Romanzo a colori
Capitolo IV
Azulene
Ho un sacco di cose nuove da raccontarti, quasi tutte azzurre. Non importa se la posta arriverà in ritardo o non arriverà mai: ho deciso di tenere una copia delle lettere che ti scrivo. Un giorno, forse, ti verrà voglia di leggerle: per amore, per curiosità o per trovare ulteriori giustificazioni al tuo malcontento.
Procedo in disordine cronologico.
L’avvenimento più importante, almeno per me, è che sono completamente guarito. Ho detto addio al centro di riabilitazione, ho riavuto il passaporto, sono di nuovo sano, libero. E felice. Ho speso in tutto meno della metà di quanto temevo, mi è rimasto denaro sufficiente per spassarmela un po’. Mi duole non poter avvertire l’università e la redazione del giornale che ne avrò ancora per un pezzo: se potessi mettermi in contatto con loro li informerei che la convalescenza va per le lunghe e che dovranno pazientare ancora prima di rivedermi. La verità, detto tra noi, è che per il momento non ho nessuna voglia di tornare al lavoro. Ma non posso telefonare a nessuno per la ragione che sai: le telecomunicazioni sono in tilt. E le poste non versano in condizioni migliori del telefono. Pare che nei loro magazzini la corrispondenza inevasa si accumuli di giorno in giorno fino a formare piramidi che sfiorano il soffitto. Il personale è insufficiente o, peggio, incompetente e poco motivato; il servizio è allo sfascio, la protesta degli utenti debole, in giro circola più rassegnazione che indignazione.
Insieme a Ulisse, e solo per merito suo (è un viaggiatore, nel senso pieno della parola), ho trovato una sistemazione dignitosa, a due passi dal Kursaal, dalla Lavandería e dalla Biblioteca Municipal. Una camera al secondo piano del Grey, l’albergo meno asfittico della Capital, sebbene alquanto sovietico nell’architettura e nel servizio. Ulisse occupa una camera contigua alla mia. Ub voleva prestarmi il suo coupé per il trasferimento, anche se c’era poco da trasportare: una valigia io, uno zaino il greco; e meno male, perché quello non è esattamente il tipo di auto più adatto a un trasloco. Ma Ub è fatto così, vuole rendersi utile a tutti i costi anche se non ne ha né le capacità né i mezzi. Ho comprato qualche capo di biancheria e un paio di camicie azzurre in fibra sintetica (non trovi cotone né puro né impuro da queste parti), ero partito solo con quanto avevo indosso. I negozi non sono un granché: ora che lo so con certezza posso sconsigliarti a ragion veduta di venire: la tetraggine dell’isola – che io trovo suggestiva proprio a causa del suo estremismo – ti scoccerebbe a morte. Ub si è messo in testa di avviare un’attività di import-export, non ha mai fatto l’imprenditore prima di stabilirsi qui (in seguito a una delusione d’amore, mi è parso di capire), ma è convinto di farcela, è un progetto che lo appassiona; pensa che ci sia spazio per qualsiasi iniziativa, un mercato enorme tutto da fondare, etc. etc. Evidentemente ha superato la fase in cui ora mi trovo io (assoluto disinteresse per ogni sorta di attività produttiva) e gli è venuta nostalgia dei vecchi tempi, la nostalgia del fare, fare, fare.
Ricordi gli arabi di cui ti parlavo? (Ma non hai nulla da ricordare: il postino non avrà bussato alla tua porta nemmeno una volta). Beh, anche il secondo è finito di nuovo in ospedale. Lo hanno trattenuto senza esitazioni quando si è presentato a una delle visite di controllo programmate: era in uno stato d’ansia che i medici hanno giudicato allarmante. Il suo compagno invece si è ripreso, è probabile che lo dimettano prima di domenica. «Un miracolo», è stato il commento di un’infermiera. «L’infermiera è stata licenziata», è stato il commento di Ulisse.
Con Ulisse, Derek e una ragazza che ho conosciuto in biblioteca, Françoise, ho fatto la mia prima gita fuori porta, domenica scorsa. Ub non ha voluto saperne di aggregarsi alla compagnia: anche se adora i motori è un sedentario inguaribile. Aveva smesso finalmente di piovere: il cielo, benché cinereo, ci ha incoraggiati all’evasione. La corriera – residuo d’altri tempi – traboccava di passeggeri; ho fatto mezzo viaggio in piedi, sballottato come un panno appeso al vento e maledicendo il mezzo, il conducente e il fondo stradale. A una quindicina di chilometri dalle ultime case della città scorre il Río Azul, una calamita per i maniaci di escursioni. Entrambe le rive del fiume pullulavano di gitanti. Sciami di bambini, turbinanti tra bassi aliti di nebbia, con i loro palloni di plastica, i loro aquiloni fatti a mano con fogli di giornale, scotch da pacchi e gomitoli di spago: dozzine di scolaresche in uniforme azzurra, ma anche famigliole, pensionati, innamorati. E dozzine di barcaioli pronti a traghettarli. C’erano dei matti – forse russi, svedesi o finlandesi – che non esitavano a denudarsi completamente e a tuffarsi, a improvvisare gare di velocità, a giocare a pallanuoto, incuranti della gelida temperatura dell’acqua. Ho notato suore cattoliche e oranti musulmani accampati su rive opposte, e così uomini con la kefiah e con la kippah e altri rivali d’ogni risma, gli uni di qua, gli altri di là; ma il quadretto, ad abbracciarlo per intero con lo sguardo, era edificante, starei per dire commovente: un fiume di mezzo è un divisorio accettabile, se nessuno spara dalle sponde. Un déjeuner sur l’herbe– erba vera, finalmente, non importa se tendente al giallastro, e persino qualche cespuglio – affollatissimo e cosmopolita, un picnic collettivo da grandi speranze: retorico e romanzesco lo definirei, se non l’avessi visto coi miei occhi. Il tutto su una pianura talmente schiacciata da farti dubitare che la terra sia rotonda.
«Se c’è un fiume, dev’esserci anche una montagna da qualche parte», ha ripetuto più volte Ulisse, scrutando gli orizzonti nel tentativo di scorgere, nella foschia, la sagoma remota di un’altura. «Uno di questi giorni si va a vedere», ha concluso con determinazione. «Si noleggia una macchina e si guida lungo il fiume; si va fin dove nasce.»
«Che guardi?», gli ha chiesto un clochard dalla barba bianca e selvatica, che si era appena accomodato su un masso e rovistava in un sacchetto di plastica.
«Le montagne».
«Se riesci a vedere le montagne, forse riuscirò anch’io a vedere l’oggetto dei miei desideri.»
«Cosa vorresti vedere?»
«Una teglia di lasagne appena uscita dal forno. Invece dovrò accontentarmi di pane e mortadella. Vuoi mezzo panino?»
«No, grazie.»
«Non fare complimenti, è troppo per me.»
«Sei gentile, ma non ho fame.»
Ha insistito per dimezzare il suo pasto con qualcuno di noi, ricavandone educati rifiuti.
«Ho anche delle mele: ce n’è per tutti.»
Per Ulisse, il soggetto era assai più interessante della mortadella e delle mele. «Sei del posto?»
«Nessuno che sia del posto verrebbe mai a perdere tempo lungo il fiume. Una volta ero italiano», ha detto in spagnolo.
«Anche l’amico è delle tue parti», ha dichiarato Ulisse indicandomi.
Il nostro interlocutore ha cambiato lingua e si è presentato come Malaspina, continuando a masticare. Per fortuna non mi ha teso la mano unta. In passato ho avuto un collega con quel nome, ma non ricordo che faccia avesse.
Nessuno di noi è stato così formale da presentarsi a sua volta.
«Stai nella capitale?», gli ha chiesto Ulisse. E lui:
«Sto dove capita: oggi qui, domani lì. “Stare” non è il verbo che fa per me.»
«Qual è il tuo verbo preferito?»
«Passare. Oggi sono l’uomo che passa. Un tempo il mio verbo era diverso.»
«Che verbo?»
«Scrivere. Per tutti ero “l’uomo che scrive”. Tranne che per gli editori.»
«Eri uno scrittore?»
«Essere “l’uomo che scrive” non fa di te necessariamente uno scrittore.»
«Qual è la differenza?»
«Non l’ho mai imparata. E il tuo verbo qual è?»
«Non me lo sono mai chiesto.»
«Male. I verbi servono proprio a questo: a dire chi sei. Senza un verbo non sei nessuno.»
«Forse ho un verbo anch’io, ma non so quale sia. Magari lo sa lui. Il mio verbo segreto, intendo.»
«Vedo di aiutarti. Guardare?»
«Guardare. Sì, non mi dispiace. Ha un senso.»
«Ti piaccia o non ti piaccia, per me sei “l’uomo che guarda”. Oggi le montagne, domani chissà.»
«Sei il classico vecchio saggio, a quanto pare. Ne hai anche l’aspetto.»
«Vuoi dire che sono un cliché?»
«Non lo penso affatto. Credimi.»
«Non sono “l’uomo che crede” e nemmeno “l’uomo che non crede”. Te l’ho già detto: il mio verbo è un altro.»
«I verbi sono la tua fissazione.»
«Non la mia. Quella degli altri. Vuoi sapere la storia dell’uomo che passa?»
«L’uomo che passa sei tu. L’hai detto prima. Sì, la tua storia deve essere avvincente.»
«Non ho detto di essere l’unico al mondo con quel verbo. Ne ho conosciuto un altro, tanto tempo fa.»
La nebbiolina si era diradata e potevi vedere meglio la trasparenza scintillante dell’acqua. L’aria era un concerto di voci e di echi: uso una frase fatta, ma rende bene l’idea. Un ragazzo giocava col cane come si gioca col cane su tutte le rive del mondo: lanciando un pezzo di legno nell’acqua, più lontano che si può, e aspettando che il cane ritorni col suo trofeo fra i denti. È stato il cane a farmi notare, indirettamente, la totale assenza di uccelli. Né gabbiani, né passeri, né merli.
Come se il vecchio mi leggesse nel pensiero, ha smesso di mangiare e ha osservato, quasi in trance:
«Ci sono piccoli eventi che si ripetono per anni sotto i tuoi occhi senza che tu te ne accorga, finché un caso, magari banale, non te li fa notare: e allora ciò che prima non aveva la minima importanza per te tutt’a un tratto diventa necessario, o almeno così ti sembra. Del resto deve esserci qualche necessità nelle ossessioni, altrimenti non ne diventeremmo perdutamente schiavi; le ossessioni somigliano un po’ alla febbre, che ti disturba e t’incendia e ti svuota, ma che la natura ha tirato fuori dal suo cappello a cilindro per difenderti da insidie più oscure, e avvisarti che è il momento di stare in guardia.»
Dovevo preoccuparmi dei gabbiani e dei merli? Non capivo dove volesse arrivare. Dopo una pausa ha ripreso a parlare senza più interrompersi:
«L’uomo che passa abitava (non posso dire abita, anche se non ho prove certe della sua scomparsa) a pochi isolati dal mio. Ancora oggi so poco di lui: doveva (deve?) essere un artigiano, o un libero professionista, o un nullafacente, perché altrimenti non si spiegherebbe il suo continuo passare. Che altro verbo devo usare? Ciascuno vivendo compie mille, milioni di azioni e gesti, e di ogni azione e gesto è previsto e registrato nel vocabolario l’opportuno verbo: dormire, svegliarsi, vestirsi, camminare, mangiare, bere, amare, fumare, domandare, rispondere, viaggiare, leggere, pulire, cucinare, grattarsi, e tutti i verbi del mondo poi confluiscono come fiumi verso un unico oceanico verbo, che è esistere. Ma nel suo piccolo ogni creatura si specializza, per così dire, in un verbo di gradimento suo o della sorte, verbo nel quale si riconosce in modo più specifico; sicché, se il dormire o il mangiare appartengono a tutti, il Dormire con la D maiuscola è tipico dell’abulico, cioè di chi sceglie il sonno come specializzazione e distinzione di sé. Io, come vi ho detto, ero uno che scrive; non l’unico nell’universo, beninteso, considerata la moltitudine degli scriventi che occupa vaste regioni del pianeta, della storia e delle galassie; ma dire quello che scrive era sufficiente, nel mio quartiere o nei limitati ambienti che frequentavo, a far capire che si stava parlando di me. Dove le cose si complicano, almeno per chi non mangia filosofia a cena e colazione (e io, perdonatemi, sono tra quelli), è nella prospettiva, cioè nel punto di vista di chi osserva; voglio dire che chi mi conosceva poteva ben riferirsi a me con l’espressione quello che scrive, trovandomi sufficientemente d’accordo sulla scelta del verbo; mentre per lo sconosciuto che aspetta il suo turno mentre sto telefonando da una cabina pubblica sono l’uomo che telefona, e niente di più. A risvegliare la mia attenzione sull’uomo che passa furono, un giorno di non so più quanti inverni fa, i miei figli all’ora di pranzo. Ne parlavano tra loro come se fosse la cosa più naturale del mondo.
“Oggi aveva più fretta del solito, forse a causa della tormenta.”
“A che ora l’hai visto?”
“Sono andata alla messa delle nove, saranno state le nove meno dieci, e stava tornando a casa. Schizzava a un passo da maratoneta e non aveva l’ombrello.”
“Io invece sono uscito alle undici per andare all’edicola e l’ho incrociato dieci minuti dopo tornando a casa. Stava puntando di gran carriera verso il centro e l’ombrello ce l’aveva, ma aveva smesso di nevicare.”
A un certo punto chiesi di chi diavolo stessero parlando, e tutti e due mi guardarono un po’ meravigliati, come si guarda un ubriaco.
“Di chi vuoi che parliamo?”, disse Maurizio. “Dell’uomo che passa, naturalmente.”
“Quale uomo che passa?”
I ragazzi mi degnarono d’un vago sguardo tra l’ironico e lo sconfortato. Conoscevo quel loro modo di guardare e tutti i sottintesi: mi ritenevano un tipo soavemente distratto, com’è forse fatale per un individuo che scrive e che non cessa di scrivere, almeno mentalmente, neanche intorno alla mensa domenicale.
“Mamma, lo senti? Ci chiede chi è l’uomo che passa.”
“Sapete com’è fatto vostro padre. Quell’uomo potrebbe passargli anche sul naso, oltre che sotto, e lui continuerebbe a non vederlo.”
Mi consideravano un fenomeno, e forse non avevano tutti i torti. Ma presto ricominciarono a occuparsi di quell’altro fenomeno, evidentemente più interessante di me: l’uomo che passa. Si scambiarono qualche altro commento incomprensibile e poi spostarono saggiamente l’attenzione sulla lasagna al forno, presenza che s’impose fieramente anche sul mio scrivere mentale. L’episodio fu presto dimenticato, com’è giusto che avvenga per i fatti di poco conto.
Qualche tempo dopo, uscendo di casa per andare alla fermata dell’autobus (cosa che facevo tutti i giorni feriali alla stessa ora), salutai come al solito uno dei miei vicini e – flash! – mi ricordai di quella sciocca conversazione a tavola. Era lui l’uomo che passa? L’uomo che s’incontra sempre sullo stesso tratto di strada? Ma certo, non poteva essere che lui. Lo avevo incontrato tante di quelle volte che avevamo preso a scambiarci un rapido saluto, come se ci conoscessimo da sempre. E non ci conoscevamo, forse, da sempre? Erano almeno venticinque anni che vivevo in quella parte della città, e lui c’era stato fin dal primo momento: forse vi era addirittura nato. Col tempo era ovviamente cambiato: si era appesantito e gli si erano ingrigiti i capelli. Ma anche con me il tempo non aveva scherzato: i capelli, invece di ingrigirsi, se n’erano andati in pensione nel buco della doccia, lasciandomi un po’ troppo sguarnito ad affrontare il peso dell’esistenza. Per questo, adesso, mi lascio crescere la barba. E non faccio più la doccia.
Pensai: è vero, quest’uomo passa ogni mattina alla stessa ora. Ma anch’io passo ogni mattina alla stessa ora. Non c’è niente di strano, anzi nientissimo. Le strade sono fatte per passarci e per permetterci di raggiungere le nostre destinazioni: quando i percorsi sono quotidiani, ciò che accade lungo il tragitto tende a ripetersi. Ma quest’uomo, mi sovvenne, lo incontro anche di sera. E non torno a casa sempre alla stessa ora. A volte presto, quando i negozi sono ancora aperti; altre volte a ore impossibili, quando tutti hanno già cenato tranne me. Ma non ero sicuro della mia memoria: davvero lo avevo sempreincontrato la sera, o solo qualche volta? Decisi di aguzzare l’attenzione, e posso sostenere, con inconfutabile certezza, che da allora incrociai o camminai in parallelo con l’uomo che passa tutte le volte che percorsi quei duecento metri di strada che separavano casa mia dal primo semaforo. L’uomo che passava, e che a un certo punto — misteriosamente — non passò più, non aveva mai l’aria di passeggiare. Marciava. Si spostava con la determinazione di chi abbia una meta: tornare a casa in fretta, se andava in giù, o andare a sbrigare una commissione urgente, se andava in su. Raramente, però, mi fu concesso di scoprire da qualche indizio la natura delle sue commissioni: di solito teneva entrambe le mani in tasca, non un pacchetto, non una borsa, non un cartoccio di pane o una bottiglia di latte. Mi salutava prontamente, come se riuscisse a vedermi per primo; di rado mi è capitato di precederlo nel saluto. Saluto che però era fulmineo e per nulla preludente a qualche forma di comunicazione più intensa: buongiorno, buonasera e via per la sua strada, militarescamente.
Non passa più, diceva un accorato tango che mia madre usava cantare da giovane, durante le faccende domestiche meno pesanti. Non passa più / per la mia stessa via... Ma quella era una canzone sentimentale, il lamento di un tizio che ha perso ogni occasione di rivedere la donna amata. Di cosa dovevo lamentarmi, io? Che ragione avevo, se ne avevo, di rimpiangere la scomparsa di uno sconosciuto, un tizio che mi era del tutto indifferente?
No, non era rimpianto. Era semplicemente l’ansia di chi non riesce a trovare risposta alle sue domande. Mettetevi al posto mio: per più di venticinque anni, tutte le volte che uscite di casa o vi fate ritorno, vi imbattete in una certa persona e vi chiedete come ciò possa accadere, dal momento che il fenomeno va contro le più ragionevoli leggi statistiche. Non solo: vostra moglie e i vostri figli incontrano lo stesso individuo con la medesima regolarità, ogni volta che ciascuno di loro esce di casa o vi rientra. Non è surreale? È possibile che quell’uomo sia condannato, da una legge oscura, a ripercorrere continuamente i suoi passi, giorno e notte, senza apparente motivo? E improvvisamente, un certo giorno, non passa più: né per voi né per nessun altro. È morto? È vivo? È malato? Si è trasferito? Passa e ripassa altrove, a beneficio di nuovi testimoni?
Non sono mai stato uno che si arrende facilmente: cominciai a svolgere indagini. Prima con discrezione, poi con sempre maggiore invadenza.
“Abita qui un signore col giaccone di cuoio, i capelli grigi e la pancetta?”
“Vuol dire il Raimondi? Quello del terzo piano?”
“Uno che va sempre di fretta.”
“Allora è il Raimondi, quello del terzo piano.”
“Sta bene?”
“Certo che sta bene. Come dovrebbe stare?”
“Perché non esce più?”
Dal modo di squadrarmi della portinaia, arguii che dovevo sembrarle strano.
“Come sarebbe a dire, non esce più? Esce, esce. Adesso, per esempio, è fuori.”
“Ah.”
“Chi devo dire, quando torna?”
“Oh, niente, niente. Vedrò di incontrarlo per strada. Sa in che direzione è andato?”
“In che direzione vuole che sia andato? La solita.”
“Certo, la solita. Forse aveva una commissione urgente da sbrigare.”
“Che commissione?”
“Dicevo così per dire. Arrivederci.”
Tutti i miei tentativi, da quel giorno, andarono a vuoto. Investii gran parte dei miei weekend in appostamenti, come avevo visto fare dagli investigatori privati al cinema. Purtroppo non sapevo stare lontano dalle mie carte per più di tre ore, e forse fu questa debolezza – tipica dell’uomo che scrive – a precludermi ogni possibilità di rivedere l’uomo che passa. Non ebbi neanche il coraggio di proporre ai miei familiari dei turni di sorveglianza: non osavo confessare che stavo svolgendo quel genere di ricerca.
“Dove sei stato finora? Non eri uscito solo per prendere il giornale?”
“Sai com’è. Il giornalaio mi ha attaccato un bottone di un’ora.”
“Ma sei stato fuori almeno tre ore.”
“Ho preso un caffè con l’ingegnere. Il tempo è volato.”
Ero stanco di raccontare bugie così patetiche. Il fatto è che stavo male. Non riuscivo più neanche a scrivere, perché mi si era piantato un chiodo in testa; avevo paura di diventare come Jack Nicholson in quel film spaventoso, dove lui impazzisce per una ragione stupida e comincia a fare fesserie.
Di tanto in tanto, a tavola, buttavo lì una domanda con l’aria più indifferente del mondo.
“Si è visto l’uomo che passa?”
“Macché, non passa più.”
“Non si vede da un pezzo. Sarà morto.”
I miei non sembravano molto impressionati. Io invece lo ero, eccome. Forse la portinaia l’aveva trucidato e nascosto in cantina, per non subire più gli spifferi: lei viveva al piano terra, e tutto quell’andirivieni doveva averla turbata fino a indurla a estreme sconsideratezze. Io continuavo a essere l’uomo che scrive, anche se scrivevo molto meno di prima; e un bel mattino mi alzai con l’idea di usare il mio verbo per andare in fondo alla questione. Non ditelo a nessuno: scrissi una lettera anonima. A chi? Alla polizia, naturalmente. Ritagliai le lettere dai titoli dei giornali e le incollai su un foglio di carta extra-strong della marca più diffusa, in modo che gli inquirenti non potessero risalire alla cartoleria in cui si vendeva il tipo X o il tipo Y. Scrissi: “Uomo terzo piano scomparso via Garibaldi 21. Torchiare custode.”
La sera, a cena, mia moglie raccontò che c’era stato movimento nel quartiere. “Al mercato le donne non parlavano d’altro.”
“Di cosa?”
“Della polizia che ha fatto un sacco di domande alla portinaia del 21.”
“Che domande?”
“Boh. Cercavano un tizio che abita lì.”
“Per arrestarlo?”
“Ti dispiace passare il sale? No, alla fine non lo hanno arrestato. Non si è capito cosa volessero da lui.”
“E l’uomo era lì?”
“Era lì perché, a quanto pare, ci abita.”
“E chi è?”
“Un certo Raimondi.”
“Lo conosciamo?”
“Direi di no. Non conosco nessuno con quel nome.”
“Forse lo conosciamo di vista.”
“Forse sì, forse no. Che importanza può avere?”
Già, che importanza può avere?»
P.S. - Dimenticavo di dirti che lungo entrambi i bordi della strada che porta al fiume sta per svilupparsi un cantiere senza fine. Sono almeno dieci i chilometri transennati, e in prossimità del Río Azul sono già in azione gli escavatori. Non ci avrei fatto caso, se due dei miei compagni di viaggio non avessero fatto congetture sul tema per tutto il percorso. «Un nuovo ospedale ancora più grande e attrezzato», secondo Derek. «Rifanno ex novo l’intera capitale, vedrete, una specie di Brasilia, tutta a colori», è l’opinione di Ulisse, che trova malinconica la città attuale. Per carenza d’azzurro, immagino.
© Pasquale Barbella
(4 – Continua)