molta affinità nel nostro modo di sentire l’esperienza del lavoro e del linguaggio.

Certo lui amava la pubblicità più di quanto l’amassi io. Quando, al solito Biffi Scala, gli annunciai la mia intenzione di lasciare quanto prima il mestiere, ne fu molto colpito: quasi scandalizzato. Mi disse che non riusciva proprio a immaginare il suo futuro fuori da un’agenzia, e che non avrebbe mai abbandonato il suo tavolo di lavoro. Ho sentito molti professionisti (non solo pubblicitari) fare dichiarazioni dello stesso tenore, ma il suo caso mi stupiva. Pensavo che una persona ricca di interessi come lui, con decennali esperienze nel giornalismo e nella satira e con concreti agganci nel mondo editoriale, potesse trarre vantaggio e godimento dal dedicarsi a nuove esperienze, non più legate all’universo dell’advertising – un ambiente diventato, a mio avviso, intollerabilmente asfittico in questi ultimi anni.
Alessi, 1990. Agenzia Pirella Göttsche Lowe. Copy e art: Roberta Sollazzi, Antonio Cirenza. Fotografo: Carlo Facchini.

Non è retorico considerare Emanuele Pirella un maestro, avendo egli formato non solo un considerevole numero di talenti usciti dalle sue fucine (basti citare fra tutti Pino Pilla e Annamaria Testa), ma anche persone che non hanno mai lavorato con lui e che hanno fiutato nell’aria il suo stile, il suo personalissimo piacere di comunicare, il suo modo di relazionarsi con l’utente finale dei suoi messaggi. Non a caso è tra i rarissimi pubblicitari che siano diventati delle figure pubbliche.

Un altro grande personaggio pubblico della pubblicità, Armando Testa, amava scherzare sul presunto difetto dei «colleghi milanesi» più giovani, che – diceva – scrivevano testi pericolosamente lunghi. Si riferiva esplicitamente a Pirella, ma anche a me e ai nostri rispettivi reparti creativi. Criticò il nostro lavoro di copywriter «nemici della sintesi» e condì la sua opinione con un delizioso paradosso: «Se un automobilista si mette a leggere i vostri manifesti rischia di provocare incidenti a catena.» Era evidente il suo disaccordo sul nostro modo di fare pubblicità, ma ne era anche oscuramente affascinato. Se avesse potuto convincere Emanuele a lavorare con lui ne sarebbe stato felice. Ma Emanuele a quell’epoca era anche un imprenditore di successo, e così ripiegò su di me. «Vieni a Torino nel mio studio. Ho creato un esercito di disegnatori a mia immagine e somiglianza. Ma invecchiando sento il bisogno di qualcuno con cui litigare tutte le mattine alle nove e mezza.» Non ci andai, e questo salvò la nostra amicizia.
Agenzia Italia BBDO, Milano, 1976 circa. Direzione creativa: Emanuele Pirella, Michael Göttsche. Copy e art: Annamaria Testa, Bruno Ferlazzo.  

Come vedete, non riesco a parlare di Pirella senza tirare continuamente in ballo me stesso. Ma forse è inevitabile. Chi fa o ha fatto il nostro mestiere non può pensare a Emanuele senza pensare, di traverso, anche alla propria personale esperienza. Emanuele ha sempre rimesso in discussione il suo come il nostro lavoro, interrogandosi – con una curiosità mai sopita – sul miglior modo di compierlo. La sua voce, contenutissima e quasi distaccata, non era quella del “creativo” superspecializzato e autoreferente ma di un operatore culturale impegnato a coltivare e diffondere una comunicazione civile, educata, leggera.

Ci sarà spazio per altre persone così, nella pubblicità italiana? Lo spero ardentemente. Questo paese sta diventando tetro e volgare. E chi volgare non è, corre il rischio di infastidire il prossimo agitandosi donchisciottescamente; oppure di appassire in un angolo, zittito e indifeso.

P.B.

Soundtracks

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L’amico Till Neuburg ci scrive a proposito di Cinema e musica, la conversazione con Pia Elliott pubblicata qui il 19 giugno. Riportiamo con molto interesse il suo commento.

Sapevo da numerose testimonianze della ricca tavolozza musicale di Pasquale. Di quella di Pia, per me completamente inattesa, no.

Avere la testimonianza di colleghi che non si trastullano solo con Lürzer’s Archive e i cocktail al Martinez, è decisamente confortante. Origliare il vostro dialogo sulle musiche da film, è stato come riscoprire la storia grazie alle cronache in diretta di Baricco, di Philippe Daverio o di Altan.

Per parte mia, nella veste di groupie dei più seducenti suonatori della buona notte, dico subito che i vari fustigatori della cultura out, of, underground, indie o pop, non mi sono mai andati a genio: ai maximi lider della Purezza con la solenne Pi greca, come Adorno, Argan, Bocuse, Fronzoni, Lacan, Lukács, Maldonado, Tschichold, von Trier o Wittgenstein, preferisco di gran lunga gli affabulatori in libera entrata e uscita, come Alessandro Barbero, Stefano Bollani, Gianni Brera, Bruce Chatwin, Erri De Luca, Ando Gilardi, Ernst Gombrich, Pauline Kael, Eugenio Ricomini, Alex Ross, Tatti Sanguineti, Federico Zeri…

Se nelle multisale, con i DVD e qualche volta anche alla televisione, mi faccio illuminare da un inatteso miraggio audiovisivo - e non solo dialogovisivo - non lo faccio mai come perito di colonne, giri, ritmi, intervalli e melodie, ma solo come appassionato sight & sound che ama essere sequestrato dai fatidici ventiquattro inganni al secondo.

A parte i videogame da 90 minuti (horror/sci-fi/action/catastrofici/fantasy/3D) spacciati per film, dove la colonna, più che sonora, è piuttosto un incessante surround da subwoofer di urli, spari, spasmi, orgasmi e sfx, oggi i film cosiddetti “drammatici” (forse gli unici che riesco ancora a gustare), sono praticamente improntati a due soli stilemi: 1) al pianismo minimalista che tocca, appunto, di default, i leggiadri tasti b&w dell’intimità e della tristezza (da Nyman, Mertens, Sakamoto, Glass a Einaudi e Allevi… tutti quanti indebitati fino al collo con Debussy) o 2) ai vibrati, glissandi e arpeggi d’archi dove i ricercare dei vari Grieg, Bartók, Sibelius, Respighi, Penderecki, Ligeti, undsoweiter, è puntualmente trasfigurato in puro sound design).

Ma io non voglio capire, destrutturare, separare dal testo e dal contesto, la colonna sonora dei film. Voglio esserne rapito, sedotto, ammaliato, portato via. Il suono non deve solo entrarmi nelle vene, ma prima ancora, deve infilarsi in quelle del plot. Se poi, alla fine del film, riuscissi a spiegare per filo e per segnale perché quella colonna m’aveva conquistato, ci sarebbe probabilmente qualcosa che non va.

Per me, anche nei film la bellezza della musica non fa necessariamente rima con coerenza. Anzi. A volte, proprio lo stravolgimento dei canoni storici, filologici e strumentali, fa scattare in me – e, ovviamente, in milioni di altri addict – un senso di complicità che forse solo il mondo dei paradossi, della natura, dell’eros e dello humour potrebbero scatenare. La cetra di Karas, il flicorno di Miles, l’armonica, il guiro e l’oboe di Morricone, il banjo di Weissberg, lo xilofono di Orff, il flauto di pan di Smeaton, lo Schubert storicamente sfasato nel film più “storico” di Kubrick… tutte queste clamorose sincopie stilistiche e storiche fanno sì che nelle colonne più memorabili la musica non sottolinea, ma interlinea i temi di parecchi grandi film.

Parafrasando Storaro che definisce la sua arte come “dipingere con la luce”, mi viene spontaneo immaginare i vari Herrmann, Morricone, Williams, Desplat, come “compositori dei silenzi”. Esattamente come succede nella calligrafia, nel kerning della composizione tipografica, nella recitazione teatrale e nella degustazione dei vini, gli spazi, le pause, le aritmie e i silenzi, sono tutti elementi strutturali degli incanti musicali dei film.
Gary Cooper in High Noon(Mezzogiorno di fuoco) di Fred Zinnemann, 1952, servito da una indimenticabile colonna sonora di Dimitri Tiomkin.

Invece di sviluppare un “discorso” sulla coerenza, gli stilemi e la continuity emotiva delle colonne sonore, provo a elencare i “miei” film dove lo scoreè sempre stato una sorta di x-factor che m’ha immediatamente innescato stupore, devozione, brividi, spiazzamento, identificazione, eterna memoria e altissima fedeltà:

1943 “Torna a casa, Lassie!” (Daniele Amfitheatrof) - Il mio primo film!
1944 “La fiamma del peccato” (Miklós Rózsa)
1949 “Il terzo uomo” (Anton Karas)
1950 “Viale del tramonto” (Franz Waxman)
1950 “Giungla d’asfalto” (Miklós Rózsa)
1950 “La sanguinaria” (Victor Young)
1952 “Mezzogiorno di fuoco” (Dimitri Tiomkin)
1958 “Ascensore per il patibolo” (Miles Davis)
1959 “Psycho” (Bernard Herrmann)
1960 “I magnifici sette” (Elmer Bernstein)
1962 “Il buio oltre la siepe” (Elmer Bernstein)
1962 “Lawrence d’Arabia” (Maurice Jarre)
1963 “Le mani sulla città” (Piero Piccioni)
1964 “La pantera rosa” (Henry Mancini)
1964 “Per un pugno di dollari” (Ennio Morricone)
1966 “L’armata Brancaleone” (Carlo Rustichelli)
1967 “A sangue freddo” (Quincy Jones)
1967 “Il laureato” (Simon & Garfunkel)
1968 “C’era una volta il West” (Ennio Morricone)
1968 “2001: Odissea nello spazio” (Richard Strauss + Johann Strauss + György Ligeti)
1969 “Butch Cassidy” (Burt Bacharach)
1969 “Il mucchio selvaggio” (Jerry Fielding)
1970 “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (Ennio Morricone)
1971 “La classe operaia va in paradiso” (Ennio Morricone)
1971 “Arancia meccanica” (Walter/Wendy Carlos)
1971 “Shaft” (Isaac Hayes)
1972 “Il Padrino” (Nino Rota)
1972 “Un tranquillo weekend di paura” (Eric Weissberg + Steve Mandel)
1973 “La stangata” (Marvin Hamlisch)
1973 “La rabbia giovane” (Carl Orff)
1974 “La conversazione” (David Shire)
1974 “Chinatown” (Jerry Goldsmith)
1975 “Barry Lyndon” (Franz Schubert + Händel, Mozart, Paisiello, Vivaldi, Bach)
1975 “Picnic a Hanging Rock” (Bruce Smeaton + Gheorghe Zamfir)
1975 “Lo squalo” (John Williams)
1975 “Profondo rosso” (Goblin)
1976 “Brutti, sporchi e cattivi” (Armando Trovajoli)
1976 “Rocky” (Bill Conti)
1976 “Taxi Driver” (Bernard Herrmann)
1977 “Guerre stellari” (John Williams)
1977 “La febbre del sabato sera” (Bee Gees)
1977 “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (John Williams)
1978 “I giorni del cielo” (Leo Kottke + Ennio Morricone)
1979 “Fuga di mezzanotte” (Giorgio Moroder)
1981 “Momenti di gloria” (Vangelis)
1981 “Fuga da New York” (John Carpenter)
1982 “Koyaanisqatsi” (Philip Glass)
1982 “Gandhi” (Ravi Shankar)
1982 “Blade Runner” (Vangelis)
1983 “Rusty il selvaggio” (Stewart Copeland)
1984 “Paris, Texas (Ry Cooder)
1985 “Witness” (Maurice Jarre)
1985 “Fandango” (Pat Metheny)
1986 “Mission” (Ennio Morricone)
1988 “Nuovo Cinema Paradiso” (Ennio Morricone)
1991 “Tutte le mattine del mondo” (Jordi Savall)
1992 “L’ultimo dei Mohicani” (Randy Edelman + Trevor Jones)
1993 “Film Blu” (Zbigniew Preisner)
1999 “La sottile linea rossa” (Hans Zimmer)
1999 “Magnolia” (Jon Brion + Aimee Mann)
2000 “Amores perros” (Gustavo Santaolalla)
2001 “La promessa” (Hans Zimmer)
2001 “Sulle mie labbra (Alexandre Desplat)
2002 “Respiro” (John Surman)
2003 “Mystic River” (Clint Eastwood)
2010 “Tree of Life” (Alexandre Desplat)
2011 “Le idi di marzo” (Alexander Desplat)
2011 “Drive” (Cliff Martinez)

Non ho incluso i compositori di musica “classica” i quali, di quando in quando oppure una sola volta, si sono cimentati nella composizione da film.

Nell’elenco dei “miei” film, non ho nemmeno elencato i musical perché 1) è un genere cinematografico dove, insieme alla coreografia e la scenografia, il suono è forzatamente sia la base che l’architrave del film e, 2) semplicemente li detesto.

Per me, in solido con la cosiddetta opera lirica, il musical è, inevitabilmente, l’essenza del kitsch – esattamente come succede con la messa cattolica, le parate militari, i funerali e i matrimoni. So che tu Pasquale nei sei da sempre un appassionato fan e mai mi permetterei di perorare in modo ideologico o dottrinale la mia spiazzante anticausa. Forse il contesto protestante dove sono nato e cresciuto ha contribuito all’imprinting dei miei parametri scenici e sociali, tendenzialmente scarni, ascetici, defilati. Sebbene i miei genitori siano stati (discretamente e naturalmente) sempre atei, forse l’interno della vicina Grossmünster – dove avevano predicato Huldrych Zwingli e Heinrich Bullinger, priva di altari, decorazioni, mosaici, affreschi, sculture, quadri, ­– mi aveva con- e ri- formato nei miei primi amori musicali. Vi avevo ascoltato innumerevoli arie, corali e passioni di Händel, Buxtehude, Pachelbel e Bach e, com’era ovvio e naturale, alla fine di ciascuna di quelle sublimi esecuzioni nessuno avrebbe mai osato applaudire. In una casa (protestante) di Dio, da sempre un battimani collettivo sarebbe vissuto come un inimmaginabile sacrilegio.

In tutta la mia vita ho visto/ascoltato dal vivo solo due opere: Il flauto magico (da piccolo) e l’Aida (da grande). Mentre, nel suo insieme, l’opera di Mozart l’avevo convissuta come una sorta di Hänsel und Gretel per adulti, l’allestimento e le parole dell’opera verdiana m’aveva veramente fatto soffrire. Certo, quando non sono costretto a subire anche visivamente l’aria della Regina della Notte, quelle magiche (sic) note paradisiaco/infernali sconvolgono pure me. Ci mancherebbe.

Quando vivevo ancora a Zurigo, al cinema vidi Un americano a Parigi, Cantando sotto la pioggia, Carmen Jones, Oklahoma, Sette spose per sette fratelli, Show Boat, South Pacific, West Side Story, Tutti insieme appassionatamente... e poi in Italia anche Hair, Jesus Christ Superstar, New York, New York, My Fair Lady. Sono convinto che in quelle lunghe ore sia invecchiato di almeno dieci anni. A dire il vero, non so nemmeno come abbia fatto a resistere fino alla fine. Dei musical avevo al massimo apprezzato l’aspetto coreografico, organizzativo, tecnico – dalle sontuose scenografie di Busby Berkeley e dei Powell/Pressburger fino all’eleganza giocosa e sempre leggiadra di Fred Astaire, dal controllo corporeo e ritmico di Ginger Rogers, Donald O’Connor e Gene Kelly, fino all’atletica flessuosità delle sirene Cyd Charisse, Jean Hagen ed Esther Williams.

Per un motivo non solo statistico, ma sostanzialmente di equità, chiudo con un elenco dei più prolifici compositori cinematografici che, per motivi essenzialmente soggettivi e personali, non avevo citato sopra:

Georges Auric, Luis Bacalov, Angelo Badalamenti, John Barry, Marco Beltrami, Carter Burwell, Stelvio Cipriani, Michel Colombier, Carmine Coppola, John Corigliano, Mychael Danna, Ken Darby, Guido e Maurizio De Angelis, Klaus Doldinger, Pino Donaggio, Danny Elfman, Don Ellis, George Fenton, Jerry Fielding, Hugo Friedhofer, Dave Grusin, James Horner, Francis Lai, Michel Legrand, Alfred Newman, Randy Newman, Thomas Newman, James Newton Howard, Lennie Niehaus, Riz Ortolani, Nicola Piovani, Rachel Portman, André Previn, Philippe Sarde, Lalo Schifrin, Howard Shore, Alain Silvestri, Max Steiner, Piero Umiliani, Victor Young.

The End?


Till Neuburg



Musica e pubblicità

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Il gospel di Ermanno Olmi


Con la pubblicità ho iniziato nel 1967. In TV non c’erano gli spot come adesso, c’era Carosello. Musicare un Carosello non era esattamente come musicare uno spot. Ciascun episodio durava 2 minuti e 35 secondi; volendo si poteva sparare una canzone intera.

Carosello era una trasmissione ambigua, con una struttura semipubblicitaria. All’epoca la TV di stato (in regime di monopolio) doveva vivere di solo canone. Ma il carrozzone costava e il canone non era più sufficiente. Per cominciare a cavare un po’ di soldi anche dalla pubblicità, allora considerata una cosa un po’ sporca, si inventò quella trappoletta a metà strada tra l’intrattenimento e la réclame. Due minuti di spettacolo che gli addetti ai lavori dovevano riempire di contenuti. La Rai, come contropartita, concedeva 35 secondi (poi 30) di “codino” pubblicitario.

Si trattava insomma di una forma avanzata e radicale di sponsorizzazione. Quella di tipo normale era sempre esistita in Rai, non solo per i programmi TV ma anche prima, per quelli radiofonici. Sono rimasti nella storia della radiofonia italiana trasmissioni come i Concerti Martini & Rossi, in onda dal 1936 al 1964 (con una pausa tra il 1943 e il 1945 a causa della guerra), e le popolarissime puntate de I Quattro Moschettieripatrocinate dalla Perugina, che vi innestò una lunga e fortunata promozione a base di raccolta di figurine.

Rispetto a questi e altri precedenti, i 35 secondi finali di Carosello erano pubblicità vera e propria – la prima forma di advertising trasmessa dalla televisione italiana. Per non sbugiardare la maschera dell’intrattenimento “disinteressato”, la Rai era molto rigida sulla separazione narrativa tra lo sketch di due minuti e il finale pubblicitario. I funzionari della Sacis, società commerciale del gruppo Rai, stavano costantemente in campana. Controllavano arcignamente prima le sceneggiature, poi i filmati realizzati, per accertarsi che nella parte iniziale di due minuti non filtrasse la minima intenzione pubblicitaria. Non solo non si dovevano citare marche e prodotti, ma si doveva evitare qualsiasi riferimento, diretto o indiretto, al messaggio pubblicitario.

A quei tempi lavoravo alla CPV di Milano come copywriter e, anche nelle grandi agenzie come quella, non si dava molto peso alla parte spettacolo di Carosello. Spesso a occuparsene erano i producer invece che i copy e gli art. I producer del tempo erano dei tecnici ma talvolta anche dei creativi: sceneggiatori come Sergio Donati, che presto lasciò il nostro ambiente per intraprendere una carriera cinematografica a fianco di Sergio Leone, e come Paolo Limiti diventato poi famoso come entertainer televisivo. Per inventare gli sketch ci si rivolgeva anche all’esterno, di solito a giovani sceneggiatori reclutati a Roma nel giro del cinema.

L’evoluzione fu comunque abbastanza rapida. Quando copy e art – inizialmente più a loro agio con la carta stampata che con gli audiovisivi – cominciarono a capire come funzionava quel linguaggio, presero in consegna la responsabilità creativa di Carosello. Il passo successivo fu la ricerca di un affinamento della formula. I creativi più industriosi si impegnavano allo spasimo nell’intento di connettere con maggiore senso logico spettacolo e codino, e di aggirare così la tortura dello schema e dei funzionari Sacis. Le due parti di Carosello erano di solito scoordinate e si incontravano solo sul filo di una frasetta, di una battuta pretestuosa che funzionasse da ponte. La sfida nuova era quella di legare meglio le due sponde del programmino, di costruire un’unità da quei pezzi così sghembi. Tenendo d’occhio, naturalmente, le forbici della Sacis, sempre in agguato e pronte a scannare la creatura ribelle.

Si cercava di omogeneizzare e rendere più fluido il tutto. Un esempio felicemente riuscito di integrazione tra show e pubblicità è quello dei caroselli Asti Cinzano che, dal 1969, l’agenzia CPV progettò conErmanno Olmi, offrendogli carta bianca.

Il giovane Sandro Panseri in una scena de Il posto di Ermanno Olmi, 1961.

Olmi nasceva come documentarista e si era fatto le ossa come responsabile del servizio cinema alla Edisonvolta, dove aveva realizzato una quarantina di cortometraggi industriali. Era un poeta del mondo del lavoro. Quando fu invitato dalla CPV era già un regista affermato; aveva dato alla luce quattro o cinque lungometraggi, tra cui quello che considero il suo capolavoro, Il posto, ed era uno degli autori di punta del cinema italiano e del suo rinnovamento. Olmi attingeva le sue storie dalla vita quotidiana; la mano del documentarista si vedeva anche nei film di narrazione. Cinema-verità, animato da un forte senso sociale.

Io ero giovane, poco più che un assistente, ma ben inserito in un gruppo di professionisti di punta. Non ebbi alcun ruolo nella genesi dei caroselli Cinzano, ma fu un privilegio per me assistere da vicino alla nascita e allo sviluppo di un’idea formativa come quella. I miei capi avevano scelto Olmi per dare un senso di autenticità alla celebrazione del Natale (le campagne di Asti Cinzano uscivano verso la fine dell’anno) e sfuggire agli stereotipi più scontati della retorica natalizia. La collaborazione andò avanti per due o tre cicli di Carosello. Ogni ciclo era fatto di cinque trasmissioni, e almeno tre dei cinque spettacoli dovevano essere diversi tra loro. Un Carosello si bruciava in una sola, al massimo due uscite, per non stancare il pubblico: dopotutto era un programma di intrattenimento e non si poteva spacciare la stessa minestra all’infinito. Il lavoro di Olmi fu dunque impegnativo anche sul piano della quantità.

Olmi raccontò il Natale come nessuno prima, in pubblicità, lo aveva mai raccontato. Ci mostrò il Natale visto dalla parte di chi, umilmente, lavora per consentire a tutti gli altri di festeggiare. E già, nessuno si accorge che a Natale e Capodanno, mentre noi ce la godiamo, altri si fanno il culo perché la festa sia possibile, e anche perché il paese non si arresti del tutto. Quello di Olmi fu il Natale dei ferrovieri, dei camerieri, dei naviganti, degli operai che montano in piazza alberi e luminarie...

Uno di questi caroselli è davvero memorabile. C’era un grande palazzo storico noleggiato per il cenone di San Silvestro. Le riprese, tra il documentario e il poetico, mostravano le fatiche degli addetti al catering. L’arrivo dei furgoni carichi di sedie, tavoli, tovaglie di Fiandra e stoviglie d’argento nel centro storico di Bologna è già una sequenza epica. Poi il lavoro alacre, veloce e silenzioso di una squadra di operai per trasformare un salone del palazzo duecentesco di Re Enzo in un ristorante regale. Un lavoro collettivo e coordinato, affascinante come una coreografia.

Per ultimo arriva il rifornimento di spumante – centinaia di bottiglie Asti Cinzano sistemate sull’immensa tavola imbandita con candelabri, piatti, stoviglie. La frattura tra antefatto e pubblicità è miracolosamente evitata.

La musica ebbe un ruolo fondamentale. Olmi voleva celebrare il lavoro mettendone in luce, in ogni gesto, la sacralità. Ci riuscì perfettamente: con belle immagini in bianco e nero fortemente contrastate, stile Gregg Toland, a comporre l’affresco, ma soprattutto con un gospel, Oh, Happy Day!, che rimase per decenni la sigla musicale del prodotto.[1]Un inno carico di religiosità che faceva da collante fra tutte le scene del filmato.

L’album degli Edwin Hawkins Singers (1968) con la loro versione di Oh, Happy Day!

Se è vero che una delle funzioni della musica nel cinema (e nella pubblicità) è quella di integrare o survoltare il potenziale emotivo del racconto per immagini, il gospel di Cinzano va ricordato tra gli esempi più riusciti in tal senso.

Il gospel lo si immagina sempre legato alla chiesa battista, agli afroamericani, all’anelito di libertà nelle piantagioni di cotone. Questo era un “gospel bianco” della chiesa protestante anglosassone, come Amazing Grace, ma la trascinante esecuzione degli Edwin Hawkins Singers era impetuosamente black. Qui il gospel veniva connesso al lavoro operaio, all’impegno di gruppo nell’addobbo della lunga tavola da refettorio, e conferiva ai gesti umani valenze misticheggianti. Qualcosa di simile aveva fatto nel 1964 Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo, mescolando gospel, ritmi etnici, Bach e Mozart nella storia di Gesù ambientata tra i Sassi di Matera. Le emozioni che la musica può suscitare trascendono i luoghi, le culture e le epoche d’origine.

Un altro dei caroselli di Olmi era ambientato su uno di quei treni che a Natale portano in famiglia chi sta lontano. Nel wagon restaurant chi lavora si dà da fare come in un giorno qualsiasi, anche se è il 25 o il 31 dicembre. Ed ecco che tra il personale di bordo e i passeggeri si crea un clima speciale, di familiarità, di empatia: la festa degli uni sfiora la nostalgia degli altri, tutti i sentimenti si incontrano, ed è un momento magico per tutti.

I Moody Blues di Spade & Archer


Un altro bel ricordo di quei tempi – la fine degli anni sessanta – fu l’arrivo da New York di un creativo di valore, Frank Ceglia, arruolato dall’agenzia per migliorare con la sua esperienza il nostro lavoro di sceneggiatori in erba. Veniva dalla Young & Rubicam e aveva vinto un sacco di premi. Per me è stato un grande maestro, nel senso che ho imparato e capito, di cinema e TV, più in un solo giorno con lui che in due anni prima di lui. Si fermò con noi un paio d’anni, poi aprì una piccola agenzia a Milano, la Spade & Archer (sì, proprio come i due detective di Dashiell Hammett), che però non ebbe un gran successo. Lui e il suo socio, un altro americano, lavoravano alla campagna di lancio per un nuovo aperitivo, Personal GB. La campagna era bella, ma il prodotto non ingranò e fu ritirato dal mercato.

Nel frattempo io ero ancora in CPV, e Frank aveva bisogno di qualcuno che traducesse in italiano i testi della campagna, pensati ovviamente in inglese visto che alla Spade & Archer c’erano solo due americani. Per Frank dovetti fare un po’ il moonlighter. Nel nostro gergo, è uno che di giorno lavora in agenzia e di notte – “al chiar di luna” – fa il free-lance per qualcun altro. Non è moralissimo, lo so; è una cosa che non si dovrebbe fare, e che io stesso poi, da direttore creativo, ho duramente censurato, quando mi accorgevo che qualcuno si dava da fare per agenzie concorrenti. Ma in quel caso era un favore a un amico, per di più un intervento di traduzione su idee cui non avevo partecipato. Peccato veniale, insomma.

Anche in questo caso, come in quello di Olmi, ebbi la fortuna di imparare qualcosa di interessante. Ceglia stava lavorando a un ciclo di caroselli talmente all’avanguardia che forse fu quella la ragione del tonfo di Personal. Il prodotto era per adulti, ma quella pubblicità era tagliata su misura per i più giovani.

La musica aveva un ruolo primario, e anche qui si arrivava al prodotto in modo naturale e senza intoppi. Era il primo carosello, quello di Ceglia, concepito come un videoclip: con dieci, dodici anni di anticipo sui clip musicali di MTV. Una fantasia tutta visiva, destrutturata; un completo stravolgimento dei canoni narrativi tradizionali. Mi spiace di non avere una copia di quel lavoro, perché è curioso vedere un videoclippone ante litteram, in cui l’immaginazione vola senza freni per evocare soltanto allusioni, senza un racconto di base. Era innovativo, troppo innovativo, tanto che contribuì alla morte precoce non solo dell’aperitivo ma anche della Spade & Archer.

Era davvero suggestivo, un piccolo capolavoro di surrealismo. Sequenze da tutti i luoghi più sognati della terra (materiale di repertorio, credo), in un’epoca in cui il turismo non era ancora diventato di massa: l’ora dell’aperitivo tra i ghiacci polari e le carovane nel deserto, le megalopoli e le tundre selvagge... E a legare il tutto, un formidabile pezzo dei Moody Blues, Ride My See-saw.

In Search of the Lost Chord (1968), l’album dei Moody Blues contenente Ride My See-saw.

Nel 1972 arrivò in CPV Luigi Montaini Anelli come leader creativo. Non era un esperto di musica, ma sapeva sempre dove mettere le mani, come muoversi. Ci stavamo occupando dei caroselli Shell, un progetto nel quale questa volta ero coinvolto dalla testa ai piedi: come copywriter, ma anche come paroliere e producer della musica. Per il jingle, che doveva essere un pezzo originale, decise di rivolgersi ai migliori d’Europa in quegli anni: i musicisti della Air Edell di Londra. Fu un’esperienza molto istruttiva, ma anche piuttosto buffa. Montaini aveva passato il briefing e i ragazzi di Londra avevano confezionato un bel pezzo di pop rock alla Bee Gees, con parole posticce in inglese.

A questo punto dovevo darmi da fare su quella metrica (e sul concetto portante della campagna Shell) per completare il lavoro in italiano. Nessuno di noi aveva mai lavorato su un jingle originale composto da stranieri; era una situazione eccentrica e divertente.

La tecnologia era ancora assai spartana, non così facile e pronta da usare. C’erano dei registratori professionali a bobine, giganteschi, i famosi Revox, che incombevano nelle case di produzione e nelle agenzie. Ci volevano due persone per sollevarne uno. Diventava un’impresa fare ascoltare al cliente un sonoro pulito e decente, a meno che non fosse lui a venire in agenzia.

Mi trovai nella difficile circostanza di presentare in anteprima, a Genova, il jingle, avendo a disposizione soltanto una musicassetta con il semilavorato inglese (col testo posticcio) e il mio testo italiano dattiloscritto. Ai manager della Shell la musica e il testo non dispiacevano, ma volevano farsi un’idea di come musica e testo avrebbero funzionato insieme, e non c’era modo di rassicurarli a parole. Del resto avevo proprio bisogno della loro approvazione, prima di saltare a Londra per l’esecuzione definitiva del brano. Per tagliar corto e sbloccare lo stallo mi piazzai al centro della stanza, impostai la voce e mi misi a cantare. Applaudirono, sconcertati dall’imprevista performance, e tirai un sospiro di sollievo. Imparai che quando si lavora in pubblicità tutte le esperienze tornano buone. Da ragazzo avevo tentato, fra mille esperimenti, anche la via del canto, e mi ero talvolta esibito in pubblico. Non diventai mai Elvis Presley, ma riuscii a sfondare con la Shell.

C’era una volta la Circle


Nel 1976 ero stufo di stare in agenzia. Mi dimisi e cominciai a lavorare come free-lance. Feci il battitore libero fino al 1980. Era un momento favorevole per il mercato della pubblicità. Molti di noi soffrivano per le costrizioni tipiche del posto di lavoro, delle responsabilità non strettamente creative in cui scivolavi automaticamente con l’aumentare dell’esperienza. In tanti uscimmo sulla strada per sentirci più liberi.

Lavorai tantissimo in quei quattro anni. Ma mi divertivo un mondo! Continuai il vecchio rapporto con la CPV da free-lance, fui persino arruolato come direttore creativo free-lance (per quanto la cosa possa suonare incongruente) da un’agenzia di Firenze, scrissi dozzine di annunci spiritosi per la STZ, curai clienti diretti come Star, Olivetti, Ferrero. E collaborai intensamente con la Circle.

Un annuncio per la Circle (1976). Art director: Loris Losi.

Mi soffermo un po’ sull’esperienza Circle. Fu il mio primo “datore di lavoro esterno”. Era un gruppo di musicisti guidato da Fabio Ritter e da sua moglie, Daniela Frasca Polara, che si occupava dei testi e dei comunicati radio. Ci eravamo conosciuti lavorando insieme (e divertendoci un sacco) per la realizzazione di jingle destinati alla Plasmon, quando ero ancora fisso in CPV. Mi convinsero ad accettare una consulenza creativa a vari livelli – radiocomunicati, testi per jingle, analisi e commenti sulle proposte musicali, campagne pubblicitarie e promozionali per far conoscere meglio la loro attività.

Quando cominciai l’avventura con loro, i ragazzi della Circle stavano in uno scantinato della Bovisa. Lavoravano su un otto piste, apparecchiatura già allora superata e che adesso è pura archeologia. Ma avevano intuizione e talento, ed erano in velocissima ascesa. Erano i primi a sfornare jingle con gli stili e le sonorità del momento, gli impasti corali alla Beatles, il country rock alla James Taylor, ecc. Avevano orecchio per tutto ciò che tirava in quegli anni – dai Creedence Clearwater Revival a Crosby, Stills, Nash & Young. Ma all’occorrenza spaziavano in qualsiasi territorio, da Vivaldi a Bacharach, e se avevano bisogno di un’iniezione di blues chiamavano l’amico Fabio Treves e la sua banda. Io ero utile soprattutto quando dovevano scantonare dagli stili che gli erano più congeniali. Saltavo fuori con le proposte più bizzarre ed erano contenti: per esempio arrivavo con un disco di toccate per organo o clavicembalo di Frescobaldi, e dicevo: «Che ve ne pare se partissimo da una di queste melodie, ci mettessimo un testo e dei suoni così e così, e ne facessimo una specie di ballata irlandese?» Mi guardavano un po’ stralunati, ma mi prendevano sempre sul serio, e di solito questo metodo stravagante funzionava. La Circle stupì il mercato con una valanga di composizioni dalla costruzione spesso imprevedibile, talvolta molto raffinata, sebbene si trattasse di melodie semplici, di impatto immediato. Ci divertivamo a provare soluzioni nuove e sorprendenti, come il “mambo di Dixan” che la Henkel rifiutò sdegnosamente per l’ironia che lo ispirava. Più tardi lo dissotterrammo dagli archivi e, con le parole cambiate, ne facemmo l’inno di una squadra di calcio, la Fiorentina.

Naturalmente ho imparato tantissimo in quei due anni con la Circle, ma posso dire di aver anche insegnato qualcosa – se non altro un metodo di ricerca consistente nel rifiuto dei metodi.

Un annuncio per la Circle (1990). Art director: Agostino Toscana.

Sebbene io non avessi la minima familiarità col pentagramma, si fidavano di me. Se mi veniva qualche idea sull’esecuzione – una sospensione di batteria, un passaggio vocale a cappella, l’eliminazione o l’aggiunta di uno strumento, qualsiasi cosa – erano pronti ad assecondare, a sperimentare. Non c’era mai pregiudizio o rifiuto a priori. Si voleva, si poteva e si doveva provare di tutto.

Ero già allora intrippato con la mia idea fissa, quella dell’autenticità, della verosimiglianza. Ho sempre lottato per una pubblicità umanistica, sempre tentato di convincere i committenti che nessun prodotto, nemmeno una Ferrari, può essere più importante di chi lo compra. In Circle trovavo spazio per queste idee. Per certi radiocomunicati mi intestardivo a proporre le voci della gente del quartiere invece di quelle degli attori; a volte sbucavamo tutti dalla nostra cripta della Bovisa per registrare i suoni, i latrati dei cani, le motorette e le voci della strada. Quella della Circle fu una piccola rivoluzione. Un jingle è un jingle, cioè una piccola e spesso fastidiosa deviazione dalla musica vera: uno sputo sonoro inquinato dal marketing. Ma noi ci sbattevamo per farne una cosa dignitosa e, soprattutto, sensibile ai tempi. Con una qualità inventiva e sonora più discografica che pubblicitaria.

Si lavorava moltissimo per la McCann-Erickson, agenzia che credeva profondamente nel valore persuasivo della musica e i cui creativi erano competenti ed esigenti. Per loro la Circle era un laboratorio in servizio permanente: sia per creare pezzi originali, sia per arrangiare in vari modi le musiche di Martini, Algida o Coca-Cola. Martini aveva come leit-motiv un tema alla Bacharach, credo nato negli Stati Uniti; la Circle ne elaborò decine di versioni per Ornella Vanoni. Gli arrangiamenti spaziavano da Vivaldi al jazz e alla bossa nova. Direi che di tutta l’esperienza Circle mi affascinava soprattutto l’eclettismo.

Per Coca-Cola, la McCann importava ogni anno quattro o cinque jingle americani da adattare, versificare, rieditare per l’Italia. Gli originali avevano durate incompatibili con gli spazi disponibili da noi, e per questo il lavoro non era affatto facile. Bisognava ricompattare le basi americane con un taglio di qua e un’aggiunta di là per far tornare il conto in modo credibile e inoffensivo per le orecchie.

45 giri di Cuore di panna. Machondo era il nome di una studio band formata per l’occasione da musicisti della Circle e strumentisti free-lance. La voce era di Bart Herremann, fotografo belga e cantante per hobby (ma bravissimo).

Il jingle di Algida, Cuore di panna, sembrava una canzone vera. Anzi, lo era. Per puro spasso avevamo messo giù, nei ritagli di tempo libero, una pop song in inglese. Si intitolava Lazy day o qualcosa di simile. L’avevamo incisa con la voce (affumicata e bellissima) di un fotografo belga amico di Ritter, un certo Bart Herremann. Mentre ci interrogavamo su cosa farne, arrivò un briefing della McCann per il gelato. I ragazzi si guardarono negli occhi: il briefing sembrava fatto apposta per la musica e l’arrangiamento di Lazy day. Io recalcitrai un poco: era la nostra, quindi anche mia, “canzone vera”, e mi scocciava cederla alla pubblicità. Ma il lavoro viene prima degli hobby. Cambiai le parole a Lazy day. E Cuore di panna, cantata in italiano da Herremann, diventò il jingle più popolare di quegli anni. Così bello e insolito che la canzone fu stampata e messa in commercio con un disco a 45 giri. Anche se la frase “cuore di panna” era da anni il motto del Cornetto Algida, il testo non parlava esplicitamente di gelati e il pezzo poteva passare per una ballata sentimentale.

Un altro colpo lo azzeccammo nel 1979, per Lemonsoda. Lavoravo alla campagna per conto della CPV, con una brava art director, Marina Mapelli. Affascinati dalle possibilità del racconto surreale e destrutturato, ci lanciammo in una vertiginosa invenzione di metafore visive – il sole trasformato in fetta di limone, ragazze nelle bollicine, insomma un’esaltazione dell’estate e del potere di seduzione del lemon drink. Alla base dell’ispirazione c’era un pezzo fresco fresco dei Police, Message in a Bottle, che Marina e io volevamo usare sia come colonna sonora sia come claim: «Lemonsoda. Messaggi in una bottiglia.» Per motivi che non ricordo il claim fu cambiato, e la canzone pure; ma riuscimmo a ottenere l’autorizzazione a usare un altro brano dei Police, Don’t Stand So Close to Me, che stava furoreggiando nelle hit parade di mezzo mondo.

Con il talento visionario di un giovane regista inglese, Nick Lewin, venne fuori un mirabolante e stilizzato collage di immagini, in netto anticipo su Video Killed the Radio Star, il primo video musicale di MTV[2]. Allora non era facile convincere i clienti a usare pezzi cantati in inglese, e molti per di più volevano a tutti i costi che le canzoni parlassero del prodotto. Mi toccò scrivere un testo pubblicitario in italiano di cui mi vergogno un po’. Ma gli amici della Circle fecero un lavoro egregio nell’esecuzione strumentale e vocale: una copia perfetta dei Police. Sembrava davvero che Sting e compagni fossero scesi in Italia a registrare il jingle di Lemonsoda.

Fotogrammi dallo spot Lemonsoda diretto da Nick Lewin, 1980.

Lewin si eccitò per il nostro storyboard e si mise in testa di girare quelle inquadrature impossibili esattamente com’erano state disegnate. Fece costruire enormi fette di limone di vetro, bollicine di fiberglass così grandi da contenere ciascuna una modella, cieli dipinti a mano montati su cilindri che venivano fatti ruotare a manovella sugli sfondi dietro i primi piani degli attori. E girò tutto in pellicola, dal vero, senza trucchi di post-produzione.

Lo spot si fece notare anche negli ambienti professionali del cinema per la curiosa qualità delle immagini. Non era come adesso, che la tecnologia digitale consente di realizzare qualsiasi stranezza, anche far volare gli asini; e sorprendeva perciò il surrealismo di quelle immagini, di quelle combinazioni materiche, di quei colori. Un circolo culturale mi invitò a Roma a parlare dello spot e di come era stato realizzato. C’era anche Nanni Loy, autore di un mio film di culto, Le quattro giornate di Napoli. Ascoltava e interloquiva con umiltà e interesse, come se io potessi davvero insegnare qualcosa a un artista come lui.

Il tramonto del jingle


La musica ha sempre occupato un ruolo di rilievo nella confezione dei comunicati audiovisivi. Il cosiddetto jingle – motivetto di poche note, o una pseudocanzone con testo pubblicitario – esiste da quando esiste la radio. Già negli anni trenta l’Eiar (la Rai di allora)trasmetteva arie pubblicitarie cantate, orchestrate e prodotte secondo le voghe musicali del momento. Per esempio, interpretata da una esuberante voce baritonale:

Euchessina, Euchessina,
tu sei dolce come il miel!
Tu dell’egra umanità
Sei l’amica più fedel!

L’inno al purgante calzava bene con un’epoca che aveva fatto dell’olio di ricino un mezzo di persuasione non meno emblematico dei telefoni bianchi. E il doppio richiamo all’Euchessina sembra un ricalco, non si sa quanto involontario, di Giovinezza, giovinezza.

Di jingle è piena la storia della pubblicità: talvolta si trattava di frasi brevissime e stupide, slogan o semplicemente nomi di prodotto cantati, fulminei come staffilate, usati a mo’ di sigla di chiusura; altre volte erano canzoncine ben costruite, come quelle che la Coca-Cola ha sempre prodotto per la sua comunicazione globale; in altri casi si trattava di motivi famosi con le parole cambiate.

A partire dagli anni ottanta il gusto si è progressivamente spostato verso l’uso di composizioni (originali e non) il cui testo, ove presente, non è esplicitamente pubblicitario. Melodie, ritmi e canzoni vengono concepiti o scelti con gli stessi criteri che ispirano la creazione del commento sonoro di un film o di qualsiasi altro programma di intrattenimento. La musica può avere diversi ruoli:

– Contestualizzare l’ambientazione della vicenda (p. es. una musica agreste per un prodotto naturale);

– Richiamare per analogia il tema trattato (p. es. Smile per un dentifricio);

– Drammatizzare o sdrammatizzare le sequenze, orientandone la lettura nel senso voluto;

– Accompagnare o determinare il ritmo del montaggio;

– Suscitare il tipo di emozioni desiderate.

Nelle costruzioni più moderne e sofisticate, anche per sfuggire all’effetto “già visto, già sentito” determinato dal sovraffollamento di spot che puntano quasi tutto sulla musica, si cerca di usare il commento sonoro in modo meno scontato e didascalico, più sorprendente. Un vecchio spot francese per i costumi da bagno Éminence, per esempio, mostrava al rallentatore il tuffo di un atleta accompagnato da un duetto femminile dalla Norma di Bellini. Le due voci si inseguivano angeliche e lievi come sospiri celestiali, e conferivano un’aura sublime alla prestazione sportiva. Nello spot per Woodpecker (picchio), orologio Swatch di una collezione ispirata alla natura, un picchio demoliva un albero beccandone ripetutamente il tronco a ritmo di flamenco.

Nei miei anni da pubblicitario ho vissuto, spesso in prima persona, le diverse fasi dell’evoluzione della musica in pubblicità. I casi qui descritti di Cinzano e Personal GB anticipavano ciò che sarebbe spesso avvenuto più tardi: l’adozione di brani disponibili sul mercato senza alcun intervento pubblicitario. La musica di Lemonsoda stava a metà strada tra il vecchio jingle e il nuovo corso: utilizzava sì, ma manipolandolo, un tema discografico di successo. Cuore di panna era invece un tema originale che aspirava a vivere di vita propria, sganciato dalla funzione di partenza.

Cantare il prodotto è una cosa che si fa ancora, ma sempre più di rado. Per fortuna: perché l’effetto è sempre infantile e imbarazzante.

P.B., 2004 e 2014




[1]La versione usata era quella degli Edwin Hawkins Singers, grande successo discografico nel 1969. L’inno originale risaliva al XVIII secolo. In realtà non si trattava di un canto natalizio ma di un inno pasquale, tradizionalmente usato nelle chiese protestanti anglosassoni.
[2]Il video dei Buggles, diretto da Russell Mulcahy, inaugurò le trasmissioni di MTV il 1° agosto 1981. Nel frattempo erano comunque usciti su altri canali tre video molto eleganti per i Dire Straits, diretti da Lester Bookbinder.

Il morbo di Gutenberg

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Scrivere per vivere, vivere per scrivere

Ci sono cacciatori di balene, cacciatori d’avorio, cacciatori di taglie. Ambrogio Borsani è un cacciatore di libri. Un metodico e implacabile predatore di pagine perdute. Fiutate e braccate in qualsiasi penombra siano andate a rintanarsi: di covi polverosi, umide cantine, retrobottega segreti. Perché solo i neofiti della bibliofilia, ormai, possono ancora illudersi di mettere le mani su una prima edizione di qualche valore semplicemente sbirciando sulle bancarelle dei rigattieri o rastrellando i magazzini delle librerie.

Leggendo il suo ultimo libro, Il morbo di Gutenberg, mi tornavano in mente figure letterarie come il protagonista del Carteggio Aspern (Henry James, 1888), disposto a tutto pur di procurarsi l’epistolario sentimentale del suo poeta preferito; ma anche esploratori in carne e ossa come gli avventurosi cacciatori di piante esotiche, ai tempi d’oro del colonialismo. Feticista confesso, collezionista in proprio ed esploratore per conto terzi, Borsani si è spinto persino più in là della caccia al libro raro: da anni si aggira in luoghi remoti, cari agli scrittori e agli artisti in fuga dalla nostra civiltà, come un Indiana Jones in cerca di fantasmi, o di padri. I suoi libri di viaggio sono il frutto di inchieste, ostinate e thrilling, sui rifugi e gli ultimi passi di autoesiliati illustri spesso scomparsi due volte: prima con l’abbandono del proprio habitat geoculturale, poi con la morte.


Samoa. La tomba di Robert Louis Stevenson sulla cima del Vaea. Il monte sovrasta il villaggio di Vailima, dove lo scrittore stabilì la sua ultima dimora.

Abbiamo seguito Borsani alle Isole Marchesi[1], sulle tracce di Melville, Stevenson, Gauguin, Jack London; nell’isola di Mauritius[2]per indagare su Bernardin de Saint-Pierre, Baudelaire, Conrad, Twain; ancora nel Pacifico, a Samoa[3], per Stevenson, Maugham, Marcel Schwob; alle Antille[4], dove l’investigazione su Aimé Césaire, Joseph Conrad e Marc Blitzstein si tinge variamente di giallo. Le sue ispezioni sono ricche di incontri e di aneddoti ai quali l’aura esotica e la levità di scrittura conferiscono uno charme poetico, intriso di malinconia e al tempo stesso di sottile ironia.

Alda Merini in un ritratto di Giuliano Grittini.

L’ironia e il piacere di raccontare fanno del Morbo di Gutenberg un rapido e scintillante tributo alla letteratura e all’editoria. Spogliati di ogni solennità i due argomenti scendono, per così dire, nell’aneddotica spigliata e cordiale del fine conversatore. E quando Borsani ricorda personaggi che ha frequentato da vivi – come Ettore Sottsass e Fernanda Pivano, il pubblicitario bibliofilo Pino Fontana o Paul Bowles ammalato a Tangeri («la sua casa era un incrocio tra una fumeria e un salotto letterario marocchino»), – i ritratti sono così asciutti e incisivi da riportare per un istante in vita i defunti. Come quando rievoca gli avventori del Chimera, caffè-libreria dal nome emblematico, che apparve e scomparve a Milano con la velocità delle illusioni notturne. «Nonostante le bufere che aveva attraversato, Alda Merini era vitale e dispettosa, irrequieta. Si aggregava al gruppo della cassa, scompigliava il discorso e andava a disturbare un altro tavolino.»[5]

Carl Spitzweg, Il lupo di biblioteca, 1850, olio su tela. Museum Georg Schäfer, Schweinfurt.

Borsani ripercorre le tappe della sua passione per i libri e i loro autori come se sfogliasse e commentasse un album di famiglia e, ogni volta che cita un nome o un titolo che ci tocca qualche corda, la fa vibrare all’improvviso, riportandoci alle svolte che spesso la lettura accompagna, o addirittura produce, nella nostra esistenza. «Senza lettura non c’è bibliofilia», osserva alla fine del viaggio. Senza lettura non ci sarebbe una parte di ciò che siamo diventati vivendo, aggiungerei. O di ciò che ancora potremmo diventare.

P.B.

Ambrogio Borsani, Il morbo di Gutenberg. Avventure e sventure di uno schiavo della carta stampata, Liguori, 2014.

Milano, 1982. Ambrogio Borsani in un ritratto di Ignazio Parravicini.


Un numero di Wuz, rivista per bibliofili diretta da Borsani dal 2002 al 2007.










[1]Addio Eden, Neri Pozza, 2002.
[2]Tropico dei sogni, Neri Pozza, 2004.
[3]Stranieri a Samoa, Neri Pozza, 2006.
[4]Martinica incantatrice di poeti, Archinto, 2012.
[5]Della Merini, Borsani ha poi curato, come responsabile di una collana di tascabili per il melangolo di Genova, la prosa lirica Delirio amoroso (1993); e nel 2010, per Mondadori, l’opera omnia della poetessa dei Navigli: Il suono dell’ombra. Poesie e prose (1953-2009).

Laboratorio di lettura

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Tobias Wolff: analisi di un racconto


Americano di Birmingham, Alabama, Tobias Wolff è uno scrittore di magistrale finezza. Ho scelto un suo racconto minimale, Due ragazzi e una ragazza, per commentare con voi l’ingegneria della sua scrittura. Che scorre semplicissima, ma è invece costruita – frase per frase, periodo per periodo – con il calibrato uso di strumenti quali la reticenza, l’allusione, la mediazione, l’obliquità.


Cindy Williams e Ron Howard in American Graffiti di George Lucas, 1973.

Wolff riesce a creare una forte tensione psicologica nei personaggi e nel lettore raccontando un’ordinaria vicenda sentimentale, senza giudicare né descrivere esplicitamente i sentimenti e le intenzioni dei protagonisti – se non verso la fine della narrazione. A parlare sono i gesti e le azioni, i pensieri involontari, le parole che scappano di bocca senza motivo apparente, i piccoli e insignificanti accadimenti che si svolgono intorno. Il lettore non frettoloso viene catturato nella ragnatela predisposta dallo scrittore; è continuamente sfidato a completare il quadro dei significati dagli scarni e fuggevoli indizi che gli vengono forniti. Ma il bello è che i suoi personaggi sembrano trovarsi nella stessa condizione del lettore, come se non fossero troppo consapevoli di ciò che vogliono e di cosa li aspetta, e fossero in trepida attesa di conoscere, come noi, gli sviluppi della loro storia.

«Gilbert non aveva l’auto, era Rafe a guidare; suo nonno gli aveva regalato la sua vecchia ma immacolata Buick decappottabile, un premio per essere stato accettato a Yale.»

Il racconto è un capolavoro di osservazione psicologica sul mondo dei teenager. È imperniato sui rapporti fra tre amici per la pelle, quelli del titolo. I due ragazzi sono innamorati della stessa ragazza, Mary Ann. Tutti e tre passano insieme gran parte del tempo libero. Lei si è messa con Rafe, che dei due è il più fortunato sotto tutti gli aspetti (censo, possibilità economiche, successo a scuola e fra i coetanei, prospettive di studio e di carriera, etc.). Gilbert all’inizio si comporta come se non fosse geloso: subisce lealmente la situazione. Ma arriva il giorno in cui è proprio l’inconsapevole Rafe a mettere in moto il disordine dei sentimenti:

All’inizio di agosto, Rafe andò a pescare in Canada con suo padre. Lasciò a Gilbert le chiavi della Buick e lo pregò di avere cura di Mary Ann.

Che nel cuore di Gilbert si agiti un po’ di malessere lo si sospetta subito dopo:

A Gilbert questa frase sembrò la battuta che l’eroe di un film di guerra rivolge allo scialbo amico del cuore prima di partire per una missione impossibile.

Il contesto


Siamo ancora all’inizio del racconto ma già vorremmo sapere qualcosa di più sul contesto. Dove e quando si svolgono i fatti? Wolff non lo dice. Sappiamo che ha pubblicato la sua short story in una raccolta del 1996[1], ma la vicenda non si svolge affatto negli anni novanta. Siamo invece nel 1963 – lo si intuisce da più d’un dettaglio – nel periodo di vacanza subito dopo il diploma delle superiori, in un ambiente culturale e studentesco non troppo dissimile da quello descritto da George Lucas in American Graffiti.

Seattle, stato di Washington. Il faro di Alki Point.

L’identificazione del luogo è meno importante, ma combinando vari riferimenti disseminati nel testo (il bar La Luna «vicino all’università», il porto con le navi che partono per Victoria nel Canada, «il belvedere sopra Punta Alki», etc.) deduciamo che si tratta certamente di Seattle. Lo scrittore aveva frequentato la high school a Concrete, a sole 90 miglia dalla città, e l’area doveva essergli perciò familiare.

Il clima sociale dominante, spiccatamente provinciale e conservatore, è nitidamente desumibile dalle frasi e dei comportamenti del capitano McCoy, il padre di Mary Ann.

«Il giorno dopo, Gilbert scorrazzò per tutta la città da solo, al volante della Buick. Parcheggiò in doppia fila davanti a Nordstrom’s, con la capote abbassata, restò lì a fumare qualche sigaretta e a osservare tutte le ragazze che uscivano, come se ne aspettasse una.» La catena di negozi di abbigliamento Nordstrom, che allora vendeva solo calzature, apparve nelle insegne come Nordstrom’s fino agli anni sessanta. Da questo e altri riferimenti si evince che il racconto di Wolff è ambientato a Seattle. 

Born to lose


Gilbert è il protagonista principale del racconto: è sempre e soltanto dal suo punto di vista che Wolff procede nella narrazione. Come molti diciottenni il ragazzo soffre di un complesso di inferiorità, che all’occorrenza sa mascherare con pose spavalde e superflue ostentazioni di autostima. Partito Rafe, prende fin troppo alla lettera “la missione” affidatagli dall’amico e passa tutto il tempo che può con Mary Ann, portandola a zonzo con la Buick. Vanno al cinema insieme, frequentano locali e festicciole, a volte lui si attarda in casa di lei (ma niente approcci spinti, solo aranciate e chiacchiere).

Intanto si scambiano segnali che sembrano innocenti. Gilbert comincia a lasciarsi scappare qualche confessione sincera:

Aspettò un attimo, poi le disse che non era vero che lui stava cercando di decidere se andare all’università di Washington o in quella di Amherst. Avrebbe dovuto chiarire quella faccenda già da tempo. In verità non era ancora stato ammesso ad Amherst.

Quanto a Mary Ann, non tardiamo a sospettare che si diverta a sedurlo. Lo asseconda su tutto. Si appunta i libri di cui lui le parla. Al jukebox insiste con la canzone di Bob Dylan Don’t think twice, it’s all right (“Non starci a pensare due volte, va tutto bene”).

«Quella sera la portò in quel bar, La Luna, e anche la sera successiva. Entrambe le volte scelsero lo stesso séparé, quello accanto al jukebox. Era appena uscita Don’t think twice, it’s all right e mentre chiacchieravano Mary Ann continuava a mettere quel disco.» La canzone faceva parte dell’album The freewheelin’ Bob Dylan, pubblicato nel 1963.

Gilbert cerca addirittura di “educarla” – di portarla, cioè, ideologicamente al suo fianco. La famiglia di lei è molto conservatrice.

Lo ascoltava in silenzio quando lui le spiegava cosa c’era di sbagliato in Barry Goldwater[2]e nel «Reader’s Digest» e nei varietà televisivi che a lei piacevano tanto, e finiva sempre con l’ammettere che forse aveva ragione lui.

Il sentimento cresce di intensità, ma Gilbert non osa prendere iniziative. Si fa comunque strada in lui l’idea di essere contraccambiato, e aspetta da lei qualche parola o gesto risolutivo.

Certe canzoni dell’epoca favoriscono una sempre maggiore intimità fra i due. A un certo punto, in casa di lei, partono le note di Born to lose (occhio al titolo: “Nato per perdere”)[3]. Gilbert si fa coraggio e la invita a ballare:

E poi sentì che gli veniva duro, e il pene gli si rizzò contro di lei. Adesso Mary Ann avrebbe capito, avrebbe capito per forza, e Gilbert aspettò che si scansasse. Ma lei non si scansò.

Ritornano in mente Paolo e Francesca nella Commedia di Dante: «Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante.» Invece del libro qui il galeotto è un disco; ma dopo il ballo non succede niente di spinto. Sono visibilmente sopraffatti entrambi dall’imbarazzo: lei più di lui. Si siedono e riprendono a parlare del più e del meno. L’ombra di Rafe aleggia pesantemente su di loro. Si mettono infatti a parlare di lui, ma tenendosi molto alla larga dal vero problema che li interessa:

Mary Ann continuava a non guardarlo. Congiunse le mani e fissò lo sguardo su quelle.
Poi disse: Ma perché Rafe e suo padre bisticciano tutto il tempo?

Sembra una domanda qualunque, buttata lì senza pensarci troppo. Invece è densa di intenzioni laterali. Forse Mary Ann tocca quel tasto per sentirsi dire qualcosa di poco gradevole sul carattere di Rafe, e magari stimolare Gilbert, costringerlo a uscire allo scoperto. Ma Rafe, purtroppo, è inattaccabile. Entrambi devono convenire sul fatto che «Rafe è in gamba», «è uno dei migliori», anzi «il migliore». Non è dal carattere o dai comportamenti di Rafe che spunterà il magico alibi che li autorizzi a tradirlo.

«Il padre di Mary Ann, un capitano della Guardia costiera, era l’uomo più tradizionalista che Gilbert avesse mai conosciuto. Una sera mentre Gilbert e Rafe aspettavano Mary Ann, il capitano McCoy fissò i sandali di Gilbert e gli domandò con voce severa cosa ne pensasse dei beatnik.» Beatnik era il termine spregiativo con cui i conformisti più ottusi, non solo negli USA, bollavano la beat generation. Il servizio giornalistico nella foto (estratto da un tabloid britannico del 7 agosto 1960) attribuisce a Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso e William Burroughs la colpa indiretta dei disordini scoppiati a un festival del jazz.

Non riveleremo la conclusione della vicenda, che Wolff tratta con guanti da chirurgo, senza risparmiarci il colpo di scena finale. Fra i tanti tocchi di genio della scrittura c’è un repertorio di minuzie ambientali che catalizzano il crescente nervosismo di Gilbert: il suono della pendola kitsch in casa di Mary Ann, per esempio. In uno dei momenti-chiave del racconto, durante un dialogo molto trattenuto ma dai sottintesi altamente drammatici, Wolff infila un breve diversivo e noi indoviniamo che i sensi di Gilbert sono tesi allo spasimo:

Passò un ragazzino in bici, un rumore di cartoncino che urtava contro i raggi della ruota.

Mirabile. E l’unica volta che l’autore lascia intendere senza filtri il suo pensiero sulla chimica sentimentale dei suoi personaggi (e di tutti noi), è quando scrive:

Noi cerchiamo delle giustificazioni sempre con lo stesso scopo, per mostrare l’esistenza di un conflitto fra i nostri principi e i nostri desideri. Ma questo conflitto non c’era stato. I principi contano solo finché non scopri cosa vuoi davvero.

P.B.

PS – Ci scusiamo con l’autore, la traduttrice e l’editore per aver citato il testo di Tobias Wolff oltre i limiti consentiti dalle normative sul copyright. Diciamo di averlo fatto a scopo didattico. E speriamo che molti giovani italiani siano invogliati alla lettura di Proprio quella notte. Questo è il nostro sincero desiderio, anche se sui diritti d’autore abbiamo dei sani principi.



[1]The Night in Question, Knopf, New York. Edizione italiana Proprio quella notte, traduzione di Laura Noulian, 2001.
[2]Candidato repubblicano alle presidenziali del 1964, sconfitto poi dal presidente democratico uscente, Lyndon Johnson.
[3]Ci sono diverse canzoni con questo titolo, ma con ogni probabilità qui si tratta di un vecchio hit del cantante country Ted Daffan.

Laboratorio di scrittura, 1

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1. Creative writing per bambini.

Henriette Browne, A Girl Writing: The Pet Goldfinch, 1870 circa. Victoria and Albert Museum, Londra.

L’anno scorso fui richiesto di fornire istruzioni a un nipotino (allora in quinta elementare) per migliorare il suo modo di scrivere. Il ragazzino era pieno di idee ma impetuoso nella stesura, e si sperava che avrebbe potuto trarre profitto dai miei suggerimenti.

Ero scettico sulla riuscita della missione, ma mi sbagliavo. Dopo solo quattro sedute, P. era perfettamente in grado di applicare consapevolmente i miei trucchi ai suoi elaborati. Il merito era suo, naturalmente. Ma anche il merito ha bisogno di una spintarella, ogni tanto. La trottola gira meglio se la lanci in un certo modo anziché in un altro.

Se avete intorno dei bambini di nove-dodici anni, provate anche voi a condividere con loro il semplice manuale che sto per proporvi. Sappiate però che “condividere” non significa “imporre”. Il sistema può funzionare solo a condizione che sia vissuto come un gioco. Se diventa una lezione, la scommessa è persa in partenza.

E non vi venga in mente di chiamare “creative writing” il gioco in questione. Spaventa. Chiamatelo piuttosto “laboratorio di scrittura”, se ciò stuzzica l’orgoglio del giovane allievo o della giovane allieva. O come altro vi sembri efficace, scegliendo parole che non suonino minacciose alle sue tenere orecchie. Se recalcitra, non insistete e rinviate l’esperimento a tempi più propizi.

Quante sedute? Dipende dal bambino e dal suo grado di resistenza. Poche o tante, non importa. Perché i chiodi su cui battere sono sempre gli stessi. E stanno già tutti in due o tre post come questo. L’allenamento consiste nell’applicarli con perseveranza a qualsiasi tema, scolastico e non.

Bambina con gatto. Fonte: http://urvimukherjee.blogspot.it/2010_05_01_archive.html

Esercitazione n. 1

Ricerca di uno stile personale

Lo stile serve a rendere più scorrevole e più piacevole la lettura, anche quando l’argomento può sembrare poco interessante o addirittura noioso.

Ritmo

Un testo, parlato o scritto, è come una composizione musicale. È fatto di suoni e di pause. Le pause del testo hanno durate e intenzioni diverse: sono la virgola, il punto e virgola, i due punti e il punto fermo.

Per cominciare, sceglieremo un ritmo divertente e veloce. Lo chiameremo:

SWING (è un nome di fantasia e lo useremo solo noi due). Se non ti piace, scegline un altro.

1. Spezzetteremo il testo in frasi molto brevi.

2. Useremo spesso il punto fermo.

3. Andremo spesso a capo, per rendere le pause più evidenti.

Questo metodo ci permetterà di scherzare un po’ con i lettori, creando:

L’effetto sorpresa

Esempio:

Il mio gatto non è un gatto.

Un gatto che non è un gatto? Possibile?

Ma vediamo cosa succede alla seconda riga:

Il mio gatto non è un gatto.
È una gatta.

In questo caso, per sorprendere il lettore e rendere più interessante l’inizio del nostro tema, abbiamo usato un attrezzo molto speciale:

L’ironia

cioè una dichiarazione che sembra falsa ma poi si scopre che è vera, o viceversa.

Proviamo a continuare il tema sul gatto. Il nostro scopo è rendere interessante la nostra descrizione. Anche se Kitty è una gatta come milioni di altre, noi vogliamo che sembri unica:

Il mio gatto non è un gatto.
È una gatta.
Bianca come il latte. Con qualche spruzzatina di grigio qua e là.


Usiamo paragoni e metafore perché è più curioso che dire semplicemente: «È bianca e grigia». Abbiamo scritto «spruzzatina» anziché «macchia», per essere meno prevedibili e più originali. In questo modo Kitty sembra quasi un dipinto.

Spesso, per sfuggire alla banalità e alla sciattezza, è utile consultare il dizionario dei

Sinonimi

e scegliere la parola con la sfumatura più adatta a ciò che vogliamo dire.

Osservare bene prima di scrivere

Ma prima di scrivere su qualsiasi argomento, è bene osservare scrupolosamente l’oggetto del tema per descrivere anche ciò che sfugge al primo sguardo.

Procediamo:

Il mio gatto non è un gatto.
È una gatta.
Bianca come il latte. Con qualche spruzzatina di grigio qua e là.
Si chiama Kitty. Ma non ho mai capito se ai gatti interessi davvero avere un nome.
Il suo sport preferito è dormire.

Abbiamo utilizzato la parola “sport” in modo improprio: ancora una volta stiamo usando l’ironia.

Il mio gatto non è un gatto.
È una gatta.
Bianca come il latte. Con qualche spruzzatina di grigio qua e là.
Si chiama Kitty. Ma non ho mai capito se ai gatti interessi davvero avere un nome.
Il suo sport preferito è dormire.
Ciò farebbe pensare a una creatura molto pigra.
Ma non è così.
Prima di adagiarsi e addormentarsi, Kitty è attivissima.
Dovreste vedere come si impegna nella ricerca del giaciglio più confortevole.
Esplora meticolosamente tutte le superfici disponibili.
Le annusa.
Le tasta con una delle zampe anteriori, per saggiarne la morbidezza.
Ne scarta due o tre, comprese alcune che conosce benissimo e che spesso trova soddisfacenti.
Il fatto è che lei sceglie sostegni e posizioni a seconda del momento.
Progetta un particolare programma di sonno e, prima di sdraiarsi, si comporta da ingegnere.
Elabora misteriosi calcoli mentali.
Controlla le luci, le ombre, le fonti di calore (sole, radiatori, caminetto) e i suoni dell’ambiente, perché il suo riposo sia perfetto.
Compie alcune prove di posizione prima di rilassarsi.
Senza fretta.
Come se dormire le servisse a rinnovare le proprie energie.
Chiamatela pigrizia, se volete.
Per me è saggezza.
Anzi: di più. Talento.
Sì, una specie di talento strategico. Scientifico.
Kitty trascorre nel sonno intere giornate.
Anche perché di giorno è quasi sempre sola in casa.
Dormire. Cosa c’è di meglio, quando si vuole sfuggire alla solitudine e alla depressione?
Certo, se Kitty sapesse leggere potrebbe impiegare diversamente tutto il tempo che ha.
Forse sogna.
Forse sogna di leggere un libro.
Un libro di avventure feline.
“Il gatto con gli stivali”.
Oppure “Gli aristogatti”.
A proposito: somiglia un po’ a Duchesse. Nello stile e negli atteggiamenti.
Ma è solo apparenza. Di notte le piace uscire e andare a caccia di non si sa che.
Altro che Duchesse. La mia è una gatta più intraprendente.
Di notte, intendo.
Non conosco il suo lato oscuro.
Perché, quando lei va a spasso, io di solito dormo.
Non sarò più pigro di lei?

Sparare frasi brevissime e andare spesso a capo, oltre a rendere ritmica la composizione, ha il vantaggio di facilitare il compito. Non c’è bisogno di aggrovigliare il discorso e di imbarcarsi in un labirinto grammaticale: questi capitomboli è meglio lasciarli fare agli esperti (scrittori, giornalisti, professori, etc.). Il ritmo svelto che abbiamo usato suona un po’ come la lingua parlata. E questo non è affatto male, specialmente se si impara a considerare la scrittura un esercizio non solo utile, ma anche divertente.

A questo punto affidare un tema all’allievo: per esempio «Il mio cane», «Il mio zainetto», «La mia stanza», «La mia spiaggia», «Passeggiata in montagna», o qualsiasi altro argomento di cui abbia esperienza diretta. Commentare con lui, o con lei, i risultati. Se ci sono passaggi da migliorare, stabilirne insieme i contenuti.

Coraggio.


P.B. – (Continua)


Chroma. Capitolo I

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Chroma
Romanzo a colori
I.
 
 

Alluminio

A volte si ha l’impressione di emergere da un crepuscolo di antibio­tici. Il peso delle palpebre comincia a sciogliersi, la luce a poco a poco ritorna. Sei di nuovo sveglio, pronto per nuove amnesie.

Non so dirti come e quando ho aperto gli occhi in questa stanza. Non ricordo nulla dei miei ultimi bagliori di lucidità, dell’accidente o malat­tia che mi ha messo fuori gioco, del tra­sfe­rimento all’aeroporto, del volo, delle ambulanze, di chiunque mi abbia prestato soccorso e abbia deciso che solo qui avrebbero avuto la competenza e i mezzi per tentare un sal­vataggio in extremis. Non ho memoria di spostamenti, di attese, di transiti, di affanni miei o altrui; la coscienza ha subìto un oscuramento e adesso non posso fare a meno di doman­darmi se fun­zioni come dovrebbe, perché sto vivendo questi giorni in uno stato di con­fortevole sospensione, di atarassia, come se tutte le urgenze che m’incalzavano non mi riguardas­sero più.

L’ospedale è sconfinato. Ha il colore della cenere e della nebbia, ma – contro ogni apparenza – è pulito come un lenzuolo appena lavato e avvolgente come una matrioska di ovatta. Temo che queste non sa­ranno le sole metafore che dovrai sopportare: proprio tu che ne detestavi l’abuso e che spesso rim­proveravi la mia propen­sione a inventare simpatie tra oggetti, fenomeni e sentimenti che proce­devano ciascuno per la sua strada, senza alcuna voglia di incro­ciarsi o intrecciare relazioni di qualche natura. Fai bene a non venire: il posto ti deprimerebbe, se non altro per la placidità che lo go­verna. Non saprei come definirlo, anche se – senza fretta – ci pro­verò; sento come un impulso a scriverti di frequente, forse per chiarire a me stesso, prima ancora che a te, il senso di questa esperienza. Cercherò di essere parco di aggettivi, se non di metafore; qui gli aggettivi si usano con par­simonia, come tutto il resto. Se nelle prossime lettere noterai un incremento dell’aggettivazione, pren­dilo come un segnale d’allarme: il sintomo di un’avaria nel mio sistema di autocon­trollo, di un cedimento della coscienza.

Divido la stanza con altri tre pazienti, ma più dei corpi soffre la conversazione. Due degli occupanti si scambiano, di tanto in tanto, qualche frase; sono i soli che sappiano inten­dersi, credo che parlino un dialetto arabo. Più che parlare sussurrano: bisbigliano. Il quarto infermo, il più giovane della compagnia, non apre mai bocca, forse per incom­patibilità lin­guistica con i coinquilini che la sorte gli ha assegnato o, più semplicemente, perché ha deciso così. Nella stanza in cui siamo, nes­suna delle lingue che conosco o che balbetto mi è dunque d’aiuto. Il ra­gazzo tace anche nei cor­ridoi, in sala mensa, ovunque possa imbattersi in un connazionale o altri con cui gli sia possibile interloquire. Evita la comunica­zione come la peste, mentre io scambio volentieri quattro chiac­chiere con gli sconosciuti, ogni volta che ne ho l’occasione. Ho presto rinunciato a stabilire un contatto con lui; ho provato in­vece, con maggior insistenza, a usare interpreti improvvisati per ten­tare un dia­logo con i due maghrebini o mediorientali, finché ho capito che preferi­scono starsene fra loro a rimuginare chissà quali trame, sempre a mezza voce.

In questa ala dell’ospedale i pazienti sono tutti arrivati da lontano. Alle pa­reti non vedi né crocefissi né simboli di altre fedi, co­erentemente con lo spirito universale del luogo. Voci e ru­mori sono attutiti con ogni mezzo. Al personale e ai pazienti è consen­tito indossare solo indumenti forniti dalla direzione, a partire dalle felpatissime pantofole regolamentari. Se qualcuno, per eccesso di sofferenza o mollezza di nervi, si lamenta a voce alta, viene trasferito nella zona più remota della cittadella, il padiglione Z, di cui non so (nessuno sa) nulla di preciso. Forse ne hanno inventato l’esistenza al puro scopo di alimentare fantasie e supposizioni. C’è chi lo paragona ai laboratori di registrazione sonora, per il perfetto isolamento acustico ottenuto con materiali e procedimenti d’avanguardia; chi non esita a evocare le celle più oscure di un penitenziario o persino di un lager, provviste tuttavia di qualche conforto in più; chi lo immagina come un labirinto di terme imperiali, fumigante di vapori benefici e odoroso di spezie stupefacenti. Un altrove, comunque, da cui si ritorna placati nel corpo e nell’anima secondo gli ottimisti, o non si ritorna affatto secondo gli altri.

La norma è che nessuno disturbi o sia di­sturbato. In mensa e negli altri punti di ritrovo il vocío è tolle­rato (purché non si esageri), e in certe ore viene persino diffusa musica d’archi – più o meno la stessa che ci ri­lassa o perse­guita negli aerei in attesa di decollo e negli ascen­sori. La cucina non è dissimile da quella de­gli ospedali nostrani: poco o niente sale, minestrine brodose, pollo lesso e scondito, ver­dure stra­cotte, una mela. Nessuno, a quanto mi risulta, protesta.

Non posso dire di essermi fatto degli amici o delle amiche: le ami­cizie che nascono nei luoghi di cura sono forzate e quasi sem­pre prov­visorie, questo lo so. Ma ormai faccio gruppo, per così dire, con i soliti tre o quattro: un manipolo di sbandati, o semplicemente di allegroni. Il più loquace è un greco che se la cava bene con le lingue. Ha sì e no trent’anni, la ri­sata facile, indulge a qualche freddura di troppo ma non è né tedioso né superficiale. I viaggi sono la sua ossessione: per essere così gio­vane è stato in giro più di me. Progetta in continuazione itinerari bi­slacchi proponendoli a chiunque gli càpiti a tiro («una spedi­zione nel Mato Grosso, ci state?»). Per questa sua mania e il filo di barba che gli contorna il viso gli è stato appioppato il sopran­nome di Ulisse, tanto che ormai lui stesso si presenta come Ulisse, ri­dendo, e nessuno pronuncia più il suo vero nome. A volte smette di parlare per concedersi una pausa e fissa lo sguardo su un punto morto della stanza, sbadigliando. Stamattina, per esempio, fissava i vetri della finestra, che danno su un cortile grigio e privo di vegetazione.

«Non ha peso», ha mormorato.

Alludeva alla pioggia. «Senza peso, senza suono e senza vento. Linee d’acqua di una verticalità assoluta e uniforme.»

Scusa se ti affliggo con queste amenità di nessun interesse ogget­tivo invece di parlare di noi due, di te. Non mi dispiacerebbe risen­tire la tua voce ma qui dicono che le telecomunicazioni sono un disa­stro, il blackout va avanti da tempo immemorabile e nessuno azzarda previsioni sulla soluzione del problema. Non finiscono di stu­pirmi, le contraddizioni dell’isola. L’efficienza del si­stema sani­tario è senza paragoni, ma fuori da queste mura il disservizio, a quanto si sente dire, dev’essere totale. Forse è meglio così: fra noi due un certo distacco si era reso inevitabile, tu non ne fa­cevi mistero. La malattia è arrivata al momento giusto e ha deciso per tutti e due. Un colpo di saggezza della sorte, come se i numi che presiedono alla sfiga avessero avvertito il nostro disagio e si fossero impegnati a spaventarci con un fulmine più consistente.

Immagino che la degenza sia stata piuttosto lunga. Non so e non voglio sapere nemmeno da quale reparto provengo: ora sono in Neuro­logia, una tappa obbligata a quanto mi sembra di capire, una fase di re­stauro prima del congedo, un ritiro spirituale senza preghiere. Dimentica tutto ciò che credi di conoscere sull’argomento: niente terapie di gruppo, collo­qui, test; solo tranquillanti, le dosi in pro­gressiva diminuzione. Se si eccettuano alcuni casi di evidente gra­vità si ha la sensa­zione di usurpare spazio senza motivo, di spre­care risorse inu­tilmente. E non finisce qui: al parcheggio in Neu­rologia dovrà seguirne un altro, in un centro di riabilitazione esterno ma con­nesso all’ospedale.

Non ci sarà verso di abbando­nare l’isola senza un nullaosta ufficiale: il regolamento dell’istituto con­sente ai pazienti di ripartire solo a trattamento in­tera­mente concluso. I passaporti vengono requisiti all’arrivo e re­stituiti a guarigione avvenuta. Mi preoccupa il costo di quest’avventura, anche se alcuni pazienti di lungo corso mi hanno generica­mente rassicurato: il cambio, dicono, è assai favorevole alle principali valute estere. Ho intenzione di rivolgermi, oggi o domani, all’amministrazione per farmi stilare una previsione di spesa, o almeno ricevere qualche indicazione sui costi della de­genza e delle cure.

Non accuso dolori né disturbi specifici. I medici sosten­gono che il peggio è passato, riferendosi evidentemente al periodo in cui sono rimasto sprofondato in una specie di apnea. Quanto lungo? Mistero. I me­dici ruotano conti­nuamente come dervisci al rallentatore e nessuno di loro sembra interessato a ri­costruire con esattezza il decorso delle malattie. O meglio: nes­suno ama riferirne, perché a quanto vedo non trascurano di consultare, durante la visita quo­tidiana, la cartella clinica del malato di turno. Non ho in corso né pre­vedo ulteriori lungaggini diagnostiche, e ho ragione di repu­tarmi prossimo alla dimissione.

Sono tentato dall’idea di pro­lungare di una o due settimane il soggiorno sull’isola, quando tutto sarà finito: sarebbe sciocco non vi­sitarla, dal momento che sono già qui. Chiamala curiosità; o gratitudine, se vuoi. In fondo, a quest’angolo di mondo così ec­centrico rispetto alle nostre rotte consuete, alle nostre tentazioni turi­stiche, ai nostri compiacimenti safaristici, alpinistici o spiaggeschi, ora devo qualcosa. Gli devo, mi pare, una sorta di rinascita o, più propriamente, di resetting; sono sempre io, ma alquanto riprogram­mato; l’organismo ripulito dalle scorie, l’animo di una leggerezza vola­tile, senza più zavorre. Non sono mai stato seriamente ammalato prima di questa caduta, non ho precedenti ospedalieri e forse anche per questo continua a stupirmi il mio stato attuale: col corpo mi sembra di avere un rap­porto rinnovato, come se mi appartenesse da pochi giorni anzi­ché da una vita e reagisse agli stimoli senza più tener conto delle abi­tudini d’una volta; sensazioni quasi impercettibili, intendimi: im­pulsi intesti­nali spostati di mezzo centimetro rispetto ai punti in cui li avvertivo in passato, l’epicentro di piccoli tic nervosi emi­grato da un punto all’altro del cavo ascellare, la tendenza – prima occasionale, adesso più fre­quente – a tenere irrigiditi i muscoli delle braccia senza ragione. So di altri che, in periodi di convale­scenza, hanno provato percezioni analo­ghe dopo essersi sottoposti a un inter­vento chirurgico; io però non credo di aver saggiato la lama del bisturi, non vedo ferite né cicatrici in alcuna parte del corpo. Di per sé queste microalterazioni sono del tutto irrilevanti, le regi­stro come segnali di un cambiamento di natura imma­teriale più che fisica; presto attenzione alle mie fibre, alla mia carcassa, alla mia gabbia biologica sperando di rintracciarvi indizi che mi aiu­tino a definire o ridefinire chi sono, o chi sono diventato. Il mio io è tor­nato a galla dopo un azzeramento, un’interruzione imparago­nabile al semplice sonno perché più letargica; un coma dal quale la sensibilità riemerge quietamente, e adesso mi sento galleggiare come una medusa a fior d’acqua; il mio ac­quario è l’ospedale, mi ci trovo a mio agio come se ci nuotassi dentro da sempre. Sono vivo.

Non hai ragione di esser giù di morale, ammesso che tu lo sia: ne­anch’io, come puoi notare, lo sono. Le cose sono andate come dove­vano an­dare, forse persino meglio. Confido che, quando ci rive­dremo, non ci sarà più traccia delle ombre che da qualche tempo turbavano la nostra convivenza.

P.S. – Giornali, televisione, internet: l’istituto ha messo al bando questi generi di consumo. Completamente, o quasi. Una misura di protezione eccessiva, me ne rendo conto: al limite del comico. Ma se avessero ragione loro? Non passarmi notizie: voglio giocare ancora un poco a fare la parte di chi non vede, non sente, non sa. Sto cambiando: in peggio, probabilmente. Non in modo irreversibile, spero.

© Pasquale Barbella.

(Continua)


Oggetti

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Mi tengono reclusa in camera da letto, come se fossi una malata terminale. Mi piacerebbe uscire qualche volta, magari sotto la pioggia. Mi ubriacherei di respiro, fino a sentirmi viva. E questi panni che indosso, sotto l’acqua riprenderebbero colore. Bagnata mi sentirei meglio e, oltretutto, credo che mi farebbe bene allontanare le orecchie da questo tictac.

Ma ti manca una gamba, dice messer Orologio. Che importa? La gonna è fuori moda ma lunga fino ai piedi; fino al piede, per la precisione. Occhio non vede, gamba non duole. Non ricordo più il giorno dell’incidente. Qualcuno mi teneva per la gamba, a testa in giù. Non vi dico i capelli. Era l’acconciatura a preoccuparmi; per quelle come me, i capelli in ordine contano più delle gambe. Sia come sia ne persi una, la destra, e non è che da allora abbia dovuto rinunciare a camminare. Non camminavo neanche prima: intendo da sola, senza guardie del corpo. Cosa avrei da rimpiangere? Sto quasi meglio adesso. Prigioniera sì, ma almeno mi lasciano in pace.

Ho cambiato nome più volte. C’è stato un periodo in cui mi chiamavano Daisy. Non mi dispiaceva, quel nome. Suonava meglio del precedente, che ho rimosso perché mi ricordava lo sbattimento di quando sono stata venduta e comprata la prima volta. Credo non ci sia più nulla o nessuno che possa restituirmi l’identità perduta e, a dire il vero, non ci tengo un granché.

La gioventù di passaggio dice che sono ancora bella, nonostante l’età. Santa innocenza. Se almeno avessi la forza di trascinarmi fino allo specchio, potrei verificare di persona. Ma quando mi spostano dal letto è solo per sistemarmi sulla poltroncina color senape. Ammetto che lo fanno con un certo riguardo, un garbo che in passato mi era precluso. Però ancora adesso mi deprime l’idea di non poter evadere in alcun caso dal circuito letto-poltrona-letto. Beati i portafogli, le chiavi, le foto in cornice e i libri freschi di supermercato, che se la spassano tra i comodini e il comò. Io non posso neanche accendermi e spegnermi come monsieur Abat-jour.

Ti portano via, ha detto l’Orologio. Credo si sia espresso così, ma non ne sono sicura. Fa un gran baccano, notte e giorno, ma non sempre è capace di farsi capire. Non lo invidio. Sta sotto il peso di una missione pressante, quella di misurare il tempo: impegno spaventoso, dal quale per fortuna sono esonerata. E poi, è così inutile. Misurare il tempo? Il tempo sarebbe così remissivo da lasciarsi misurare? Come se il mare si lasciasse contare le gocce.

Sì, il mare – almeno quello – l’ho conosciuto. Tanti orologi fa. Intorno a me c’era una folla in costume da bagno. Molti erano sdraiati sulla sabbia, immobili come oggetti. Mi ritrovai anch’io in quella posizione, ma vestita di tutto punto. Un’onda lunga venne a lambirmi le caviglie (ne avevo ancora un paio). Vista da lontano l’acqua era blu, ma quella che venne a baciarmi era incolore. Né calda né fredda. La gente sembrava divertirsi un mondo: si tuffava qua e là, dava calci al pallone, alcuni si spingevano per farsi un dispetto, ma tutti – spingitori e spinti – ridevano in modo squillante. Una conchiglia disabitata mi sussurrò qualcosa all’orecchio. Disse che il mare, come tutte le cose del mondo, non era né bello né brutto, né felice né infelice, né grande né piccolo, né asciutto né bagnato: che tutti gli attributi dati alle cose riflettono soltanto la volontà, o l’abitudine, di chi li pensa.

Sono dotata anch’io di pensiero? Posso immaginare anch’io la durata del tempo, l’estensione del mare? Posso dire anch’io la parola che ho sentito proferire più spesso? Quella parola più breve di un soffio – “io” – eppure così carica che, a pronunciarla, sembra esplodere come un colpo di arma da fuoco?

Ho abitato, prima di finire su e-Bay e poi qui, in una ricca e ombrosa dimora, dov'ero alloggiata nella stessa stanza in cui il padrone, gentiluomo d’altri tempi, collezionava armi in una sontuosa vetrina. Non mi degnava di uno sguardo. Accarezzava i suoi fucili e le sue pistole, invece, come se si trattasse di bambole. Era così attaccato alla vita da volere per sé anche le vite degli altri: di lepri e soldati, di mogli e cinghiali.

L’Orologio si preoccupa del mio destino, come se non sapesse che il suo non è diverso dal mio. E sì che l’esperto del tempo è lui. Come fa a non capire che c’è un oggi e c’è un domani, e che il mio oggi è il suo domani, e che il suo domani potrebbe capitare all’improvviso, come un qualsiasi comunissimo oggi? Parla dell’Isola come del mio indirizzo imminente. Un’isola, a suo dire, meravigliosa: ma se è così pittoresca, perché lo dice col più triste dei suoi tic? Si è forse innamorato di me? Gli orologi hanno un cuore? O anche i cuori sono orologi? Non fanno anche loro tictac, tictac?

Dice “l’Isola” senza precisare quale. Ma io so a quale isola allude. Sarò pure una bambola, ma proprio stupida no. Il signor Orologio si crede importante come un maggiordomo, e ha preso il vezzo di rivolgersi a me in umanese. Se stai troppo tempo in mezzo agli umani, cominci ad afferrare qualcosa del loro linguaggio. Non ne capisci il senso, ammesso che ne abbia uno, ma registri i cambiamenti di suono.

Io ho capito, per esempio, che quando dicono “isola ecologica” si riferiscono al luogo che i loro genitori chiamavano in un altro modo. Meno gentile, ma più sincero.

P.B.

Cowboys

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Larry Hagman (Fort Worth, 1931 – Dallas, 2012), famoso per il ruolo del petroliere J.R. Ewing interpretato dal 1978 al 1991 nella soap opera Dallas.

Ci ritrovammo a Dallas per una convention.

Le multinazionali organizzano periodicamente incontri di quel tipo, specialmente in occasione di svolte aziendali di una certa importanza. Cambi di proprietà, per esempio. O il varo di nuove strategie di gruppo. O semplicemente per ribadire la parola d’ordine più sacra nel mondo degli affari: growth, crescita.

Gli americani spiccano per uno speciale talento liturgico nella preparazione e nella regia delle convention. A partire dalla scelta delle location, che non è mai casuale. L’argomento dominante è sempre il business, ma se si vuole fomentare l’intraprendenza creativa dei convenuti prevale la scelta di luoghi e resorts ameni, fantasiosi, sprizzanti aria di vacanza. Per questo sono stato a Sundance nello stupefacente villaggio montano di Robert Redford, a Puerto Rico a ballare sulla spiaggia e a guardare a bocca aperta miliardi di stelle, a Miami Beach a crogiolarmi al sole con i Rayban e il drink-bordo-piscina regolamentari.

Ma quando i vertici (non più di due o tre ragionieri d’alto bordo) sono talmente inquieti da non fare più mistero della propria avidità, sobillati come sono da cassandre finanziarie bravissime a sventolare il pessimismo delle cifre e contrarie a ogni imprudenza, l’imperativo categorico è spostare masse di manager in severi e stereotipati alberghi d’affari di Detroit o di Atlanta o di qualsiasi altra città ove sia presente una filiale di successo da gratificare e riverire a mo’ d’esempio.

Gary Cooper e Anthony Quinn in Ballata selvaggia (Blowing Wild, 1953) di Hugo Fregonese.

Il problema di Detroit, di Atlanta o – peggio ancora – di Dallas è che i tipici alberghi da convention, o almeno quelli in cui sono stato detenuto, si trovano in the middle of nowhere. Sono penitenziari di lusso, provvisti di sale meeting e centro fitness, ideali per il lavaggio del cervello in quanto privi di ogni via di fuga. Ti affacci fuori e ti ritrovi perduto fra autostrade, svincoli, parcheggi, stazioni di servizio: osservi sconsolato quel panorama da super-autogrill e rientri immediatamente nei ranghi, in prigione, a goderti l’aria condizionata e lo speechdel missionario di turno. Come stare in chiesa per tre giorni di messa continua, a sorbire prediche e template, bibbie d’affari sempre presentate come ricette nuove e miracolose da entusiasti quanto implacabili officianti del growth. Non ti chiedono di pregare, ma in compenso ti assortiscono in piccoli team di reclusi con cui sfornare, orologio alla mano, idee così brillanti da proiettare il network, seduta stante, al piano superiore del paradiso dei dollari. Ti tocca pure compilare liste di buoni propositi personali chiamati MBO, management by objectives, che sembrano giuramenti da inviare a Babbo Natale per implorare giocattoli in cambio della promessa che farai il bravo.

Durante questi raduni i devoti americani, ma anche i non-americani che aspirano a elevate cariche internazionali, si comportano in modo irreprensibile. Mantengono un contegno esemplare, prendono appunti, alzano la mano per fare domande. Da provetti fondamentalisti, prendono in seria considerazione le parole-chiave, gli abracadabra, le istruzioni, i rehearsal, le esortazioni al bene degli azionisti, le pseudoterapie di gruppo, i compiti in classe. Non così certi europei come gli italiani e i francesi, infedeli che fanno finta di crederci ma sempre con il sopracciglio in su, in modo da seminare nei saloni un vago sentore di scetticismo. Con cautela, però: perché si fa in fretta a cadere in disgrazia, se hai perso troppo tempo a giocare con Oscar Wilde invece di dedicarti anima e corpo ai vangeli del marketing.

Pozzo di petrolio nel Texas. Foto di Alex Webb/Magnum Photos.

Ma neanche la più austera e castigata delle location esime gli organizzatori dal procurarti i ludi serali: una cena divertente, un buffet danzante, magari un colpo di scena che ricorderai per tutti gli anni avvenire. Calato il crepuscolo, chiuso lo spaccio di omelie, strategie, mea culpa, autovalutazioni di merito, aneliti di grandezza e missioni beatificanti, puoi risorgere sotto la doccia e finalmente darti alla pazza gioia; persino spogliarti della cravatta, del Canali o del tailleur, se sull’agenda dei lavori compare la parola magica informal.

Credevo che Dallas fosse una città. Era invece uno sterminato groviglio di highway, tra cui spuntavano isolati monoliti in forma di grattacieli. Mai vista o localizzata una vera e propria downtown, ammesso che ci fosse. Nemmeno il luogo in cui era stato colpito a morte John Fitzgerald Kennedy aveva la consistenza di un quartiere abitato così come lo intendiamo noi. Nelle cartoline si ammira uno skyline di tutto rispetto, ma se vi inoltrate fra i mastodonti di vetro e cemento avete l’impressione di penetrare in un deserto arredato. In compenso c’erano ettari ed ettari di verde sconfinanti da una contea all’altra, e nell’immensità di quelle praterie si nascondevano fabbriche, ville costose, campi da golf, allevamenti, fattorie.

Un poster della serie Marlboro Country, epica pubblicità della Leo Burnett di Chicago creata nel 1960 e sopravvissuta fino alle leggi anti-fumo.

Fu appunto in un ranch che ci portarono a cena quella sera. Doveva essere una sorpresa, ma le voci ronzavano come mosche su una bistecca. Un ranch vero, con cowboys in carne e ossa, mica la solita esca per turisti. Le voci non mentivano. Era davvero un set alla O.K. Corral, anche se decisamente più moderno. Mi sarebbe piaciuto vedere le mandrie, le cavalcate, i lazosin azione, ma si era fatto buio e la vita era andata a dormire. Solo brillavano, nell’oscurità, le luci discrete della mensa, che presto occupammo fino all’ultimo tavolaccio e all’ultima sedia Old America. Mi sentivo il Texas nella pelle, il petrolio circolare nelle vene. Ero felice come un bambino, anche se non sono mai stato un maniaco della steak house. Pregustavo le sigarette che avrei fumato lì fuori, tra una portata e l’altra, come un James Dean nella quiete della sera, ascoltando l’eco di nitriti lontani.

Il ranch non aveva la licenza per gli alcolici, ma i gestori della convention avevano pensato a tutto. Al nostro seguito era spuntato, con colpevole ritardo, un furgone imbottito, dal pianale al tetto, di lattine di birra. Molti commensali applaudirono felici. I cowboys non avevano mai visto da vicino ospiti come noi. Ci tenevano d’occhio di sguincio, intimiditi e silenziosi, con lo sguardo incastrato in volti ruvidi e salini. Erano abbigliati alla John Wayne, ma senza esagerazioni superflue. Qualcuno indossava lo Stetson di rito, tutti calzavano stivali e jeans, non mancavano i camicioni a scacchi, ma i cinturoni e i revolver erano stati lasciati educatamente nelle stalle o chissà dove.

Il più loquace, dieci parole in tutto, accolse il nostro capo-gita senza un sorriso ma con una legnosa stretta di mano; e gli garantì, con una punta di malcelato compiacimento, che il manzo era stato ammazzato apposta per noi. Non ricordo se avesse pronunciato la parola today, “oggi”: che l’avesse detta o no, che importanza poteva avere? Di lì a poco avremmo accertato di persona che le costate avevano la consistenza del marmo, essendo sfuggite all’adeguato periodo di frollatura. Tentammo in ogni modo di scalfirne la corazza, affamati com’eravamo (si era fatto tardi): e giù a pugnalarle coi coltelli, i rebbi delle forchette, gli uncini degli apriscatole, i cacciavite e altri attrezzi prelevati dal furgone. Ma i muscoli della vittima, sacrificata di fresco e fatta a pezzi con la motosega per soddisfare le nostre brame, opponevano al furore necrofilo degli umani una resistenza vendicativa e irremovibile.

Erano T-bonesmonumentali, alti e massicci come fiorentine, compatti come sculture arrostite. Ciascuna dose sarebbe stata sufficiente a drogare una famiglia, se non fosse stata di acciaio o cemento armato. La dimensione suggeriva un sottomessaggio ancora più inquietante della loro tenacia: era l’unica vivanda disponibile. Dimenticate le patatine fritte, l’insalata, gli onion rings. I cowboys di Dallas erano più esperti di spiedo e bivacco che di MasterChef. E, spartani e indaffarati com’erano, non sprecavano certo il loro tempo a bollire carote.

Corbis/Illustrazione dal New York Times.

La serata trascorse lenta tra ondate di birra, barzellette e risate, ma il suono delle voci aveva un retrogusto acido, risalente com’era dal più frustrato dei ventriloquismi. Nei nostri pensieri, ormai ostruiti dal bere e dal digiuno, i ristoranti, le trattorie, i bistrot, le pizzerie apparivano e sparivano come miraggi da Sahara, da Eden, da Disneyland. Eravamo lontani da tutto, persino da noi stessi. Ubriachi di solitudine, sebbene in tanti. Ci saremmo forse rifatti, ultime energie permettendo, con una slavata omelette notturna, nel solito hotel, servita in camera da un secondino di Alcatraz in smoking.

Dovevo essere sbronzo anch’io, disteso sul letto con le scarpe ai piedi, quando mi misi a rimuginare sul fatto che i cowboys del ranch erano più simpatici dei cowboys della convention. Prima di addormentarmi scoppiai a ridere da solo, perché all’improvviso mi era tornata in mente una scena vista qualche tempo prima alla Malpensa. C’era Larry Hagman, l’attore in persona, che faceva il check-in. Era vestito da capo a piedi come J.R., il magnate della soap opera: in bianco, col solito cappello di scena ben piantato sulla testa. A furia di interpretare J.R., credeva ormai di essere J.R.

Ma anche Dallas, dopotutto, credeva di essere Dallas. Ancora penso ai bistecconi del ranch come all’unica cosa autentica che ho visto laggiù.

P.B.


Dio ci salvi dalla creatività

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Alla provocazione di questo articolo, pubblicato per la prima volta su MediaForum n. 69, febbraio 1981, vorrei aggiungere oggi una nota. Lo sfogo partiva da una crescente insofferenza verso buona parte del gergo autoreferenziale in uso nel mondo degli affari, pubblicità compresa. Ciò che non sempre è evidente è che si tratta di uno slang coniato a tavolino, molti anni fa, dagli esperti di vendita americani per sublimare ruoli professionali non ancora ben definiti. Una specie di programma retorico per giustificare il valore e il prezzo delle prestazioni. Oggi che tali prestazioni vengono sistematicamente banalizzate e sottopagate, parole altisonanti come “creatività”, “strategia” o “planning” suonano ancora più astratte e velleitarie di trent’anni fa. Credo che una riflessione critica sui gerghi di settore possa contribuire non solo allo svecchiamento di certe professioni, ma anche a una migliore percezione del loro valore.
 
Ambiguità creative. Sopra: manifesto uscito durante la seconda guerra mondiale per incoraggiare l’indipendenza delle donne e la ricerca di un lavoro che le rendesse economicamente autosufficienti. Nel remake commerciale della Clorox (sotto) la citazione diventa un triste esempio di “creatività” antifemminile.

Art director e copywriter di tutto il mondo, ribellatevi.

È giunto il momento di respingere una volta per tutte l’orrendo epiteto di “creativi”. È un’etichetta importuna e indecente, satura di equivoci e volgarità: causa tra le più tenaci di molti peccati che si commettono contro la comunicazione.

La definizione di “creativi”, applicata per antonomasia a coloro che hanno la funzione di progettare ed elaborare messaggi commerciali, va rifiutata per più d’un motivo:

1.Sottintende un’ombra di razzismo verso il resto dell’umanità. È come definire “gli intelligenti” o “i geniali” una circoscritta categoria professionale.

2.Inibisce e impigrisce i compagni d’avventura – committenti e colleghi – e li disimpegna dalle proprie responsabilità, inducendoli ad aspettarsi interventi miracolistici dai soli mattacchioni dello zoo “creativo”. Creativi devono essere anche gli addetti alla gestione, all’organizzazione, al marketing, alla ricerca, alla pianificazione, alla direzione del personale, alle segreterie, al centralino.

3.È una definizione oscillante tra il serio e il goliardico; lusinghiera ai limiti dell’adulazione, ma anche fragile per overdose di promessa. I famigerati “creativi” sono ora idolatrati a mo’ di semidei, ora tollerati con imbarazzo e sospetto, alla stregua di imbonitori o di giovani marmotte mal cresciute. Potenti senza potere, bizzarri inventori di fiabe dal suggestivo quanto instabile congegno, essi inscenano architetture da ammirare e smontare con dirompenti manovre della ragione.

4.È un appellativo che contiene in sé i germi opposti della deferenza e dell’insulto, specie in un paese dove i raffinati usano eufemismi come intellettuale, geniale, artista per darti del matto o dello scemo. Molto tempo prima di convertirmi al copywriting, quand’ero lo sbarbato magazziniere di un’officina di Potenza, il simpatico titolare della ditta dava indifferentemente dello stronzo o del poeta al malcapitato che incorresse nel suo disprezzo.

5.È un titolo palesemente selettivo, che ti colloca in modo automatico all’opposizione. La presenza di creativi in un dato organismo presuppone la convivenza con un’ampia e imprecisata classe di non-creativi. Disponete creativi e non intorno a un tavolo di lavoro e vi accorgerete di quanto labile sia il confine fra l’incontro e lo scontro, la cooperazione e il boicottaggio, la cordialità e l’ironia, l’ironia e il sarcasmo, il costruire e il distruggere. Si pensi all’annosa criminalizzazione degli account executive (Dio mio, anche questi dovrebbero un giorno mobilitarsi per un cambio di titolo!) da parte dei creativi, e viceversa.

6.È una denominazione semplicemente e completamente sbagliata. Quest’ultimo punto è ovviamente il più rilevante, e merita un capitolo a sé.

Perché “creativo” è una definizione impropria.


Cito dallo Zingarelli:

Creàrev. tr. Produrre dal nulla, spec. riferito a esseri divini: Dio creò il mondo | Far nascere q.c. di nuovo elaborando in modo originale elementi preesistenti, inventare, ideare:– una nuova teoria; – una moda: la poesia crea... con la forma il contenuto (CROCE). Ecc. ecc.

Lasciamo in pace gli esseri divini e puntiamo direttamente alla definizione estensiva. Riterrei lecito supporre che:

1.“Far nascere q.c. di nuovo elaborando in modo originale elementi preesistenti” sia appannaggio non solo dei copy e degli art, ma anche della casalinga in vena di introdurre varianti esotiche nella ricetta del caciucco alla livornese, del macellaio che allestisce con qualche intuito le sue vetrine, del piccolo truffatore che si spaccia per terremotato al fine di estorcere un sussidio. In tal senso chiunque può dirsi “creativo” e moltissime categorie di persone hanno l’obbligo di esserlo: deve essere creativo il legislatore, creativo l’industriale, creativo il sindaco, creativo il parroco, creativo l’economista; e, naturalmente, creativo il responsabile del marketing, creativo l’account manager, creativo l’esperto di media e così via (beninteso, ciascuno nel proprio ramo di attività). Che senso ha concedere il privilegio dell’antonomasia ai soli copywriter e art director?

2.“Inventare, ideare” è facile. Assai più di quanto si creda. Tutti inventano, tutti ideano. Andate dal vostro portinaio, sollecitate il suo ingegno e la sua vanità, chiedetegli un’idea pubblicitaria per la vostra birra o la vostra saponetta. Con ogni probabilità sarete costretti più a contenere che non a stimolare la sua immaginazione. Vi snocciolerà trovate assolutamente improbabili, ma più per eccesso che per difetto di creatività. Vi schiuderà un fantastico universo di asini volanti, garibaldini alla riscossa, pornografia in convento e il diavolo sa cos’altro. Ma il compito di art e copy è esattamente l’opposto: quello di controllare, selezionare, frenare, razionalizzare l’impulso creativo; di sfrondarlo, organizzarlo, dotarlo di una logica, semplificarlo, renderlo terreno e credibile, verificabile, accessibile. Fate questo semplice test: chiudete gli occhi e pensate alla campagna pubblicitaria che più vi fa incazzare. Con nove probabilità su dieci si tratta di una campagna fortemente caratterizzata in senso “creativo” (e, come tale, pervasa da un insolente fremito di irrazionalità).

Intendiamoci: questo non è un proclama a favore della piattezza.


Proprio perché è ambiguo il termine “creatività”, rischia di suonare ambiguo qualsiasi discorso su di essa. Questo articolo corre dunque il rischio di essere frainteso, non tanto perché siano oscure le intenzioni dello scrivente (gli si conceda tale speranza), quanto perché poco chiaro è l’oggetto del contendere. Il difetto di chiarezza deriva dalla consuetudine a definire “creativi” linguaggi pubblicitari di origine e segno diametralmente opposti. Per taluni è “creativa” l’Olandesina di Mira Lanza, per talaltri sono “creativi” gli annunci del Bidone Aspiratutto. Stando al dizionario, l’Olandesina è indubbiamente un concentrato di creatività pura: il simbolo della finestra, il personaggino volante, la commistione di elementi reali e cartoon sono segnali di un esercizio poetico (absit iniuria) astratto, inventivo.

Le situazioni in cui viene a trovarsi il Bidone Aspiratutto sono l’esatto contrario: “fingono” la realtà fino a confondersi con essa, mimano la notizia giornalistica, imitano sfacciatamente le tavole della vecchia Domenica del Corriere, di Grand Hôtel, della Famiglia cristiana e della remota Tribuna illustrata.

La campagna, e questo è il suo punto forte, è solo apparentemente creativa; in effetti è la negazione della creatività. È piuttosto l’accumulo intelligente di reperti concreti, la ricostruzione artigianale e molto ironica di banalissimi episodi di cronaca spicciola: il trionfo del ready made e del déjà-vu (déjà-vu non in precedenti pubblicità ma, grazie al cielo, altrove).

Abbiamo detto “molto ironica”: e cos’è l’ironia, se non una presa di posizione critica nei confronti della fiaba e del mito, un richiamo a ridiscendere a terra da un’orbita di illusioni? L’ironia è un agente chimico che corrode il mito e lo de-enfatizza, lo dissacra, lo ridimensiona, ne distrugge l’aura.

Ho volutamente citato il caso del Bidone Aspiratutto (apparecchio lodevolmente ironico fin dal nome e dall’aspetto) non solo per prendere le distanze da ciò che personalmente considero “creativo” (e quindi superfluo, fuorviante e pericoloso, oltre che sgradevole), ma anche per sgombrare il campo da un possibile equivoco: e cioè che il contrario della “creatività” sia la piattezza.

Il contrario della “creatività” è la verosimiglianza o, meglio ancora, la verificabilità concreta del dispositivo che abbiamo congegnato. Ciò non implica necessariamente la rimozione aprioristica di soluzioni simboliche, o persino surreali, a favore d’un assoluto e imperativo realismo: c’è spazio illimitato alla libertà d’immaginazione. La concretezza qui auspicata riguarda piuttosto i raccordi logici all’interno del quadro rappresentato, il ruolo autentico e il peso emotivo o reale dell’oggetto pubblicizzato e dei suoi benefici. Se faccio volare una capra in uno spot – magari citando lo stile e i colori di Chagall – per promuovere la vendita d’una collana editoriale di antiche leggende popolari, mi avvicino a una forma di pertinente poesia. Se faccio volare la capra per evocare la superleggerezza alimentare del formaggio caprino, mi abbandono alla pigra ripetizione d’un codice simbolico non solo fin troppo sfruttato, ma privo di qualsiasi attendibile connessione con l’universo mentale dello spettatore contemporaneo. È opportuno sottolineare ancora una volta che la ricerca di soluzioni di comunicazione in direzione della concretezza, intesa come sistema di relazioni attendibili con il pubblico al quale ci si rivolge, non ha nulla a che fare con l’impoverimento del pensiero e il trionfo della banalità. Richiede anzi un doppio coraggio: quello delle idee, e quello di un’ingegneria capace di sostenerle.

In altri termini, il rifiuto della “creatività” e della sua astratta arroganza non semplifica affatto il compito dell’artigiano pubblicitario; semmai lo complica. La sua tendenza all’invenzione dovrà incanalarsi entro binari più stretti, entro territori più chiusi: la sfida consisterà primariamente nel conferire un ordine rigoroso al bizzarro groviglio di fantasie, nell’imporre un limite e una cornice al disordine creativo. L’art e il copy di razza lavorano per esclusioni, per sottrazioni, per “levare”. Sono, o dovrebbero essere, dei selettori, dei depuratori di creatività: altro che “creativi”.

La pubblicità è un immenso impianto di riciclaggio: un imbuto nel quale entrano non solo le mode, le idee, le creazioni altrui, ma anche le problematiche del vivere e i mutamenti più profondi che le determinano; e dal quale escono, scomposti e anagrammati, ingredienti riconoscibili, riassemblati per formare nuovi puzzle. Al centro di tutto questo lavorío dovrebbe esserci sempre l’essere umano (prima ancora di questo o quel prodotto a lui destinato), con i suoi bisogni, i suoi sentimenti, la sua intelligenza di base – non importa quanto offesa dal dilagante marketing della cosiddetta “cultura di massa”. Si badi bene: l’essere umano, non quell’astratta sottospecie che liquidiamo come “consumatore”.

Sesso degli angeli?


Ultimo equivoco da cui desidero cautelarmi mettendo, come si suol dire, le mani avanti: mentre disquisisco su ciò che è creativo e su ciò che non lo è, non intendo affatto crogiolarmi in uno sterile tema da bassa accademia. La questione è frivola ma vitale al tempo stesso. Dietro cincischiate sembianze, adombra problemi di accertata gravità: come la scelta dei linguaggi, il rapporto tra utenti e agenzie, la corretta impostazione generale del nostro lavoro.

Non è poco. Spero che altri, con maggiore freddezza e minor livore, e cioè con meno “creativa” esuberanza, vogliano far luce nell’oscuro caos di conflitti che da sempre si agitano, mascherati di sublime cortesia e apparente benevolenza, sul ring di chi produce idee e di chi le sega.

P.B.

PS - Negli anni ottanta, una rivista d'opinione (forse Panorama, ma non ne sono sicuro) intitolò così un servizio sui pubblicitari più in vista del momento: «Vieni avanti, creativo!». Val la pena di ricordare, soprattutto ai più giovani, che quella frase era il ricalco di un tormentone da avanspettacolo inventato dai comici Fratelli De Rege negli anni trenta, poi ripreso ripetutamente in TV dalla coppia Carlo Campanini-Walter Chiari e infine nel titolo di un film con Lino Banfi: «Vieni avanti, cretino!». 

Laboratorio di scrittura, 2

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Laboratorio di scrittura per bambini
Seconda parte del gioco


C’era una volta un pezzo di legno


Incipitè una parola latina che significa “Comincia”. Terza persona singolare del verbo incipĕre (cominciare).

In letteratura, “incipit” è l’inizio di un testo. Le prime frasi.

Se l’incipit è banale, il lettore sbadiglia subito e non si sente invogliato a proseguire nella lettura.

Cominciare bene un testo è dunque fondamentale. Non solo quando si scrive un libro, ma anche quando si prepara un articolo di giornale o un tema scolastico.

Pensa alla povera maestra o al povero maestro, costretti a leggere e correggere venti temi o esercizi noiosi. Meglio facilitargli il compito, sorprendendoli con qualcosa di insolito.
Geppetto e Pinocchio.

Incipit di libri famosi

Il primo capitolo di Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, uno dei libri per ragazzi più famosi del mondo, comincia con questo titolo:

Come andò che Maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.

L’effetto sorpresa è assicurato. Possibile che un pezzo di legno possa piangere e ridere come un bambino? Inizio molto promettente! L’occhio incuriosito passa subito alle righe successive:

C’era una volta...

– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.

– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

In questo incipit, Collodi usa alcuni dei trucchi di cui abbiamo parlato nell’incontro precedente:

1. Predispone un effetto sorpresa;

2. Prepara una trappola ai lettori per coinvolgerli in una specie di gioco, rivolgendosi direttamente a loro.

3. Usa l’ironia per rendere la lettura più divertente.

Naturalmente ho usato la parola “trappola” in senso metaforico. Scrivere per farsi leggere è come “catturare” l’attenzione e l’interesse di qualcuno. E le trappole, per l’appunto, sono fatte per catturare una preda.

Quella di Pinocchio è una favola, ma è scritta in modo diverso dalle solite favole. Quelle cominciano spesso con “C’era una volta un re”, “C’era una volta una principessa”, “C’era una volta un bambino”, eccetera. Qui invece l’eroe sembra essere “un pezzo di legno”. Il lettore si incuriosisce e continua a leggere per capire come fa un semplice pezzo di legno a sostenere una storia di oltre duecento pagine.

Inutile aggiungere che tutto il libro è appassionante come le prime righe. Per questo è diventato un classico, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo.
Tom Sawyer in una illustrazione di Jack Woodson.

Un altro famoso romanzo per ragazzi, Le avventure di Tom Sawyerdello scrittore americano Mark Twain, comincia come un film:

– Tom! Non risponde. – Tom! Non risponde. – Dove si sarà cacciato quel ragazzo? Dico a te, Tom!

Tom Sawyer è un ragazzo di dieci anni molto irrequieto. Non dà mai retta alla zia, che lo adottò quando era piccolo, alla morte dei genitori. Tom non esita a ingannare le persone per raggiungere i suoi scopi, come quando ruba la marmellata alla zia o, per non dipingere lo steccato, usa uno stratagemma per farlo dipingere dai suoi amici, convincendoli a lavorare a pagamento.

L’incipit del libro, dicevo, è come l’inizio di un film: immaginiamo qualcuno (la zia) che chiama un ragazzino disubbidiente, uno che non risponde perché fa sempre i cavoli suoi.
Scrooge (dal film di animazione A Christmas Carol di Richard Williams, 1971).

Ora leggiamo un altro incipit, quello del Cantico di Nataledello scrittore britannico Charles Dickens:

Marley era morto, tanto per cominciare. Non c’era dubbio su ciò: il suo atto di morte era firmato dal pastore, dal coadiutore, dall’uomo delle pompe funebri e dal responsabile della cerimonia funebre. L’aveva firmato anche Scrooge, ed il nome di Scrooge valeva per qualunque cosa su cui egli decidesse di metter mano. Il vecchio Marley era morto come il chiodo di una porta.

“Marley era morto”. Non sappiamo chi sia questo Marley, ma vorremmo saperlo.

“Morto come il chiodo di una porta”: metafora efficace e divertente, sebbene si stia parlando di un morto.

Lo stile appare subito ironico: a Dickens non basta scrivere che il vecchio Marley è morto (“come il chiodo di una porta”), ma cita ben quattro testimoni per rendere assolutamente credibile la sua morte.

Naturalmente ci saremmo accontentati delle prime tre parole (“Marley era morto”), e gli avremmo creduto subito. Ma Dickens vuole anche creare l’atmosfera del momento. Come in un film, ci sembra proprio di vedere in azione il prete, il suo assistente e quelli che si occupano dei funerali. E siccome sappiamo già che il romanzo è stato scritto nell’Ottocento, ce li figuriamo vestiti come ci si vestiva in quel periodo, in un ambiente scarso di luce perché ancora non c’era la luce elettrica.

E continuiamo a leggere perché non solo vogliamo sapere chi fosse il morto, ma anche chi sia questo Scrooge, così importante, così rispettato, così potente.

Mai dire tutto e subito


Quando si scrive una storia, o anche un breve tema scolastico, il segreto sta nel dire le cose un po’ alla volta, senza precipitarsi verso il finale.


Bisogna giocare a nascondino col lettore: adesso ti dico solo un po’ di quello che so; se vuoi conoscere il resto, devi continuare a leggere. Ti rivelo, a poco a poco, come va a finire. Come in un giallo, anche se non si tratta per forza di una storia poliziesca.

L’effetto peggiore, quando si scrive, è mettere il lettore nella condizione di indovinare dove vai a finire. Se ciò accade, è perché il testo non è abbastanza “misterioso”. Il lettore, insomma, deve essere un po’ ingannato; bisogna fare in modo che lui creda in una certa svolta del racconto, e farlo sbagliare.

Facciamo un esempio. Tema scolastico. L’arrivo della primavera.

Ieri ho visto arrivare la primavera. C’era un gran freddo e scendeva una pioggerella fitta, mista a neve.

L’ho vista per caso, all’aeroporto della Malpensa.

Appena scesa dalla scaletta dell’aereo, si è vista offrire un ombrello e un gran mazzo di rose da un gruppo di tizi che l’aspettava sulla pista.

C’erano anche una ventina di fotografi e giornalisti, armati di macchine fotografiche, videocamere e microfoni. L’hanno circondata e tempestata di flash e di domande.

Sebbene stanca e sopraffatta dai seccatori e dal maltempo, la passeggera era bella, simpatica e paziente. L’ho riconosciuta subito, perché è una delle mie attrici preferite. Ogni volta che mi capita di vederla al cinema o in televisione, penso: «Ecco, la primavera deve essere così.»

Naturalmente siamo in pieno inverno. Per questo la primavera indossava un pesante cappotto e un cappello di astrakan.

L’attrice Emma Watson, che impersona Hermione Granger nei film della serie Harry Potter.

Ladra di libri

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Storia di una ladra di libri

di Olivia Barbella

Facendo un po’ di surfing in rete, curiosando in acque australiane – la parte di mondo in cui è nato e vive Markus Zusak – ho visto cose, letto stralci che mi hanno fatto riflettere su The Book Thief, il best seller da milioni di lettori e decine di lingue che sta andando a ruba un po’ dappertutto. Tanto per capirci, c’è chi ne parla come del libro che gli ha cambiato la vita, e chi ha l’illustrazione di copertina dell’edizione inglese tatuata sull’avambraccio.
Markus Zusak (Sydney, 23 giugno 1975) è uno scrittore australiano, noto per La ragazza che salvava i libri (The Book Thief, 2005) e The Messenger (2002), due romanzi destinati ai ragazzi che sono diventati bestseller internazionali. Ha vinto il premio Margaret Edwards nel 2014 per i suoi contributi alla letteratura per ragazzi pubblicati negli USA.

Avendo appena finito di leggere il romanzo (il film non l’ho ancora visto), butterò giù qualche pensiero a caldo, cercando di chiarire quali siano le ragioni del suo successo, i suoi aspetti di innegabile fascino; ma anche i motivi per cui non mi tatuerò il frontespizio dell’opera né sull’avambraccio né altrove.

Storia di una ladra di libriè un romanzo storico e di formazione ambientato nella Germania nazista durante la seconda guerra mondiale, per lo più fra il 1939 e la fine del 1943 (ma con qualche strascico in periodi successivi). Liesel Meminger ha nove anni quando vede morire il fratellino e viene affidata a un’altra famiglia dato che la madre, perseguitata perché comunista, non può più prendersi cura di lei. I nuovi genitori, di estrazione sociale molto modesta, conducono una vita sempre più precaria a mano a mano che la morsa della guerra si fa più asfissiante. Nonostante ciò, e nonostante i terribili rischi a cui si espongono, non esitano a tenere nascosto in cantina un ragazzo ebreo per più di un anno, evitandogli almeno per un po’ di essere deportato a Dachau. Senza entrare troppo nei dettagli del plot, per non rovinare la lettura a nessuno, dirò che l’epilogo della vicenda sarà tragico, ma non in assoluto.

Il contesto descritto e i personaggi che abitano il libro servono a rievocare un periodo storico cupo, segnato dall’orrore della guerra, dalle aberrazioni dell’ideologia nazista e dalla barbarie della “soluzione finale” antisemita. In un clima in cui molti tedeschi offrirono spontaneamente il loro consenso a Hitler. Ma a tutto questo si contrappose (o cercò di farlo) la parte sana della società, la parte buona, la parte che lottò coraggiosamente per mantenersi umana. I protagonisti del libro ne sono un campione esemplare: i coniugi Hubermann (genitori adottivi della protagonista), Rudy Steiner con la sua famiglia, e Liesel.

Liesel è colei che ha capito il potere delle parole, quindi dei libri. Un potere che può essere sia negativo – come le parole del Führer e dei discorsi della propaganda nazista –, sia positivo, che può funzionare come chiave per entrare nelle dimensioni creative (profondamente umane) di fantasia e poesia, e come talismano salvifico per resistere alle brutture della storia. Dal momento in cui acquisisce questa consapevolezza, cioè dal funerale del fratello quando raccoglie dalla neve il Manuale del necroforo caduto di tasca al becchino, Liesel non perde occasione di acquisire nuovi libri alla sua esigua collezione. Non li vuole tanto per averli, ma per leggerli e rileggerli: a sé stessa nelle lunghe notti divorate dagli incubi per tenere lontani gli spettri che la spaventano; a Frau Holtzapfel per lenire l’angoscia di avere due figli al fronte; agli altri abitanti della via riuniti nello scantinato per distrarli dal panico dei bombardamenti.

A ben guardare Liesel non è una vera ladra di libri (sono più numerosi i furtarelli di frutta e cibo compiuti con i suoi coetanei); dei dieci che arriva a possedere solo un paio sono propriamente rubati: ma un paio bastano a giustificare il titolo del romanzo, che ha un certo potere magnetico. Titolo, The Book Thief, che nella sua versione originale è peraltro molto più icastico, pertinente ed efficace di quello della traduzione italiana, Storia di una ladra di libri.

Il libro, pubblicato in Australia nel 2005, era già uscito in Italia nel 2007 con il titolo La bambina che salvava i libri. La foto di copertina ritraeva una Cappuccetto Rosso in un bosco innevato. Nascosto tra gli alberi ci si poteva immaginare il lupo cattivo.

Ma con la riedizione italiana del romanzo, dopo il successo del film che ne è stato tratto, si è provveduto a un poderoso restyling: la “bambina” è cresciuta, ha assunto le belle fattezze dell’attrice Sophie Nélisse e ti guarda fisso negli occhi mentre dietro di lei sono ben visibili gli stendardi con le svastiche e un rogo nazista di libri. Questo nuovo look, oltre a comunicare esplicitamente che si tratta di un romanzo storico, esercita sicuramente un maggiore appeal sui plotoni di aspiranti lettori/possibili acquirenti.
La riedizione Frassinelli riporta in copertina un’immagine dal film ricavato dal romanzo e diretto da Brian Percival con la giovane attrice Sophie Nélisse.

Il vecchio titolo italiano aveva comunque una sua ragion d’essere, in riferimento a una delle scene-chiave del romanzo: quando Liesel salva un libro dal rogo. Non importa se il libro è del tutto insignificante (Un’alzata di spalle è il suo titolo); è la potenza simbolica del gesto che conta e che contribuisce a creare il sistema dei significati dell’opera.

Il significato dell’opera si costruisce in relazione alla netta antitesi fra Male e Bene, morte e vita, inferno e paradiso; dove la polarità negativa di ogni coppia si riferisce ovviamente al nazismo e alla guerra, mentre la polarità positiva rimanda a solidarietà, altruismo, amicizia, amore, letteratura e musica (Hans Hubermann è un ottimo fisarmonicista), capacità di rimanere umani e degni di questo nome. Questa antitesi si riflette anche nella spazialità del romanzo: infatti nel contesto di una Germania in guerra, che per le città bombardate, i roghi dei libri e i lager assomigliava moltissimo all’inferno, la vicenda è ambientata a Molching (una cittadina non lontana da Monaco, che tuttavia nella geografia reale non esiste), nella Himmelstrasse, vale a dire la “strada del Paradiso”. Proprio lì, al numero civico 33 (doppio numero perfetto), c’è la casa degli Hubermann dove Rosa e Hans compiono il “miracolo” di custodire Max Vandenburg in clandestinità e Liesel, quasi creatura angelica, si dedica a coltivare l’arte delle parole. Anche nella piccola collezione della ragazza è presente la tensione fra le due polarità, con tutti i libri – soprattutto i due composti per lei da Max – idealmente contrapposti al MeinKampf.

Tra i personaggi ce ne sono di indubbiamente ben tratteggiati come la stessa Liesel, l’ex pugile ebreo Max Vandenburg, Hans – ma anche Rosa – Hubermann e Rudy Steiner, il vivace amico con cui la protagonista gioca a calcio, ruba frutta, entra nella proprietà del sindaco per sottrarre libri dalla biblioteca della moglie. Questo personaggio (Ilsa Hermann), che ha un ruolo importante nell’intreccio, non mi sembra invece particolarmente convincente: all’inizio è una specie di fantasma demente che poi, in modo inspiegabile e improvviso, rivela una sua personalità intraprendente. Neanche Frau Holtzapfel, la vicina di casa che sputa sulla porta degli Hubermann ogni volta che ci passa davanti, né suo figlio sofferente della sindrome del reduce che finirà suicida, riescono a staccarsi dalle pagine del libro per vivere di vita propria.

Fra i personaggi che rimangono più impressi, il più simpatico per me è Rudy Steiner, il ragazzino innamorato di Liesel che riceverà un bacio da lei quando sarà troppo tardi. Proprio in relazione alla sua vicenda la prima edizione del romanzo ha in copertina il gioco del domino.

In una bella scena del libro Rudy infatti sta giocando in camera con le sorelline, mentre in cucina i genitori si rifiutano di consegnarlo ai nazisti che vogliono destinarlo alla formazione militare per le sue qualità intellettuali ed atletiche. Al suo posto parte il padre, senza prevedere che a volte il fato agisce secondo la sua necessità, come in una tragedia greca. Il gioco del domino è una metafora interessante sulla catena di azioni e reazioni; scelte e conseguenze non sempre dominabili.

Ma veniamo al vero punto della questione. La qualità di un’opera, al di là della storia, dei contenuti e dei messaggi che essa esprime, dipende dalle tecniche narrative e stilistiche con cui l’autore la struttura, e fra queste tecniche soprattutto conta la configurazione dell’io narrante. Qualsiasi lettore consapevole se ne sarà certamente reso conto. A questo proposito, Markus Zusak ha avuto un’idea geniale, originalissima: il narratore è (la) Morte. Essa considera la storia da un punto di vista duplice: il proprio e quello di Liesel. Morte è quasi onnisciente di per sé, conosce vita e morte (appunto) dei personaggi, aleggia ovunque e a maggior ragione in un paese in guerra dove ha molto da fare. Inoltre si avvale delle memorie raccolte nel libro manoscritto da Liesel, che la ragazza ha dato per distrutto nel bombardamento di Molching, ma che invece Morte aveva trovato, letto e condiviso con il lettore.

Sull’originalità della scelta del narratore puntano alcune copertine dell’edizione inglese del romanzo, graficamente accattivanti.


L’idea di far narrare la vicenda a Morte avrebbe potuto rappresentare il punto di forza indiscutibile del romanzo; ma secondo me ne costituisce invece l’aspetto critico. Per tre motivi.

Innanzitutto Morte esce subito allo scoperto, fin dalla prima pagina, mentre si sarebbe potuto giocare sull’implicito, dosare indizi e reticenze in modo da tenere il lettore sulle spine e poi sorprenderlo con un’agnizione da brivido. Qui invece il narratore si presenta fin dalla prima riga, tenendo a spiegare che quella che sta per raccontare è una storia speciale.

In secondo luogo questa Morte conduce la narrazione con un tono da conversazione confidenziale e ironico (“Sono perseguitata dagli esseri umani”), ciarliero e affabile; qualche volta troppo simile a quello di un’impiegata che si lamenta con le colleghe dell’eccessivo lavoro a cui il capo (la guerra) la sottopone. È insomma una versione molto addomesticata di Thanatos. Ciò comunque è frutto di una scelta intenzionale dell’autore, come si legge in una sua nota facilmente reperibile in rete:

“When I first brought Death into the story, he was sinister. He enjoyed his work a little too much. For months I wrote in this way and again I was falling short in some aspect I couldn’t understand. When I took a break from the book, I was sitting down on the back step and it hit me that Death should actually be afraid… of us. The irony of this was exciting, and it made perfect sense. Death is on hand to see the greatest crimes and miseries of human life, and I thought, What if he tells this story as a way of proving to himself that humans are actually worthwhile?”[1]
Infine, essendo Morte una chiacchierona impaziente di raccontare, eccede nel mostrarsi praticamente onnisciente, lasciandosi andare a troppe anticipazioni sugli sviluppi della storia e il destino dei personaggi. Questo suo vizio appaga immediatamente la curiosità di chi legge, neutralizzando il piacere anche inquieto dell’attesa e azzerando completamente la tensione narrativa. Eppure la Morte dovrebbe avere il senso della sorpresa e del colpo di scena. Oltretutto la narratrice continua a intervenire con postille (di anticipazione, commento, traduzione di parole tedesche o citazione) che spezzano il continuum testuale e soprattutto il ritmo della narrazione. Per ogni postilla un calo di tensione narrativa. La Morte ha ucciso la suspense: ecco il vero dramma del libro.

O.B.

[1] Nella prima stesura, Morte era un personaggio sinistro. Prendeva troppo sul serio il suo mestiere. Andai avanti a scrivere così per mesi, ma con un senso di insoddisfazione di cui non riuscivo a comprendere la causa. Quando, per riprendere fiato, mi concessi uno stacco dal libro per ripensarci su, mi colpì l’idea che Morte avrebbe dovuto, in realtà, aver paura... di noi. C’era in questo pensiero un’ironia eccitante, ma non irragionevole. La Morte è chiamata in causa ogni volta che il genere umano commette i suoi crimini più mostruosi, e per questo mi chiedevo: e se raccontasse questa storia per provare a sé stessa che l’umanità non le è affatto da meno?


Chroma. Capitolo II

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Chroma
Romanzo a colori
II.




Orosabbia


Presto sarò fuori: domani o dopodomani, forse. Non vedevo l’ora di uscire, ma adesso sono un po’ teso. L’ospedale ti protegge come una pri­gione. Non devi preoc­cuparti di nulla finché sei dentro. Nell’abbraccio delle sue mura. Il fuori mi allarma ed eccita al tempo stesso. Come sarà, la me­galopoli ignota? Uguale a quella che vedo dalle finestre – un ibrido di Bucarest e Cinisello Balsamo, ma più sbiadito – o una specie di Città del Messico, un incastro di avenidas caotiche e pueblos pittore­schi, rovine pre­colombiane e barocco coloniale, ba­zar e canti­nas? Me la caverò con lo spagnolo? Quanto tempo mi toccherà trascorrere al cen­tro di riabilitazione, e di che tipo di cli­nica si tratta? Qui non ti dicono niente di niente; non ti fanno mancare nulla, si pren­dono cura della tua manutenzione ma quanto a rivolgerti la parola, zero. Un’officina meccanica, dove la mac­china da riparare sei tu. Alle domande rispondono evasiva­mente, un monosillabo, un’alzata di spalle, un impegno improv­viso, al massimo un «non saprei, non me ne occupo io.» Cono­scono molte lingue ma è come se non glie ne servisse nes­suna, a giu­dicare dallo scarso uso che ne fanno. Sono ignaro di quanto mi attende; solo una cosa so: vado incontro a un periodo imprecisato di solitudine forzata, mi mancherà la compa­gnia di squin­ternati capeggiata da Ulisse – goliardi che ti mettono di buonu­more nonostante l’austerità dell’ambiente. Ogni giorno, scortato da qualcuno dei suoi, il greco invade gli spazi al­trui di­vertendosi a violarne la quiete, a demolirne le difese, a in­ter­rom­perne il tedio.

I pazienti inibiti, introversi o scontrosi sono quelli che eccitano maggiormente la sua verve. La mia stanza è di­ventata uno dei suoi teatri d’elezione, a causa del campionario umano che vi soggiorna. Non esita a sfottere alle­gramente i due arabi: «Come stanno oggi i miei talebani?», in mezza dozzina di lingue nella speranza che almeno una perfori l’invisibile barriera fonoassorbente dietro la quale hanno deciso di acquattarsi; e quelli subiscono ma lo guardano con gli occhi appannati da un torbido velo, come a volerlo sgozzare da un momento all’altro. Ma è il ragazzo taciturno a mobilitare più intensamente la curiosità e l’interesse di Ulisse. Riuscire a scuo­terlo, a strappar­gli una parola o un gesto è ormai una que­stione d’onore per lui. «Do you speak English? Français? Espa­ñol? Giuro che ti farò cantare come un fringuello, uno di questi giorni», e simula  adescamenti femminei con la promessa, o la minaccia, di infi­larsi nel suo letto e palpeggiarlo dappertutto fino a farlo ridere, godere o gridare «basta!». Devo essermi lasciato scappare un commento stupido, una di quelle allusioni all’omosessualità di cui si abusa non tanto per giudicare il prossimo, quanto per dimostrare di essere spiritosi. Mi ha rivolto uno sguardo di commiserazione, replicando che il mio atteggiamento è tipico di chi ancora si ostina a in­scato­lare il prossimo in mezza dozzina di categorie. «Si è sempre qualcosa di più di ciò che si fa. Ma se proprio ci tieni a sapere da che parte sto, ti rispondo che dipende: dipende dal soggetto di cui m’innamoro. Al momento sono innamorato di questa sfinge ameri­cana che si rifiuta di dirci persino il suo nome.»

«Cosa ti fa pensare che sia americano?», gli ha chiesto Derek, uno dei suoi compagni di scherzi: uno skinhead di Chi­cago dalla brutale massa muscolare.

«Non vedi che quando entri tu il suo sguardo si illumina?»

«Mi troverà simpatico. È muto, ma questo non vuol dire che sia scemo.»

«Non è muto, non è scemo e non ti trova necessariamente simpatico. Ti guarda così per nostalgia del baseball e degli hot dog.» Non sai mai quando Ulisse scherza o parla sul serio, ma tutti ci siamo messi d’istinto a scrutare lo sguardo del silente nella speranza di cogliere qualche reazione a quanto si dice o succede intorno a lui.

«Ahà! Vi ho beccati!», ha esultato Ulisse puntando l’indice contro gli altri due occupanti della stanza (palestinesi? alge­rini? iraniani?). «Persino i talebani bruciano dalla voglia di scoprire la nazionalità di Smith il taciturno.» In effetti i due cupi coinquilini prestavano attenzione al gioco con malcelata curiosità, sebbene i loro volti fossero contratti come al solito.

A un certo punto il greco ha spostato l’unica sedia disponibile in prossimità del ragazzo, vi si è accomodato con l’aria di chi non ha fretta e chinandosi verso di lui gli ha detto: «Lo capi­sco il tuo atteggiamento. Ci sono passato anch’io. Per mesi ho pen­sato che il silenzio non solo giovasse ai miei nervi, ma mi aprisse meglio di qualsiasi altro trucco la mente intorpidita. Per poi rendermi conto che era una sublime idiozia. Adesso fammi un favore: apri le orecchie e non t’addormentare. Ti racconterò una storia vera.»

Il ragazzo è rimasto sveglio ma non so se e quanto fosse interessato al racconto di Ulisse. Nemmeno so dirti se la vicenda narrata da Ulisse fosse autentica o inventata di sana pianta. Ma l’ha raccontata così bene (in inglese) da lasciare ammutoliti anche Derek e me. Sono certo che neanche i “tale­bani” si sono persi una virgola di quel monologo da attore con­sumato. Il suo linguaggio ha cambiato registro: da colloquiale si è fatto letterario, aulico, ispirato, e la sua espressione si è come allontanata da noi e dal corpo suo stesso per ritrarsi in una specie di trance. Persino il timbro della voce ha assunto sfumature non sue, risonanze di colore metallico e scuro. Rico­struisco qui il suo racconto con parole mie, ma si tratta di una versione esangue rispetto all’originale.

«In età ancora incerta, rimasto orfano ad aggirarmi per stanze troppo va­ste e ingombre di legni, metalli, stoffe e altri ricordi ina­ciditi e canforosi, de­cisi di andare per qual­che tempo a governare la mia inquie­tudine in luoghi più astratti. Raccolsi con me poche e povere cose utili alla sopravvi­venza del corpo, e invece molto peso di libri scompagi­nati e quanto restava di altre carte rubate ai roditori della cantina; e con tal miserabile carico intra­presi il mio viaggio verso quella parte del Marocco che confina col deserto. Volevo temprare la parte vul­nerabile di me — che di gran mi­sura superava la più solida — e mi misi in cerca di un rifugio adatto al mio stato d’animo: un ritiro della specie cara a chi spera di ascol­tare, nel si­lenzio degli uomini, la voce di Dio, e dove i più spe­ri­men­tano invece la stellare grandiosità della sua as­senza.
  
Dopo sofferto girovagare trovai il riparo che cercavo oltre i limiti estremi d’un borgo abbandonato: un eremo in rovina, si­tuato a ragionevole distanza dalle piste dei carovanieri. Le due o tre stanze ri­ma­ste in piedi si tenevano fresche no­nostante il tor­rido incombere della tem­pera­tura diurna, e correggevano con op­posta indulgenza l’improvviso ragge­larsi dell’aria allo spuntare della luna. Nel cortile interno, i fusti di due palme appassite svet­tavano fra macerie sepolte dalle sabbie del tempo e del de­serto; ma il centro di quel mondo prosciugato si affac­ciava sull’orlo di un pozzo vertiginoso, in fondo al quale permaneva miracolosa­mente il fremito dell’acqua. Di prima mat­tina, se le provviste di cibo davan segno di scarseg­giare, controllavo il paesaggio circo­stante dal sommo di una sbricio­lata tor­retta, per vedere se nell’im­mensità di quegli spazi appa­risse movimento di mercanti. Il loro pas­saggio non era poi così infre­quente. Una o due volte alla setti­mana vaga­vano per villaggi isolati ma meno desolati del mio, che per qual­che oscura ra­gione non ospitava più i figli suoi; e non era difficile rag­giun­gerli per ri­fornirsi di tè, caffè, carne secca o arro­stita al momento, dat­teri, ra­metti di menta, spezie.  
Il periodico incontro coi mercanti, ritardato una volta sola a causa di una turbi­nosa tempesta di sabbia che imperversò per tre giorni e tre notti, fu in tutti quei mesi l’unico movente delle mie sbrigative escursioni. Avevo imparato ad amministrare con giudi­zio i miei risparmi e a non farmi deru­bare più del necessa­rio, in­tavolando coi venditori trattative ce­rimoniose ma, al fondo, spie­tate; il mio accento straniero e il mio modo di indurli al ri­basso, peraltro, sembravano divertirli fino alla più incontenibile ila­rità, sebbene di tanto in tanto riuscissero a fre­nare il canto acuto delle risate per fin­gere il più umiliato e offeso dei contegni.  
Ma è tempo di farti conoscere, sia pure sommariamente, a quali cure dedi­cassi una così studiata solitudine.  
I libri e le carte che mi ero trascinato ap­presso con tanta fatica, e che finalmente potevo sfogliare e districare dal caos in cui giace­vano da un’e­ternità, erano appartenuti al padre di mio pa­dre, che io non avevo mai visto né vivo né morto; solo sapevo di lui ch’era stato ruvi­dissimo uomo di mare, in fuga da ogni patria e da sé stesso, e che do­veva aver concluso i giorni suoi fra bet­tole e prigioni di non so quale Ame­rica, non più amato né amante di nessuno. I topi ave­vano divorato angoli abbondanti di volumi, mappe e registri; que­sti ultimi, compilati con grafia minuta e nervosa, avevano dovuto subire nella pelle e in ogni fibra anche l’af­fronto dell’umidità, che si era acca­nita contro l’inchiostro fino a sgrumarne l’anima bi­liosa. Il testo era dunque im­pregnato di macchie, aloni, muffe e mar­ciumi col­losi; le pagine cedevano con rasse­gnata mol­lezza a un coma impla­cabile, imma­teriale e bluastro.  
Ma non aspettarti rive­la­zioni illu­minanti sul contenuto di quegli appunti; io stesso non ne ho cavato granché. Conti, spese, cavillosi bilanci e bilan­cini ora in dollari, ora in rubli, ora in pesos, ora in altre valute sco­nosciute; con ricor­renti menzioni di birra, vodka, tequila e altri esotici spiriti; e appunti spar­pagliati e illeggi­bili, a proposito di uomini e donne di porto e di fron­tiera. Quanto ai libri, che erano stati la vera esca — sia pur tardiva — delle mie curiosità, manca­vano ormai di molte pagine, ed erano in mas­sima parte saggi e compendi, scritti in più lingue, sul pensiero anarchico del mondo. Nessun romanzo, salvo un’Alexa di tale Theodor Kröger: una sesta edizione italiana stam­pata nel 1948, proprio un anno prima della morte del posses­sore. Ricordo a me­moria le prime righe e poco altro: “Il cocchiere bar­buto, simile ad un’incisione in legno con le brac­cia tese in avanti nello sforzo di tenere le redini, guidava l’equipaggio attra­verso le strade di Pie­troburgo.”[i]  
Tutto quello sparso materiale, in condizioni ormai così de­presse da supplicare, quasi, l’estremo conforto del fuoco, era giunto fino a noi per nave in una cassa, spedita dalla direzione di un penitenziario del New Jer­sey e preceduta dall’invio di un laco­nico certificato di morte. Di siffatta ere­dità era stato ap­prezzato solo il baule, pron­tamente svuotato per far posto a cianfru­saglie tenute in maggior stima del contenuto originale: il quale era finito ac­catastato sul nudo cemento, preda delle tene­bre e dei suoi ma­ceranti abita­tori.  
Eletti a tenermi compagnia nell’isolamento, i fogli del mari­naio anda­vano componendo nella mia mente più fantasie che certezze. Avari avanzi di una vita ignota, suggerivano indizi di conoscenza che io raccordavo e completavo a pia­cere, figu­randomi di appartenere a un’e­poca e un’esperienza non mie; m’ero persuaso che un simile esercizio, con­dotto in circostanze ostili, mi avrebbe aiutato un giorno ad avere più chiari il mio compito d’uomo e il mio destino.  
Un mattino, stanco di attardarmi sulle carte e di attorci­gliarmi nelle mie patur­nie, scesi incontro ai mercanti senz’altra ne­cessità se non quella di concedermi sollievo e distra­zione. Più tardi dovetti pentirmi di tale debo­lezza, ma al momento sentivo solo l’effetto consolante dell’eva­sione.  
In vista della sparuta caro­vana respirai a fondo e mi misi a correre balzando di duna in duna, fino a raggiungere, sudato e an­si­mante, la pista. Nella corsa libera­trice moriva temporanea­mente l’apprendista pen­satore per riportare in vita il ragazzo ch’era stato; stordito di sabbia e di sole, abboz­zai un sorriso di riconoscenza ai fantasmi viventi che si an­davano materia­liz­zando in quel vuoto assoluto. Un vecchio che avevo incontrato altre volte smontò dal cammello e s’inchinò, prima di cantile­nare con petulanza la bontà delle sue mercan­zie. Due gio­vani donne dal volto velato si scam­biarono fitte battute ridendo sommessamente, e un ragazzino di non più di undici anni spuntò da chis­saddove con un gallo a testa in giù, brandito per le zampe. Il vecchio voleva improvvisarmi un arrosto lì per lì: si fece con­segnare una lama da una delle ragazze e ordinò perento­riamente a Monhir, il bambino, di passargli il gallo e provvedere al fuoco. Impietosito dalla sorte della povera bestia, a grandi gesti lo scongiurai di desistere dal suo propo­sito; e in più, per sal­varlo da un’esecuzione solo prorogata alla prossima tappa, manifestai l’intenzione di acquistar vivo il condannato.  
Il vecchio, le ragazze e Monhir dovettero tenersi la pancia dal gran ri­dere: nessuno di loro, a detta del mercante, mi faceva ca­pace di sgozzare un pollo, spennarlo e cucinarlo allo spiedo senza il soccorso di mani esperte. Al che obiettai che non avevo in pro­gramma di uccidere il gallo né di man­giarlo, ma solo di farmelo compagno e lasciarlo scorrazzare libero in cor­tile. La de­risione di Monhir andò alle stelle: che me ne sarei fatto di un gallo vivo, e per di più muto dalla nascita?  
Di colpo il vecchio passò dal riso all’ira: trasse dal sacco più a portata di mano una rosa del deserto, uno di quei cristalli di gesso che fanno la felicità delle turiste, e la scagliò con veemenza contro il ragaz­zino, mancandolo d’un palmo; subito dopo si mise a decantare, gesticolando enfaticamente, la preziosa rarità del pollame di quelle parti e la floridezza e la baldanza di questo bell’esemplare, che a nutrirlo per bene gli era già co­stato una fortuna. Era evidente che tendeva al rialzo, ma io seppi farmi scudo di quanto avevo appena appreso dall’ingenuità di Monhir. Per un gallo che non canta, dissi, non sono disposto a spendere che pochi spiccioli: co­munque meno di quanti ne potesse valere da morto, avendo io risparmiato al suo padrone la fatica di fargli la festa e arrostirlo a dovere.  
S’impuntò sulle sue pretese con l’ostinazione di cento cam­melli, ma ottenni che fosse compresa in quel prezzo esorbitante una munifica provvista di granturco, in modo che il gallo avesse di che sfamarsi per una settimana intera. Concluso l’affare lasciai che mi ridessero alle spalle, mentre con il pollo a destra e il sacco di mais a sinistra arrancavo sulla via del ritorno.  
Nel cortile disseminai una razione di granturco in lungo e in largo, per costringere il mio ospite a fare movimento e anche per impedirgli di consu­mare troppo in fretta un pasto prezioso. Prov­vidi anche dell’acqua in una bacinella di stagno, che disposi nell’angolo più ombroso, in modo che il sole non se la bevesse prima di lui. “Ti chiamerò Silenzio”, dissi sottovoce al gallo, “ma non illuderti: ti chiamerò il meno possibile, perché ho ben altro per la testa che intrattenermi con te. E certo è una gran fortuna che tu sia muto, perché è proprio per bisogno di quiete che son venuto a cacciarmi quag­giù.” Occhieggiò a nord, est, sud e ovest senza mostrare inte­resse al mio mes­sag­gio e riprese imperterrito a beccare il suo tesoro, facendo scin­til­lare la cresta scar­latta nell’aria azzurra.  
Le notti trascorrevano calme e più estenuanti del giorno. Giacché di giorno mi lasciavo spesso cogliere dal sonno, nel bel mezzo della notte mi svegliavo avido d’acqua e di vita; ma, sod­disfatta la sete e senza il conforto della luce elettrica, non avevo nulla di concreto cui potermi dedicare. Non mi restava che arren­dermi impotente al di­sordinato fluire dei pensieri, che al buio si fanno più grandi di quel che sono.  
Sdraiato sul mise­revole giaci­glio, avvolto da capo a piedi in una coperta nera indu­rita da croste di polvere e sporcizia, mi rivedevo libero in mezzo alla società ma incapace di affron­tarla vittoriosamente, con la schiena e l’anima incurvate da un sentimento immane di inade­guatezza.  
Avevo ardentemente sperato, frugando fra i segreti del nonno, di aver vissuto nel corpo di lui una preesistenza eroica e invinci­bile; ma l’illusione di aver ereditato, almeno potenzial­mente, un patrimonio di forza tutto da scoprire e da spendere, si andava sgretolando come le pareti del mio inutile e appartato rifugio. An­che avevo creduto che il viaggiare fosse l’avventura più formativa per un mortale; il mio avo aveva molto viaggiato, e perciò lo stavo facendo anch’io, senza tuttavia trarne alcun perce­pibile vantaggio. Ché anzi mi sentivo sempre più fragile e incapace: un sospiro, una piuma nell’infido scirocco. Mi odiavo e odiavo la pri­gionia che m’ero imposto; ma pur desi­de­rando di fuggirne e tor­nare alla vita reale, mi sentivo vincolato da catene invisibili e rin­viavo di settimana in settimana il mio ritorno.  
Il silenzio di quei posti era di insostenibile dolcezza. Era così assoluto che presto cominciò a riempirsi di voci, echi e suoni lontani nel tempo e nella distanza. Frasi dimenticate riaf­fioravano dentro di me, pronunciate da tutti coloro con cui avevo diviso tanta parte della mia vita: la famiglia, i compagni di scuola, la gente del quartiere. Sulle prime quelle tracce sonore mi turba­rono; poi fui io stesso a volerle evocare, a occhi chiusi, e a separarle le une dalle al­tre, concentrandomi di volta in volta sui momenti che mi erano stati cari — gli scherzi degli amici, gli esercizi di tromba nella casa ac­canto, una o due ra­gazze di cui ero stato brevemente innamorato.  
A volte uscivo nel freddo notturno, sopportando di battere i denti e tremare senza ritegno pur di ristabilire un illuso­rio contatto con l’esterno. Il chiarore della luna rendeva visibile il limite dell’o­rizzonte, e allora mi chiedevo cosa stesse ac­cadendo più in là, se ci fosse qual­cuno o qualcosa ad aspettarmi da qualche parte, magari senza sa­perlo, per ren­dermi protagonista o partecipe di pro­getti da por­tare a compi­mento. All’alba riprecipitavo in un sonno più vicino alla morte che alla vita; al risveglio non ricordavo per intero né sogni né incubi, solo frammenti e squarci insignificanti di altri mondi, per lo più misteriosi e comunque inat­tendibili. E musica: can­zoni impor­tune, ossessive, appiccicose come mosche; ritornelli scemi, ripe­titivi, aderenti come ventose alla mia coscienza incan­crenita, alla pelle sudata, alla testa semivuota. Più mi sforzavo di scacciare quelle note, più si rapprendevano tenaci alle mie ore, inseguen­domi ovun­que, di stanza in stanza, di duna in duna, di pagina in pagina, di ricordo in ricordo, di lacrima in lacrima.  
Il gallo non era più felice di me. Il terzo giorno in cortile fu colto anche lui dal virus del blues; ignorò i chicchi di granturco che gli erano piaciuti così tanto e se ne stette accovacciato tutto il giorno all’ombra di un muretto, con la cresta meno eretta del so­lito, immobile e scontroso, gonfio di cibo maldige­rito e di nostal­gia. Forse rim­piangeva le risate squil­lanti di Monhir, o persino di non essere stato scannato in mezzo alla polvere; e non potevo che essere io l’oggetto del suo astio, del suo ran­core. Da dove veniva? Quel mondo drogato di sabbia gli era del tutto estraneo ma, han­dicap­pato com’era, non poteva le­vare al cielo alcuna udibile pro­testa.  
Il nonno lupodimare, naufrago in un oceano di inchiostri squagliati, si era fatto anche lui sentire poco; salvo protestare, in poche righe faticosa­mente decifrate in fondo a uno dei diari, la propria innocenza. La frase era: “Marianne, sai bene che non sono stato io a strangolarti sulla spiaggia di Atlantic City. Forse era il destino che me­ritavi, ma non sono stato io, cazzo. Non io.” Lo sfogo moriva in una macchia eva­ne­scente: forse gin, o pianto, o goccia di mare, o semplice piscio di topi — topi che, più sotto, avevano rosicchiato quanto restava di quella dichiarazione d’incolpevolezza, veri­tiera o bugiarda che fosse.  
Ma già nella pagina successiva ritornavano preoccupazioni più banalmente aritmetiche: un dol­laro di tabacco, due dollari resti­tuiti a un certo F., totale tre dollari. E un di­segnaccio osceno, tanto per non saper che fare di troppo spazio bianco. Preso da un’improvvisa ondata di disgu­sto o di pietà, accesi un fiammifero e lo accostai alla pagina più slavata e farinosa di tutte. Una fiam­mella az­zur­ro­gnola avanzò pigra lungo le cifre e gli svolazzi, senza avere la forza di di­vam­pare e di abbracciare l’intero fascicolo nella sua morsa. Stracciai una stri­scia di tela dal mio lenzuolo sfi­brato e la usai per incoraggiare la fiamma. Così alimentato, il fuoco si gonfiò e gli scritti del marinaio presero a torcersi di rin­novato spasimo, uno dopo l’altro. Per circa mezz’ora stetti a osser­vare lo scempio purificatore. Sei morto, marinaio, morto e cre­mato due volte.  
Alle quattro di quella stessa notte, il gallo che tutti avevano creduto muto cantò.»

Non appena Ulisse ha terminato il suo racconto, il giovane degente si è voltato dall’altra parte e ha chiuso gli occhi, come per dormire. Non si è mosso nemmeno quando Pilar, l’infermiera più caporalesca del reparto, ha spalancato la porta e fatto irruzione scacciando i visitatori come si scacciano i cani e le galline, con un ripetuto e rapido battito di mani. La donna è venuta a svolgere il suo rito quotidiano con i gesti robotici di sempre: ha cambiato sveltamente le medicazioni al giovane, il cui corpo è una mappa di ferite; gli ha inflitto un’iniezione, ha tirato su il lenzuolo e se n’è andata, senza degnare di un’occhiata né me né gli altri due.

© Pasquale Barbella.

(2 - Continua)







[i] T. Kröger, Heimat am Don, tr. it. Zoe Mori: Alexa o La patria sul Don, Roma: Casa Editrice Mediterranea, 1948.

Chroma. Capitolo III

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Chroma
Romanzo a colori
Capitolo III



Pallori


Sono uscito dall’Hospital Internacional de la Isla da due setti­mane e ora alloggio all’Aldea Blanca, un centro di recu­pero per conva­lescenti. Sta’ tranquilla: mi sento bene, davvero, come se nulla fosse accaduto. Del resto, il residence in cui mi trovo non ha nulla di clinico. Hai presente certe nostre case di periferia, le palazzine popolari uguali e anonime di cui ci accorgiamo solo quando le co­steggiamo in treno, poco prima di addentrarci nella stazione di una città? Quelle che ci appaiono surreali solo perché stiamo fi­lando su un tratto di ferrovia sopraelevata, e ci sembra di poter toccare i panni stesi ad asciugare sui balconi del primo o del se­condo piano? Ecco, per ora sto in un caseg­giato di quel tipo; oc­cupo un monolocale di pochi metri quadri, spartano ma tutto per me, e anch’io ho messo una camicia, delle mutande, dei calzini ad asciugare, però sulla stufa, perché fuori piove; e se mi affaccio non vedo né treni né binari ma altri edifici identici a questo, di­sposti ordinatamente su un vasto prato d’erba artificiale. In giro non si vedono né dottori né infermieri ma l’Hospital è a due passi; devo presentarmi al mio reparto ogni lunedì per una visita di con­trollo, finché non avranno preso atto che mi sono definiti­vamente ristabilito. Solo quando avrò ricevuto un regolare permesso potrò lasciare il centro, ma si capisce che è un puro valzer di formalità: nessuno mi trattiene a forza, nessuno si prende la briga di farmi la guar­dia o di impormi alcunché, le porte sono aperte e io, come gli altri ospiti del comprensorio, sono libero di muovermi, di andare dove voglio e fare quello che mi pare. Nessuno degli altri inqui­lini sembra versare in condizioni così critiche da con­sigliare com­portamenti più prudenti del mio. Insomma è come stare in al­bergo, quasi in vacanza: un albergo da due o al mas­simo tre stelle, povero ma decente. Eppure, credimi, mi va bene così; per il mo­mento non friggo dal desiderio di una camera allo Hyatt o al Peninsula, e comunque alberghi del genere non ne ho visti in città. Neanche il mare ho visto, siamo nell’entroterra: ma questo dovrebbe esserti già noto.

Mi sono bastate poche ore (o giorni: scusami, non so essere preciso quanto vorrei) per farmi l’idea che difficilmente riceve­rai le mie lettere, anche se l’isola dispone di una normale rete di uf­fici postali; ho già udito più d’una lamentela sull’efficienza di questo e di altri servizi. No, lamentela non è la parola giusta: di­ciamo che ho raccolto testimonianze, qui ancora non mi è parso che la gente si lamenti. Non in pubblico, almeno. Santo cielo, non faccio che contraddirmi e scodellare inesattezze, parole di cui su­bito pentirmi; eppure qualcosa mi dice che non devo cancellare e riscrivere, che faccio bene a tenermi l’errore e rinviare ad altro momento la correzione. Come quando in autostrada ti rendi conto di aver superato lo svincolo giusto e ti tocca proseguire per chi­lometri nella dire­zione sbagliata prima di trovare un’altra via d’uscita (non fare quella faccia: non tutte le metafore vengono per nuocere). Dicevo che l’isola non ti piacerebbe e avevo ragione: tu non sapresti fare a meno delle piante e qui non ne ho ancora vista una vera. In compenso abbonda la flora di plastica: interi boule­vard di platani finti, fabbricati in uno stabilimento della zona in­dustriale. Al bar ho conosciuto un caporeparto della fabbrica di platani, un tedesco di mezza età che, così mi ha rac­contato, si era messo in testa di diversificare la produzione ma non è riuscito a convincere i superiori. Per diversificazione non intendo aceri o carpini: quelli si producono normalmente ma in altre fabbriche specializzate. No, lui voleva simulare la varietà delle stagioni con platani spogli d’inverno, foglie gialle da spargere al suolo d’autunno, cose così. Gli è stato notificato per iscritto, con ridon­danza di timbri e svolazzi di firme, che si tratterebbe di una com­plicazione priva di senso: il clima locale subisce escursioni irrile­vanti, di stagioni ce n’è una sola. La temperatura si aggira fra i 10 e i 18 gradi centigradi, tutto l’anno; al massimo piove o non piove, e le nebbie – benché persistenti – non sono così fitte da ge­nerare disagi. Piove o non piove, ho scritto: beh, piove spesso, e quando non piove il cielo si mantiene preferibilmente sul grigio-piombo. Almeno nella regione in cui mi trovo io: l’isola è piutto­sto estesa, non ho ancora avuto né tempo né occasione di esplo­rarla in lungo e in largo, prima o poi lo farò; insomma non posso escludere che da qualche parte il cielo sia azzurro e che i platani, le querce, i castagni siano veri; che esistano altrove colori diversi dal gri­gio qui dominante. In giro si trovano senza difficoltà or­taggi, cereali, mele: segno che le coltivazioni non mancano, se si deve credere a chi sostiene che l’economia dell’isola è rigida­mente autarchica.

Non fraintendermi: non mi lamento di nulla, il grigio va be­nissimo, la pioggia pure, e persino la lentezza della vita che qui si svolge; non soffro – per ora – di nostalgie né di rim­pianti; i pla­tani di plastica non hanno nulla di osceno e anzi penso che se la cavino meglio di quelli autentici perché resi­stono a qualunque af­fronto, sono praticamente immortali. Se e quando riceverai la mia corrispondenza ti farai un’idea sba­gliata di questo ambiente; ne sarai disgustata; è colpa mia, fac­cio una certa fatica a trovare le parole e i concetti che rendano giustizia alla geografia, all’architettura, all’organizzazione del paese. Migliorerò: col tempo migliorerò. Per ora accontentati di sapere questo: sto bene, la mia condizione non mi pesa, la vacanza non è male come può sembrare a una prima impres­sione, non è un esilio, m’incuriosisce. Non mancano gli svaghi, per chi non sa farne a meno: una di queste sere vado al Kursaal, un posto dove si balla, dicono. Lo sai che ballare mi è sempre andato a genio. Non met­terti idee in testa: ci vado solo per sgranchire le gambe, ho biso­gno di movimento, non vado a caccia di sesso come facevo una volta, mi basti tu.

Ti voglio bene, nonostante tutto.


Grigio. Ho scritto grigio: più volte. Avrei dovuto usare il plurale – grigi, ce n’è una gamma senza fine, molte più sfu­mature che da noi, si direbbe. Nemmeno del grigio ci si può fidare. Si spaccia per colore neutro, ma si comporta esattamente come i fratelli più frivoli: ogni volta si presenta con una maschera diversa. Non ho mai preso nella dovuta considera­zione il grigio, prima: anche se il mio guardaroba ne era saturo. Un colore che credevo innocuo ma che proprio per que­sto ho preso sottogamba. Colore? Piuttosto un’assenza di colore, così credevo. Non voglio squillare: dunque vesto grigio. Tu avevi del grigio un’idea più eversiva, persino sexy. Donna, dai cap­pelli alle scarpe. Adesso mi vengono continuamente in mente le tue borsette, che da me avrebbero meritato più attenzione. E anche i foulard, le cinture, le scarpe. Grigio-topo, grigio-verde, grigio caldo, grigio freddo; grigi tendential: viola, beige, ama­ranto. Non che la moda inventi i colori: inventa il modo di vederli, e io li vedo meglio, adesso che non ci sei. Stranamente tutto qui sembra parlare di te, di noi: ma senza quei capricci e sbalzi cromatici – gli alti e bassi sentimentali, i disagi, le trap­pole della convivenza quotidiana: rosa, rosso variamente acceso, blu più o meno intenso. Spiegarti cosa? C’è poco da spiegare: piove, il mio ombrello e il mio im­permeabile imitano il colore del cielo. Guardati allo specchio, guarda i tuoi occhi: che grigio è quello? Come lo definiresti? Chiaro, luminoso, argenteo, plumbeo? Dipende solo dall’idea che vuoi dare di te: l’aggettivo, intendo, non il colore reale degli oc­chi, che è sem­pre evasivo, cangiante.

I muri delle case sono o sembrano d’un grigio pallido; dico sembrano perché potrebbero essere bianchi, appena scuriti dal maltempo o da un’ombra di smog. Case di due piani, tutte uguali – per favore non dire «ovviamente», l’ovvietà non esi­ste: non qui. Lo scorcio che preferisco è a pochi metri dal piaz­zale nord, quando camminando in quella direzione si comincia a vedere sulla destra il fogliame del platano, un colpo di verde che ti coglie ogni volta di sorpresa: un forestiero, come io stesso mi sento. Proprio sull’angolo c’è un bar dall’insegna slavata color tabacco, il Colony, con dentro luce scarsa e un ventilatore (ovviamente?) che non fun­ziona (ovviamente?). Ovviamente un fico secco: che ci fa un ven­tilatore, e perché dovrebbe fun­zionare, se la temperatura – così dicono – supera raramente i diciotto gradi? C’è anche una stufa, un colosso di ceramica come se ne vedono ancora a Vienna, a Praga, a Salisburgo; neanche quella ha motivo di esistere, è un monumento all’inutilità. Ingombrante: il locale è un buco, quattro tavolini a sfioramento di gomito. Fortuna che non è mai affollato. Ci entrano in pochi, a quanto pare; ci saranno altri caffè più invi­tanti, intorno, ma a me non dispiace questo dell’angolo, vado a caccia di intimismo. Solo non capisco perché il barista, un fiammifero dal cranio nudo e aguzzo, lavi e rilavi bicchieri tutto il giorno, con l’aria di essere sopraffatto da un afflusso torren­ziale di avventori. Entri, saluti; e non ti guarda in faccia nemmeno per bofonchiare un buongiorno, un buonasera, un vaffanculo. Se non superi l’imbarazzo e non lo prendi di petto con un’ordinazione imperiosa, continuerebbe a ignorarti e a lavare bicchieri per l’eternità, come se tu non esistessi.

La prima volta che mi sono imbucato al Colony (senza una precisa ragione: non avevo voglia di nulla, solo di sottrarmi per qualche minuto alla monotonia della pioggia) ho pensato: si parte alla conquista di lande esotiche con Dio, l’oro e il genocidio nel cuore, senza immaginare che ciò che resterà dell’impresa è poco più di un ventilatore a pale. E ho fatto cono­scenza con un tale, un certo Ub o Hoob o Hoube, non saprei dirti di che nazionalità, uno che parla la nostra lingua senza accenti rivelatori. Più straniero di nome che di fatto, probabil­mente. Non gli ho ri­volto troppe domande e lui non ne ha rivolte a me. Mi ha offerto da bere, senza preamboli. Birra – qui ce n’è una marca sola, do­vevo aspettarmelo: acquosa per i miei gusti, quasi insapore, una pisciatina di gatto. Questo Ub, o comunque si chiami, non ha fatto altro che parlare di automo­bili. Non si separa mai dalla sua Por­sche, una 914 color azzurro pallido, nemmeno per fare poche centinaia di metri. Risale agli anni settanta del secolo scorso ma sembra nuova di zecca tanto è lucida, immacolata, efficiente. Strano vedere in giro una creatura così ricercata e costosa; su queste strade circolano solo specialità autarchiche, pochi modelli rabberciati da un’ingegneria di seconda classe, persino meno attraenti di una Trabant o di una Duna. Per non dire degli ammacchi, della ruggine, dei cofani tenuti giù con la corda, degli specchietti rotti o divelti, degli orrendi portapacchi sul tetto, dei fari spenti, delle ruote e delle gomme disuguali, dei tergicristalli ronzanti, dei colori smorti – così come sono smorte le espressioni di chi guida, grazie a Dio: raramente ho visto, da noi, automobilisti tanto incapaci e al tempo stesso tolleranti, rassegnati, silenziosi, poco inclini al litigio e persino all’abuso di clacson.

Non solo in città, ma anche nei dintorni vige il divieto as­so­luto di superare i trenta all’ora.

«Una frustrazione per gli appassionati di auto sportive», ho buttato lì, tanto per non fare scena muta.

«Non mi disturba andare piano», ha risposto.

Eravamo seduti a un tavolino con le nostre birre, sorvegliati di sottecchi da quell’acquacheta del barista. Non vorrei giurarci, ma c’era come un’ombra di sarcasmo, un’intenzione beffarda dietro la sua apparente indifferenza. A un certo punto mi è sembrato – allucinazione? – che il suo orecchio sinistro, più sporgente di una maniglia, vibrasse motu proprio.

«Immagino», ho detto sforzandomi di tenere in piedi una conversazione noiosa, «che, disponendo di un mezzo come il suo, conosca l’isola come le sue tasche.»

E Ub: «Non credo di conoscere bene neanche le mie tasche. E poi non conviene allontanarsi troppo dalla città.»

Ho pensato a qualche divieto imposto dall’alto. Ha sorriso: «No, si può andare dove si vuole. Ma c’è penuria di carburante dappertutto.»

«Credo di aver visto una stazione di servizio piuttosto grande, da qualche parte.»

«Sì, in città ce ne sono. Ma fuori?»

Il bello di Ub è che non ha niente del fanatico di motori: sguardo da reduce di guerra, borse viola sotto gli occhi, gesti al rallentatore, nessun giro di donne (né di uomini, per quanto ne sappia), nes­suna vo­glia di allontanarsi da dove sta. Di poco più vecchio di me, fra i cinquanta e i cinquantacinque, si muove già con impaccio senile. Non fa che ripercorrere al volante le stesse strade della stessa città, in placida souplesse, con ragioni o pretesti pianificati come si pianifica un evento: oggi, per esem­pio, è un giorno speciale perché ha deciso di andare in tintoria. Ha detto che hanno riaperto la La­vandería Central dopo tre setti­mane di ma­nutenzione e questo spiega il traffico che si vede in giro, ingorghi paralizzanti, una specie di festa, la gente trova alquanto distensivo fare il bucato, è com­prensibile, piacerà anche a me dopo il primo periodo di ambientamento. E per quanto adori la sua auto, si è detto pronto a prestarmela; non ne è affatto geloso, mi ha invitato con insistenza a fare un giro di prova, a levarmi lo sfizio. Figu­rati se ne avevo voglia, ho dovuto ringraziare cento volte e trovare a fa­tica le parole per sottrarmi alle sue esortazioni; si è messo l’anima in pace solo quando mi sono lasciato scucire una vaga promessa di prendere in prestito il suo gioiello alla prima necessità. Ma è una promessa che non manterrò; non mi va di guidare macchine altrui senza motivo, ho scoperto che spostarmi con i mezzi pubblici non mi irrita più come una volta, e se proprio dovessi trattenermi qui a lungo opterei per una vettura a noleggio o ne comprerei una usata. Me la prendo comoda: per dare un’occhiata al resto dell’isola c’è tempo.

Per la prima volta, dopo tanti anni, non ho fretta.




Gli arabi di cui ti avevo parlato, quelli con cui condividevo la stanza all’Hospital, sono stati dimessi due o tre giorni dopo di me e trasferiti al centro di riabilitazione. Proprio nel caseg­giato di fronte al mio: potevo vederli ciarlare sul loro balcone, sempre in canottiera nonostante il freddo e la pioggia. Uno dei due è im­provvisamente scomparso dalla scena. Non sono affari miei, ma la cosa mi ha incuriosito: sembrava una coppia indivi­sibile, fra­telli, amici di lunga data, amanti, chissà. Presumevo che fossero stati ricoverati insieme e per lo stesso malanno, determinati a non separarsi per nessuna ragione, incapaci come sono di cavarsela da soli in un paese straniero, di comunicare o familiarizzare con chicchessia. Il piccolo mistero mi ha tal­mente intrigato che ho in­fine ceduto alla tentazione di inda­gare. Non è stato difficile, con qualche domanda buttata qua e là ai loro coinquilini, scoprire la verità. Uno dei due è caduto dalle scale – le faceva sempre di corsa, dicono – ed è rotolato giù per un’intera rampa, sbattendo malamente la testa. Hanno dovuto internarlo di nuovo e pare che il suo stato non sia dei più rassicuranti, tanto che al suo ca­pezzale non sono ammessi visitatori. L’altro, il compagno, fuma una sigaretta dopo l’altra sul balcone, abitudine di cui non mi ero mai accorto prima. Da quando è solo non esce dal suo guscio: for­tuna che all’Aldea i pasti siano serviti a domicilio, una volta al giorno, a cura della direzione.

Ti riferisco queste cose senza importanza per farti capire che, da quando sono qui, mi sento (sono?) un altro. Quando mai mi sono interessato a esistenze che non fossero la mia, la tua, o dei pochissimi che contavano per me? Ed ecco che adesso mi metto a spiare il prossimo, a occuparmi di due sco­nosciuti che non trovo nemmeno simpatici. Fino a che punto può trasformarti, una ma­lattia? E per quanto tempo? Tornerò a essere quello di prima? Mi riconoscerai? Tornerai ad amarmi come mi amavi quando credevi di amarmi, o riuscirai a sma­scherare definitivamente l’estraneo che hai sempre intravisto in me e ti sarà finalmente più facile re­cidere l’ultimo vincolo che ci lega?

Neanch’io sono più sicuro dei miei sentimenti, ma questo posso dirti: ho ripreso a sognarti di notte, come talvolta mi capi­tava ai tempi in cui il nostro amore era solo un’ipotesi, un “forse” più leggero di una foglia o di una speranza. Solo che adesso ti so­gno a colori. Lo sfondo è grigio, metallico e vago, mentre tu, rin­giovanita di almeno vent’anni, sfavilli in abiti da haute couture e colori in voga nei film hollywoodiani degli anni cinquanta: fuchsia, verde smeraldo, giallo-taxi. Le labbra scarlatte. E l’aria imbronciata di una Lauren Bacall, di una Gloria Grahame.

Che vorrà dire? Sei tu a mancarmi, o comincia a pesarmi que­sta fo­schia?

© Pasquale Barbella

(3 – Continua)

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