Il perfido Adorno e altre storie
Trascrivo qui una conversazione a distanza intercorsa a puntate, via e-mail, tra Pia Elliott (PIA) e il sottoscritto (PAB) su un argomento che interessa entrambi. Pia è una mia amica ed ex collega di lavoro. Si occupa di storia e critica della pubblicità (ha recentemente pubblicato un saggio, Just Doing It, edito da Lupetti e di prossima uscita in altri paesi), ma la musica ha avuto una parte rilevante nella sua formazione, anche se di questa particolare competenza ha preferito fare un uso prevalentemente privato.
PIA -Secondo Adorno «...il peccato cardinale della musica per film consiste nell’esigenza di esserci» (cito a memoria). Quando ha scritto Composing for the Films, con Eislernel 1947, in pieno boom hollywoodiano, Adorno era a New York, dove gli avevano costruito su misura l’Institute of Social Research. Io credo che tutto quello che è stato scritto sulla musica per il cinema, da Adorno in poi, sia già racchiuso, in nuce, in quella frase. Un rapporto irrisolto, due linguaggi diversi, una storia che continua da sempre, teorizzata in modo balordo da cinéphiles pedanti. Alla base, credo, una distorsione temporale: il cinema era appena nato, balbettava mentre la musica era già molto, molto più avanti.
PAB - Non sapevo del libro che dici. Ho un cattivo rapporto con Adorno, è troppo severo con i musicisti. Ha maltrattato gente come Čajkovskij, Dvořák e persino Mahler per aver utilizzato, nelle loro composizioni, «stantii canti popolari, canzonacce e ballabili... i rozzi elementi tratti dalla musica inferiore vengono rimescolati nella musica superiore come se ne fossero il lievito...»Immagino che l’intransigenza (etica ed estetica) di Adorno sia in qualche modo rapportabile alle pessime connotazioni che la cultura völkisch aveva assunto in Germania, quando diventò una bandiera dei movimenti pangermanisti e del nazismo. Anch’io, forse, memore di un clima di demonizzazione dell’arte d’avanguardia (entartete Musik!) diventerei cattivo con Mahler e con la musica per film... ![]() |
Theodor Adorno. Ritratto di autore sconosciuto. |
PIA - Ho riletto il discorso commemorativo di Vienna, fatto da Adorno in occasione del centenario della nascita di Mahler, che non mi sembra affatto intransigente. Sottolinea solo, un po’ troppo volutamente e ripetutamente, la sua “austricità”.
PAB - Non ho nessuna teoria sulla musica da film e ne sono contento, perché questa verginità mi mette in condizione di dialogare liberamente e far venir fuori qualche idea non troppo condizionata o precostituita. Posso solo dire che al cinema mi disgustano i cliché musicali più prevedibili, quasi sempre codificati dal marketing più banale, e che non sopporto Morricone perché tende a divorare il film e a farne un’appendice alla sua musica, peraltro spesso discutibile di per sé. Non ho mai mancato di elogiare Stanley Kubrick per l’uso spiazzante che faceva di musiche note, colte o popolari che fossero. Quanto ad Adorno, ho ordinato il libro che dici: voglio capire se rifiuta l’idea della musica come funzione della narrazione e se ne rivendica l’autonomia assoluta.
PIA - Nel suo periodo americano, Adorno si trovò coinvolto in un’atmosfera e in progetti (come il Radio Research Project) che lo mettevano a contatto con una realtà diversa, un po’ caciarona, amatoriale, ma tanto tanto generosa e desiderosa di apprendere. Anche Hollywood con la sua musica doveva sembrargli il circo Barnum. E ancora di più all’amico Hanns Eisler, uno che a Berlino, nel suo entusiasmo per il comunismo, picchiava il pugno chiuso sulla tastiera. Credo che tutto il punto sia questo: che Adorno e Eisler hanno cercato di teorizzare e dare un senso logico a un tipo di musica che – almeno a quei tempi – rispondeva solo ai diktat degli studios di Hollywood: far piangere, inorridire o entusiasmare il pubblico. Ma ti immagini uno che aveva studiato con Alban Berg, che ascoltava Schoenberg, discuteva di Webern, suggeriva a Thomas Mann cosa scrivere, che si trova ad ascoltare la musica di Via col vento?
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Bernard Herrmann (a sinistra) con Orson Welles, 1938 circa. Herrmann compose per Welles le colonne sonore del programma radiofonico La guerra dei mondi (1938) e dei film Quarto potere (1941) e L’orgoglio degli Amberson (1942) prima di diventare il punto di riferimento musicale di Alfred Hitchcock.
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PAB - Non sarà stata anche una questione di puzza sotto il naso? Non sarei troppo duro col cinema popolare, quando il livello è quello di Via col vento. Gran polpettone, d’accordo, ma se non esistesse mi mancherebbe. Sì, certo, ai tempi di cui parliamo la musica per film era sostanzialmente descrittiva ed enfatica: oceani di note per anticipare o survoltare i clou del racconto. Lo si fa anche oggi e provo una certa repulsione quando tale procedimento è applicato al cinema contemporaneo; ma quando rivedo vecchi film vado in solluchero (per Waxman, Tiomkin, Elmer Bernstein e tanti altri, per non dire di Bernard Herrmann). Solo nostalgia? O qualcosa di più?
Sebbene sia un patito della musica, adori i musical e mi diverta come un bambino a montare fotovideo musicali, mi è capitato di apprezzare profondamente, in certi film d’autore, la totale assenza di commento musicale. Mi pare che il silenzio e l’asciuttezza esaltino l’autenticità e la drammaticità di certe situazioni più di quanto possa fare qualsiasi composizione musicale di supporto.
PIA - Per quanto mi riguarda, il discorso su musica e cinema si muove su due livelli. Il primo è quello, distaccato e didascalico, che adotto nel seminario che sto preparando per lo IED – “Come suona la pubblicità” – che è un pretesto per parlare di cinema e musica e anche un po’ di jingle e spot (è inevitabile). L’altro livello, invece, è quello personale, emozionale e a volte irrazionale che mi porta ad amare incondizionatamente il quintetto in do maggiore di Schubert, come Aquarium di Saint-Saënso la suite per pianoforte di Janáček, come il love theme di Rachelo di In the Mood for Lovee a cercare morbosamente chi l’ha scritta o messa insieme, o chi è il sound designer... Esattamente quello che, secondo Adorno, non dovrebbe succedere, ma che inevitabilmente succede.
Tu parli di “silenzio” nei film. Il mio co-docente, Osvaldo Bargero (uno dei più bravi montatori del cinema italiano, temporaneamente disoccupato), ti direbbe subito che il silenzio non esiste. In un film può non esserci della musica, ma il sound c’è sempre.
PAB - Osvaldo ha ragione: il silenzio non esiste. Non è esistito nemmeno ai tempi del muto. Altro che silent movies; c’era sempre un pianista in sala, e nelle sale importanti persino l’orchestra. Da qualche parte ho letto che certi cinematografi potevano permettersi il lusso di ospitare organici di ottanta elementi. Non so se qualcuno abbia mai documentato la musica di quei tempi: in senso sistematico, intendo. So che uno degli standard più famosi del pianeta, il “tango tzigano” Jalousie, fu scritto nel 1925 da un violinista e compositore di Salonmusik danese, Jacob Gade, per un film. La cosa curiosa, per noi cresciuti col sonoro, è che uno stesso film potesse tranquillamente convivere con musiche diverse, a seconda del luogo e delle circostanze.
PIA - C’è stato un periodo nella storia del cinema, tra il ’20 e il ’30, in cui le scatole di pellicola venivano corredate d’istruzioni precise, accompagnate dalle partiture corrispondenti e da fogli con il minutaggio. Nei diari di Paul Fosse – direttore del Gaumont-Palace, il più grande cinema del mondo, – sono annotati tutti i titoli dei film e l’elenco dei brani che li accompagnavano, e questo per 17 anni consecutivi. Nel fondamentale La Musique au cinéma, di Michel Chion (che non ho e non cercherò), teorico dell’ascolto e dell’audiovisione francese, tutta questa roba è raccontata con abbondanza di particolari e un interesse morboso, come se l’autore avesse studiato al microscopio l’evoluzione di una malattia contagiosa.
PAB - I cineasti hanno sentito fin dalle origini un gran bisogno di musica. Più ancora che del parlato, a quanto pare: quello, almeno, si poteva abbozzare nei famosi cartelli, sintesi sommarie di informazioni e dialoghi. Ma scrivere in un cartello «immaginate ora di ascoltare la toccata e fuga BWV 565 di Bach» sarebbe stato francamente troppo. Per cui ecco l’ibrido interessante: immagini sullo schermo e musica live.
Mi piacerebbe rivedere (e riascoltare) alcuni degli esperimenti più creativi di cinema e musica degli anni venti, per esempio il documentario su Berlino di Walter Ruttmann (1927) che, non a caso, era intitolato Berlino: Sinfonia di una grande città. Edmund Meisel, viennese, un vero pioniere della musica da film, fu incaricato del commento musicale dopo essersi messo in vista con lo score dell’edizione tedesca de La corazzata Potëmkin. Lo stesso Ėjzenštejn ne fu colpito al punto di chiedergli una collaborazione per Ottobre.
Šostakovič e Prokof’ev ebbero molto a che fare con il cinema sovietico. Credo che i compositori russi abbiano influenzato parecchio i musicisti di Hollywood. Ogni volta che riascolto uno dei miei soundtrack preferiti, quello di Bernard Herrmann per Psycho, mi vengono in mente Stravinskij e Šostakovič. Di fatto le musiche di Herrmann, pur incollatissime ai film di cui fanno parte, hanno una dignità indipendente e si possono ascoltare con interesse anche da sole.
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Aleksandr Nevskij di Sergej Ėjzenštejn (1938): memorabile colonna sonora di Sergej Prokof’ev. |
PIA - Non ti dico niente perché prevedo che continuerai a incazzarti. Eppure, il concetto di “inevitabilità” della musica nel cinema, a me, continua a intrigarmi, soprattutto se penso che il sonoro prima e la musica dopo si sono aggiunti ai film, originariamente muti, come la barba che spunta sulle guance di un adolescente, per evoluzione naturale e, ancora una volta, inevitabile. Ciò sebbene diversi artisti si opponessero sia al sonoro che alla musica, tanto che Chaplin decise che, se proprio doveva esserci, la musica se la sarebbe scritta da sé. Da un po’ c’è anche l’uso, un po’ bling bling, di “musicare” dal vivo film muti, o addirittura comporre musiche originali per vecchie pellicole, non necessariamente d’autore.
PAB - Sui rapporti tra Chaplin e i musicisti si raccontano aneddoti divertenti. Chaplin non conosceva la musica. Gli venivano in mente degli spunti melodici e usava dei professionisti per svilupparli, scriverli e arrangiarli. Con questi si comportava da schiavista. Per Tempi moderni licenziò il giovane David Raksin dopo dieci giorni di torture. Anche con Alfred Newman, responsabile della direzione musicale del film, andò a finire a male parole. Smile, il tema di Tempi moderni, era orecchiato da Brahms: ricalcava la sequenza di note iniziale del Deutsches Requiem. Diventò una canzone e fece strada anche fuori dal film. Il sentimentalismo trabocca in modo torrenziale, da lacrima sul ciglio, ma non si può negare al brano una certa ariosa eleganza.
PIA - Sono stata presa da irrefrenabile curiosità, ma più che altro da pietà, quando ho letto che Eric Satie si manteneva suonando nei cinema di Montmartre, che l’avvento del sonoro mise sul lastrico decine e decine di pianisti forse non così bravi e che il povero Šostakovič produceva colonne sonore a manetta (ne ha scritte un centinaio), pur di sfuggire alle purghe staliniane (teneva sempre pronta sotto il letto una valigia). Per non parlare di Ėjzenštejn che esigeva da Prokof’ev degli storyboard musicali, con il risultato che la musica dell’Aleksandr Nevskij si continua ad ascoltare, mentre il film si vede solo nei cineclub sfigati.
E sai cosa dice ancora Michel Chion, sempre nel fondamentale La Musique au cinéma, della musica di Herrmann per Psycho? che la partitura in sé è di una monotonia terrificante, mentre nel film funziona in modo ideale.
Ma sono molte le cose che non ti piaceranno nel libro di Adorno e Eisler, soprattutto sul leit-motiv che, per i musicisti di Hollywood (e non solo), era un facile espediente per scrivere poco e guadagnare molto, mentre per Wagner, etc. etc.
E così torniamo a Morricone e a quelli che io penso siano i due difetti capitali della musica per film: che sia stata considerata una specie di sotto-genere musicale, e l’ignoranza dei registi, che di musica sanno poco o niente e che si permettono di farne tagliatelle in montaggio. Naturalmente ci sono le eccezioni, Welles, Hitchcock, Kubrick, Scorsese e altri. Secondo Franco Mannino, genero di Luchino Visconti, grande pianista che ho avuto occasione di conoscere, nonché compositore di colonne sonore, solo Visconti fra i registi italiani capiva di musica, essendo musicista egli stesso. Per gli altri, la musica di un film era l’ultima cosa cui pensare e, quando si arrivava alla colonna sonora, il budget era sempre esaurito.
PAB - Ho trovato il libro di Adorno-Eisler (più del primo che del secondo, a quanto pare) e lo sto leggendo. In realtà è un testo delizioso, scintillante negli attacchi polemici e, sotto molti aspetti, assai utile per chi si occupa seriamente di cinema. Il pensiero sui leit-motiv e contro gli stereotipi in generale è condivisibile al 100%.
L’unica cosa che, a mio avviso, risulta datata è la continua separazione critica che fa tra la colonna musicale e il resto dell’opera. Un film, anche se creato e manipolato da molti, deve considerarsi comunque un tutt’uno; va da sé che ogni elemento che lo compone deve concorrere al meglio alla sua individualità, artistica o commerciale che sia.
Egli parte da un assioma non dimostrato (almeno in questo scritto), secondo il quale la musica deve badare innanzitutto a sé stessa e non può né deve essere concepita in subordine a necessità esterne, cinema compreso. Pensiero rispettabile ma pericoloso, perché è lo stesso di Morricone. Morricone tende a subordinare il film di turno alla propria “purezza” di compositore; e poco importa che il valore intrinseco di Morricone non sia paragonabile, per esempio, a quello di Schoenberg: è il principio che è discutibile, quale che ne sia l’esito.
Si avverte, fin dalle prime pagine, una sorta di disprezzo non tanto nei confronti del cinema dozzinale ma del cinema tout court. È pur vero che il testo risale agli anni quaranta; il cinema d’autore ha fatto ulteriori passi da allora, alcuni dei quali nient’affatto disprezzabili (p. es. la recitazione è mediamente migliorata, persino nei film dichiaratamente da box office). Adorno è morto nel 1969, in epoca di grandi fermenti nel cinema europeo, e mi chiedo cosa ne pensasse, per esempio, delle provocazioni di un Godard.
Adorno anticipa e brucia sul nascere anche le intuizioni di Altman, regista che non ha potuto conoscere per questioni di tempo. Chissà cosa avrebbe pensato di Nashville. Si sarebbe soffermato sulla bieca banalità delle canzoni, il peggio del country – che già di per sé non brilla di gran luce nemmeno nel comparto del pop? O avrebbe sorriso dell’ironia di Altman e della necessità drammaturgica di quella spazzatura? (Come ricorderai, Altman indusse gli attori principali del cast, una dozzina, a scriversi da sé le canzoni del film, non importa se e quanto esperti essi fossero o si sentissero in quell’ambito. Un’idea geniale e per niente inopportuna, dato che la vicenda era proprio imperniata su quelli che vanno a Nashville sognando di sfondare nella musica più easy e reazionaria d’America).
Insomma: persino il trash può risultare concettualmente rispettabile. Dipende dall’uso che se ne fa.
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Orson Welles a Parigi nel 1952, in un ritratto del fotografo olandese Fred Brommet. |
PIA - Il libro di Adorno e Eisler che hai trovato tu è quello Newton Compton con la prefazione di Massimo Mila? Devo assolutamente procurarmelo anch’io.
PAB - Sì, è proprio quello introdotto da Massimo Mila, 1974-1975, tradotto da Komposition für den Film nell’edizione 1969 di Monaco. La storia delle edizioni è curiosa. Scrive Mila che Eisler pubblicò col solo suo nome il libro nel 1947, sebbene fosse più che evidente (e dominante) la partecipazione del filosofo. Poi uscì col solo nome di Adorno... Scaramucce sui credits, come nei peggiori team pubblicitari.
PIA - L’edizione Oxford University (almeno in origine) che invece ho io, è stata ripubblicata nel ’94 con una nuova introduzione di Graham McCann, Britain’s leading writer about film and TV. Niente a che fare con l’estetica della musica, ma utilissima a intuire molte cose su quella che doveva essere la vita quotidiana dei grandi émigré europei, chi a New York e chi – la gran parte – a Los Angeles, perché lì c’era la possibilità di guadagnare qualcosa lavorando per il cinema. Cosa che, più o meno, fecero tutti.
Vivevano un po’ sparsi qua e là, ma spesso s’incontravano ed era un vero e proprio circolo di artisti quello che si era formato a Santa Monica, 165 Mabery Road, a casa di Salka Viertel, dove capitavano attori come Peter Lorre e Luise Rainer, direttori d’orchestra come Otto Klemperer, registi come Fritz Lang, Lubitsch e Billy Wilder. E scrittori come Thomas e Heinrich Mann. Con Charles Laughton che prediligeva Hanns Eisler, non tanto per la sua musica, quanto per il suo accento tedesco. Ed è anche lì che Adorno e Thomas Mann portarono avanti il plot del Doctor Faustus. Una mistura straordinaria di bellezza (Greta Garbo, Ava Gardner) e di talenti (Orson Welles, Vladimir Horowitz, Igor Stravinskij). Più tardi poteva anche capitare che Schoenberg si mettesse a urlare a squarciagola, in un centro commerciale di Los Angeles, «Non ho mai avuto la sifilide!», per farsi sentire dalla moglie di un altro esule tedesco, lo scrittore Lion Feuchtwanger, e protestare contro Thomas Mann, che nel Doctor Faustus attribuiva appunto a un musicista sifilitico l’invenzione della dodecafonia.
Ma queste sono forse storie messe in giro da Alex Ross (The Rest Is Noise). Leggendo e rileggendo il suo libro ho finalmente capito perché John Wanamakersi è guadagnato un posto nella Hall of Fame dell’advertising americana. Non solo per avere inventato il cartellino segna-prezzo o la formula “Your money back”, ma perché nel suo enorme Department Store di New York c’era anche una grande sala da concerto dove Richard Strauss, nel 1904, potè far riascoltare, a grande richiesta, la Symphonia domestica, il suo ultimo lavoro. E non lo fece solo per denaro, come scrissero tutti i critici europei, perché Strauss, a quel tempo, era già abbastanza ricco e si era già fatto costruire la villa di Garmisch. ![]() |
Alexandre Desplat, compositore francese di colonne sonore. Sei nomination all’Oscar: per The Queen, Il curioso caso di Benjamin Button, Fantastic Mr. Fox, Il discorso del re, Argo, Philomena. |
PAB - Tempi leggendari. La fabbrica, europea ma fuori sede, di un immaginario polimediale (il cinema) nel quale confluiscono tutti gli altri. A cominciare dall’architettura: l’America come appendice del Bauhaus.
Tutto questo, temo, sta per andare in dissolvenza finale. Tu ed io siamo nella generazione degli ultimi testimoni. Megasuccessi come quelli di Christian De Sica e Checco Zalone sparano il colpo di grazia, con il concorso della cittadinanza italiana, alla nuca di genitori e nonni, colpevoli di serbare ancora memoria di Billy Wilder.
Non c’entra nulla, ma volevo dirti che seguo con interesse, tra i musicisti per film dai cinquanta in giù, Alexandre Desplat e Jonny Greenwood. Il primo è nel mainstream ma più calibrato e pensoso di altri. Il secondo, membro dei Radiohead, ha voglia di sperimentare (Il petroliere). Greenwood ha partecipato nel 2011 a quello che mi sembra essere uno dei film più innovativi degli ultimi anni, ...E ora parliamo di Kevin, di Lynne Ramsay.
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Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, polistrumentista e compositore, ha scritto le musiche per Il petroliere, Norwegian Wood, ...E ora parliamo di Kevin, The Master. |
Continuo a leggere Adorno-Eisler: più vado avanti, più condivido. Ma un po’ mi stupisce, all’inizio, quello che mi sembra un pregiudizio di fondo verso la fotografia. Il cinema non può aspirare alla sfera dell’arte perché è fotografia, cioè riproduzione meccanica del mondo reale. Troppo categorico, e forse non vero.
Intanto ho rivisto per la terza o quarta volta Fuga da Alcatraz, un classico carcerario di Don Siegel del 1979, protagonista Clint Eastwood. La storia non ha niente di nuovo: un detenuto prepara meticolosamente la sua evasione. Nel frattempo, i consueti topic del genere: le persecuzioni del direttore sadico e del recluso violento, il crollo dei più deboli, gli scavi notturni in cella. Eppure è, a suo modo, un racconto magistrale, premiato da un successo non solo di pubblico ma anche di critica. Perché è asciuttissimo: Siegel mantiene un lodevole controllo sulle scene madri, limita il numero dei colpi di scena, sa che il troppo è troppo e dosa gli ingredienti col bilancino. Non avevo mai badato alla musica. Siegel e Jerry Fielding, il compositore, devono aver imparato a memoria la lezione di Adorno. Minimalismo assoluto e nessuna melodia tonale, mai. Frammenti piazzati ad hoc, che aiutano la tensione senza divorare la scena. Altrettanto notevole – per sottrazione – è la grafica nei titoli di testa e di coda: l’esatto contrario, poniamo, dei film di James Bond. Questo Alcatraz insomma ricorda, per tema e per misura, film europei di maggiore impegno intellettuale come Il buco di Jacques Becker, uscito quasi vent’anni prima. Fra i meriti che lo elevano rispetto agli schemi del film di genere c’è anche il trattamento musicale.
La riduzione dell’enfasi a tutti i livelli, dalla recitazione al soundtrack, dai dialoghi al montaggio, diminuisce le distanze tra cinema popolare e cinema d’autore. Ma gli attuali action movies vogliono stupire a tutti i costi, dalla prima all’ultima inquadratura. Sono così gonfi di effetti, esplosioni, incendi, violenza, stunting, frastuono e musica da risultare digeribili solo alla generazione che ci è cresciuta “dentro”. Persino i plot sono elaborati per eccesso, tanto che a volte non li capisco. C’è troppo think big a Hollywood, ci sarebbe bisogno di un freno. O, se proprio non si vuol fare a meno del fracasso, che almeno venga in soccorso l’ironia (Tarantino, per dirne uno, si salva – e non sempre – grazie a questo).
PIA - A proposito di temi “funzionali”. Per le fiction sono determinanti. Pensa a XFileso a TwinPeaks, che ancora ce li li ricordiamo (almeno noi, ma anche la generazioni dei quarantenni, tipo mia figlia). Che però si guardano e amano alla follia anche cose tipo Breaking Bad... meno male che siamo all’ultima puntata. La prima volta che ho sentito Baby Blue cantata da quella band di sfigati che sono i Badfingers, mi sono sentita male. Poi ho capito che, a fiction di sfigati cattivi, poteva toccare solo una band di sfigati puri. Giuste, però, le lyrics, anche se vuoi mettere quelle di Bob Dylan?
Ma ancora non so e non capisco bene e a fondo. L’altra sera mi sono rivista una puntata di Downton Abbey (ebbene sì, sono una fan della serie, che mi piace assai di più di Breaking Bad) e mi sono accorta, a distanza di tempo, che il tema della fiction, che ricordavo come toccante e nostalgico, è in realtà un banale “lamento”, come direbbe Alex Ross (in italiano nel testo) in tonalità minore. Ma fa bene il suo lavoro, funzionale alla fiction, come lo sono certi temi funzionali ai commercial (non parlo di jingle).
PAB - Non sono molto pratico di serial TV. Di solito li evito, anche quelli americani fatti ormai benissimo, non per partito preso ma perché non sopporto le narrazioni a puntate. Conosco solo i Sopranos e ovviamente MadMen, perché li ho seguiti su DVD senza break pubblicitari. Di solito se la cavano con un mucchio di canzoni note, che aiutano a stabilire epoche e atmosfere desiderate.
I soundtrack fatti di canzoni esistenti e non create ad hoc sono una relativa novità nella cronologia del cinema; mi pare di ricordare che si sia incominciato negli anni sessanta. Anche in Italia. A volte funzionano mirabilmente, come ne Il sorpasso di Dino Risi e nei film di Altman.
Canzoni ad hoc, invece: spesso venivano scritte per i titoli di testa e/o di coda; per esempio quelle di Frankie Laine nei western. Ma la cosa buffa è che venivano scritte anche per i silent movie. Non servivano al cinema ma alla radio, per promuovere il film nelle sale. Merchandising sonoro. I soliti americani.
PIA - Lasciando da parte fiction e commercial dove la musica ha sicuramente una funzione indipensabile (non parlo di jingle), dove invece mi trovo a disagio e quasi in rotta di collisione è in film come Melancholia che, per quanto mi riguarda, è la messa in scena più commovente e suggestiva del Tristano (senza dover subire testi noiosi e cantanti in sovrappeso). Ma mi domando anche (tanto Lars von Trier non mi sente e, se anche mi sentisse, mi guarderebbe come un pidocchio da schiacciare): non è un po’ troppo facile lavorare su una musica così e trovarsi la pappa bella e fatta ? Forse sono un po’ bacchettona. Pensa che cosa avrebbe fatto Wagner se, ai suoi tempi, ci fosse stato il cinema. Forse si sarebbe inventato delle scene alla Méliès e non sopporteremmo più la sua musica (in fondo, la grotta di Ludwig col cigno...). Meglio i cantanti in sovrappeso.
PAB - Per me Wagner e Melancholia stanno un gran bene insieme. Facile? Forse, ma che importa? Funziona a meraviglia. Quel film è bellissimo e nuovo, davvero una figata. La fine del mondo da una prospettiva insolita, individuale... Non l’umanità intera, ma un crocchio di persone esposto alla catastrofe finale... Colpo di genio. E dire che di Lars von Trier non mi ero mai fidato. Lo sapevi che veniva dalla pubblicità? Faceva film comici supertrash. Io me ne ricordo uno solo, per un tabloid danese di gossip. Era ambientato in un bagno turco. Uno degli ospiti se ne serviva per nascondere un’erezione.
PIA - Su Melancholiadevo per forza essere d’accordo con te: è un film bellissimo, ma per accettarlo in toto devo pensare che l’accordo del Tristanoè così potente da aver generato e reso legittimo anche il film dell’amico danese. Il resto del cinema danese, beh, lasciamo stare.
Forse ogni cosa ha il suo tempo. Ma, nel caso della musica e del cinema, i tempi non coincidono. Proprio in Hugo Cabret, nella scena in cui si rivede il vecchio film di Georges Méliès, si sentono le Gnossiennes di Satie, che sarebbero il commento più appropriato visto che era proprio a quel tempo che Satie suonava nei cinema. Invece si capisce benissimo che la musica di Satie, in quel preciso momento, è solo una citazione storica, mentre sappiamo bene come le Gnossiennes e le Gymnopédies abbiano funzionato a meraviglia in centinaia di altre scene.
PAB - Anche Satie mi sembra OK con Hugo Cabret. Alla fine il parametro vincente, per me, è alquanto empirico: se esco da un film soddisfatto, vuol dire che nulla mi ha dato fastidio – quindi neanche la musica. Prendiamo un polpettone come Titanic: tutto si può sopportare, di quel film, tranne la smidollatissima canzone, un vero affronto alle mie pur tolleranti orecchie. E l’hanno persino gratificata di un Oscar! Nel momento, poi, in cui la canzone sparge il suo massimo pathos, siamo di fronte a un potenziale spot di Baci Perugina. La canzone è melensa, Céline Dion una cantante che detesto, ma va detto che in quel momento qualsiasi canzone sarebbe stata di pessimo gusto...
PIA - Fuga da Alcatraz l’ho rivisto più volte ma non ne ricordo la musica. Mentalmente lo associo a Shutter Islanddi Scorsese, che di musica ne ha fin troppa, tutta bellissima e tutta in qualche modo manipolata da Robbie Robertson, meno il Piano Quartet di Mahler, che viene lasciato intatto e rigorosamente diegetico. Una lezione bella e pronta su cinema e musica.
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Leonardo DiCaprio in Shutter Island di Martin Scorsese, 2010. |
PAB - Ho riascoltato le musiche di Shutter Island dal relativo CD, separatamente dalle immagini del film. L’effetto è incredibile. Sebbene si tratti di una compilation di brani eterogenei, firmati da una ventina di autori diversi, il risultato è concettualmente compatto, ogni brano regge benissimo con i suoi confinanti come se l’insieme fosse una suite monolitica. E molto visiva, è il caso di dirlo. L’accostamento è insolito e coraggioso: dalle avanguardie contemporanee al pop. Ci sono dentro Adams, Cage, Ligeti, Mahler, Penderecki, Schnittke, ma anche Lonnie Johnson e Dinah Washington. Ogni “movimento” contagia l’altro e tutti insieme sembrano raccontare un inquietante caso clinico. Scorsese è uno di quei registi, pochi, che amano la musica e se ne servono con competenza. Ha prodotto i sette documentari della serie The Blues dirigendone personalmente uno, Dal Mali al Mississippi.
La conversazione che abbiamo iniziato mi fa venir voglia di rivedere in un colpo solo due o tremila film di ogni epoca e provenienza, per analizzarne da vicino i meriti e le pecche musicali. Ieri sera ho preso un DVD a caso dalla mia collezione, un film del 1939 che di buono ha solo il titolo originale: Dark Victory. Incresciosa regia di Edmund Goulding. Pessime interpretazioni di Bette Davis, Humphrey Bogart e George Brent (attore bolsissimo in tutti i film che ho visto con lui; a differenza di un altro bolso famoso, Gregory Peck, era anche fisicamente insignificante).
Melodramma insopportabile. Piena era Max Steiner. Archi e pathos a profusione, roba da non credere, per un plot molto più scarso che nei fotoromanzi Grand Hôtel del dopoguerra (erano una mia passione!)
Mi è venuto da pensare a quanto il cinema di puro intrattenimento sia migliorato, almeno per quanto riguarda il controllo della recitazione, della musica, della drammaturgia. Migliorato, diciamo, fino agli anni ottanta, per poi essere spesso sopraffatto da una serie di nuovi cliché legati in parte alla tecnologia dello stupore e in parte al vezzo di complicare le trame in modo labirintico (non ho mai capito nessun film della serie Ocean’s Eleven). Il sound design degli attuali film d’azione, tecnicamente curatissimo, tende allo stesso obiettivo della parte visiva: creare un climax dopo l’altro, senza risparmio di mezzi. Per questo ti dicevo che adesso cado in solluchero per certi film (rari) completamente e volutamente orfani di musica.
PIA - Anch’io non ci ho capito mai niente di Ocean’s Eleven, nonostante Sky lo riproponga quasi ogni mese da almeno sei anni. Sul sound design, ti posso dire invece che è bellissimo sentirne parlare. Due anni fa, mi è capitato di ascoltare per quasi due ore – il tempo di una piacevolissima cena a casa mia – un amico di Robin Elliott che lavora come sound designer a Los Angeles e il compositore con cui collabora. Parlavano dei film che avevano fatto insieme, capivo benissimo quello che dicevano, come se avessi le tracce sonore sotto gli occhi. Due dei film, almeno, li avevo visti: Juno e Up in the Air, con George Clooney. Sarà stato per quest’ultimo o perché il film l’avevo visto al cinema, ma il sound di Up in the Airmi aveva praticamente travolto e colpito assai più del film. Non so dirti cos’era, neanche che tipo di musica. So solo che ascoltando quei due che ne parlavano, li capivo e li seguivo come la partitura di una sinfonia.
Oggi volevo solo dirti (sto uscendo e ho due crème caramel nel forno) che il merchandising sonoro gli americani lo facevano anche senza la radio – mezzo al quale hanno cominciato a credere solo dopo la seconda guerra mondiale – promuovendo i prodotti con tema musicale e parole sul pentagramma. Non ci volevo credere, ma quando ho visto The Chiquita Banana Song, del 1945... veramente da scemi, ma almeno sapevano leggere le note.
PAB - Promozioni musicali per l’advertising? Ci aveva pensato, prima di tutti, la solita Coca-Cola. Innanzitutto stampando su calendari, vassoi e altri oggetti di merchandising la faccia di una cantante di music hall, Hilda Clark, facendone la sua testimonial dal 1895 al 1903; poi patrocinando spartiti di canzoni popolari e aiutandone promozionalmente la divulgazione. Coca-Cola è stata una grande pioniera della comunicazione integrata, già in tempi assai remoti, e credo che non abbia trascurato niente, ma proprio niente, di ciò che altri hanno creduto di inventare con decenni di ritardo.
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La cantante e attrice Hilda Clark, icona del merchandising Coca-Cola dal 1895 al 1903. |
PIA - Sto leggendo per ragioni professionali un libro noiosissimo, quasi quanto un trattato di diritto istituzionale, The Sounds of Capitalism, di Timothy D. Taylor, 368 pagine di banalità assoluta. Con immagini irriproducibili, coperte da copyright di acciaio, ma che si possono vedere sul sito relativo. Ma valeva la pena di affannarsi tanto a cercarle? Se ci pensi, anche in MadMen si parla sempre, o quasi sempre, di stampa, sebbene la TV annunci la morte di Kennedy. In realtà, quella serie c’entra davvero poco con l’advertising vera. Ma è bella lo stesso. Con quell’apertura straziante – un altro lamento, e il richiamo al film di Otto Preminger. E qui è la domanda: passi la sigla musicale che tutti percepiscono come fortemente nostalgica, ma il manifesto di Anatomia di un omicidio chi poteva ricordarlo, tra il pubblico sia pur sofisticato della AMC ?
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Il manifesto disegnato da Saul Bass per Anatomia di un omicidio (1959), il film di Otto Preminger con musiche originali di Duke Ellington. |
PAB - Il manifesto di Saul Bass per Anatomy of a Murder in realtà è ricordatissimo, credo che faccia parte dell’immaginario collettivo, almeno negli USA. Il web trabocca di lavori di Saul Bass, specialmente di quelli fatti per il cinema. Quello del graphic design applicato ai film è un tema altrettanto appassionante dei soundtrack. La sigla di MadMenè effettivamente strepitosa nella sua semplicità: una bella citazione da Bass. Che pare abbia girato più di una scena di Psycho, dopo aver disegnato un meticoloso storyboard frame-by-frame e i titoli di testa. Bass ha fatto anche un film tutto suo, Phase IV, un cult conosciuto da pochi. Le formiche prendevano il sopravvento sull’uomo.
A proposito di Anatomy: dignitosissimo, ma senza le composizioni di Duke Ellington sarebbe probabilmente un po’ noioso. Uno di quei casi in cui il contorno (Saul Bass ed Ellington) sopravvive al film.
Rivisto or ora: Il terzo uomo. Mi sorprende ogni volta per la perfezione assoluta. Il cinema è questo. Mi domando quanti ragazzi, dai quaranta in giù, lo conoscono. Obbligatorio a scuola lo farei diventare.
Il minimalismo di quella cetra. Folk semplice, che si tinge di tutte le ombre e le obliquità dello shooting.
Welles. I primi tre minuti e mezzo di Touch of Evil! Il piano sequenza più ardito di sempre. Scandito dalla musica – inscindibile dalla scena – di Henry Mancini.
Beh, devo aver citato due dei migliori apporti musicali che siano mai stati concepiti per un film. Almeno secondo i codici che mi stanno a cuore.
Ma dimmi di quel libro di Chion, mi incuriosisce.
PIA - Il libro a cui mi riferivo è La Musique au cinéma. Les chemins de la musique. Paris: Fayard. ISBN 2-213-59466-X. Ma Michel Chion ne ha scritti talmente tanti di libri... Il più importante sembra essere L’Audio-Vision. Son et image au cinéma. [N.p.]: Nathan. ISBN 2-09-190704-9
Effettivamente io non ne ho neanche uno, l’ho solo visto citare decine e decine di volte da cinéphiles francesi, anche per aver creato termini come acusma, suono on the air, supercampo.... diventati d’uso comune negli studi sul cinema.
A me, tutto questo teorizzare su musica e cinema dà un po’ fastidio. Anche perché non finiresti mai di classificare, catalogare... Che cos’era, per esempio, la cetra del Terzo uomo? Il suono di Vienna? Troppo letterale. Comunque, siccome a quei tempi c’ero, ti posso dire che quello che allora colpì non fu tanto Orson Welles, che si conosceva poco, ma il timbro di quello strumento mai sentito prima e lo sguardo di Alida Valli. Ricordo che la musica di Karas si sentiva ovunque e si comprava e si tentava di suonarla su qualsiasi strumento ci fosse in casa, dall’ocarina alla chitarra, al pianoforte. E i Madredeus “scoperti” a Lisbona dal fonico di Wim Wenders, cos’erano? Un esempio perfetto di musica “diegetica”? E Ry Cooder in Paris Texas? Forse era il suono della Route 66. E tanto per restare nel nostro campo, cos’è che resta appiccicato addosso, esattamente come un profumo, dopo gli spot di Chanel Coco Mademoiselle? Certo non la storia della bella-fuggitiva-in-moto a Place Vendôme, ma la canzone di James Brown, ricantata da Jess Stone. Ma lo ammetto: il target di Chanel Coco è femminile. ![]() |
Alida Valli in una scena di The Third Man (Il terzo uomo) di Carol Reed, 1950. |
Come avrai capito ho un modo molto personale di interpretare Adorno-Eisler: nonostante tutti i tentativi, dai più ingenui alla Eisler, ai più sofisticati e contemporanei, il rapporto musica-cinema non è ben definito e neanche teorizzabile perché, nel cinema, la musica non ci dovrebbe neanche essere, o se c’è non si dovrebbe notare, come spesso non si notano i sound effect. È il fatto di sentirla, di ricordarla, spesso più del film stesso, che costituisce uno dei fascini del cinema. E, come ha intuito genialmente Adorno, il suo peccato cardinale. Oggi possiamo dire che un altro peccato cardinale del cinema sono certi bei titoli di testa, certi bei packages che spesso non contengono nulla o quasi.
Un’altra idea che mi gira per la testa è che forse, essendo il cinema l’ultimo arrivato rispetto a tante altre forme d’arte, assai più complesse, avanzate e sofisticate, ci viene spontaneo avere nei confronti del cinema un atteggiamento critico da anatomista e lo studiamo e dissezioniamo con bisturi e strumenti di ultima generazione, come se stessimo analizzando un dipinto di Vermeer o un balletto di Djagilev.
Per adesso, direi, basta. C’è ancora molto da lavorare. A proposito di bei titoli di testa, guardati almeno l’incipit di Breaking Bad, puro Malevič.
© Pia Elliott e Pasquale Barbella