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Chroma. Capitolo IV

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Romanzo a colori
Capitolo IV

Azulene


Ho un sacco di cose nuove da raccontarti, quasi tutte azzurre. Non importa se la posta arriverà in ritardo o non arri­verà mai: ho de­ciso di tenere una copia delle lettere che ti scrivo. Un giorno, forse, ti verrà voglia di leggerle: per amore, per curio­sità o per trovare ulteriori giustificazioni al tuo mal­contento.

Procedo in disordine cronologico.

L’avvenimento più importante, almeno per me, è che sono completamente guarito. Ho detto addio al centro di riabilita­zione, ho riavuto il passaporto, sono di nuovo sano, libero. E felice. Ho speso in tutto meno della metà di quanto temevo, mi è rimasto denaro sufficiente per spassarmela un po’. Mi duole non poter av­vertire l’università e la redazione del giornale che ne avrò ancora per un pezzo: se potessi mettermi in contatto con loro li informe­rei che la convalescenza va per le lunghe e che dovranno pazien­tare ancora prima di rivedermi. La verità, detto tra noi, è che per il momento non ho nessuna voglia di tornare al lavoro. Ma non posso telefonare a nessuno per la ragione che sai: le telecomuni­cazioni sono in tilt. E le poste non versano in condizioni migliori del telefono. Pare che nei loro magazzini la corrispondenza ine­vasa si accumuli di giorno in giorno fino a formare piramidi che sfiorano il soffitto. Il per­sonale è insufficiente o, peggio, incom­petente e poco motivato; il servizio è allo sfascio, la protesta degli utenti debole, in giro circola più rassegnazione che indignazione.

Insieme a Ulisse, e solo per merito suo (è un viaggiatore, nel senso pieno della parola), ho trovato una sistemazione dignitosa, a due passi dal Kursaal, dalla Lavandería e dalla Biblioteca Muni­cipal. Una camera al secondo piano del Grey, l’albergo meno asfittico della Capital, sebbene alquanto sovie­tico nell’architettura e nel servizio. Ulisse occupa una camera contigua alla mia. Ub voleva prestarmi il suo coupé per il tra­sferimento, anche se c’era poco da trasportare: una valigia io, uno zaino il greco; e meno male, perché quello non è esatta­mente il tipo di auto più adatto a un trasloco. Ma Ub è fatto così, vuole rendersi utile a tutti i costi an­che se non ne ha né le capa­cità né i mezzi. Ho comprato qualche capo di biancheria e un paio di camicie azzurre in fibra sintetica (non trovi cotone né puro né impuro da queste parti), ero partito solo con quanto avevo indosso. I negozi non sono un granché: ora che lo so con certezza posso sconsigliarti a ragion veduta di ve­nire: la tetrag­gine dell’isola – che io trovo suggestiva proprio a causa del suo estremismo – ti scoccerebbe a morte. Ub si è messo in testa di avviare un’attività di import-export, non ha mai fatto l’imprenditore prima di stabilirsi qui (in seguito a una delu­sione d’amore, mi è parso di capire), ma è convinto di farcela, è un pro­getto che lo appassiona; pensa che ci sia spazio per qualsiasi ini­ziativa, un mercato enorme tutto da fondare, etc. etc. Evidente­mente ha superato la fase in cui ora mi trovo io (assoluto disinte­resse per ogni sorta di attività produttiva) e gli è venuta no­stalgia dei vecchi tempi, la nostalgia del fare, fare, fare.

Ricordi gli arabi di cui ti parlavo? (Ma non hai nulla da ricor­dare: il postino non avrà bussato alla tua porta nemmeno una volta). Beh, anche il secondo è finito di nuovo in ospedale. Lo hanno trattenuto senza esitazioni quando si è presentato a una delle visite di controllo programmate: era in uno stato d’ansia che i medici hanno giudicato allarmante. Il suo compa­gno invece si è ripreso, è probabile che lo dimettano prima di domenica. «Un miracolo», è stato il commento di un’infermiera. «L’infermiera è stata licenziata», è stato il commento di Ulisse.

Con Ulisse, Derek e una ragazza che ho conosciuto in biblio­teca, Françoise, ho fatto la mia prima gita fuori porta, domenica scorsa. Ub non ha voluto saperne di aggregarsi alla compagnia: anche se adora i motori è un sedentario inguaribile. Aveva smesso finalmente di piovere: il cielo, benché cinereo, ci ha incoraggiati all’evasione. La corriera – residuo d’altri tempi – traboccava di passeggeri; ho fatto mezzo viaggio in piedi, sballottato come un panno appeso al vento e maledicendo il mezzo, il condu­cente e il fondo stradale. A una quindicina di chilometri dalle ultime case della città scorre il Río Azul, una calamita per i maniaci di escursioni. Entrambe le rive del fiume pullula­vano di gitanti. Sciami di bambini, tur­binanti tra bassi aliti di nebbia, con i loro palloni di plastica, i loro aquiloni fatti a mano con fogli di giornale, scotch da pacchi e gomitoli di spago: dozzine di scolare­sche in uniforme azzurra, ma anche famigliole, pensionati, innamorati. E dozzine di barcaioli pronti a traghettarli. C’erano dei matti – forse russi, svedesi o finlandesi – che non esitavano a denudarsi completamente e a tuffarsi, a improvvisare gare di velocità, a giocare a pallanuoto, incuranti della gelida temperatura dell’acqua. Ho no­tato suore cattoliche e oranti musulmani accampati su rive oppo­ste, e così uomini con la kefiah e con la kippah e altri rivali d’ogni risma, gli uni di qua, gli altri di là; ma il qua­dretto, ad abbrac­ciarlo per intero con lo sguardo, era edificante, starei per dire commovente: un fiume di mezzo è un divisorio accettabile, se nessuno spara dalle sponde. Un déjeuner sur l’herbe– erba vera, finalmente, non importa se tendente al giallastro, e persino qual­che cespuglio – affollatissimo e cosmopolita, un picnic collettivo da grandi speranze: retorico e romanzesco lo definirei, se non l’avessi visto coi miei occhi. Il tutto su una pianura talmente schiacciata da farti dubitare che la terra sia rotonda.

«Se c’è un fiume, dev’esserci anche una montagna da qualche parte», ha ripetuto più volte Ulisse, scrutando gli oriz­zonti nel tentativo di scorgere, nella foschia, la sagoma remota di un’altura. «Uno di questi giorni si va a vedere», ha concluso con determina­zione. «Si noleggia una macchina e si guida lungo il fiume; si va fin dove nasce.»

«Che guardi?», gli ha chiesto un clochard dalla barba bianca e selvatica, che si era appena accomodato su un masso e rovistava in un sacchetto di plastica.

«Le montagne».

«Se riesci a vedere le montagne, forse riuscirò anch’io a ve­dere l’oggetto dei miei desideri.»

«Cosa vorresti vedere?»

«Una teglia di lasagne appena uscita dal forno. Invece do­vrò accontentarmi di pane e mortadella. Vuoi mezzo panino?»

«No, grazie.»

«Non fare complimenti, è troppo per me.»

«Sei gentile, ma non ho fame.»

Ha insistito per dimezzare il suo pasto con qualcuno di noi, ricavandone educati rifiuti.

«Ho anche delle mele: ce n’è per tutti.»

Per Ulisse, il soggetto era assai più interessante della morta­della e delle mele. «Sei del posto?»

«Nessuno che sia del posto verrebbe mai a per­dere tempo lungo il fiume. Una volta ero italiano», ha detto in spa­gnolo.

«Anche l’amico è delle tue parti», ha dichiarato Ulisse indican­domi.

Il nostro interlocutore ha cambiato lingua e si è presentato come Malaspina, continuando a masticare. Per fortuna non mi ha teso la mano unta. In passato ho avuto un collega con quel nome, ma non ricordo che faccia avesse.

Nessuno di noi è stato così formale da presentarsi a sua volta.

«Stai nella capitale?», gli ha chiesto Ulisse. E lui:

«Sto dove capita: oggi qui, domani lì. “Stare” non è il verbo che fa per me.»

«Qual è il tuo verbo preferito?»

«Passare. Oggi sono l’uomo che passa. Un tempo il mio verbo era diverso.»

«Che verbo?»

«Scrivere. Per tutti ero “l’uomo che scrive”. Tranne che per gli editori.»

«Eri uno scrittore?»

«Essere “l’uomo che scrive” non fa di te necessariamente uno scrittore.»

«Qual è la differenza?»

«Non l’ho mai imparata. E il tuo verbo qual è?»

«Non me lo sono mai chiesto.»

«Male. I verbi servono proprio a questo: a dire chi sei. Senza un verbo non sei nessuno.»

«Forse ho un verbo anch’io, ma non so quale sia. Magari lo sa lui. Il mio verbo segreto, intendo.»

«Vedo di aiutarti. Guardare?»

«Guardare. Sì, non mi dispiace. Ha un senso.»

«Ti piaccia o non ti piaccia, per me sei “l’uomo che guarda”. Oggi le montagne, domani chissà.»

«Sei il classico vecchio saggio, a quanto pare. Ne hai anche l’aspetto.»

«Vuoi dire che sono un cliché?»

«Non lo penso affatto. Credimi.»

«Non sono “l’uomo che crede” e nemmeno “l’uomo che non crede”. Te l’ho già detto: il mio verbo è un altro.»

«I verbi sono la tua fissazione.»

«Non la mia. Quella degli altri. Vuoi sapere la storia dell’uomo che passa?»

«L’uomo che passa sei tu. L’hai detto prima. Sì, la tua sto­ria deve essere avvincente.»

«Non ho detto di essere l’unico al mondo con quel verbo. Ne ho conosciuto un altro, tanto tempo fa.»

La nebbiolina si era diradata e potevi vedere meglio la tra­sparenza scintillante dell’acqua. L’aria era un concerto di voci e di echi: uso una frase fatta, ma rende bene l’idea. Un ragazzo giocava col cane come si gioca col cane su tutte le rive del mondo: lanciando un pezzo di legno nell’acqua, più lontano che si può, e aspettando che il cane ritorni col suo trofeo fra i denti. È stato il cane a farmi notare, indirettamente, la totale assenza di uccelli. Né gabbiani, né pas­seri, né merli.

Come se il vecchio mi leggesse nel pensiero, ha smesso di mangiare e ha osservato, quasi in trance:

«Ci sono piccoli eventi che si ripetono per anni sotto i tuoi occhi senza che tu te ne accorga, finché un caso, magari banale, non te li fa notare: e al­lora ciò che prima non aveva la minima importanza per te tutt’a un tratto diventa necessario, o almeno così ti sembra. Del resto deve esserci qualche necessità nelle os­sessioni, altrimenti non ne diventeremmo perdutamente schiavi; le ossessioni somigliano un po’ alla febbre, che ti disturba e t’incen­dia e ti svuota, ma che la natura ha tirato fuori dal suo cap­pello a cilindro per difenderti da insidie più oscure, e avvisarti che è il momento di stare in guardia.»

Dovevo preoccuparmi dei gabbiani e dei merli? Non capivo dove volesse arrivare. Dopo una pausa ha ripreso a parlare senza più interrompersi:

«L’uomo che passa abitava (non posso dire abita, anche se non ho prove certe della sua scomparsa) a pochi isolati dal mio. Ancora oggi so poco di lui: doveva (deve?) essere un artigiano, o un libero professionista, o un nullafacente, perché altrimenti non si spiegherebbe il suo continuo pas­sare. Che altro verbo devo usare? Ciascuno vivendo compie mille, mi­lioni di azioni e gesti, e di ogni azione e gesto è previsto e registrato nel vo­cabola­rio l’opportuno verbo: dormire, svegliarsi, vestirsi, camminare, man­giare, bere, amare, fumare, domandare, rispondere, viaggiare, leggere, pu­lire, cucinare, grattarsi, e tutti i verbi del mondo poi confluiscono come fiumi verso un unico oceanico verbo, che è esistere. Ma nel suo piccolo ogni crea­tura si spe­cializza, per così dire, in un verbo di gradimento suo o della sorte, verbo nel quale si riconosce in modo più speci­fico; sicché, se il dor­mire o il man­giare appartengono a tutti, il Dormire con la D maiuscola è ti­pico dell’abulico, cioè di chi sceglie il sonno come specializza­zione e di­stinzione di sé. Io, come vi ho detto, ero uno che scrive; non l’unico nell’uni­verso, beninteso, considerata la moltitudine degli scriventi che occupa vaste regioni del pianeta, della storia e delle galas­sie; ma dire quello che scrive era sufficiente, nel mio quartiere o nei limitati ambienti che frequentavo, a far capire che si stava parlando di me. Dove le cose si complicano, almeno per chi non mangia filosofia a cena e colazione (e io, per­donatemi, sono tra quelli), è nella prospettiva, cioè nel punto di vista di chi osserva; voglio dire che chi mi conosceva poteva ben rife­rirsi a me con l’espressione quello che scrive, trovandomi suf­ficientemente d’ac­cordo sulla scelta del verbo; mentre per lo sconosciuto che aspetta il suo turno mentre sto telefonando da una cabina pubblica sono l’uomo che tele­fona, e niente di più. A ri­svegliare la mia attenzione sull’uomo che passa furono, un giorno di non so più quanti inverni fa, i miei figli all’ora di pranzo. Ne parlavano tra loro come se fosse la cosa più natu­rale del mondo.

“Oggi aveva più fretta del solito, forse a causa della tor­menta.”

“A che ora l’hai visto?”

“Sono andata alla messa delle nove, saranno state le nove meno dieci, e stava tornando a casa. Schizzava a un passo da maratoneta e non aveva l’ombrello.”

“Io invece sono uscito alle undici per andare all’edicola e l’ho incro­ciato dieci minuti dopo tornando a casa. Stava pun­tando di gran carriera verso il centro e l’ombrello ce l’aveva, ma aveva smesso di nevicare.”

A un certo punto chiesi di chi diavolo stessero parlando, e tutti e due mi guardarono un po’ meravigliati, come si guarda un ubriaco.

“Di chi vuoi che parliamo?”, disse Maurizio. “Dell’uomo che passa, naturalmente.”

“Quale uomo che passa?”

I ragazzi mi degnarono d’un vago sguardo tra l’ironico e lo sconfortato. Conoscevo quel loro modo di guar­dare e tutti i sottintesi: mi ritenevano un tipo soave­mente di­stratto, com’è forse fatale per un individuo che scrive e che non cessa di scrivere, almeno mentalmente, ne­anche intorno alla mensa domenicale.

“Mamma, lo senti? Ci chiede chi è l’uomo che passa.”

“Sapete com’è fatto vostro padre. Quell’uomo potrebbe pas­sargli anche sul naso, oltre che sotto, e lui continuerebbe a non vederlo.”

Mi consideravano un fenomeno, e forse non avevano tutti i torti. Ma presto ricominciarono a occuparsi di quell’altro feno­meno, evidentemente più interessante di me: l’uomo che passa. Si scambiarono qualche altro commento incomprensibile e poi spo­starono saggiamente l’attenzione sulla lasagna al forno, presenza che s’impose fieramente anche sul mio scrivere men­tale. L’episodio fu presto dimenticato, com’è giusto che avvenga per i fatti di poco conto.

Qualche tempo dopo, uscendo di casa per andare alla fer­mata dell’autobus (cosa che facevo tutti i giorni feriali alla stessa ora), salu­tai come al solito uno dei miei vi­cini e – flash! – mi ricordai di quella sciocca conversazione a tavola. Era lui l’uomo che passa? L’uomo che s’incontra sempre sullo stesso tratto di strada? Ma certo, non poteva essere che lui. Lo avevo incontrato tante di quelle volte che avevamo preso a scambiarci un rapido saluto, come se ci conoscessimo da sempre. E non ci conoscevamo, forse, da sempre? Erano almeno venticin­que anni che vivevo in quella parte della città, e lui c’era stato fin dal primo momento: forse vi era addirittura nato. Col tempo era ovviamente cambiato: si era appesantito e gli si erano ingrigiti i capelli. Ma anche con me il tempo non aveva scherzato: i capelli, invece di ingrigirsi, se n’erano andati in pensione nel buco della doccia, lasciandomi un po’ troppo sguarnito ad affrontare il peso dell’esistenza. Per questo, adesso, mi lascio crescere la barba. E non faccio più la doccia.

Pensai: è vero, quest’uomo passa ogni mattina alla stessa ora. Ma an­ch’io passo ogni mattina alla stessa ora. Non c’è niente di strano, anzi nien­tissimo. Le strade sono fatte per pas­sarci e per permetterci di raggiungere le nostre destinazioni: quando i per­corsi sono quotidiani, ciò che accade lungo il tra­gitto tende a ri­petersi. Ma quest’uomo, mi sovvenne, lo incon­tro anche di sera. E non torno a casa sempre alla stessa ora. A volte presto, quando i negozi sono an­cora aperti; altre volte a ore impossibili, quando tutti hanno già cenato tranne me. Ma non ero sicuro della mia memoria: davvero lo avevo sempreincontrato la sera, o solo qualche volta? Decisi di aguz­zare l’atten­zione, e posso sostenere, con inconfutabile certezza, che da allora incrociai o camminai in parallelo con l’uomo che passa tutte le volte che percorsi quei duecento metri di strada che separavano casa mia dal primo sema­foro. L’uomo che passava, e che a un certo punto — misteriosa­mente — non passò più, non aveva mai l’aria di passeggiare. Marciava. Si spostava con la de­terminazione di chi abbia una meta: tornare a casa in fretta, se andava in giù, o andare a sbrigare una com­missione urgente, se andava in su. Raramente, però, mi fu con­cesso di scoprire da qualche indizio la natura delle sue com­missioni: di solito teneva entrambe le mani in tasca, non un pac­chetto, non una borsa, non un cartoccio di pane o una botti­glia di latte. Mi salutava prontamente, come se riuscisse a vedermi per primo; di rado mi è capitato di precederlo nel saluto. Saluto che però era fulmi­neo e per nulla preludente a qualche forma di co­municazione più intensa: buongiorno, buo­nasera e via per la sua strada, militarescamente.

Non passa più, diceva un accorato tango che mia madre usava cantare da giovane, durante le faccende domestiche meno pesanti. Non passa più / per la mia stessa via... Ma quella era una canzone sentimentale, il lamento di un tizio che ha perso ogni occasione di rivedere la donna amata. Di cosa dovevo lamentarmi, io? Che ra­gione avevo, se ne avevo, di rimpiangere la scomparsa di uno sconosciuto, un tizio che mi era del tutto indifferente?

No, non era rimpianto. Era semplicemente l’ansia di chi non riesce a trovare risposta alle sue domande. Mettetevi al posto mio: per più di venticinque anni, tutte le volte che uscite di casa o vi fate ritorno, vi im­battete in una certa persona e vi chiedete come ciò possa accadere, dal mo­mento che il feno­meno va contro le più ragionevoli leggi statistiche. Non solo: vostra moglie e i vostri fi­gli incontrano lo stesso individuo con la medesima regolarità, ogni volta che ciascuno di loro esce di casa o vi rientra. Non è sur­reale? È possibile che quell’uomo sia condannato, da una legge oscura, a ripercorrere continuamente i suoi passi, giorno e notte, senza apparente motivo? E improv­visamente, un certo giorno, non passa più: né per voi né per nessun altro. È morto? È vivo? È malato? Si è trasferito? Passa e ripassa altrove, a benefi­cio di nuovi testimoni?

Non sono mai stato uno che si arrende facilmente: cominciai a svolgere indagini. Prima con discrezione, poi con sempre maggiore inva­denza.

“Abita qui un signore col giaccone di cuoio, i capelli grigi e la pan­cetta?”

“Vuol dire il Raimondi? Quello del terzo piano?”

“Uno che va sempre di fretta.”

“Allora è il Raimondi, quello del terzo piano.”

“Sta bene?”

“Certo che sta bene. Come dovrebbe stare?”

“Perché non esce più?”

Dal modo di squadrarmi della portinaia, arguii che dovevo sembrarle strano.

“Come sarebbe a dire, non esce più? Esce, esce. Adesso, per esempio, è fuori.”

“Ah.”

“Chi devo dire, quando torna?”

“Oh, niente, niente. Vedrò di incontrarlo per strada. Sa in che dire­zione è andato?”

“In che direzione vuole che sia andato? La solita.”

“Certo, la solita. Forse aveva una commissione urgente da sbrigare.”

“Che commissione?”

“Dicevo così per dire. Arrivederci.”

Tutti i miei tentativi, da quel giorno, andarono a vuoto. Investii gran parte dei miei weekend in appostamenti, come avevo visto fare dagli investigatori privati al cinema. Purtroppo non sa­pevo stare lontano dalle mie carte per più di tre ore, e forse fu questa debolezza – tipica dell’uomo che scrive – a precludermi ogni possibilità di rivedere l’uomo che passa. Non ebbi neanche il coraggio di proporre ai miei fami­liari dei turni di sorveglianza: non osavo confessare che stavo svolgendo quel genere di ricerca.

“Dove sei stato finora? Non eri uscito solo per prendere il giornale?”

“Sai com’è. Il giornalaio mi ha attaccato un bottone di un’ora.”

“Ma sei stato fuori almeno tre ore.”

“Ho preso un caffè con l’ingegnere. Il tempo è vo­lato.”

Ero stanco di raccontare bugie così patetiche. Il fatto è che stavo male. Non riuscivo più neanche a scrivere, perché mi si era pian­tato un chiodo in testa; avevo paura di diventare come Jack Nicholson in quel film spaventoso, dove lui impaz­zisce per una ragione stupida e comincia a fare fesserie.

Di tanto in tanto, a tavola, buttavo lì una domanda con l’aria più indiffe­rente del mondo.

“Si è visto l’uomo che passa?”

“Macché, non passa più.”

“Non si vede da un pezzo. Sarà morto.”

I miei non sembravano molto impressionati. Io invece lo ero, eccome. Forse la portinaia l’aveva trucidato e nascosto in cantina, per non subire più gli spifferi: lei viveva al piano terra, e tutto quell’andirivieni doveva averla tur­bata fino a indurla a estreme sconsideratezze. Io continuavo a essere l’uomo che scrive, anche se scrivevo molto meno di prima; e un bel mat­tino mi alzai con l’idea di usare il mio verbo per andare in fondo alla questione. Non ditelo a nessuno: scrissi una lettera anonima. A chi? Alla po­lizia, natu­ralmente. Ritagliai le lettere dai titoli dei giornali e le incollai su un foglio di carta extra-strong della marca più diffusa, in modo che gli inquirenti non potessero risalire alla cartoleria in cui si vendeva il tipo X o il tipo Y. Scrissi: “Uomo terzo piano scomparso via Garibaldi 21. Torchiare cu­stode.”

La sera, a cena, mia moglie raccontò che c’era stato movi­mento nel quartiere. “Al mercato le donne non parla­vano d’altro.”

“Di cosa?”

“Della polizia che ha fatto un sacco di domande alla porti­naia del 21.”

“Che domande?”

“Boh. Cercavano un tizio che abita lì.”

“Per arrestarlo?”

“Ti dispiace passare il sale? No, alla fine non lo hanno arre­stato. Non si è capito cosa volessero da lui.”

“E l’uomo era lì?”

“Era lì perché, a quanto pare, ci abita.”

“E chi è?”

“Un certo Raimondi.”

“Lo conosciamo?”

“Direi di no. Non conosco nessuno con quel nome.”

“Forse lo conosciamo di vista.”

“Forse sì, forse no. Che importanza può avere?”

Già, che importanza può avere?»



P.S. - Dimenticavo di dirti che lungo entrambi i bordi della strada che porta al fiume sta per svilupparsi un cantiere senza fine. Sono almeno dieci i chilometri transennati, e in prossimità del Río Azul sono già in azione gli escavatori. Non ci avrei fatto caso, se due dei miei compagni di viaggio non avessero fatto con­getture sul tema per tutto il percorso. «Un nuovo ospedale ancora più grande e attrezzato», secondo Derek. «Rifanno ex novo l’intera capitale, vedrete, una specie di Brasilia, tutta a colori», è l’opinione di Ulisse, che trova malinconica la città attuale. Per carenza d’azzurro, immagino.

© Pasquale Barbella

(4 – Continua)


Manichini e farfalle

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Alle stelle e ritorno


Voglio bene a Terrence Malick. Come si deve voler bene agli artisti esigenti, onesti, tormentati; e specialmente a quelli che scelgono di autoisolarsi (come Salinger, Pynchon, Glenn Gould) rifiutandosi di esibirsi come VIP da circo.

Voglio bene a Terrence Malick per aver realizzato, tra il 1969 e il 2012, sei film in tutto. Il suo imperativo categorico sembra essere “scendi in campo solo se hai qualcosa da dire”.

Voglio bene a Terrence Malick perché La rabbia giovane, I giorni del cielo, La sottile linea rossa, The New World e The Tree of Life non sono cinema qualunque, ma riflessioni serie sulla natura umana e sulla natura tout court, espresse con una ricerca raffinata, quasi maniacale, dell’inquadratura simbolica.

Voglio così bene a Terrence Malick che mi è toccato litigare per prendere le sue difese contro i detrattori di The Tree of Life, e fra i detrattori con cui ho litigato c’era persino mia moglie, una persona che amo più di quanto ami l’amato Terrence Malick.

Con queste amorevoli premesse, mai avrei pensato che un giorno, per la precisione mercoledì 16 luglio 2014, mi sarei messo a sbuffare contro Terrence Malick come si sbuffa contro il più insopportabile dei rompiballe.


Olga Kurylenko con e senza Ben Affleck in tre momenti di To the Wonder.

A creare disordine e disturbo nei miei sentimenti per Terrence Malick è il suo ultimo film, visto solo oggi anche se del 2012. To the Wonder, questo il titolo, vuol dire “(in alto) fino alla meraviglia”, cioè fino alle vette stupefacenti dove può condurci l’amore; da cui tuttavia si riprecipita giù per l’incapacità umana di separare l’amore dalle emozioni iniziali e di trasformarlo, strada facendo, in qualcosa di più solido. Come dice, nel film, il (pallosissimo) prete spagnolo interpretato da Javier Bardem, «l’amore non è solo un piacere, è un dovere».


Non si sa bene se in crisi o in estasi mistica, Malick cerca di afferrare il mistero dell’amore e della sua caducità – e di dipingere i sentimenti umani come sono e come dovrebbero essere – attraverso una serie di tableaux simbolici, come aveva fatto nell’altrettanto ambiziosa opera precedente (The Tree of Life) ma portando la struttura del racconto alla massima rarefazione. Gli attori lì si davano un po’ da fare, qui sono invece presenze astratte, addirittura statuarie come nel caso di un Ben Affleck usato a mo’ di manichino (al suo posto sarebbe bastato un dummy di plastica, e forse il film ne avrebbe guadagnato in spessore filosofico). Le donne, per contro, sono così saltellanti e danzanti, così sfarfallanti e in simbiosi con la natura da sembrare creature cresciute solo in statura. E così appiccicose e possessive da rasentare lo stalking. Il regista pare voglia dirci che le donne sono più “naturali” – e quindi più capaci d’amore – di quanto non siano i maschi. Niente da obiettare sulla tesi, ma se le donne vere svolazzassero in continuazione come quelle del suo film le detesterei anch’io, dopo un paio di giorni di giramento di testa (e di palle).

Malick ormai divide le audience in due gruppi: plaudenti e fischiatori, come è avvenuto alla mostra di Venezia del 2012 alla prima di To the Wonder. Io non fischierei Malick nemmeno se mi pagassero profumatamente per farlo, perché il suo film incute rispetto nonostante tutto. Il baco e il buco stanno nella sceneggiatura: non per il linguaggio scelto (i personaggi mormorano tra sé anziché dialogare), ma per la banalità delle frasi contrapposta alla magniloquenza della fotografia e della musica. Con il risultato che i gesti sublimati sugli sfondi levigati di Parigi, Mont-Saint-Michel e i prati dell’Oklahoma finiscono per ricordare troppo da vicino gli stock fotografici pronti per l’uso della Getty Images. 

P.B.

To the Wonder

Sceneggiatura e regia di Terrence Malick
USA, 2012
Con Ben Affleck, Olga Kurylenko, Rachel McAdams, Javier Bardem, Tatiana Chiline
Direzione della fotografia: Emmanuel Lubezki
Musica: Hanan Townshend e brani di Bach, Berlioz, Čajkovskij, Dvořák, Górecki, Haydn, Pärt, Rachmaninov, Rautavaara, Respighi, Šostakovič, Wagner


Chroma. Capitolo V

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Chroma
Romanzo a colori
Capitolo V



Rosé


Helga Ross dicono di non averla mai vista in stato di sobrietà. Il suo cappello rosa pende ora a sinistra ora a destra, come un te­game in continua esitazione esistenziale. Al terzo whisky si mette a snodare lo stesso racconto con le stesse parole, più o meno; parla in inglese con un marcato accento tedesco ma la costruzione delle frasi non appartiene a nessuna delle due lingue. Dice di aver varcato per errore le porte dell’inferno e di avervi soggiornato quanto basta per afferrarne il senso, un senso puramente geome­trico, lei dice «corbusie­riano, ma nei colori di un Barragán»; in­somma c’è tanto di quel colore laggiù da farti venir voglia di bianco e nero, di vecchi film fotografati da Gregg Toland. Helga è una citazione via l’altra: beve, cita, fuma e cita, un Niagara di ri­mandi, c’è da rimanere obnubilati dai suoi zigzag. Cita aforismi di Karl Kraus («La bruttezza del presente ha valore retroattivo»; «L’erotismo sta alla sessualità come il guadagno alla perdita») e pagine e pagine di enciclopedia universale in mezzo alle sedie di Vienna capo­volte sui tavoli, nella luce sfatta del Kursaal all’ora di chiusura, fra sbadigli di camerieri desolati e boiserie affumicate. Dice che l’inferno è una metropoli dai molti quartieri tutti uguali, salvo il colore che qui è blu lì è giallo, ma con più sfumature che nel campionario Pantone: colori mai visti da occhio umano; le case sono cubi perfetti, di rado parallelepi­pedi verti­cali o orizzontali, la materia sembra latta o lamiera zin­cata, non ha approfondito, le superfici sono talvolta lineari e tal­volta ondulate. Qua e là si ergono torri cilindriche e coni senza appa­rente funzione, ma poi ti accorgi delle feritoie su in alto, le scopri quando alzi la testa per vedere da dove hanno sparato. Nelle zone di confine fra il rosso e l’arancio o fra il verde e l’amaranto o fra qualunque altro rione e il contiguo si spara e si spara, giorno e notte i cecchini fanno il loro bum bum, a volte i soldati in tuta viola del quartiere viola escono su tank viola per invadere l’ocra o l’azzurro e lasciare in giro qualche cadavere ocra o azzurro sul cemento di vicoli ove rimbombano a tutto vo­lume vecchi dischi di mambo y merengue. Assicura Helga che laggiù ogni colore spara su tutti gli altri colori, chi muore è prati­camente morto due volte e non c’è più verso di rialzarsi, per for­tuna oltre alla polvere da sparo vola anche musica nei cortili, la gente si ammazza fra ondate di valzer o di tango o di rock se­condo il luogo, la trage­dia non ruba spazio all’allegria; giura e spergiura che è tutto sacrosantamente vero, tanto che può citare le canzoni di Benny Moré o di Nick Drake colte al volo nell’ozono tra fischi di piombo e foschie post-tritolo, schizzi di ketchup e scazzi di fuggiaschi. Le sue fantasticherie scivolano come lacrime di cera sul gres del pavimento unto, è tardi, ancora un goccio per favore, nossignora, la saracinesca non vede l’ora di accasciarsi come una palpebra spenta dal peso di troppi ricordi, domani, domani, stanotte no, dormire, fra cuscini di nostalgia: si stava meglio all’inferno, forse, almeno qualcosa succedeva, tutto quel technicolor dov’è finito?, qui c’è solo whisky autarchico e mal di testa, dammi del ghiaccio, ghiaccio per la mia borsa del ghiaccio, sto meglio con la borsa del ghiaccio sulla fronte, la borsa del ghiaccio sulla fronte mi tiene compagnia, non c’è nes­sun guerrigliero né giallo né viola da queste parti, nessun soldato né verde né blu nelle notti di Helga.

Ross è una presenza fissa al Kursaal, una specie di istitu­zione. Se la osservi bene e fai girare lo sguardo nella sala noti una certa affinità fra lei e l’ambiente: hai la sensazione di essere pre­cipitato in un vasetto di crema da maquillage, lei un relitto dipinto fino all’inverosimile, una teenager decrepita; e il salone da ballo, se gli togli qualche stucco e i tendaggi in falso velluto rosa, e all’esterno rimuovi il ridicolo tetto a pagoda che sormonta il tetto, lo riconosci per quello che è, un garage o al massimo un dopola­voro ferroviario travestito da nightclub. Del resto muovere i piedi è tutto quello che ci vuole. Meglio se c’è una pulsazione tribale: qualcuno ogni tanto fa risuonare cadenze primitive fra le rose di plastica e il denso mix di ani­setta e colonia («un tango, madame?»). Io ci porto a ballare ogni sabato Françoise: ha la stessa pettinatura che portavi tu quando ci siamo conosciuti, ri­cordi?, i capelli a caschetto o qualcosa di simile, eri la mia Louise Brooks allora, la mia Lulù – questo non lo dimenticherò mai, spero. Anche a te pia­ceva ballare, chissà quando e perché abbiamo smesso; le coppie che ballano dovrebbero ballare tutta la vita, è un espediente che aiuta; guai ad allontanarsi troppo a lungo dalla pista, quando smetti di ballare cominci a scrutare il tuo Fred o la tua Ginger con la lente d’ingrandimento e la festa è finita.

Rifacendosi il maquillage, Helga – che la sa lunga su Orfeo – sostiene che altrove hanno reclutato le migliori orchestre pagane pagandole oro: qui di pagano c’è solo questa pseudo-pagoda liberty che vuol dire libertà ma la libertà è ben altro, dice lei: «Non sei granché libera fra questo niveo algore di stucchi, la li­bertà è nera, la libertà è Tropici lucidi e calze di seta notturna, questa al massimo è una stazione termale per malati di fegato, al solo pensarci mi esplode come ibisco la cirrosi.»

A volte la ascolto volentieri perché il suo è un parlare rapsodico, imprevedibile, da oracolo in tilt, al limite dell’improvvisazione jazzistica (mentirei se giu­rassi sulla completa at­tendibilità delle mie traduzioni), come quando sola al centro della pista si è messa a vorticare come un derviscio e ad apostrofare gli or­chestrali: «Suonatemi il valzer più oppiaceo del vostro repertorio», ha declamato, «m’impunterò su un tacco a spillo per far girare la notte nel suo mantello. Ecco: bravi: è la musica più squinter­nata che abbia mai udito, un po’ di nausea fa bene alla malin­conia. Da bere! Mandatemi il coppiere più biondo e svaporato, berrò anche lui; nossignori, non bevo per dimenticare ma per ricerca interiore, non sto neanche a commentare la qualità dei vostri intrugli, mi contento di qualsiasi surrogato purché con­tenga alcool, sono una donna di spirito – in tutti i sensi.»

A me la musica del Kursaal va bene, la prendo come viene, è come il tempo: bello o brutto conviene adeguarsi, muoversi è l’essenziale, finché suonano sei in ballo, Françoise sbadiglia ma ci sta, più la guardo più è carina e quando parla la si sta a sentire: non è ipercritica, non sta a lamentarsi mattina e sera, ma non puoi dire nemmeno che sia assente: si è molto divertita a leggere Le anime morte e spera che non mettano Gogol’ al rogo (prima o poi dovrò parlarti anche di questo); non fa pro­getti di fuga ma se pro­prio si partisse some of these days: «Av­visatemi che magari vengo anch’io», dice sorridendo. Io, io a partire neanche ci penso ma non mi dispiace l’idea che Françoise farebbe i bagagli per se­guirmi: mi sveglierei presto e, avvolto in coperte di lana per non tremare, berrei il suo caffè bollente seduto sui gradini del condo­minio in cui abita. Non sono più abituato ai superalcolici e basta un bicchiere a mandarmi su di giri, a procurarmi delle visioni. Ho visto Ub ballare con la sua Porsche su una pedana girevole, o me­glio: era fermo e la pedana girava per lui: il salone delle feste balla anche per chi non sa ballare e penso: i luoghi si muovono come e più di noi, dev’esserci musica nella spina dorsale della terra – correnti di musica soffiata dai venti più alti; il silenzio e l’immobilità sono condizioni artificiali, la morte è il progetto più audace che mente umana abbia mai concepito, ci siamo in­ventati la morte per sfiducia nelle nostre energie, ci siamo inven­tati il vuoto per non sostenere troppo a lungo il peso della danza e lo choc del risveglio quotidiano.

Intorno al Kursaal, ma anche in altri vicoli spenti della capitale, la notte è tutta un formicolare di passeggiatori solitari e guardinghi. Puoi vederne anche di giorno, ma danno meno nell’occhio. Li chiamano MP: memory pusher, spacciatori di ricordi. (Forse era uno di loro l’italiano del fiume, anche se non aveva da vendere né cartoline di Parigi né souvenir di Lourdes. Un contrabbandiere di parole, narratore di storie inconcludenti da due soldi al minuto; ma non ne sono certo, ci aveva lasciato andare senza esigere un centesimo. O forse confidava nella generosità spontanea del prossimo. Sia come sia, non sapevo ancora nulla degli MPquando incontrammo il Re dei Verbi.) Ripensandoci, ricordo di averne notato alcuni indugiare in qualche quadrivio, appoggiati pigramente al muro con una vecchia borsa di pelle a portata di mano o uno zaino sfilacciato sulla schiena; altri seduti sul marciapiede tra vecchie riviste sgualcite tenute ferme coi sassi; altri ancora girovagare a passo lento con shopper di plastica gonfi e pesanti, o borse di tela unte di grasso; ma non mi ero reso conto di chi fossero e di cosa si aspettassero dai passanti. Finché uno di loro non mi abbordò sfacciatamente. Si guardava intorno con una tale circospezione da farmi pensare a un commercio clandestino di eroina, cocaina, crack; o al mercato nero di valuta.

«Hai da accendere?», biascicò in spagnolo, portandosi alle labbra una sigaretta.

Subito dopo la fiammata sussurrò:

«Ho delle Luckies. Originali, ultima stecca. Te la passo a un prezzo di favore, quasi un regalo.»

Notai la sua ventiquattrore, malconcia e rigonfia in modo grottesco. Nelle tabaccherie era impossibile trovare sigarette d’importazione. Ero tentato, ma non sapevo come nascondere la stecca e rinunciai. Il ragazzo cambiò strategia.

«Che ne dici dei Beatles? Ho un 45 americano di Yesterday. Un Capitol rarissimo. Vale un Picasso ma lo svendo perché manca la custodia. L’affare della tua vita.»

«Che me ne faccio? Non ho il giradischi.»

Scoppiò a ridere.

«E a che ti serve un giradischi? Hai forse bisogno di riascoltarla per la milionesima volta? Hai dimenticato anche quella?»

Rimasi zitto e immobile. Sapevo di Yesterday, ma non riuscivo a farne venire a galla neanche una nota. Forzai la memoria, ma era come spingere un camion senza ruote. E dire che era la nostra canzone, un tempo; forse l’unica cosa che abbiamo sinceramente condiviso, tu e io.

«Ho capito», disse il tizio, con un ghigno volpino e sgradevole. «Vuoi che te la canti? Quanti soldi hai?»

Affondai meccanicamente una mano in tasca, raccogliendo una manciata di monete. Mi sentii l’uomo più imbecille del mondo. L’altro me le tolse di mano con un gesto avido e brusco, le contò con una sola occhiata e me le restituì altrettanto sgarbatamente, con una smorfia di disgusto sulle labbra.

«Con queste non ti canto nemmeno Jingle bells. Va’ a farti fottere.»

© Pasquale Barbella

(5 – Continua)


Dixit Café chiude

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Ma solo per poco.
E non del tutto, perché rimane in funzione il distributore automatico di post.
Date un’occhiata al display. Magari c’è qualche snack che non avete ancora provato.
Se andate in vacanza, guidate con prudenza.
Come diceva una vecchia pubblicità americana della Mobil Oil, «Vi vogliamo vivi.»
Divertitevi.
Ci rivediamo alle prossime piogge.
Occhio al meteo. Corretto rum.

P.B.

Un profilo di Terrence Malick

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Prima di partire per le vacanze mi affretto a pubblicare un contributo di Till Neuburg su Terrence Malick, bersaglio di un mio scazzorecente. Sono grato a Till per questo profilo d’artista: rende giustizia a un autore che rimane saldamente in sella nella scuderia dei miei idoli, anche se il suo ultimo film mi ha deluso e anche se mi deludessero i prossimi. – P.B.
Manifesto di The New World, 2005.

Malick e l’antropologia emotiva

di Till Neuburg

Vedendo qualche mese fa To the Wonder in dvd, m’era venuto il magone. Sul piano della presunzione e della noia, nell’ultimo decennio forse solo Vicky Cristina Barcellona, Il codice da Vinci, E alla fine arriva Polly avrebbero potuto andargli vicino: l’intensità mimica di Ben Affleck potrebbe fare il poker con quella di un ferro da stiro, di Enrico Letta, di Dino Zoff. I dialoghi tra i protagonisti sembravano clonati da un’immaginaria televendita per un reality sponsorizzato dalla tisana Pompadour.

Eppure anch’io, esattamente come Pasquale, ho nella pancia l’autore di Badlands, Days of Heaven,The Thin Red Line, The Tree of Life. E lì, per sempre, rimarrà. Cominciamo a dire che Malick non è un Director con la d maiestatis come s’usa con Dio, Lady Diana o Massimo D’Alema, non è di quelli che vanno “dove ti porta il quorum” per ottenere una nomination, non è un guru di kolossal miliardari dove i difetti speciali sono sempre più importanti dello script… Potremmo invece considerarlo come l’ultimo proiezionista dell’universo e dell’intimità che rimane cocciutamente segregato nel buio della sua cabina a 24 citazioni tantriche al secondo.

Prima di lavorare nel cinema, Terrence Malick aveva studiato filosofia e tradotto L’essenza della ragione di Martin Heidegger dal tedesco in americano. Aveva fatto il giornalista per “Life”, “Newsweek”, “The New Yorker”. È tuttora un ornitologo rispettato, è una persona di vastissima cultura che ama vivere in modo defilato. In modo palesemente visionario e riflessivo, Malick, a modo suo, è probabilmente molto religioso. Eppure nei suoi film non ci sono mai guide, officianti, intercessori, eroi. L’aldilà e l’aldiqua dell’esistenza sono sempre celati da un’altra parte. Malick non spiega, ma pone parecchie domande. È un uomo semplice, sensibile, molto solo. Ma anche molto rispettato.
Sissy Spacek in Badlands(La rabbia giovane), 1969.

Esordisce a trent’anni con La rabbia giovane, dove il trentenne Martin Sheen fa la parte del diciannovenne Charles Starkweather, responsabile, insieme alla sua amichetta Caril Ann Fugate, dell’assassinio di undici persone. Il ruolo della tredicenne complice della mattanza è affidato a Sissy Spacek, al suo terzo film, tre anni prima del grande successo Carrie. Il budget era fissato a $ 300.000, con troupe a paga extra-sindacale. Fu un autentico film rivelazione, premiato subito a Cannes e in molti altri posti. Non era una storia di ferocia, ma di triste sopravvivenza. Un caso di antropologia emotiva dove il confine tra uomo e natura, vita e morte, distacco e ferocia, è sempre sfumato dallo stupore della ragazza assassina, delle vittime, di tutti noi.
 
Il purismo sonoro, che si sviluppa attraverso un leggiadro tocco di xilofono, era affidato a Gassenhauer (“Musica di strada”) di Carl Orff (quello dei Carmina Burana), ripreso vent’anni dopo per True Romance (“Una vita al massimo”) scritto da Tarantino e diretto in modo magistrale da Tony Scott (forse il suo unico grande film).

Anche in Days of Heaven (con Brooke Adams, Richard Gere e il quasi esordiente scrittore e drammaturgo Sam Shepard), s’incrociano in modo quasi epico l’amore e la morte: tutti gli eventi dell’anima e della terra diventano ineluttabili stagioni. Ancora una volta, non ci sono gli uomini opposti agli animali e alla natura – tutto è natura, mistero, vita, morte, nuova vita. Le immagini di Nestor Almendros erano di una struggente bellezza (l’Oscar per la migliore fotografia gli sembrava quasi dovuto). Era la prima volta che, in un theatrical feature non sperimentale, di colpo il point of view fosserepentinamente spostato dall’alto verso il basso, in perfetta verticale rispetto alla location interna: chi ha visto quell’inizio di biblica invasione di locuste in una cucina di campagna, mai lo dimenticherà.
Una inquadratura di Days of Heaven (I giorni del cielo), 1978, con Richard Gere in primo piano.

Ancora una volta si trattava di un piccolo-enorme film a basso budget, diretto da un defilato lonerdella più potente Babele sight & sound del mondo. Le musiche erano composte e suonate da uno dei grandi chitarristi acustici americani di quegli anni, Leo Kottke – e dal nostro gigante Morricone.

Vent’anni dopo, nel 1998, per The Thin Red Line con Jim Caviezel, John Travolta, Sean Penn, Nick Nolte, John C. Reilly, Woody Harrelson, John Cusack, George Clooney, John Savage, Elias Koteas, Jared Leto, Adrien Brody, Malick girò – senza montarle – parecchie scene con Mickey Rourke, Bill Pullman, Martin Sheen, Gary Oldman, Viggo Mortensen. L’intero star system americano voleva entrare nel film. Sean Penn (che notoriamente non è un mite) gli disse: «Ovunque tu giri, qualsiasi cosa tu abbia in mente, io verrò sempre – basta che mi dai un dollaro.»
Jim Caviezel in The Thin Red Line (La sottile linea rossa), 1998.

A Hollywood, a volte, i registi più esigenti rifiutano il casting tradizionale pretendendo un’audizione mirata con gli attori selezionati: in una session collettiva di lettura del copione, misurano l’adrenalina che un attore è disposto a investire nella parte. L’elenco delle star che spontaneamente avevano accettato questo collaudo spietato fa impressione: Kevin Costner, Will Patton, Ethan Hawke, Lukas Haas, Edward Norton, Matthew McConaughey, William Baldwin, Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Johnny Depp, Nicolas Cage… praticamente, tutta la Hollywood di fine millennio.

Il film apre con un caimano che s’infila, come un minaccioso clandestino, nell’acqua salmastra… per sopravvivere, per mangiare, per seminare morte. Subito dopo, vedi alcuni soldati americani scappati in un autentico paradiso, un’isola di pace in un oceano chiamato, non a caso, Pacifico. È una palese metafora, ma è anche la paradossale realtà del luogo, degli intrecci, del plot: la quiete, un sogno, una chimera… tutti convissuti in mezzo alla devastazione militare più spaventosa mai attuata dagli esseri viventi di questo pianeta. Poi, in mezzo ai giochi e al magico cantare delle donne e dei bambini del posto (insieme agli adulti stranieri, anche loro tornati bambini), tra i palmizi appare l’ennesimo caimano, questa volta infinitamente più minaccioso: un rettile di ferro marchiato US Navy che non porta la sopravvivenza di nessuno, ma solo la morte, per pura spinta negativa. Un cupo deus ex machina della distruzione.

The Thin Red Line (La sottile linea rossa), capolavoro sceneggiato e diretto da Malick, è il secondo film tratto dall’omonimo romanzo di James Jones. Il primo, di Andrew Marton, risale al 1964.

Qui mi torna in mente un’altra scena strepitosa del film: dopo lo sbarco su un isolotto da strappare a tutti i costi al dominio dei soldati giapponesi, la pattuglia yankee attraversa una fitta vegetazione dove, ad un tratto, le viene incontro una sorta di aborigeno, un Pacific native– che non li degna neanche di uno sguardo. Sono due culture che si sfiorano, si notano appena, ma non hanno nulla da dirsi. È un attimo di tristezza immensa, un passepartout silenzioso per dirci che non siamo capaci di leggere il nuovo, il diverso, l’ignoto. Infatti, appena dopo, quei ragazzotti s’imbattono in un loro compagno maciullato, trafitto da un bastone, privo di gambe. Non si sa quale ignoto nemico e per quale motivo l’avesse combinato in quel modo satanico: se fosse stato un abitante dell’isola, un “muso giallo”, un feroce demone venuto da chissà dove. Individualmente non lo sapremo mai. Collettivamente invece lo sappiamo da millenni: siamo stati noi, siamo sempre noi.

Ci sono esseri umani disumani che colgono il senso della vita solo nel dominio, nella sopraffazione, nel possesso… fino alla morte. Questione che Malick si pone – e ci pone – di continuo, praticamente in tutti i suoi film.

Anche il suo capolavoro più recente, The Tree of Life, è una continua, stupita, grande domanda sui perché della vita. La vita che fa di tutto per riprodursi – e per estinguersi. Malick pensa e bisbiglia ad alta voce, fa mille domande che alla fine vanno sempre a finire lì: perché, in questo mondo, l’energia e l’amore che ci tengono insieme provano, sempre di nuovo, ad annullarsi?

Chiaramente è la domanda di un filosofo.
Poster disegnato da Mark Carroll per The Tree of Life, 2011. 

In The Thin Red Line, prima dei frastuoni spaventosi delle battaglie, il volano del terrore s’avvia con lentezza, con suoni a volte quasi impercettibili. L’ispirato pittore sonoro Hans Zimmer è il complice ideale per accompagnare Malick – e tutti noi – nella lenta escalation verso l’ineluttabile appuntamento finale. Zimmer è nato a Francoforte nel 1957, dalle parti di Adorno, Fromm, Habermas, Horkheimer, Marcuse. In un’altra occasione, the other side of the moon europeo avrebbe trasfigurato il Nuovo Mondo: esattamente com’era successo mezzo secolo prima con il noir, quando Fritz Lang, Robert Siodmak, Max Ophüls, Jules Dassin, Billy Wilder ed Edgar Ulmer avevano proiettato nell’anima hollywoodiana le luci e le ombre del vecchio, frastornato continente. In modo spesso cauto, discreto, quasi onirico e clandestino,Zimmer ci attira magicamente nei suoi intervalli, nelle sue vibrazioni, in quelle sue strane pause. E, in modo sempre più potente, nei suoi pianissimi, nei suoi silenzi.

Tra i suoi oltre cento film, ci sono decine di blockbuster che hanno incassato miliardate di bucks ma, secondo me, le sue opere intense rimangono Rain man - l’uomo della pioggia, Un mondo a parte, Thelma & Louise, Una vita al massimo, La casa degli spiriti, Oltre Rangoon, The fan - il mito,Il senso di Smilla per la neve,Il gladiatore, La promessa, Inception, 12 anni schiavo.

Una sottile linea rossa sonora che pervade gran parte dei miei paradisi immaginari – non solo visivi, ma audiovisivi.

T.N.
Colin Farrell in una scena di The New World, 2005.


Chroma. Capitolo VI

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Chroma
Romanzo a colori
Capitolo VI


Verde marcio


Mia cara (se posso ancora chiamarti così), come stai? Io bene: fin troppo. Il solo pensiero di tornare alla vita normale mi mette di malumore. E poi, cosa ci sarebbe di normale se tu decidessi di piantarmi una volta per tutte? Dovrei ricominciare da zero: rior­ganizzare l’esistenza, le relazioni, le abitudini. Tanto vale indu­giare in questo esotico esilio, finché si può. Mi ci trovo sempre più a mio agio, ho degli amici, senza contare che qui si stanno verificando eventi straordinari.

Da giorni, ormai, sulla circonvallazione striscia lentamente una fila senza fine di Tir, grigia e felpata come la nebbia che l’avvolge. Su tutte le fiancate lo stesso logo: EPI, Empresa Plá­stica de la Isla. In biblioteca è l’argomento del giorno. Le salette di lettura si sono trasformate in salotti di conversazione. Si sta bene: al calduccio, sprofondati in poltrone dello stesso colore della carta da parati: un verde scuro e protettivo, un lusso se con­frontato agli standard dell’isola. Per questo la Biblioteca Munici­pal piace anche a chi non legge; per noi stra­nieri fa le veci di un club, non proprio un Lions o un Rotary, sarebbe troppo, ma di certo è il rifugio più accogliente della capitale, persino più con­fortevole dell’istituto di cura.

«Vanno tutti al cantiere, questi camion. Materiali da costru­zione.»

«Di plastica? E il cemento dov’è?»

«C’è plastica e plastica. Non hai visto la foto sul giornale?»

Il giornale, sull’isola, è uno solo: La voz. Riporta notizie na­zionali e basta. I lavori sono stati annunciati con un titolo a carat­teri cubitali, due righe su nove colonne: «Fundación de Chroma – La nueva Capital de la Isla.» Aveva ragione Ulisse. Per l’occasione il giornale è stato stampato a colori: l’unica foto, pub­blicata in prima pagina e stravista nei notiziari della televisione, riproduce il plastico di un quartiere fatto di cubi rossi, gialli e blu.

«Sembrano case fatte con lo stesso materiale dei matton­cini Lego», osserva Ub.

«Che c’entra?», fa un geometra in pensione il cui abito imita perfettamente il verde degli arredi. «Un conto sono le case vere, un conto è il copolimero usato per fabbricare il modellino.»

«Non si può dargli torto», dice Françoise sbadigliando. «Spero non vi dispiaccia se schiaccio un pisolino.»

«Eppure», insiste Ub, «non si è ancora vista in giro nes­suna autobetoniera, non c’è un solo camion che non trasporti unica­mentemateriale plastico.»

«Inutile cercare una logica nelle attività dell’isola», obietta il geometra verde. «Che cosa ci trovate di logico in un ufficio po­stale che non spedisce le lettere? O in una lavanderia a get­tone che tutto sembra fuorché una lavanderia?» (Allude evi­dentemente alla palestra nell’interrato, dove i clienti ingannano l’attesa tra massaggi, corsi di yoga, arti marziali, aerobica e altri passatempi; o al piano di sopra, riservato allo shopping).

«O in un aeroporto che va in letargo ogni volta che piove, cioè trecento giorni all’anno?», rincara la dose Derek.

Ub è più accomodante: «Se siamo arrivati qui da ogni parte del mondo vuol dire che l’aeroporto funziona. Quanto alla La­vandería, contiene non meno di cinquecento macchine per fare e asciugare il bucato ed è uno dei ritrovi più eclettici della città. Ne avessimo anche noi di lavanderie così.»

Sulla fondazione di Chroma il giornale, la radio e la televi­sione traboccano di toni enfatici, ma le informazioni di tipo tec­nico e architettonico sono piuttosto vaghe. Il governo ha deciso di spazzare via il grigiore dall’isola per renderla più accogliente, vi­vace e moderna. «Comincia una nuova era: quella del colore», ha sparato con vocina acuta un’euforica annunciatrice, in apertura di telegiornale. Ma del progetto si conosce soltanto il poco che emerge dalla solita fotografia: cubi colorati. Una capitale concepita come un immenso cubo di Rubik, smontato dado per dado. Le fonti uffi­ciali parlano di dieci anni di lavori per realizzare l’intero progetto, ma gli scettici ridono sotto i baffi.

«Col passo che hanno, impiegheranno il doppio o il triplo del tempo preventivato.»

«Chi vivrà vedrà», sorride il più vecchio del salotto, che ha superato i cent’anni.

«Ma si sente dire che sta partendo un vasto piano di assun­zioni. Cercano ingegneri, geometri, operai di qualsiasi naziona­lità, purché esperti e qualificati.»

«Ecco perché nessuno ci caccia via, anche se i permessi di soggiorno sono scaduti da un pezzo. Hanno bisogno di gente come noi per rifare l’isola da nord a sud e da est a ovest: lo capiscono anche loro che da soli non ce la farebbero.»

Appena entrato, Ulisse accende la tv. Ub intanto se la fila alla chetichella, senza salutare nessuno. Sullo schermo ricom­pare l’annunciatrice delle buone notizie.

«Signore e signori, buonasera. Un aggiornamento sul pro­getto Chroma. In attesa del giorno in cui sarà abitabile Green­sleeves, il primo quartiere della nuova metropoli, il governo ha emanato un decreto che consente la riattivazione delle insegne al neon nella città vecchia.»

«Quali insegne?», mormora il geometra.

«Ce n’è una, spenta da sempre, sulla facciata del Kursaal. La esse centrale è crollata tanti anni fa.»

«Anche la Lavandería aveva un’insegna. Ai miei tempi», dice il vecchio, «era accesa ogni sera, dalle sette a mezzanotte. Color fuchsia; la luce tingeva di rosa le auto nel parcheggio.»

«L’era del coprifuoco è finita», ridacchia Ulisse. Ogni volta che parla sembra pensare ad altro. A qualcosa che lo rode e gli mette una specie di febbre nello sguardo.

Un inserviente dalla pelle olivastra, allampanato e inespres­sivo, entra nel salotto con secchio e ramazza e comin­cia a lavare il pavimento come se noi fossimo altrove.

«L’ho già visto da qualche parte», bisbiglio.

E Ulisse: «Non era uno dei talebani che stavano nella tua stanza, all’Hospital?»

Giusto. Faccio per alzarmi dalla poltrona per avvicinarmi e dargli una pacca sulla spalla. Mi fa piacere rivederlo sano e salvo. La mano di Ulisse mi afferra per il gomito e mi trattiene dove sto.

«Non ti muovere», sussurra a denti stretti. «Fai finta di niente.»

Lo guardo come si guarda un fratello impazzito. Ulisse ri­prende la sua espressione solare e cambia discorso:

«Bene, signori. Qual è il vostro libro del mese?»

La Biblioteca Municipal è aperta anche di domenica, c’è chi ci va solo o soprattutto per giocare a carte, ti servono tè bollente e pasticcini rinsecchiti, ma sugli scaffali non c’è da aspettarsi l’assortimento degno di una capitale. Lacune imba­razzanti, per chi non sia completamente refrattario alla lettera­tura o ad altre forme del sapere. Da quando esiste l’istituzione, ogni mese bru­ciano un libro liberamente eletto dai lettori – ho fatto appena in tempo a leggere gli Schriften di Leo Löwenthal e dentro c’era an­che un Calibans Erbe che deprecava questi roghi purificatori, ma hanno bruciato anche Leo e non ci sarà più verso di trovarne altre copie, perché ai magazzini centrali arrivano sì le nuove pubblica­zioni ma si respingono riedizioni e ristampe di opere annullate. Io e i miei amici votiamo libri per la cura delle piante e ricettari, non per intolleranza specifica ma tanto per sbilanciare i voti altrui. Con questo sistema ogni tanto ci riesce in extremis di rinviare ad altra data, per pochi punti di differenza, la sorte di un Burroughs o un Rushdie o persino di un Boccaccio o un Joyce; giochiamo a fare i dissidenti e, se troviamo altri cospiratori di buone letture, forse riusciremo a salvare per qualche anno anche Dostoevskij.

«Io ho votato contro François Villon», annuncia Ulisse con voce squillante. So che non l’ha fatto e non lo farebbe mai. Gli astanti lo guardano con occhi di tartaruga, poi ricominciano a di­scutere del progetto Chroma.

Françoise dorme con le braccia conserte. Beata lei.

Il dibattito sui cubi in costruzione si avvita su se stesso e co­mincia a tediarmi; non mi va di svegliare Françoise dal suo tor­pore e così mi alzo e mi metto a curiosare tra gli scaffali. Noto che un settore della biblioteca, confinato in una saletta secondaria e polverosa, è adibito alla conservazione di mano­scritti; centinaia di fascicoli nudi, ciascuno tenuto insieme da una grossa graffa nera, si accalcano qua e là, assortiti in modo casuale; altri sono raccolti in dossier da ufficio amministrativo; altri ancora giac­ciono in scatole logore e deformi, consunte bare di cartone che fanno pensare a un cimitero di scarpe dimenticate. Ne apro una con la parola ITALIA tracciata frettolo­samente in rosso su uno dei lati e, dopo rapida perlustrazione, scelgo il fascicolo più esile, un documento intitolato MORTO CHE RIDE: non ho voglia di imbar­carmi in letture impegnative, una decina di cartelle è tutto quanto mi ci vuole per ingannare il tempo. Ordino un altro tè, ritorno alla poltrona e, senza curarmi dei loquaci compagni di salotto, mi immergo nella lettura.

«Piove. Usciamo?»

Usciamo.

Un’altra foglia rossa, la numero mille, plana rassegnata sul prato. La stessa leggerezza che ti pervade quando accendi una sigaretta agognata da ore. E la respiri con l’ozono, amante della pioggia, al riparo di un portico che si affaccia alla campagna.

«L’hai notato anche tu?»

«Che cosa?»

«Che ride.»

Aspiriamo il fumo in perfetto sincronismo. Vento, acqua pio­vana e fumo si conciliano bene: dal punto di vista aroma­tico, in­tendo.

«Ci vorrebbe un caffè.»

Altro che caffè. Le donne si stanno facendo un’overdose di rosario. La salvezza dell’anima passa attraverso un tratta­mento di decaffeinizzazione.

«Dev’esserci un bar un chilometro avanti. Al bivio.»

«È tuo quest’ombrello?»

«Suo al cento per cento. Gli ho sempre visto ombrelli rossi. O forse è sempre stato lo stesso.»

«L’ombrello immortale.»

Lungo la strada, quattro stivaletti in marcia fanno gemere tutte le foglie morte di Prévert.

«Cos’è questa storia del morto che ride?»

«Quasi non sembra lui.»

«In che senso?»

«Beh, la faccia è quella. Il colore oliva. La fronte, le so­prac­ciglia, la pelle scavata, gli zi­gomi, il mento. Solo le lab­bra: le labbra no. Non sono le sue. Voglio dire: non gliele ho mai viste così.»

«Così orizzontali.»

«Già. Ti ricordi gli angoli, come tiravano in giù? Come erano tipici del suo scazzo cronico? Adesso, all’improvviso, sem­brano dire: ragazzi, ciao, sono un’altra persona.»

«Ma ride o non ride?»

«Non lo so: dire che ride è esagerato. Chi muore ha sem­pre una faccia più fessa di quella del giorno prima. Quella faccia lì. Solo che lui non ne ha mai avuta una del genere, ne­anche nei momenti di distrazione. Si vede che tagliare col mondo gli ha fatto bene.»

«Ha l’aria di uno che ci prende per il culo.»

«Non volevo dirlo.»

Proprio quando rasentiamo la pozzanghera più larga e più oscena del creato, la regina di tutte le pozzanghere, le ruote di un furgone in arrivo la stuprano in pieno. Rapido e fetente, uno schizzo di acquastra scura si av­venta sull’impermeabile in­glese che mi avvolge. Lancio al pilota e alle nu­vole insulti ap­puntiti come pugnali.

«Mettiti l’anima in pace; la campagna è campagna», dice Gil.

«Il posto giusto per uno come lui.»

«Ti ricordi quando arrivò in palestra con una delegazione, e ci arringò per mezz’ora sui diritti degli extracomuni­tari?»

«Non dovevano dargli il permesso. Quando mai si è visto un bidello, per di più straniero, che si prende le libertà di un preside o magari di un ministro?»

«È da allora che ho cominciato a non sopportarlo più. Dai, cambiamo musica: è tutto uno schifo, il tempo e il resto. Urge un pusher di caf­feina.»

«Mi colpì soprattutto l’effetto della voce al microfono. Fino ad allora lo avevamo solo sentito bisbigliare. Da quel niente che era, il suo brontolio amplificato investì lo spazio come un basso elettrico.»

«Io invece mi concentrai sul colore della pelle inverdita dalla luce al neon e pensai: questo scemo è già morto, tal­mente morto che forse ne è persino consapevole. Che ora abbiamo fatto?»

«Le quattro, ma con queste nuvole del cazzo sembra già notte.»

Le case del bivio sono tutte da leggere, per via dei muri ri­co­perti di slo­gan. Il bar è chiuso. Non solo: un cartello scritto a mano, incollato sulla sa­racinesca arrugginita, avverte che è CHIUSO PER LUTTO CITTADINO. Sfiga.

Ritorniamo sui nostri passi. Senza nessun motivo mi volto per seguire con lo sguardo l’unica presenza umana che il luogo con­cede: un burino di mezza età, in bicicletta.

«Guarda.»

Giunto all’altezza del bar, il ciclista — smontato dal trabic­colo — piscia contro la saracinesca blaterando litanie incom­prensibili.

Senza ridere e senza commenti riprendiamo il cammino. In vista della sera l’odore dei campi bagnati si fa più intenso; la terra puzza di muschio, di funghi e di blues. Un automobilista ac­cende i fari prima di doppiarci a velocità da Indianapolis. Schizzi dappertutto.

«Come ti spieghi il fatto che i visitatori, in schiacciante mag­gioranza, sono di sesso femminile?»

«Che diavolo ne so. Mi domando piuttosto che ci stiamo an­cora a fare in questo posto di merda. Tu fa’ come ti pare; io salto in macchina e mi sparo in città. In mezzo al movimento. Ho vo­glia di farmi mezza bottiglia di tequila in un buco caldo.»

«Il fatto è che le donne sono sostanzialmente apolitiche. Non stanno a domandarsi se è morto il re o il capo dei ribelli. Un giro di ro­sario non si nega a nessuno.»

«Lascia perdere la sociologia. Non è pane per i tuoi denti. Vieni o non vieni?»

Non si va da nessuna parte. L’auto con cui siamo arrivati non dà più segni di vita. Non saranno quattro calci al paraurti a far resuscitare lo spin­terogeno.

«Merda.»

È domenica e l’unica officina del paese è chiusa. Idem la sta­zione di servizio.

«Si telefona per un carro attrezzi. L’hai portato il cellu­lare?»

Certo che l’ho portato. Ma è giù anche lui di batteria, come l’automo­bile, come questo giorno marcio. Non posso fare a meno di ripensare al ca­davere che ride. Non posso fare a meno di ri­pensarci nemmeno cinque mi­nuti più tardi, quando vedo la ca­bina pubblica sfigurata, l’apparecchio ap­peso al suo cavo come un impiccato. E piove.

Non ci resta che tornare là dentro.

Donne, donne di Ceylon, filippine, peruviane, italiane, in preda a un’avemaria dopo l’altra. La più giovane prega anche lei ad alta voce, ma non ci toglie gli occhi di dosso. Io aspette­rei; ma Gil no, è troppo impa­ziente. «Abbiamo un problema», dice, senza rendersi conto di quanto possa suonare cogliona una simile aper­tura di discorso là dentro.

Lui parla con le oranti, io nemmeno lo sto a sentire. La cosa buffa è che siamo in un garage. Un garage trasformato in camera ardente. Dove ad ar­dere sono soltanto i ceri: due. Il resto è ge­lido e cupo.

Tutti quelli della città, i dritti, se ne sono andati da almeno un’ora. Gil e io siamo pazzi. Intanto il morto ride: vien voglia di spaccargli la faccia. Faccia color tv, quando il tubo cato­dico va in apnea.

Lascio Gil a parlamentare con le donnette ed esco sotto l’acqua a respi­rare. Stronze. Non hanno fatto altro che guar­darci storto tutto il tempo, con la scusa di pregare. Neanche un bic­chier d’acqua ci hanno of­ferto. Brutte da fucilare. Ma no, perché sprecare colpi? Roba da abbassare la saracinesca e chiuderle dentro il garage, murarle vive col morto che ride a centrotavola, e farle soffocare lentamente.

Lo sapevo; lo sapevano anche le ghiande e le felci del vil­lag­gio che non ci avrebbero dato una mano. Gil conferma: niente macchine in prestito, niente bus, e treni meno che niente. Ma una o due camere libere le tro­viamo di sicuro, al Giardinaccio. Chi vuoi che sia venuto a occuparle? Il Giardi­naccio l’hanno messo in piedi solo per gli extra e i gonzi come noi. Già ho avuto il di­spiacere di mangiarci, a mezzogiorno, e adesso darei tutto quello che ho in tasca per un Alka Seltzer.

Di camere disponibili, al piano alto della trattoria, ce n’è una sola. Non perché le altre siano occupate, no: per gli ospiti esiste una camera e basta. Nelle altre ci abitano i titolari: ma­rito, mo­glie e due mocciosi imbrufolati. Io e Gil ci dob­biamo arran­giare. Fortuna che la stanza è una piazzaduomo: contiene quattro, dico quattro, letti. Natural­mente puzza di muffa. E di piedi sporchi. Gil entra e si butta a pesce sul primo giaciglio che gli capita a tiro. Afferra un tele­comando dal comodino e ac­cende la tv. Ha anche il coraggio di im­partirmi degli ordini: «Non senti che tanfo? Dai, spa­lanca tutte le finestre. Anche quella del bagno, se esiste.»

Spalanco.

La colonna sonora della pioggia adesso sciacqueggia in primo piano. Si confonde col bla bla del televisore, i soliti dro­gati di calcio che commentano i risultati. Una volta ero dro­gato anch’io; poi mi sono dato una calmata, nel senso che ho smesso di fare a botte, chissà perché. Fumo e faccio girare lo sguardo intorno alla camera, un ret­tangolone che non sa di niente. Però c’è il frigo, grazie al cielo. Mi servo e passo una birra anche a Gil. Il Milan ha perso: vaf­fanculo. Proprio non è giornata.

«Vediamo se sei capace di scolare la tua birra tutta d’un fiato», sfido.

«È un gioco idiota. Me la voglio godere a poco a poco.»

«Ce n’è delle altre.»

«Meglio per noi. La notte è lunga.»

«E non sono neanche le cinque.»

«Fatti dare un mazzo di carte.»

«Non mi va di giocare.»

«Allora ti conviene bere tutto ciò che trovi in giro e dor­mire fino a domani.»

«Sai una cosa, Gil?»

«Eh?»

«Niente.»

«Sputa.»

«È che non mi va di averti fra i piedi tutta la notte, senza of­fesa. Vo­glio dire: sì, la stanza è grande, posso mettermi nel letto più lontano dal tuo, ma mi avrebbe fatto bene starmene un po’ per i cazzi miei. Lo stesso vale per te, credo.»

«E cosa proponi?»

«Niente, dicevo così per dire.»

Anch’io vado a buttarmi su un letto. Ma prima mi tolgo l’impermea­bile e le scarpe. E poi chiudo gli occhi. Gil sta zitto, la pioggia viene giù fitta, il bosco non è lontano. Questo si chiama sollievo.

Ma non dura. Mi sveglio che sembra già notte fonda. Ac­cendo la luce. Sono solo le otto e un quarto. Gil non c’è.

Lo trovo giù in trattoria che è già a metà di una pizza. Ci sono scarsi avventori, una dozzina o giù di lì compreso qualche marocco e qualche rumeno, ma fanno casino per mille.

«Perché non mi hai svegliato?»

«Dormivi.»

«Bella risposta, da un milione di dollari.»

Intanto ordino una pizza anch’io. E una birra.

Gil non deve avere una gran voglia di parlare. Neanch’io avevo vo­glia di parlare. Adesso invece sì.

«Che ti va di fare dopo, Gil? Due passi? Un briscolino?»

«Mangia. Ci penseremo. C’è tempo.»

A sinistra ci sono due boys e due girls che se la ri­dono per le so­lite stronzate. Parlano di uno che non c’è, uno al quale devono aver fatto uno scherzo un po’ pesante. A destra invece infuria la politica: discussione tosta, fra uno che sim­patizza per il movimento indipendente e l’altro che gli dà ad­dosso in nome dell’unità nazionale.

Lascio la pizza a tre quarti, fa schifo. O forse è solo incom­patibile con tutto ciò che ho dentro e che ho intorno, in­cluso Gil. Lui la sua l’ha letteralmente divorata, e anche gli altri, anche quelli che litigano, ci danno dentro di lama e for­chetta.

Si finisce in stanza con il mazzo di carte. Birra. La testa mi gira, ma c’è. Gil mette giù il due di spade, una briscoletta. O è pieno di spade o ha due carichi da proteggere. Gli regalo un quattro di coppe. Si vede che il suo è un gioco obbligato: un po’ a malin­cuore scopre il re di denari. Lo faccio sparire con l’asso. La mano va avanti così, e la cosa mi eccita un po’. Di solito è Gil a governare il gioco, a briscola come in tutto il resto. Invece stasera siamo pari, uno vale l’altro. È solo la sorte a coman­dare le carte. La sorte e la birra fanno il loro gioco: noi ci adeguiamo.

«Ci vorrebbe un po’ di musica».

Gil si fa mangiare l’ultimo carico, si alza e accende il tele­vi­sore. Fa il giro dei canali finché non trova quello dei clip. Una tizia mai vista prima canta qualcosa di funebre in un tun­nel, al­ternandosi a scene di di­struzione apocalittica. Uno dopo l’altro esplodono il museo rotondo di New York, un teatro di Parigi, le cupole a cipolla sulla Piazza Rossa. Gil ride.

«Che c’è da ridere?»

«Guardati allo specchio.»

«Che devo guardare?»

«La faccia che hai.»

«La mia faccia è sempre quella. La tua pure.»

«La tua faccia è finalmente quella giusta. Una faccia di merda.»

«Beh, non mi va di reagire alla provocazione. Non adesso, al­meno. Magari domani. Me ne torno a letto e ci dormo su.»

Detto, fatto. Anche Gil si spoglia e, senza spegnere né la luce centrale né il televisore, scompare sotto le coperte, dalla fronte in giù. Nessuno dei due ha voglia di inalberare ancora la propria te­sta. Adesso lo so: Gil non è il genio che pensavo, è un caca­sotto, siamo uno più molle dell’altro.

Ma il sonno non arriva. Non arriva. E non arriva.

«Sei sveglio?»

«No.»

«Perché ce l’hai con la mia faccia?»

«Dormi.»

«Cosa ha la mia faccia che non va?»

«Qualcosa gira storto.»

«Sarebbe?»

«Non so. Sei strano. È tutto un po’ strano. Te ne esci con questa stronzata del morto che ride. Poi: la macchina in tilt, le donne che si comportano come se non esistessimo. E questo al­bergo che non è un al­bergo. Puzza tutto di trap­pola.»

«E io che c’entro?»

«Ecco: sono proprio le parole che non dovevi dire. E nem­meno pen­sare. Io che c’entro. In tutta questa faccenda hai te­nuto sempre un atteg­gia­mento da io che c’entro.»

Non so cosa rispondergli. Dopotutto è stato lui a guidare le danze. Invece di replicare, mi alzo a sedere sul letto con le spalle contro la te­stiera e accendo un’altra sigaretta.

«Prima di cena ho visto il telegiornale», dice Gil.

«E allora?»

«Ci sarà un’autopsia. Qualcuno ha sollevato dubbi sulla sto­ria dell’in­farto.»

«Se avessero dei sospetti fondati non lascerebbero il morto nel garage di casa.»

«Forse lo hanno portato via dopo che ce ne siamo andati.»

«Portato dove?»

«E che ne so.»

Mi torna in mente una delle donne della veglia, la più gio­vane. Ci guardava in modo obliquo. Che sia stata lei a mettere in moto questo ca­sino? Lo domando a Gil.

«Dormi. Fare congetture non serve a niente.»

Spengo la sigaretta, mi alzo e chiudo le finestre.

«Non spegni la luce?», fa Gil.

Non ho voglia di spegnerla. Guardo i quadri appesi alle pa­reti: un po­ster delle Maldive, un altro del Grand Canyon. Me ne andrei volentieri da qualche parte, lontano da Gil e dal bi­done in cui mi ha cacciato.

«Gil, che te ne frega dell’autopsia? L’hai mica ammazzato tu.»

«Dormi.»

«Gli hai solo dato una spinta e si è sentito male: così hai detto. A meno che tu non mi abbia rifilato una fregnaccia.»

«Era più che una spinta. L’ho strapazzato un po’. Spegni quella cazzo di luce.»

Spengo la luce. Dal televisore esce musica a basso volume, una mistura techno-pakistana. Ma perché Gil mi ha tirato den­tro? Io nemmeno c’ero. Adesso è come se fossi stato lì, e comin­cia a farmi male la pancia, come succede tutte le volte che mi crolla il mondo addosso: cioè spesso. Come se fossi stato lì, però non ho visto niente e continuo a non vedere niente. Mi torna in mente quella volta che io e Gil ci siamo persi nella nebbia, una nebbia grassa come alito di scrofa, tornando da una discoteca della Bergama­sca, e siamo finiti fuori strada, con le ruote affondate nella fanghiglia di un campo invi­sibile. Lui non perse la testa nean­che per mezzo secondo, mi disse solo di uscire e di dare una spinta.

«Ti ha visto nessuno?»

«Nessuno dove?»

«Nel parco.»

«Nessuno: quante volte te lo devo dire?»

«E allora di cosa hai paura?»

«Chi cazzo ha parlato di paura? Sei tu che te la stai fa­cendo sotto. Vaffanculo.»

«Gil, non mi avevi mai parlato così. Non sono cose da dire fra amici.»

«Amici. Vatti a fidare.»

«Che ti ho fatto?»

«Niente, non fai mai niente. Non farai niente nemmeno questa volta.»

«Perché, cosa dovrei fare?»

«Tira fuori un’altra birra da quel maledetto frigo.»

«Una birra? È tutto qui quello che vuoi? Beh, non ti agi­tare troppo: mi alzo e te la prendo.»

Vallo a capire. Quasi ammazza uno di botte, che però muore lo stesso, e poi se la prende con me perché non mi è ve­nuto subito in mente che vuole una birra.

Apro il frigo, penso alle Maldive, ma è solo un attimo.

«È l’ultima.»

Si tira a sedere sul letto. «Facciamo a metà.»

«Okay», dico io. «Se non hai voglia di parlare, non par­lare.»

Beve un sorso lungo come la notte e mi passa la bottiglia. Sottolinea il gesto con un rutto tremendo e la cosa non mi piace, non saprei dire perché. «C’è poco da dire», fa. «Te lo ripeto per l’ultima volta: lo incontro nel parco, volano parole, lo prendo per il bavero e lo scuoto un po’, ho una gran vo­glia di farlo a pezzi ma lui neanche si difende. Diventa viola, lo mollo, si ac­cascia sulla panchina ansimando come un pesce, e io gli dico che per questa volta la passa liscia, volto le spalle e me ne vado.»

«E poi qualcuno lo trova sulla stessa panchina, lesso come un pe­sce lesso.»

«Cazzi suoi. Questi spaventapasseri sono quasi sempre im­bottiti di droga.»

«Non ce lo vedo eroinomane. Purtroppo.»

«Come sarebbe a dire, purtroppo?»

«Nel senso che, fosse stato strafatto per conto suo, tutto si spiegherebbe più facilmente, e non staresti lì a lambiccarti.»

«E invece?»

«Te l’ho detto, non staresti lì a lambiccarti.»

«Lambiccarmi su cosa?»

«Non scaldarti, non ho voglia di riprendere la discus­sione.»

«Di’ la verità: pensi che l’abbia ammazzato io, e che ho do­vuto inven­tarmi delle palle?»

«Che palle? Io non ti ho chiesto niente: mi hai telefonato, eri su di giri, volevi assolutamente sfogarti con me e hai detto quello che hai detto.»

«Ti ho sempre detto tutte le cose che faccio. L’avessi am­maz­zato, ti avrei detto che l’avevo ammazzato: punto e basta.»

«Sto mica dicendo che l’hai ammazzato.»

«Non ha importanza se l’ho ammazzato o no. Quello ci stava sul culo a tutti e due, e adesso che è morto non sembri tanto con­tento.»

«Neanche tu sembri contento.»

«Non sono contento perché non mi fido più di te.»

«Cosa vuoi che faccia?»

«Sta’ zitto e dormi.»

«Va bene, sto zitto e dormo. Altri comandi?»

«Crepa.»

Mi tiro su il lenzuolo. Che altro devo fare, mettermi a pian­gere? D’accordo, mi metto a piangere.

Speriamo almeno che non se ne accorga.

Il testo – racconto? confessione? – non è né firmato né datato e, dal momento che forse nessuno ne lamenterà la scom­parsa, de­cido chissà perché di trafugarlo. Senza nessuna pre­cauzione, sotto gli occhi di tutti, ripiego in quattro i fogli e me li caccio nella ta­sca posteriore dei calzoni. Nessuno fa do­mande.

© Pasquale Barbella.

(6 – Continua)


Divagazioni sulla giocondità

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Monna Lisa e i boys in perizoma



Si legge con divertimento l’intervista di Giuseppe Baldessarro a Simonetta Bonomi, soprintendente del Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria, pubblicata oggi su Repubblica. La signora è arrabbiata con Gerald Bruneau, il fotografo colpevole di aver abbigliato i Bronzi di Riace con veli trasparenti, sciarpe fuchsia e perizoma leopardati.

L’intervento neo-dada di Bruneau, compiuto a quanto pare senza un nulla ostaufficiale, è invece interessante per più d’un motivo. Provo a elencarne qualcuno:

1. In un’epoca dominata dal photoshoppismo, ovvero dal ricorso in massa all’alterazione digitale delle immagini (comprese le icone culturali più note e venerate), Bruneau si è preso la briga di travestire e fotografare dal vero due immortali feticci dell’arte greca del V secolo a.C. Come osservato da più parti, si tratta di un tipo di dissacrazione non nuovo di per sé; ma lo diventa se messo in relazione con le attuali modalità di produzione di immagini, sempre più agevolate da tecnologie che consentono a chiunque di creare i fotomontaggi più arditi. Il web trabocca di manufatti più o meno visionari creati a volte da operatori di talento, più spesso da dilettanti muniti solo di pazienza, tempo libero e qualche abilità tecnica: esercizi ed effetti estetici prima riservati a pochi sono ora alla portata di tutti. E sempre più fitto si fa l’interscambio di stilemi fra artisti riconosciuti come tali e comuni frequentatori di social network: l’ironia concepita da Bruneau sui Bronzi di Riace, con voluta overdose di elementi Kitsch, non è diversa – in apparenza – da tante boutades visive in voga sulle bacheche di Facebook.

2. Che Bruneau abbia agito con un blitz anziché armato di rituali autorizzazioni è parte integrante del progetto, per sua natura provocatorio. Che senso avrebbe avuto la manipolazione dei Bronzi se fosse stata regolarmente consentita? Ulteriore paradosso: se cercate in rete le immagini dei Bronzi addobbati dal fotografo ne trovate solo alcune in bassa definizione, e quindi poco attraenti per chi volesse condividerle sui consueti spazi sociali (compresi i blog come questo). Bruneau, insomma, mostra di tutelare le sue opere con maggiore determinazione di quanto facciano i musei aperti alle sue irruzioni. Probabilmente lo fa solo per proteggere i suoi diritti d’autore, ma la restrizione ha comunque un alone polemico che trascende il puro interesse commerciale. È come un’orgogliosa rivendicazione di singolarità e di autonomia in un contesto di libero ed esorbitante consumo di figure.

3. Le azioni come quella compiuta da Bruneau non si esauriscono nel gesto che produce lo scandalo. Le opinioni, i dissensi, i titoli dei giornali, persino l’intervista alla signora Bonomi fanno parte della performance. Ne sono il corredo involontario ma necessario. La sciarpa fuchsia, il perizoma tarzanesco esigono a gran voce la reazione mediatica: solo a condizione di suscitarla il gioco può dirsi riuscito. Quando, nel 1984, quattro studenti di Livorno gettarono nel Fosso Reale tre massi rudemente scalpellati facendo credere – anche a critici accreditati – che fossero opera di Modigliani, scrissi: «Gettare finte sculture di Modigliani in un fosso, documentando con una sequenza di istantanee e con videotape tutte le fasi del lavoro, è qualcosa di molto prossimo a certe espressioni nobilie già largamente digerite di quell’arte contemporanea la cui immagine è sembrata così compromessa e ridicolizzata agli occhi dei suoi osservatori ufficiali. Ma, proprio perché gli effetti sono stati così inquietanti, dovremmo deciderci, forse, a considerare la beffa di Livorno come una sperimentazione estetica fra le più creative che l’era dei mass media abbia fin qui prodotto.»[1]

4. Dotata com’è di evidenti contenuti polemici, l’azione di Bruneau si può criticare come e quanto si vuole; ma liquidarla alla stregua di un insignificante scoop goliardico contribuisce ad accrescerne il valore. L’autore ha preso di mira due icone virili di sovrabbondante valore simbolico per ingentilirle e “femminilizzarle” a colpi di tulle e accessori da sexy shop. L’indignazione della soprintendente (che parla di “porcate” e di “schifezze”) la dice lunga su una concezione contemplativa e sentimentale dell’arte intesa unicamente come “espressione del bello”. E sulla conseguente difesa a oltranza di canoni e forme che prevedono, nel loro codice di lettura, anche il trionfo di valori mitici quali l’incorruttibile superiorità – morale, spirituale, muscolare – dell’Eroe, del Guerriero, del Semidio, del Maschione. Se Bruneau avesse attaccato due braccia finte alla Venere di Milo, forse avrebbe suscitato meno scalpore.

5. Ancora un paradosso. Chi sia stato esposto alla beffa di Bruneau, anche per averne intravisto in rete o sui giornali una fotografia a modesta risoluzione, osserverà i Bronzi di Riace con una curiosità diversa dalla solita – probabilmente, in certi casi, meno superficiale e passiva. Le opere d’arte più famose sono note a tutti ma proprio per questo finiscono per suggerire il già acquisito. Chi ha visto milioni di riproduzioni della Gioconda va al Louvre e ritrova, nell’originale, ciò che ha imparato a conoscere o solo percepire sulla carta o sul monitor, salvo lanciare un sommesso gridolino di meraviglia: non per il dipinto, ma per il fatto di trovarsi lì, finalmente a tu per tu con la Regina dei Quadri.[2]
 
Gerald Bruneau. Per saperne di più leggi qui.
Le interrelazioni tra arte e Kitsch sono state analizzate fino allo sfinimento da sociologi, semiologi e critici d’arte di levatura indiscussa, e non ho né la veste né la presunzione di aggiungere altro a quanto è stato già scritto sull’argomento. Che queste commistioni continuino a suscitare scandalo – come se i baffi alla Gioconda li avessero disegnati per la prima volta stamattina e Duchamp non avesse mai proposto un orinatoio come oggetto d’arte – è il vero aspetto stupefacente del caso Bruneau. Finché ci saranno soprintendenti e critici sconcertati e disgustati da happening come quello di Reggio Calabria, sarà opportuno e persino pedagogico appendere Monna Lisa a testa in giù, sistemare l’orinatoio di Duchamp nei pressi del David michelangiolesco e piazzare un paio di scarpe da tennis sotto il Cristo morto del Mantegna. L’unica azione davvero illecita è danneggiare, sfigurare o trafugare le opere d’arte; metterle qualche volta “fuori contesto”, invece, non può che scuotere l’immaginazione dei fruitori e ridestarle da una specie di letargo.

P.B.






[1]“Modì maudit”, su Nuovo n. 7, marzo 1985.


[2]Ho visto code interminabili in adorazione di Monna Lisa, nella Salle de la Joconde. Sono sicuro che la maggior parte di quei turisti non ha notato i colonnati, la torre, la balaustra, Gesù e la Madonna, la viola da gamba, il contrabbasso, gli sposi, i cani, le brocche colme di vino, il pavimento a scacchi, le statue di marmo, gli uccelli in volo e tante altre cose. Sono gli ingredienti delle Nozze di Cana di Paolo Veronese, il capolavoro che ha avuto la sfortuna di trovarsi sulla parete opposta e al quale milioni di visitatori, salvo eccezioni, voltano le spalle. Veronese è invisibile anche se quella tela misura quasi sette metri per dieci.

Chroma. Capitolo VII

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Chroma
Romanzo a colori
Capitolo VII

Nero


Il coupé di Ub è stato ritrovato al bivio tra la statale e una diramazione secondaria, a meno di due chilometri da casa sua. Fra le due strade, che divergono formando una Y, si estende un triangolo di terra argillosa e lunare, una crosta senza un filo d’erba, sfigurata da crepe e pozzanghere di fanghiglia. Il gioiello era capo­volto e ridotto a un groviglio di lamiere, oltre il guardrail sfondato. La voz ha riportato la notizia in un trafiletto, nella pagina di cronaca. «Un’auto che, no­nostante la nebbia, aveva probabilmente supe­rato i limiti di velo­cità, è uscita fuori strada nei pressi della capitale. La vettura risulta intestata al signor Ugo B. Huber, di nazionalità elvetica, da tempo residente a La Capital. Il signor Huber è tuttora irreperi­bile. La polizia stradale continua a perlustrare, durante le ore di luce, l’area dell’incidente: si teme di ritrovare, da un momento all’altro, il cadavere dello scom­parso. L’ambasciata svizzera è stata avvertita.»

«Tu preghi?», mi ha domandato Ulisse a bruciapelo, nella trattoria cinese in cui l’ho invitato a colazione e dove non ha toc­cato cibo.

«Sono ateo. Perché non assaggi un panino al vapore? Non è male.»

«Sciocchezze. Gli atei non esistono. Io sono agnostico e prego.»

«Quale dio?»

A La Capital ci sono chiese di ogni confessione: chiese cri­stiane, sinagoghe, moschee, templi orientali. I fabbricati, schie­rati in fila sullo stesso viale, sono simili e anonimi, a vederli dall’esterno: gli architetti non si sono sprecati in voli di fanta­sia. Nessuno sforzo di adeguamento a questo o quello stile, nessuna indulgenza al décor culturale: solo l’essenziale, qui il campanile, lì il minareto, poi la palazzina con la stella di Davide e, isolato dopo isolato, tutto il resto.

«Un dio senza nome, che non conosco perché inconosci­bile. Probabilmente il massimo comun denominatore di tutte le divinità in cui credono o non credono gli altri.»

«Hai pregato per Ub?»

«Il tuo amico? Mai incontrato di persona. Ma a furia di sen­tirtene parlare mi era diventato familiare.»

La trattoria si chiama Mesón Chino e vanta centouno pie­tanze nel menu, ma è difficile distinguerne i sapori. Il piccante non è mai piccante e l’agrodolce è tutto fuorché agrodolce. Si direbbe che su tutto predomini una vaga acredine e che l’odore della cu­cina sia solo una variante più tiepida di quello che si respira fuori, un sentore di nebbia e di muffa.

«Dovresti mangiare qualcosa. Il digiuno fa parte della pre­ghiera?»

Ride. «Dunque non preghi. Ma conosci qualche orazione?»

«Più di una. Ho ricevuto un’educazione cattolica, è nor­male nel mio paese.»

«Intendi l’Ave Maria, il Credo, Salve Regina

«E naturalmente il Pater noster. Dicono che sia la pre­ghiera più bella del mondo.»

«Chi lo dice?»

«Tutti. Non so. Il Vaticano, suppongo.»

«A me sembra blasfema.»

«Vuoi scherzare?»

«A un certo punto dice: Non indurci in tentazione. Come può un dio nel quale si riconosce la bontà suprema indurre in tenta­zione, cioè tentare di corrompere, i suoi devoti?»

«Sarà una traduzione sbagliata. Non conosco il testo origi­nale e, anche se lo conoscessi, non saprei tradurlo.»

«Sarà. Resta il fatto che le vostre preghiere non sono pre­ghiere.»

«Non sono molto ferrato sull’argomento.»

«Suonano come tentativi un po’ infantili di arruffianarsi i po­teri celesti. Prima di arrivare al dunque – all’implorazione vera e propria, alla supplica, all’oggetto del pregare – indul­gono in lodi e sviolinate, come se il vostro dio, la vostra Madonna e i vostri santi avessero un bisogno smisurato di salame­lecchi. La preghiera non è, non può essere una negoziazione d’affari. Non è un do ut des

«Non ti seguo.»

«Ave Maria piena di grazia… tu sei benedetta fra le donne… e benedetto è il figlio del tuo seno, Gesù… Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome così in cielo come in terra… Questo non è pregare, è incensare.»

«Che cos’è, pregare?»

«Chiedere: senza confondere l’umiltà col servilismo. Nes­sun dio ha bisogno di adulatori, schiavi, lacché. Gli si chiede ciò che è pronto a concedere.»

«Se è pronto a concedere, a che serve pre­garlo?»

«Guarda che strano modo di mangiare ha quella donna. Alla tua destra.»

«La tipa con la faccia da cavallo?»

«No, l’altra. Quella col neo in fronte. Il cucchiaio della zuppa lo tira su al rallentatore, e al rallentatore lo riaffonda nella ciotola. Sempre alla stessa velocità, o meglio con la stessa lentezza. Un automa.»

«Starà recitando un mantra. Ispirata dai nidi di rondine.»

«Che poi non sono nidi di rondine, ma di un altro volatile di cui non ricordo il nome.»

«Adesso ho capito perché preghi. Preghi che ti ritorni la memoria. Ma serve davvero ricordarsi i nomi degli uccelli?»

«Non preoccuparti della mia memoria, è più sveglia della tua. Credo che la preghiera funzioni come un’autodiagnosi: un test che ci serve per controllare quale uso stiamo fa­cendo del libero arbitrio. Ci rivolgiamo a un’entità superiore ma in realtà stiamo frugando nella coscienza: almeno così do­vrebbe essere; e non è la sottomissione, non è la genuflessione ciò che conta, ma l’idea che ci siamo fatti del bene e del male. Se, per assurdo, metà del mondo implorasse Dio di annientare l’altra metà, e l’altra metà lo implorasse di annientare la prima, farebbe bene ad annientarci tutti, perché avremmo dimostrato di esserci allontanati in massa dal messaggio di base – cioè dai principii che re­golano la stabilità dell’universo – e di non meritare più alcuna clemenza.»

«Ti contraddici. Nel tuo esempio, Dio farebbe bene– sono le tue parole – a esaudire le preghiere di chi implora la cata­strofe. Avevano chiesto la fine del mondo e voilà!, eccola cucinata e ser­vita a dovere. Ma perché non ingoi qualcosa? Almeno un po’ di riso, tanto per la compagnia.»

«Cederei solo davanti a un piatto di kalamarakia yemista, ma sull’isola non c’è speranza di trovarne.»

«C’è una vecchia taverna greca in Calle de la Misericor­dia.»

«Quella? Dio ce ne guardi.»

Una sguattera senza peso si aggira fra i tavoli per portare via gli avanzi, passando su tutte le incerate lo stesso strofinaccio bisunto. Avrà mai sorriso a qualcuno? Una cameriera identica a lei – stessa taglia, stesso camice grigio, stesso malumore – la segue a ruota e mi piazza sotto il naso due involtini primavera.

«Guardali», dice il mio commensale indicando il piatto, e ride.

Concedo un’occhiata distratta agli involtini, seguendo il filo di un pensieraccio che mi attraversa la mente. «Cosa dovrei notare?»

«Che sono gemelli: uguali nella forma, nelle irregolarità, nei minimi dettagli. Sembrano sputati in serie da una mac­china.»

Annuisco senza badarci, mordo un involtino e cedo a una di quelle cattive abitudini che troviamo intollerabili negli altri: par­lare masticando.

«E poi, sai che ti dico? Che il male è solido e oggettivo, men­tre il bene è un’invenzione talmente imperfetta che solo la mente dell’uomo può averla concepita. Per questo, probabil­mente, biso­gnerebbe pregare (te lo dice uno che non prega): perché non c’è garanzia che il bene piova come manna dal cielo e si diffonda spontaneamente nell’universo, mentre puoi star sicuro che dietro l’angolo c’è sempre qualcuno pronto ad accopparti, e se non è qualcuno è qualcosa: il terremoto, il vul­cano, lo tsunami. Ma tu, che dici di pregare senza sapere a chi rivolgerti, che cosa preghi esattamente?»

«Di proteggerci da noi stessi.»

«Dunque anche tu vedi il male dappertutto: ben radicato nella natura, e in special modo nella natura umana. E senti la necessità di pregare perché il bene è l’eccezione (miracolosa?) al dilagare del caos.»

«Perché gli uomini si sarebbero presi la briga di inventare o reinventare l’idea del bene, se quell’idea non fosse già og­gettiva­mente presente nell’animo umano?»

«Quell’idea non è affatto congenita: è la scelta – oculata e strategica – di gruppi determinati a condividere un insieme di re­gole per proteggersi a vicenda e garantirsi la sopravvivenza.»

«Gruppi?»

«Gruppi che cominciano da un clan – rintanato in una caverna per ripararsi dal gelo, dalle belve, dalle aggressioni di estranei – e si sperano sempre più folti, fino a inglobare idealmente l’intera species. Solo che oltre un certo numero di adepti, più modesto di quanto tu creda, si sconfina nell’utopia. Nel frattempo, il bene degli uni viene sbandierato contro il bene degli altri. Persino il bene genera il male.»

«E si è punto e daccapo.»

«Punto e daccapo.»

«Chi ha ucciso Ub?»

«Chi ti dice che l’abbiano ucciso?»

«Giuravi che non superava mai i trenta all’ora. Le lumache non muoiono per eccesso di velocità.»

«Forse non è affatto morto. Domani, magari, ce lo ritro­viamo al bar della Lavandería, con una tazza di tè in mano e un cerotto sul naso, ad ascoltare valzer di Strauss e meditare sull’import-export.»

«Come va con Françoise?»

«Così. Per certi versi mi ricorda una donna che amavo. Ma le doti che apprezzo in Françoise sono quelle che l’altra non ha.»

«Sei un uomo complicato.»

«Tu di più. Specialmente da quando hai smesso di spacciare barzellette.»

«Quelle le riservo a un pubblico triste.»

«Ti andrebbe un surrogato di whisky?»

«Ho chiuso con l’alcool. Ho bisogno di lucidità.»

«A che ti serve?»

«Progetti. Ma non è il momento di parlarne.»

«Non ti fidi di me?»

«Non mi fido di me.»

© Pasquale Barbella

(7. Continua)


Laboratorio di scrittura, 2

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Laboratorio di scrittura per bambini
Seconda parte del gioco


C’era una volta un pezzo di legno


Incipitè una parola latina che significa “Comincia”. Terza persona singolare del verbo incipĕre (cominciare).

In letteratura, “incipit” è l’inizio di un testo. Le prime frasi.

Se l’incipit è banale, il lettore sbadiglia subito e non si sente invogliato a proseguire nella lettura.

Cominciare bene un testo è dunque fondamentale. Non solo quando si scrive un libro, ma anche quando si prepara un articolo di giornale o un tema scolastico.

Pensa alla povera maestra o al povero maestro, costretti a leggere e correggere venti temi o esercizi noiosi. Meglio facilitargli il compito, sorprendendoli con qualcosa di insolito.
Geppetto e Pinocchio.

Incipit di libri famosi

Il primo capitolo di Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, uno dei libri per ragazzi più famosi del mondo, comincia con questo titolo:

Come andò che Maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.

L’effetto sorpresa è assicurato. Possibile che un pezzo di legno possa piangere e ridere come un bambino? Inizio molto promettente! L’occhio incuriosito passa subito alle righe successive:

C’era una volta...

– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.

– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

In questo incipit, Collodi usa alcuni dei trucchi di cui abbiamo parlato nell’incontro precedente:

1. Predispone un effetto sorpresa;

2. Prepara una trappola ai lettori per coinvolgerli in una specie di gioco, rivolgendosi direttamente a loro.

3. Usa l’ironia per rendere la lettura più divertente.

Naturalmente ho usato la parola “trappola” in senso metaforico. Scrivere per farsi leggere è come “catturare” l’attenzione e l’interesse di qualcuno. E le trappole, per l’appunto, sono fatte per catturare una preda.

Quella di Pinocchio è una favola, ma è scritta in modo diverso dalle solite favole. Quelle cominciano spesso con “C’era una volta un re”, “C’era una volta una principessa”, “C’era una volta un bambino”, eccetera. Qui invece l’eroe sembra essere “un pezzo di legno”. Il lettore si incuriosisce e continua a leggere per capire come fa un semplice pezzo di legno a sostenere una storia di oltre duecento pagine.

Inutile aggiungere che tutto il libro è appassionante come le prime righe. Per questo è diventato un classico, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo.
Tom Sawyer in una illustrazione di Jack Woodson.

Un altro famoso romanzo per ragazzi, Le avventure di Tom Sawyerdello scrittore americano Mark Twain, comincia come un film:

– Tom! Non risponde. – Tom! Non risponde. – Dove si sarà cacciato quel ragazzo? Dico a te, Tom!

Tom Sawyer è un ragazzo di dieci anni molto irrequieto. Non dà mai retta alla zia, che lo adottò quando era piccolo, alla morte dei genitori. Tom non esita a ingannare le persone per raggiungere i suoi scopi, come quando ruba la marmellata alla zia o, per non dipingere lo steccato, usa uno stratagemma per farlo dipingere dai suoi amici, convincendoli a lavorare a pagamento.

L’incipit del libro, dicevo, è come l’inizio di un film: immaginiamo qualcuno (la zia) che chiama un ragazzino disubbidiente, uno che non risponde perché fa sempre i cavoli suoi.
Scrooge (dal film di animazione A Christmas Carol di Richard Williams, 1971).

Ora leggiamo un altro incipit, quello del Cantico di Nataledello scrittore britannico Charles Dickens:

Marley era morto, tanto per cominciare. Non c’era dubbio su ciò: il suo atto di morte era firmato dal pastore, dal coadiutore, dall’uomo delle pompe funebri e dal responsabile della cerimonia funebre. L’aveva firmato anche Scrooge, ed il nome di Scrooge valeva per qualunque cosa su cui egli decidesse di metter mano. Il vecchio Marley era morto come il chiodo di una porta.

“Marley era morto”. Non sappiamo chi sia questo Marley, ma vorremmo saperlo.

“Morto come il chiodo di una porta”: metafora efficace e divertente, sebbene si stia parlando di un morto.

Lo stile appare subito ironico: a Dickens non basta scrivere che il vecchio Marley è morto (“come il chiodo di una porta”), ma cita ben quattro testimoni per rendere assolutamente credibile la sua morte.

Naturalmente ci saremmo accontentati delle prime tre parole (“Marley era morto”), e gli avremmo creduto subito. Ma Dickens vuole anche creare l’atmosfera del momento. Come in un film, ci sembra proprio di vedere in azione il prete, il suo assistente e quelli che si occupano dei funerali. E siccome sappiamo già che il romanzo è stato scritto nell’Ottocento, ce li figuriamo vestiti come ci si vestiva in quel periodo, in un ambiente scarso di luce perché ancora non c’era la luce elettrica.

E continuiamo a leggere perché non solo vogliamo sapere chi fosse il morto, ma anche chi sia questo Scrooge, così importante, così rispettato, così potente.

Mai dire tutto e subito


Quando si scrive una storia, o anche un breve tema scolastico, il segreto sta nel dire le cose un po’ alla volta, senza precipitarsi verso il finale.


Bisogna giocare a nascondino col lettore: adesso ti dico solo un po’ di quello che so; se vuoi conoscere il resto, devi continuare a leggere. Ti rivelo, a poco a poco, come va a finire. Come in un giallo, anche se non si tratta per forza di una storia poliziesca.

L’effetto peggiore, quando si scrive, è mettere il lettore nella condizione di indovinare dove vai a finire. Se ciò accade, è perché il testo non è abbastanza “misterioso”. Il lettore, insomma, deve essere un po’ ingannato; bisogna fare in modo che lui creda in una certa svolta del racconto, e farlo sbagliare.

Facciamo un esempio. Tema scolastico. L’arrivo della primavera.

Ieri ho visto arrivare la primavera. C’era un gran freddo e scendeva una pioggerella fitta, mista a neve.

L’ho vista per caso, all’aeroporto della Malpensa.

Appena scesa dalla scaletta dell’aereo, si è vista offrire un ombrello e un gran mazzo di rose da un gruppo di tizi che l’aspettava sulla pista.

C’erano anche una ventina di fotografi e giornalisti, armati di macchine fotografiche, videocamere e microfoni. L’hanno circondata e tempestata di flash e di domande.

Sebbene stanca e sopraffatta dai seccatori e dal maltempo, la passeggera era bella, simpatica e paziente. L’ho riconosciuta subito, perché è una delle mie attrici preferite. Ogni volta che mi capita di vederla al cinema o in televisione, penso: «Ecco, la primavera deve essere così.»

Naturalmente siamo in pieno inverno. Per questo la primavera indossava un pesante cappotto e un cappello di astrakan.

L’attrice Emma Watson, che impersona Hermione Granger nei film della serie Harry Potter.

Chroma. Capitolo VIII

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Romanzo a colori
Capitolo VIII
 

Oroklimt


Cara Altra,

è stato un lapsus definirti così nelle confidenze che ti ho riportato nell’ultima lettera ma è inutile nasconderlo: credo di essermi innamorato di nuovo, e non di te. Del resto ogni volta che mi innamoravo di te eri diversa, tale almeno mi apparivi, e neanch’io ero lo stesso di prima. Sono certo che durante questa separazione siamo cambiati ancora, tutti e due; e siamo cambiati più in fretta e più profondamente di quanto avvenisse una volta, per il semplice fatto che l’assenza prolun­gata di chi ci è stato ac­canto non può che rendere più scorre­vole il processo di altera­zione delle identità e dei sentimenti. Ora non dovrei più doman­darti come stai ma piuttosto chi sei. Concedimi tuttavia di conti­nuare a scriverti, anche se la tua vita e la mia, come tutto la­scia supporre, hanno scarse probabilità d’incrociarsi ancora. Scrivo a te perché ti lascio definitiva­mente la parte migliore dell’io che sono stato: la più giovane, la meno scettica, la meno corrotta. Tienila, fanne l’uso che ritieni opportuno. Ti lascio an­che il resto: i soldi, gli immobili, le polizze, le azioni, i libri, i quadri. Non ne ho più bisogno. Non potrei tornare da te nemmeno se volessi: il passaporto è scaduto. Quando me ne sono accorto mi sono rivolto all’ambasciata per ottenerne il rinnovo, ma hanno sfoderato pretesti su pretesti per complicare il problema invece di risolverlo, come sarebbe stato loro dovere. Alla fine sono uscito più sollevato che abbattuto; ho capito che nulla poteva interessarmi di meno che il rinnovo del passaporto; sto di­ven­tando pigro; forse chiederò anch’io, come hanno fatto altri prima di me, la cittadinanza di qui. Ci mettono mesi o anni per conce­derla, la burocrazia è ancora più lenta che da noi, ma nel frat­tempo la presenza degli stranieri è tollerata, la parola clan­de­stino non esiste o è in disuso, nessuno ti rompe le scatole se non hai un regolare permesso di soggiorno, puoi persino tro­varti un lavoro se proprio ci tieni. Io ne ho trovato uno che non mi di­spiace. Ti avevo già scritto del progetto Chroma: qui adesso la parola d’ordine è colore, colore, colore. Gran fer­mento in giro. Non hanno mai avuto né una pinacoteca né opere d’arte con cui riempirla: hanno deciso di darsi una mossa. Stanno reclutando pittori, copisti per ripercor­rere le tappe più significa­tive della storia universale dell’arte, ma hanno bisogno anche di ricercatori, critici, esperti che garantiscano la qualità dei falsi. Il ministero della cultura ha indetto un concorso per assumere, oltre agli artisti, cento ricer­catori-supervisori. Ho partecipato al con­corso e mi sono ritro­vato tra i cento. Lo stipendio non è granché se commisurato ai nostri standard, ma il costo della vita qui è un’inezia; e poi c’è poco da comprare, le merci scarseggiano e in genere non hanno attrattive: l’unico articolo di lusso che ricordo di aver visto era la Porsche di Ub, non gli ho mai chiesto come avesse fatto a procurarsela. E vuoi saperne una bella? Non si pa­gano tasse; alle finanze dello stato bastano e avanzano i proventi dell’Hospital, grazie al continuo afflusso di valuta pregiata. La sanità è l’industria più solida e produttiva del paese – un traguardo che i nostri liberisti nemmeno si sognano.

Il mio ufficio si dedicherà alla costituzione di un database universale delle opere d’arte e delle nozioni ad esse correlate, ba­sandosi sulle pubblicazioni sparse tra le biblioteche, gli isti­tuti e i rari collezionisti privati dell’isola. Compito arduo in un paese poco aperto alle importazioni culturali, senza telefono e senza in­ternet, che per di più continua a praticare, per antico vezzo, il rogo di questo o quel libro. Tanto più arduo ora che lo stesso mi­nistero impegnatissimo a sostenere la storia e la pra­tica delle arti figurative ha di fatto soppresso il dipartimento di letteratura, e che il governo ha ulteriormente tagliato i fondi, già esigui, destinati alla ricerca umanistica e scientifica, all’università, alla scuola in generale. Qui puoi trovare storici, musicologi, filosofi e scrittori, ma è gente che – come me – viene da lontano, ha poca voglia di muoversi e ha perso o sta per perdere l’ultimo contatto con la cultura del paese d’origine. Tutto ciò rende ancor più appassio­nante la sfida che ho, forse incautamente, raccolto.

Al Kursaal c’è stata una festa ufficiale per celebrare il varo del progetto Chroma. Erano presenti il primo ministro Valdés, membri del governo e del parlamento, il sindaco e altre autorità della capitale. Per l’occasione è stata restaurata e riaccesa l’insegna del club. Di più: hanno rifatto completamente gli arredi; via i drappi rosa, irrigiditi e spenti dal tempo; via le decorazioni più tetre e i fiori falsi e impolverati. Tutto rinnovato e splendente, con profusione di stoffe giallo oro, pannelli decorativi in legno dorato, moquette color sabbia, mosaici, lampade e altri oggetti art nouveau imitati in modo passabile. Secessione viennese nella va­riante Disneyland, dire­sti. L’isola sembra aver scoperto una di­mensione che le era quasi del tutto estranea, quella del Kitsch, e ci sta scherzando sopra con insospettato umorismo. La scenogra­fia sul palco, in stridente contrasto col décor del salone, si ispi­rava invece esplicitamente al progetto Chroma: gli orchestrali indossavano giacche di colore diverso, insieme formavano un ar­cobaleno lucido e squillante; policromi anche i leggii a forma di cubo, i riquadri sullo sfondo, l’effetto Rubik di due enormi dadi dispo­sti a mo’ di quinte laterali.

«Abs», mi ha soffiato in un orecchio il geometra dall’eterna giacca verde.

L’ho guardato senza capire e ha precisato: «Acrilonitrile bu­tadiene stirene. Comunissima termoplastica atta agli impie­ghi più svariati. Sì, anche alla fabbricazione dei mattoncini Lego.»

Ma a catalizzare l’attenzione generale è stata, come al solito, Helga Ross. Indossava un sontuoso decolleté in carta dipinta, un capolavoro di découpage e di effetti ottici, tentata replica dell’abito indossato da Adele Bloch-Bauer nel ritratto di Klimt del 1907. Cento sfumature d’oro e una cascata di làmine di latta smaltata di varia forma geometrica – rombi, ellissi, triangoli, tra­pezi – decorate con simboli egizi e bizantini. Alla gola un collier di vetrini colorati alto e scintil­lante, molto elaborato. Monumen­tale, come nel quadro, l’acconciatura dei capelli (parrucca, proba­bilmente). Non meno vistoso del travestimento è stato, com’era da aspettarsi, il suo modo di fare. Già sbronza prima di aver be­vuto – almeno in pubblico – una sola goccia, ha trascinato a forza il primo ministro sulla pista da ballo, suscitando il suo imbarazzo e quello del suo entourage.

In quel momento ero con Françoise allo stesso tavolo di Lady Paulson e della sua dama di compa­gnia, una certa Goldman. Entrambe agitavano ventagli color sabbia, ma a ritmo diverso. Lady Paulson manteneva un ritmo lento ma co­stante; l’altra accelerava, decelerava, si bloccava di colpo, ripar­tiva, in sincrono con i picchi e le pause della con­versazione. Non era facile starle ad ascoltare, a causa della musica – eravamo a ridosso di una cassa acustica – e del chiasso generale. Ma ho colto nitidamente la voce della signora Goldman quando ha detto: «Dovrebbero suonarle il valzer della Vedova allegra.» Una mali­gnità come un’altra, ho pen­sato; e mi sono chinato verso Françoise per chiederle se si stava annoiando. Lei mi ha zittito con un cenno e ha impercet­tibilmente spostato il busto verso la Paulson, come per affer­rare meglio le sue parole.

«Mettersi a fare carnevalate mentre il marito giace all’obitorio.»

Sì, ha pronunciato proprio quella frase, ha confermato Françoise quando abbiamo lasciato le due signore per raggiun­gere Ulisse, in fondo alla sala. Le ho chiesto se fosse sicura che stes­sero parlando di Ub (il cui corpo è stato rinvenuto ieri mat­tina dietro alcuni bidoni di spazzatura, non lontano dal luogo dell’incidente). Si è detta sicura al cento per cento.

Anche Ulisse era perplesso a causa di Helga Ross, ma per tutt’altra ragione.

«Ci vogliono professionisti e settimane di lavoro per confe­zionare un abito come quello. Come faceva a sapere che avreb­bero trasformato il locale in una bomboniera viennese? Questo sberluccichìo dorato non doveva essere un colpo di scena, una sorpresa per tutti?»

Sembrava annettere alla questione un’importanza esage­rata, tanto che Françoise ha chiuso con una battuta:

«Bisognerebbe chiederlo a Lady Paulson e alla sua amica.»

Ulisse non si è mosso. Non ha preso la coppa di champa­gne dal vassoio dorato che un cameriere in smoking aveva teso verso di noi. Ha aspettato che l’uomo si spostasse altrove per dire a Françoise:

«Fallo tu. Per favore.»

«Fare cosa?»

Voleva che davveroFrançoise consultasse le pettegole per avere una risposta sul mistero dell’abito di Helga Ross. Esita­zione, sorso di champagne, alzata di spalle, «se proprio ti fa pia­cere», partenza.

E io: «Che ti sta succedendo, Ulisse?»

«Niente. Partecipo alla festa, come voi.»

«Non stasera, Ulisse. Da mesi. Che ti sta succedendo?»

Sguardo obliquo, risposta idem. «Perché nessuno, sull’isola, parla mai del proprio passato?»

«Quale passato?»

«La vita di prima. Prima di arrivare qui.»

«Il passato è passato.»

«Qui ognuno ha qualcosa da nascondere. Tu cos’hai da na­scondere?»

«E tu?»

«La mia fedina penale non è quella di Biancaneve. Se torno ad Atene finisco dentro. Ecco perché sono costretto a restare in questo cesso.»

Quando Françoise è tornata ha riferito che il mistero, dopo­tutto, non è un mistero. Non è un mistero che l’amante ufficiale di Helga sia Vladimiro Rodríguez, il ministro della cultura. A letto neanche i ministri hanno segreti.

La rivelazione non ha avuto su Ulisse l’effetto che spera­vamo. Ci è sembrato più scosso di prima, si è chiuso nel silen­zio. Invano ho cercato di strappargli un sorriso.

«Che ci fa uno squinternato come te con la cravatta in oro an­tico e la giacca damascata bordeaux?», gli ho chiesto. Di solito ha l’aspetto del descamisado.

«Me le hanno infilate addosso all’ingresso. O così o fuori, hanno detto: è una serata di gala. Tu mi sei amico?»

«Che domanda. Sì, credo di essere tuo amico.»

«Allora vieni con me lunedì mattina.»

«Dove?»

«In un posto. Busso alla tua camera alle nove in punto.»


© Pasquale Barbella

(8 – Continua)

Mostafa

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Ho conosciuto Mostafa Khaled Abdelhalim a Monza, in un centro religioso che ospita minori e disagiati.

Presto sarà maggiorenne e la sua vita di immigrato, già non troppo facile, si complicherà ulteriormente.

Non ho né i mezzi né l’energia per aiutare Mostafa e tutti quelli che sono nelle sue condizioni.

L’unica idea che mi è venuta in mente è pubblicare il suo curriculum nei piccoli spazi che occupo sul web.

Chiedo ai miei amici di fare qualcosa di simile. Ciascuno “adotti” un giovane precario o disoccupato (ragazzo o ragazza, italiano o non) pubblicandone il CV e facendolo girare.

È solo un esperimento, lo so.

Ma a volte dagli esperimenti nasce qualcosa di utile.

Grazie.

P.B.

Il curriculum di Mostafa






L’automobile di Mostafa.




Chroma. Capitolo IX

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Lettere da Chroma
Romanzo a colori
Capitolo IX

Cenere

Sto bene qui perché voglio dimenticare Kabul e Baghdad, Wall Street e Bin Laden, il cancro e l’Aids, la Striscia di Gaza e le due Coree, il martirio volontario e quello involontario, i fondamentali­smi di qualsiasi marca. Sto bene qui perché ho già dimenticato quasi tutti i disturbi che non ho inserito nell’elenco. Sto bene qui perché mi lasciano in pace e non pretendono nulla da me.

Bussano alla porta. Sarà Ulisse, è in anticipo; non sono ancora le nove. Riprenderò questa lettera non appena pos­sibile.

***

Era il postino. Uno choc. Mai mi sarei aspettato una lettera da te! E io che credevo di gettare le parole, i pensieri al vento! E dici di aver ricevuto, seppure in ritardo, otto lettere da me: non te ne ho inviate di più. Mi chiedi scusa per non essere stata sollecita nelle risposte. Non pensarci: a che mi servirebbe spa­rire tra queste nebbie, confondermi con questa cenere, se non sapessi nemmeno ricavarne una lezione sull’arte di scusare? Altro che scuse: ti devo gratitudine per la tua discrezione, il sacrificio che non hai esitato a compiere, il regalo immenso che hai deciso di farmi. Sei tu che devi scusarmi, per le confessioni grossolane che mi sono sfuggite dal cuore e dalla penna. Grazie per aver stracciato la tua carta d’imbarco, per aver disfatto i bagagli, per non esserti precipitata qui. Grazie per il tempo pietosamente accordato ai miei sofismi, alle mie in­certezze e alla decisione, alquanto vile, di darmi alla latitanza. Grazie per non aver fatto scendere dall’alto le tue concessioni, per aver espresso dubbi così simili ai miei, per aver pianto una volta sola – al momento della separazione. Grazie per il tuo silenzio sulle ragioni del mio collasso, del mio slittamento, della mia svolta. Grazie per la sincerità senza ombre con cui mi parli della tua nuova esi­stenza, dell’uomo che ti ha sostenuto nei momenti difficili, della vostra decisione di vivere insieme. Grazie per la paca­tezza della tua lettera di addio, e soprattutto per la mano che mi tendi esortandomi a scriverti ancora e ancora, tutte le volte che voglio e vorrò. Grazie per quella frase che reputo lusin­ghiera: «Leggo le tue lettere come si legge un romanzo.»

Sì, hai ragione a rimproverarmi la mia reticenza su Françoise: so di averti scritto troppo poco di lei, di aver misu­rato con calco­lata prudenza le informazioni sulla nostra rela­zione, come se non ti riguardassero o me ne sentissi colpe­vole. Hai visto giusto due volte, smascherando l’egoista e l’ipocrita che sono diventato (o sempre stato: non lo so; so soltanto di essere un cattivo lettore di me stesso).

Continuo a scriverti, c’è tempo. Ulisse ha rinviato a più tardi il nostro appuntamento. «Piove», ha detto. Di nuovo: aghi fitti e sottili in caduta silenziosa, di nessun colore. Ho ripensato a quello che ha detto, alla rimozione del passato di chi sceglie di vivere qui – una specie di psicoepidemia. Ho qualcosa da nascondere? Che cosa? E quanto mi interessa saperlo? Il pas­sato è un dipinto sbiadito, senza titolo e senza autore. Solo ora me ne rendo conto: soffro (godo) di amnesie. Era l’argomento con cui ho incomin­ciato questa lettera, prima di leggere la tua. Sfibramento del pensiero, della sua linearità, delle sue correnti di memoria. Un film senza trama che mi importuna anche di notte, a sprazzi. Insonnia? No, sarebbe eccessivo parlare di insonnia. Sonno disturbato, questo sì. Lampi notturni, come se le ossessioni altrui (Ulisse, Ulisse!) mirassero a contagiarmi. Sospetti, forse. Che le terapie riservate ai pazienti dell’isola comprendano, per esempio, la somministrazione di se­dativi speciali, a effetto prolungato o differito. Una misura com­prensibile, se solo non se ne facesse mistero. Perché tacerla? In altri paesi ti fareb­bero firmare una dichiarazione di consenso, prima di sottoporti a trattamenti di cui si prevedano controindica­zioni o altre con­seguenze d’una certa intensità. Forse anche qui: forse ho fir­mato un pezzo di carta e quel momento si è dissolto in un oblio cinereo. Eppure di te, di noi due, ricordo o credo di ri­cordare tutto, nei minimi dettagli: date, fatti, oscillazioni relazio­nali, parole. E anche del mio lavoro, della nostra città, dei nostri viaggi, delle nostre posizioni politiche, degli amici, dei parenti. I colori no: quelli tendo a sbiadirli con una certa facilità. Ogni giorno dimentico una, dieci, cento sfumature appartenenti al mio, al nostro passato. Di che colore erano esattamente (o sono ancora, se tutto è rimasto come prima) i nostri divani, le tende, le pia­strelle del bagno e della cucina, la moquette del sog­giorno, le co­perte, le tovaglie, gli asciugamani, il legno della libreria? Erano, sono bianche le pareti, o pallidamente tinteg­giate? Di che grada­zione di castano sono i tuoi capelli? Che rosso è il tuo rosso per labbra preferito? Di quale ocra o grigio fumé era, è fatto, il nostro quartiere? No, non sono diventato daltonico; non ho dubbi sui semafori perché qui ne abbiamo di identici; anche i segnali stra­dali sono più o meno gli stessi in tutto il mondo, Isla compresa. E ti ho detto che ricordo tutto dei viaggi, ma è vero solo in parte: nella mia mente la geografia si è inabissata in un oceano senza coste, ricordo New York e Parigi e Venezia ma farei fatica a lo­calizzarle con sicurezza sul mappamondo o sull’atlante, andrei in confusione. Dov’è La Isla? In quale arcipelago dell’Atlantico, del Pacifico, dell’Oceano Indiano? O dei Caraibi – se non facesse così freddo? So che la lingua ufficiale è lo spagnolo: ma poi? Se sarai così pazza da scrivermi ancora, non dare risposte a queste domande; non voglio sapere; l’amnesia fa parte del gioco che ho scelto di giocare. Tienimi all’oscuro di tutto ciò che non riguardi direttamente i tuoi pensieri, i sogni, i sentimenti: il resto preferi­sco seppellirlo sotto la cenere. Solo se e quando ti chiederò – ti implorerò – di sciogliere questi o altri dubbi: solo allora dovrai rispondere a tutte le domande che ti farò, e più in fretta che potrai. Perché sono sereno, adesso; diverso dal nau­frago che ti inonde­rebbe di domande, domande, domande su un passato in decompo­sizione.

***

Ulisse ha comprato una motocicletta col sidecar. Lui dice da un rivenditore di veicoli usati, io direi da uno sfasciacarrozze. «Se si muove è un miracolo», ho commentato; ed è scoppiato a ridere con la levità di una volta, è tornato per un istante a essere l’elfo che conoscevo.

«Macché miracolo: ho sgobbato ore per rimetterla in sesto.» Ognuno ha la sua idea delle moto e del tempo. Io non sarei riuscito a smuoverla nemmeno se avessi sgobbato una vita. Ma riparare re­litti era il suo hobby e persino il suo lavoro quando aveva un la­voro, ha detto. Mi sono sistemato in quella specie di carriola con riluttanza, ho subìto il frastuono e le esitazioni della partenza, la molestia di sobbalzi e sbandamenti, finché le ruote del mostro bizzoso non si sono rassegnate a infilare il rettilineo arrendendosi ai comandi del domatore.

«Archeologia», ho borbottato, con l’aria di chi disapprova. «Più che il tuo passeggero sono il tuo bagaglio.»

E lui: «Alza il volume. Non ti sento.»

«Ci multeranno, non abbiamo il casco.»

«Il casco? Che ce ne facciamo del casco?»

Guidava, cantava, sghignazzava come un guerriero della do­menica.

«Cerca di rilassarti e di assecondare le curve, sei un peso morto. Dovresti avere più rispetto per il mio cavallo: compòr­tati da soldato. Sei a bordo di una macchina da guerra, mica di un gadget per turisti.»

Ha dovuto concedermi uno stop, avevo lo stomaco sottoso­pra. E lui, pisciando: «Vomita, fratello, vomita. Presto ne avrai motivo.»

Ero meno teso quando la moto è ripartita, sebbene il conte­gno di Ulisse non promettesse acqua di rose.

«Adesso vai troppo piano, Ulisse. Tieni almeno la destra, la­scia passare il furgone.»

L’avventura era già incominciata, ma io mi ostinavo a non capirlo. Non credo di essere particolarmente stupido, ma a volte la stupidità è il riparo più efficace dal rischio.

«Pensi davvero che chi guida quel furgone non veda l’ora di sorpassarci?»

«Da un po’ di tempo vedi spie dappertutto. Per spiare cosa, poi?»

«Vedo quel che vedo, e quel che vedo non mi garba.»

Ha svoltato lentamente a destra e si è fermato ancora, que­sta volta vicino a un bar all’aperto. Bar: si fa per dire. Uno spaccio di cianfrusaglie incongrue su un vicoletto sterrato, in mezzo a quattro casupole abusive e fatiscenti, sormontate da ritagli di lamiera ondulata immobilizzati coi sassi. Un grumo di desolazione nella desolazione. Tè alla menta in un bicchiere mal lavato: non avevano altro da servire. Lui non l’ha neanche sfiorato con un dito. «Siamo quasi arrivati», ha detto senza perdere d’occhio il fur­gone: che ha rallentato, si è fermato all’incrocio per qualche minuto a motore acceso ed è in­fine ripartito. Era l’ora di pranzo e non si vedeva circolare gran traffico sullo stradone: solo, di tanto in tanto, qualche mezzo pe­sante con la ragione sociale dell’EPI sulla fiancata lercia.

«Posso essere franco con te, Ulisse?»

«A una condizione. Finiscila di chiamarmi così. Sai bene che il mio nome è un altro.»

«Continui a sorprendermi. Perché non me l’hai mai detto che quel soprannome ti infastidiva? Ti avrei chiamato Theo fin dal principio, non mi sarebbe costato nulla. E tu non avresti in­goiato…»

Mi ha interrotto con un sorriso un po’ tirato. «Non ho in­goiato nulla e non ti rimprovero nulla. Ulisse è un bel nome, meno indecente del mio, che considero arrogante e blasfemo. Solo che non ci sto al vostro gioco: di fingervi un’altra identità, un’altra vita, come se prima non foste mai esistiti.»

«Quanto ti sbagli sul mio conto», devo avergli sibilato, come un bambino offeso. «Se davvero ci tieni a conoscere la storia della mia vita te la racconto a puntate, anno dopo anno e giorno dopo giorno; ma ti avverto che si tratta di una biografia banale, di nessun interesse; ti annoierebbe a morte. Oggi ho ricevuto una lettera dal mio passato, come lo chiami tu con un’enfasi che non ti si addice, e ho avuto conferma di quanto mi fosse estraneo il tempo di ieri, di quanto distacco la malattia avesse frapposto fra quello che ero e…»

Sì, è stato a quel punto che Ulisse, Theo, ha cominciato a su­dare freddo; quello il momento in cui ho dovuto cominciare a diffidare della cenere. Ora so che questa lettera sarà scritta e non spedita; che continuerò a scriverti come ho spesso fatto ma che nasconderò le mie lettere fino a quando il rischio, se rischio è, non sarà scongiurato.

«Sei in corrispondenza con qualcuno?» La sua voce era un soffio. Gli ho detto di te, di noi, dei nostri rapporti annebbiati, diluiti in sporadici sussulti epistolari. «Le hai scritto anche di me?»

Avrei dovuto mentirgli. Ma non ne ho avuto il coraggio.

«Sei il miglior amico che ho, che c’era di male?»

«Non ci arrivi? Qualunque cosa tu abbia scritto di me, di altri, di te stesso, è stato passato al vaglio e fotocopiato da chissà chi.»

In un lampo ho pensato ai cumuli di posta abbandonati nei magazzini, ai ritardi del servizio. Da perfetto colpevole, mi sono aggrappato alla prima giustificazione che mi è venuta in mente.

«Come facevo a indovinare che l’Interpol ti sta addosso? Prima della soirée al Kursaal non sapevo niente della tua condi­zione di latitante; e anche dopo, quando mi hai accennato al fatto che non sei uno stinco di santo, che la tua fedina ecce­tera ecce­tera, non ho pensato a nulla di irreparabile ma a pec­catucci di poco conto, bazzecole; e ti sono rimasto amico senza ergermi a giudice…»

«Bazzecole? Ho spacciato tutto lo spacciabile. Rovinato mi­norenni e famiglie. Rubato, corrotto, tradito. Adesso puoi anche sventolare il tuo moralismo del cazzo senza imbarazzi, senza tap­parti il naso e le orecchie. Ma qui non si tratta di me: anche se ci vado di mezzo, grazie alla tua frenesia epistolare.»

«Chi altri avrei messo in pericolo, ammesso che ci sia qual­cosa di verosimile nelle tue fantasie?»

«Non lo so. Non posso darti tutta la colpa della morte di Ub, il tuo amico: i guai, a quanto pare, sapeva cercarseli da solo. Muoviamoci.»

Avevo il battito a mille, ce l’ho ancora. Vorrei non averti mai scritto.

Mi ha portato sul luogo dell’incidente. C’era ancora il guardrail slabbrato e mozzato in due tronconi, proprio dove lo stradone si biforca; e fra le due strade, la principale e la secon­da­ria, divaricate come i segmenti superiori di una Y, ho visto quel triangolo di terra piatta e morta, un lembo di deserto sotto il cielo basso.

«La macchina arrivava da quella parte e si è schiantata qui, a giudicare dalle lamiere del guardrail. Sei d’accordo su questo punto?»

Ho annuito.

«Ha sfondato l’ostacolo e si è arenata qui, stando alle infor­mazioni ufficiali.»

«Sì.»

«Ora, dimentichiamo per un attimo quello che sappiamo di Ub: che guidava una Porsche alla velocità di una bicicletta, che non era il tipo di far follie.»

Ho dovuto interromperlo. «Se uno vuole suicidarsi, acce­lera.»

«Se uno vuole suicidarsi, non perde tempo a far progetti commerciali su scala mondiale. Me l’hai detto tu che andava bus­sando a mille porte per quella licenza di import-export.»

«Continua.»

«Ora, immagina di schiantarti a tutta velocità hic et nunccon l’automobile che ti pare. Che fine fanno i vetri del para­brezza e dei finestrini?»

«Forse si rompono e forse no. Come faccio a saperlo?»

«Non rispondere in fretta. Rifletti. Cosa hanno scritto del ca­davere, quando l’hanno ritrovato?»

«Che aveva il torace sfondato.»

«Dal volante. E il cranio?»

«Idem. Ho capito quello che vuoi dire: il parabrezza…»

«La luce è grigiastra, ma se ci fossero frammenti di para­brezza su questo terreno riusciresti a vederli?»

«Credo di sì. Dove vuoi arrivare?»

«Puoi arrivarci da te. Vedi qualche frammento?»

«Avranno ripulito.»

«Avranno ripulito: d’accordo. Che bravi. Raccolta differen­ziata. Neanche un vetrino, ma cicche, biglietti del bus, cartine di gomma da masticare tutte al loro posto. Mancano solo i preserva­tivi usati, ma quelli sull’isola sono tabù.»

«Non ti seguo.»

«Seguimi invece. Almeno fino ai bidoni. Quanti ne vedi in giro?»

«Quei tre, laggiù.»

«Guarda bene prima di rispondere. Vedi altri bidoni?»

«No, fin dove posso arrivare con lo sguardo.»

«E fin dove puoi arrivare?»

«Ma cos’è, un terzo grado? Che ne so! Tre, quattrocento me­tri al massimo – con questa foschia.»

«Occhio d’aquila. E a parte i bidoni, quanti altri nascondi­gli vedi?»

«Nessuno.»

«Dicono di aver trovato Ub dietro i bidoni, e i bidoni eccoli là. Ti risparmio la passeggiata: l’ho già fatta e rifatta da solo. Ho anche misurato la distanza: 275 metri – uno più, uno meno, non importa. Ora, ce lo vedi uno col cranio e lo sterno sfondati andar­sene a spasso per 270 e rotti metri, per andare a fare un riposino dietro tre bidoni di spazzatura?»

«Non lo so. Non mi sono mai suicidato né ho avuto inci­denti gravi. E non ho mai lavorato nella scientifica.»

«Qui di scientifico non c’è nulla: né la tecnica del delitto, né l’attendibilità delle menzogne.»

«Vieni al dunque.»

«Il dunque è una messinscena. Criminale ma puerile. Per ri­trovare il cadavere la polizia che avrebbe perlustrato l’areasenza pause ha impiegato quattro, dico quattro giorni, quando chiunque – persino un pollo – sarebbe andato subito a dare una sbirciatina dietro i bidoni.»

Secondo lui non c’è mai stato un incidente: né casuale né vo­lontario. «Omicidio di stato»: questa l’opinione del mio accom­pagnatore. Detesto la dietrologia: sento scemare dentro di me la simpatia che provavo per Ulisse – e del resto costui non è affatto Ulisse, ma un qualsiasi Theo mediterraneo, per di più reo con­fesso di sordidi misfatti. Indagato e indagatore! Intriso fin nelle ossa di subcultura dark, conosce solo il marcio e lo vede dapper­tutto.

«Lo hanno soppresso e per giustificarne la sparizione hanno snocciolato bugie su bugie. Vietando a chiunque l’accesso alla morgue, così che nessuno potesse accertare le condizioni della salma.»

«Chi e perché avrebbe avuto interesse a sopprimere Ub? Se ne stava per i fatti suoi, non dava fastidio a nessuno.»

Ha riso, nonostante tutto. «Prevedibile domanda da ro­manzo giallo. Ma qui non siamo in un romanzo, né giallo né nero. Sve­glia, Monsieur Cliché.»

Prima o poi si diventa tutti Sherlock Holmes: con l’infittirsi delle dimenticanze si rendono necessarie indagini quotidiane sugli Es e sugli ex che siamo.

© Pasquale Barbella

(9 – Continua)


Chroma. Capitolo X

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Lettere da Chroma
Romanzo a colori
Capitolo X

Greensleeves


Theo è scomparso nel nulla. Subito dopo quel sopralluogo roman­zesco ha deciso di prendere il largo. Già il mattino dopo ha bus­sato alla mia porta, zaino in spalla, per un saluto. No, non solo per un saluto: mi ha chiesto se per caso volessi com­prargli la moto col sidecar, meglio spostarsi con altri mezzi, era stufo di dare nell’occhio.

«Non vuoi dirmi dove vai?», gli ho chiesto; ha risposto che non lo sapeva, che si sarebbe fermato da qualche parte sulla costa, un posto qualsiasi ma con vista sul mare e comunque lontano da La Capital.

«Lo sai che non ho dimestichezza con quegli aggeggi», gli ho detto; e lui: «Potresti almeno tenerla in custodia, non mi va di gettarla in una discarica. Non si sa mai, un giorno o l’altro potrei tornare, se certe cose cambiassero.»

Mi è scappato un assenso precipitoso, non so dire perché; mi sentivo a disagio, e allo stesso tempo sollevato; nutrivo in segreto la speranza che, andandosene, Theo si sarebbe portato via le mie apprensioni. Ho pensato che fosse a corto di denaro, che quello fosse il motivo della tentata vendita del suo triciclo. Gli ho offerto un prestito, l’ha accettato senza batter ciglio. Mi ha lasciato le chiavi della moto ed è sparito dal mio orizzonte. Rimasto solo, ho spalancato la finestra lasciando entrare sbuffi di aria umida e fredda nella stanza. Per debellare gli acari del Grey, ma anche quelli dell’inquietudine. Anch’io ho lasciato l’albergo, non molto tempo più tardi. Mi sono trasferito da Françoise; la motocicletta riposa nella cantina del suo condominio, fin dal giorno in cui è stata ab­bandonata dal proprietario.

Certo le giornate erano più mosse, ai tempi di Ub e di Theo; ma non mi lamento. C’è Françoise. E comunque non siamo soli; abbiamo il nostro giro di conoscenze, gli habitué della Biblioteca e della Lavandería, gente meno imprevedibile degli amici perduti ma pur sempre funzionale a qualche scam­bio di chiacchiere, nei rari momenti in cui se ne ha voglia. E poi c’è il lavoro. Françoise è stata assunta dal municipio come guida turistica, passa mezza giornata in un pullman sganghe­rato con la scritta Sightseeing tours sulla fiancata e più d’uno squarcio nell’imbottitura depressa dei sedili. Io ho cominciato il mio lavoro di ricerca; sono stato autorizzato a visitare la Biblioteca anche nei giorni e nelle ore di chiusura e a disporre liberamente dei libri d’arte. Passo ore a confrontare tra loro diverse riproduzioni della stessa opera e a fare congetture ragionate sui colori originali: le sfumature dell’incarnato della Gioconda, l’esatto punto di giallo o di viola negli oli di Rothko, la speciale saturazione cromatica delle tem­pere su tavola nell’arte gotica. Ciascun ricercatore riceve elenchi di opere su cui investigare; la responsabilità delle decisioni è sua e soltanto sua; è lui ad avere l’ultima parola sul blu, sul cremisi, sul tur­chese di turno, identificati con l’aiuto di un campionario cro­matico basato sulle diverse combinazioni di ciano, magenta, giallo e nero. Quando i dubbi si assottigliano e si raggiunge la convinzione di “ricordare” l’originale con ragionevole approssi­mazione, la documentazione passa al copista e il ricer­catore tra­scorre molto tempo con lui o lei, per assisterlo con occhio critico nella costruzione del falso. Sulla Gioconda, che il ministro pre­tende di avere al più presto, ho perso letteral­mente la testa (era il mio primo lavoro, e il più urgente). Della copia si sta occupando un pittore italiano, Alberico d’Arezzo è il suo altisonante pseudo­nimo, ha un’elevata concezione di sé e del suo lavoro tanto da chiamare pomposamente atelier lo squallido appartamento in cui abita sull’Avenida de la Suspen­sión, nella parte più cadente della capitale. Vado a controllare ogni giorno quello che fa e sono co­stretto a insistere continua­mente sulla correzione delle nuances; per fortuna col disegno se la cava meglio che con i colori, se così non fosse lo farei licenziare. Ogni nostro dialogo sfocia presto nel battibecco, i nostri punti di vista sulla gamma dei verdi e degli ocra sono antitetici; difende i suoi errori contro ogni evidenza ed è maldi­sposto ad accettare i miei, che sono almeno dedotti da una par­venza di logica e non dalla semplice intuizione o, peggio, dal caso. Nel suo ruolo si è molto compenetrato e ragiona per pregiudizi, lui l’artista, io il critico, lui la creatività, io la chiac­chiera, lui la sensibilità, io la freddezza, lui il genio, io la buro­cra­zia, lui la passione, io la censura, lui la libertà, io il potere. In realtà è lui ad avere il potere in mano: il potere di tormen­tarmi, di spossarmi, persino – qualche volta – di farmi ricredere su dettagli che davo per accertati, di farmi ritornare sui miei passi, di gene­rare in me il tarlo del dubbio. Ti avevo già con­fessato, mi pare, che la mia memoria tende a desaturare i colori; ma qui la memo­ria non c’entra o c’entra poco, perché non è sulla memoria che baso i miei identikit ma su materiali stampati, a volte con note­vole finezza (ho avuto la fortuna di trovare una Gioconda ripro­dotta con ventiquattro passaggi di colore).

L’Alberico vede tutto più intenso di com’è: non ha idea dei pallori, degli spegnimenti, delle sottrazioni, delle sovraesposi­zioni. Le sue emozioni, non solo visive, vibrano più delle mie, in un modo che oserei definire primitivo, animalesco. Dell’arte e della vita coltiva una concezione teatrale, melo­drammatica. Non dipinge mai senza musica, dischi di arie ope­ristiche fruscianti o gracchianti su un fonografo antidiluviano, feticci in gommalacca di questo o quel te­nore, qualche soprano, raramente un baritono, mai un basso o un contralto. Deve aver alleggerito tutti i memory pusher dell’isola, svuotato dozzine di magazzini clandestini facendo incetta di Voce del Padrone, Decca, Victor e Columbia di un’epoca scomparsa. I tenori che predilige sono sempre i meno controllati, alle prese con direttori d’orchestra condiscendenti o incapaci di frenare le loro espan­sioni, i loro eccessi di egolatria. E le sue arie o romanze prefe­rite sono quelle che meglio si prestano alla sguaiataggine: sfoghi sulle pire e i loro orrendi fochi, sugli eser­citi di prodi, sulla disperazione di artisti come lui condannati, giu­stamente, alla fucilazione.

Mentre seguo con apprensione e spesso con rabbia le velleità del copista, cerco di completare – tra altre – le mie ricerche su una tela di Rothko, una Untitled del 1969 che mi procura non pochi grattacapi. Posso prendermi tutto il tempo che voglio, perché nella lista delle priorità ministeriali l’opera è all’ultimo posto; e spero ardente­mente che, quando sarà giunto il momento di Rothko, mi asse­gnino un pittore più sottile di Alberico, uno col quale sia possibile discutere di densità, di timbro, di vibrazioni non meramente sen­suali. La tela è divisa grosso modo in due campi, nero (di un nero materico e impuro) il superiore e appa­rentemente grigio il sotto­stante; il confine che li separa è oriz­zontale ma impreciso, fa l’effetto di una curva fluttuante e gassosa appena accennata, di un orizzonte corrotto; in prossimità di que­sta frontiera si addensano, nel grigio che grigio non è, sospetti di pus giallastro, di materia decomposta. Se non avessi vissuto così a lungo sull’isola leggerei la sfida di Rothko in modo diverso da come ora mi appare: uno scorcio di paesaggio fer­roso e dolente contro un cielo senza luna né stelle, o un sogno metallizzato emergente dalle viscere fangose della notte. Ne parlo spesso a Françoise e lei sta ad ascoltarmi con pazienza, senza interrompermi, mentre sorseggia tè verde o morde pi­gramente una mela; finge una serafica inerzia mentale ma il suo sguardo è più acceso di quando si parla d’altro; non credo che le interessi veramente Rothko o l’arte in gene­rale, ma di certo è cu­riosa dell’effetto che quel dipinto fa su di me.

La porto a ballare spesso, si muove con grazia e scioltezza, è più brava di me. Le basta un niente per divertirsi, non fa storie, apprezza tutto ciò che la sorte le offre; se in trattoria ci servono una pietanza scadente ci ride sopra, se le regalo un paio di oc­chiali da sole da quattro soldi o un’acqua di colonia autarchica fa salti di gioia, come se avesse ricevuto un anello di brillanti o un diadema regale, una prova inconfutabile di essere amata. Vedi? Mi lascio andare a parlare di lei, dopo tante reticenze ingiustifi­cate. Io adoro la sua freschezza; arrivo al punto di intrupparmi con i turisti sul suo pullman, al solo scopo di godere della sua presenza e della sua voce, pur deturpata, la voce, da microfoni e altoparlanti oscenamente rugginosi e rauchi, che ne corrodono lo smalto argentino. Mi rifugio sul sedile in fondo e mi lascio trasportare: cullato dai suoi racconti sulle stratifica­zioni della città, la più an­tica tanti metri più in basso, le succes­sive di cui si scorgono tut­tora, in periferia, le macerie affioranti. Sa essere amabilmente ironica quando descrive mo­nu­menti come il Kursaal o la Lavan­dería, residui di una architettura irrazionale, ormai superata e pros­sima alla demoli­zione; e sa accendere entusiasmo quando il pullman si inoltra fra i primi edifici di Chroma, cubi di un verde carico e lucido, lisci come giocattoli.

«Il nome del quartiere», spiega, «cita un olio su tavola di Dante Gabriel Rossetti del 1863, My Lady Greensleeves: a detta di vari ricercatori, la donna del ritratto – Lady Green Sleeves, la Dama dalle Maniche Verdi – sarebbe stata una giovane di basso rango, probabilmente una prostituta; c’è chi sostiene che il verde delle maniche fosse indotto da macchie di sporcizia, losco residuo di taverne e consuetudini indecorose. Come alcuni di voi certa­mente sapranno, Greensleevesè anche il titolo di un’antica e fa­mosa ballata inglese, menzionata due volte da Shakespeare nelle Allegre comari di Windsor; secondo una diceria che gli esperti non hanno mai ritenuto attendibile, autore della composizione sarebbe stato Enrico VIII in persona, re d’Inghilterra e d’Irlanda dal 1509 fino alla morte.»

Sono stato io a istruire Françoise sull’origine pittorica del verde di questi cubi e su altri aneddoti che rendono più vivaci le sue digressioni: rendermi utile – sia pure marginalmente – alla sua attività mi riempie di orgoglio e soddisfazione. A volte arrivo persino a immaginarmi come il suo Pigmalione, il mae­stro di cui lei ha bisogno per colmare certe lacune. Nei momenti di malu­more cedo a una sensazione diametralmente opposta: che sia io a soffrire di carenze vertiginose, carenze che non hanno nulla a che vedere col nozionismo, e che il vero Pigmalione sia lei, una guida sommessa, discreta, paziente.

«Presto balleremo tutti nella discoteca di Greensleeves», promette radiosamente; e finisco per applaudire anch’io, non per la discoteca verde ma per la luminosità della nostra accom­pagna­trice.

© Pasquale Barbella

(10 – Continua)


Alle origini del pop

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Su Repubblica di oggi c’è un bell’articolo di Angelo Aquaro sulle origini del pop: insolito, perché le canzoni raramente si ritengono degne, almeno in Italia, di approfondimenti storiografici. Vi si traccia un profilo di They Didn’t Believe Me, uno standard nato – come molti altri – sui palcoscenici di Broadway esattamente cent’anni fa, dalla penna di Herbert Reynolds e dal talento compositivo di Jerome Kern. Aquaro ne scrive come di un brano talmente innovativo da aver rivoluzionato la storia della musica leggera; di più: lo definisce esplicitamente come «la canzone che inventò il pop».

Con questa tesi però non è facile dirsi d’accordo. Innanzitutto ci sarebbe da chiedersi cosa sia il pop. Se si tratta solo di un’abbreviazione di popular music si può retrocedere di secoli: la sola Napoli può vantare un patrimonio di gran lunga anteriore al 1914, sia a livello di folklore sia per quanto riguarda la canzone d’autore. Classici noti in tutto il mondo come Michelemmà,Fenesta vascia, Te voglio bene assaje, Fenesta che lucive, Santa Lucia, Funiculì funiculà,Marechiaro, Era de maggio,’O sole mio, I’ te vurria vasà,Torna a Surriento!, Voce ’e notte e Guapparia (ma l’elenco sarebbe sterminato) nascono tra il 1650 e il 1914, l’anno di They Didn’t Believe Me. E melodie antiche e famose si possono trovare nella storia di altri paesi e altre culture, molte delle quali hanno profondamente influenzato l’identità musicale degli Stati Uniti così come è andata formandosi e modificandosi nel tempo.

Forse Aquaro intende riferirsi a un segmento specifico della storia del pop, limitato all’America del Nord e a una serie di stilemi (il ritmo sincopato, per esempio) che confinano col jazz. La cosiddetta American song, insomma. Ma pure in questo caso sarebbe improprio riconoscere nella bella canzone di Kern la madre del pop successivo. L’American songè ben più che centenaria. E non solo per l’importazione di canti tuttora popolarissimi, religiosi e profani, sbarcati in America con i pionieri inglesi e irlandesi e con i transfughi ebrei dall’Europa dei pogrom; non solo per la fioritura di gospel e spiritual nelle piantagioni di cotone; ma anche per la canzone da teatro e da ballo, scritta e pubblicata da specialisti.
Siamo nel 1862. Febbrile visione di un soldato gravemente ferito nella guerra civile, innamorato dell’infermiera che si prende cura di lui. Spontaneo e versatile melodista, Foster ha segnato la cultura popolare del suo paese con le note di Oh! Susanna, Swanee River, My Old Kentucky Home e altre duecento canzoni – temi in buona parte destinati al repertorio di gruppi itineranti, i minstrels, che si tingevano la faccia per intonare motivi alla maniera dei negri e usavano presentarsi in pubblico come “Ethiopian minstrels”, menestrelli etiopi. A una vita baciata dal successo seguirono per lui i giorni amari dell’alcool, l’abbandono della moglie, la fine in una miserabile locanda della Bowery, a New York, dove povero, solo e malmesso svenne nella stanza da bagno e si ferì mortalmente alla gola.

Sono in molti a indicare in Stephen Foster (Pittsburgh, 1826 – New York, 1864) «il padre della musica americana»: Beautiful Dreamer, My Old Kentucky Home, Oh! Susanna e altre sue melodie sono così radicate nell’americanità da renderne quasi obbligatoria la citazione nei film western. Quanto al secolo XX, si apre con i ritmi sincopati di Scott Joplin e prosegue con un altro papà di indiscussa e perenne influenza: William Christopher Handy, autore di standard senza tramonto come Careless Love(1907), The Memphis Blues (1913) e Saint Louis Blues (1914: tuttora assai più famosa della coeva They Didn’t Believe Me).
The Memphis Blues (1909) è un documento di un certo in­teresse: si tratta del primo blues scritto e pubblicato da W. C. Handy, il quale ha fatto salti mortali pur di passare alla storia come “padre del blues”. Onore che gli spetta forse dal punto di vista qualitativo, ma non cronologico: qualche mese prima di Memphis Blues era uscito un Dallas Blues, opera del violinista Hart Wand e dell’arrangiatrice Annabelle Rob­bins. Sull’onda del successo di Dallas Blues, Handy rielaborò (cambiandogli anche il titolo) un suo pezzo vecchio di quattro anni, Mr. Crump, scritto per so­stenere a suon di fanfare la campagna elettorale di Edward H. “Boss” Crump, . “Boss”;candidato alla carica di sindaco di Memphis. Ma né Wand né Handy pos­sono ragionevolmente considerarsi padri del blues in esclusiva. Prima di loro ci sono stati molti altri genitori: schiavi emancipati on the road fra gli stati del sud, che, armati di banjo o chitarra, sape­vano parlare al cuore degli umiliati e degli offesi, dei giocatori e dei per­denti, delle sfruttate e degli sfruttatori, dei traditori e delle tradite.

1914. Anche se non si tratta del primo blues “ufficiale”, cioè fir­mato e pubblicato a stampa da un autore professionista (il primato in questo senso spetterebbe a I Got the Blues di un dimenticato pianista italo-americano, A. Maggio, che lo stampa nel 1904; poi c’è The Dallas Blues del 1912, del violini­sta Hart Wand, e quindi The Memphis Blues dello stesso Handy, uscito subito dopo), Saint Louis Bluesdiven­terà una specie di inno universale del jazz. La struttura melodica e ritmica è particolarmente composita: nel blues tradizionale si innestano inserti di habanera, ragtime e dixieland che fanno del brano un caleidoscopico patchwork di musica creola. Centinaia di interpreti, bianchi e neri, subiscono e reinventano il fascino di questa musica in cui convergono molteplici e disparate influenze. New Orleans si appresta a macinare, impastare e raffinare gli ingredienti di un nuovo vocabolario, quello del jazz.

Se stringiamo ulteriormente il campo e ci riferiamo solo agli spettacoli di Broadway (dal vaudeville al musical propriamente detto), troviamo canzoni antesignane come Take Me Out to the Ball Game (1908) di Jack Norworth e Albert von Tilzer, Shine On, Harvest Moon (1908) di Jack Norworth e Nora Bayes, By the Light of the Silvery Moon (1909) di Edward Madden e Gus Edwards, I Remember You (1909) di Victor Schertzinger, Alexander’s Ragtime Band (1910) di Irving Berlin, Crazy Blues(1910) di Perry Bradford, My Melancholy Baby (1911) di George A. Norton e Ernest M. Burnett, Charleston (1913) di Cecil Mack e James P. Johnson, I Ain’t Got Nobody (1914) di Roger Graham, Spencer Williams e Dave Peyton.
Take Me Out to the Ball Game (1908). Nessuno dei due autori era mai stato a una partita di baseball fino ad allora. Ciò nonostante, la canzone diventa l’inno più popolare e indelebile di quello sport, soppiantando rapidamente precedenti tentativi come un vecchio motivo del 1858, The Base Ball Polka. Non solo: è la seconda canzone più cantata negli Stati Uniti, dopo l’inno nazionale. Il successo fu (ed è tuttora) talmente clamoroso che il manoscritto si conserva con tutti gli onori negli archivi della Baseball Hall of Fame di Cooperstown, nello stato di New York. Take Me Out to the Ball Gameè stata eletta canzone del secolo per il periodo 1890-1920 da una giuria di esperti organizzata a fini didattici e patrocinata dall’associazione dei discografici americani, l’agenzia federale National Endowment for the Arts.

«Risplendi, plenilunio». Harvest moonè la luna di settembre, il plenilunio vicino all’equinozio d’autunno. Lanciata da Nora Bayes e Jack Norworth nella rivista “Ziegfeld Follies of 1908” di Harry B. Smith, .;in scena a Broadway per 120 rappresentazioni a partire dal 15 giugno 1908. Ripresa nel 1931 da Ruth Etting in un altro spettacolo del grande impresario Florenz Ziegfeld, “Ziegfeld Follies of 1931”, il cui motto era «Glorifying the American girl» (la glorificazione della ragazza americana). 

In verità è impossibile compilare una cronologia delle canzoni e stabilire criteri di primato assoluti e attendibili. Come Berlin, Gershwin, Rodgers e Cole Porter, Jerome Kern è stato un gigante della musica americana: All the Things You Are, del 1939, potrebbe tranquillamente aspirare al titolo di “canzone più bella di tutti i tempi” per raffinatezza di scrittura e armonizzazione. Non a caso è classificata al secondo posto – dopo Body and Soul– tra gli standard jazzistici col maggior numero di incisioni discografiche.[1]E certo non si possono disconoscere i meriti, anche precoci, di They Didn’t Believe Me. Ma va anche detto che gran parte della modernità degli evergreen di Broadway nasce da un corredo interpretativo successivo alla data di nascita dei singoli brani. Le canzoni dei musical, fino alla rivoluzione rock di Hair, erano prevalentemente scritte per tenori, soprani e baritoni di stampo operettistico; sono stati il jazz, i crooner, le orchestre da ballo a riarrangiarle come ora le conosciamo e a consegnarle all’immortalità.

P.B.
1911. Melodia estrosa e coinvolgente, insolita per l’epoca e migliore del testo alquanto dolciastro, basato su un tale che consola la sua ragazza presa dalle paturnie. C’è chi la considera un inno da avvinazzati, forse perché un popolare cantante di nightclub degli anni Venti, Tommy Lyman, usava sfo­derarla alla fine dei suoi show, che non co­minciavano mai prima di mezzanotte. O perché qualcuno grida «Dacci Melancholy Baby!» a Judy Garland, nel ruolo della star alcolizzata di “È nata una stella”. Poco im­porta: è uno dei fox-trot più eleganti che siano stati composti prima della Grande Guerra, buono per ballare, scambiarsi tene­rezze, istigare all’improvvisazione jazzi­stica. Quando Benny Goodman la incide con Teddy Wilson al piano, Lionel Hampton al vibrafono e Gene Krupa alla batteria, la can­zone ha già compiuto un quarto di secolo ma è fresca, vigorosa e vibrante di swing come se fosse appena nata. 

1910. Berlin aveva in testa i ritmi del jazz ed era consapevole di aver aperto, con questo scalpitante motivetto, nuove vie alla com­posizione. Uno dei suoi biografi, Michael Freedland, riporta brani di un’intervista rila­sciata dal musicista al “New York Ti­mes” negli anni Venti, da cui emerge una specie di programma futurista della mu­sica: «Era l’epoca dell’automobile. La velocità e lo scatto del jazz americano sono influen­zati dalla popolarità dell’automobile. Wagner, Beethoven, Men­delssohn, Liszt: tutti i grandi della musica conoscevano il valore del movi­mento. Siano canti di armate trion­fali le note che ci piombano ad­dosso, o danze di innamorati al crepuscolo sui campi del villaggio, tutti questi suoni ci parlano di azione. L’automobile, però, è una nuova espressione del movimento. Il ritmo di una volta non c’entra più, scal­zato dal ronzio del motore, dal rrrrrr delle ruote, dallo scop­piettio dello scappamento. Le flem­matiche canzoni che si mormoravano fra lo zoc­co­lare dei cavalli non si adattano al nuovo ritmo. La nuova era esige musica nuova per nuovi tipi di azione. Mi è stato detto che Alexander’s Ragtime Bandè stato il primo vero pezzo di musica sinco­pata. Con la do­vuta modestia, ritengo di poter dire di essere stato il primo a scrivere una canzone popo­lare che costituiva un deciso cambiamento rispetto alla musica convenzionale di quel tempo. La sincope consente di spez­zare le armonie e ottenere il ragged time, tempo fatto a pezzi, come i musicisti presero a chiamarlo.» (M. Freedland, Irving Berlin, New York: Stein and Day, 1974).

Nel 1914 scoppia nelle ballroom statunitensi la febbre del fox trot, ballabile sincopato che è l'anticamera dello swing. Alabama Slide è accreditato fra i motivi che rivendicano il primato della nuova moda musicale.

Popolare balladpresentata in pubblico per la prima volta da un bambino di nove anni, Georgie Price, che in seguito sarebbe diventato fa­moso sui palcoscenici di Broadway e nei nightclub come cantante, mimo e fantasista. Lo spettacolo, “School Boys and Girls”, è un curioso vaudeville di Gus Edwards, autore e unico interprete adulto nel ruolo di un mae­stro circondato da bambini; il piccolo Price esegue il suo numero mescolato al pubblico. Il brano, ispirato a Edwards dal ri­cordo di una romantica gita in gondola a Venezia, viene inserito — nello stesso 1909 — in un altro spettacolo, “Ziegfeld Follies of 1909” di Harry B. Smith. .;Lo canta un’altra minorenne, Lillian Lorraine, dicias­sette anni, la prima delle tante clamorose bellezze scoperte dall’impresario Florenz Ziegfeld.

[1]Fonte: www.jazzstandards.com

L'ultima estate dell'Europa

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Penso che anche Bertolt Brecht avrebbe apprezzato L’ultima estate dell’Europa, esemplare Lehrstück visto ieri sera in uno spazio all’aperto di Lesmo, Brianza. In tedesco Lehrstück sta per “lezione”: Brecht usava il termine nell’accezione specifica di “opera di teatro didattico”. Curato da Augusto Golin e dall’unico interprete, Giuseppe Cederna, l’avvincente monologo rievoca la genesi e l’orrore della prima guerra mondiale in occasione del suo centenario di “nascita”.

Teatro epico e popolare, dunque, un po’ come Brecht lo aveva teorizzato: non a caso il programma si apre con una citazione dalla Vita di Galileo entrata a far parte dell’immaginario comune: «Beato il paese che non ha bisogno di eroi».
Giuseppe Cederna.

Con il sostegno di due musicisti (Alberto Capelli alle chitarre, Mauro Manzoni ai flauti e sassofoni) bravi a stilizzare le insidie e le abiezioni della storia con adeguate dissonanze e sommesse allusioni bachiane, Cederna cattura subito l’uditorio con una drammatica cronaca – minuto per minuto, come nelle dirette sportive – dell’attentato di Sarajevo. Tanto che sembra di essere proprio lì, tra i minareti e le botteghe della città, al sole del 28 giugno 1914, mentre il convoglio dell’arciduca avanza tra due ali di folla sul corso principale e parte la prima bomba, lanciata da uno dei complici di Gavrilo Princip. L’impresa sembra fallita ma Princip non demorde: quaranta minuti dopo è il suo turno, e l’arma questa volta è una Browning semiautomatica. Bang bang. Per l’erede al trono austroungarico è la fine, e anche per la moglie Sophie.

Il dopo è tutto un domino e uno strepito, con dichiarazioni di guerra a catena e turpe macelleria globale. Il generale Luigi Cadorna promette morte sul campo ai soldati italiani che arretrano e fucilazione agli eventuali reduci da prigionia.
Wilfred Owen.

Lo show di Cederna supera i confini del documentario perché è un patchwork di citazioni illustri: poetiche e non, ma sempre ad altissima temperatura. Da una parte il pirla marziale Marinetti, che invoca la bellezza della guerra come igiene del mondo; dall’altra Gadda, Ungaretti, Trilussa, Erri De Luca. Ad aprire l’antologia letteraria, e a destabilizzare la serenità talvolta immemore di un pubblico di età variabile fra i dodici e i novanta, è un carme post-biblico di Wilfred Owen, il poeta inglese ucciso in guerra a venticinque anni durante l’attraversamento del canale che connette la Sambre all’Oise, nella Francia del nord:

E Abramo si alzò, e raccolse la legna, e andò,
E prese il fuoco con sé, e il coltello.
E mentre soggiornavano insieme,
Isacco il primo nato parlò e disse: Padre mio,
Va bene i preparativi, il fuoco e il ferro,
Ma dov’è l’agnello per questo sacrificio?
Allora Abramo legò il giovane con cinghie e cinture,
E lì costruì parapetti e trincee,
E brandì il coltello per sgozzare il figlio.
Quand’ecco! un angelo apparve in cielo, e disse,
Non stendere la mano sopra il ragazzo,
Non fare alcun male a tuo figlio.
Guarda, preso per le corna nel cespuglio c’è un capro;
Offri invece il capro dell’orgoglio.

Ma il vecchio non volle saperne, e sgozzò il figlio,
E metà del seme d’Europa, uno per uno.

Questi versi li traspose in musica Benjamin Britten tra il 1961 e il 1962, per il coro maschile dell’Offertorium nel suo War Requiem. E un requiem di guerra, anche se non liturgico né strettamente musicale, è il doloroso resoconto pacifista di Cederna, con il suo vagabondaggio tra lettere dal fronte e prose e versi d’autore tutti da brivido:

Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato

L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso...

Così il soldato Ungaretti. Alla fine, il sorriso amaro di Trilussa:

Da qui a cent’anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po’ che montarozzo d’ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terra smossa! 
Saranno eroi tedeschi,
francesci, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
O gialla o rossa o nera,
ognuno avrà difesa una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.

Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna diferenza.
Nell’occhio vôto e fonno
nun ce sarà né l’odio né l’amore
pe’ le cose der monno. 
Ne la bocca scarnita
nun resterà che l’urtima risata
a la minchionatura de la vita.
E diranno fra loro: – Solo adesso
ciavemo per lo meno la speranza
de godesse la pace e l’uguajanza
che cianno predicato tanto spesso!


L’ultima estate dell’Europa fa parte del programma, bello e generoso, della diciassettesima edizione del Festival del teatro popolare di ricerca, benemerita iniziativa in corso in diverse sedi brianzole a cura di istituzioni locali (Teatro Invito, Villa Greppi, Parco del Curone e colline della Brianza). Intitolato L’ultima luna d’estate e diretto da Luca Radaelli, il festival è una scorribanda fra grandi temi di interesse civile: comprende tributi a Giordano Bruno, Peppino Impastato, Enrico Berlinguer, Gaber e Jannacci e compagni della Bovisa. Ma non solo: il ventaglio dell’offerta è assai più ampio, spaziando da Shakespeare alla conquista del Cervino. Per informazioni: Teatro Invito, tel. 039-5971282, info@teatroinvito.it, www.teatroinvito.it; orari di segreteria 10-13/15-18. Presto, però: il 7 settembre finisce la festa.

P.B.


Chroma. Capitolo XI

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Capitolo XI
 

Fumé


Trovo frustrante continuare a scriverti sapendo che le lettere fini­ranno in un cassetto anziché in una busta affrancata, ma Theo è riuscito a suggestionarmi fino al punto di togliermi il corag­gio più semplice del mondo, quello di spedire un pezzo di carta infilan­dolo in una cassetta della posta. Prima o poi, almeno così confido, riuscirò a liberarmi da questa supersti­zione e allora imbucherò tutte insieme questa e le altre missive non spedite. Non sopporto di ridurmi al soliloquio vita natural durante, provo tuttora il biso­gno irragionevole di mantenere la comunicazione con te – sebbene ami Françoise più di me stesso. Ma con lei parlo un’altra lingua, in senso figurato intendo, non è questione di francese o d’italiano; lei è la donna che m’incanta, tu sei la mia coscienza, vera o fittizia non importa; tu sei una specie di tradimento ma mi assomigli, sei il mio specchio nella variante femminile, a volte ti serbo rancore come si può serbare rancore a se stessi, alla parte di sé meno approvabile. Non offenderti, per favore; mi devi una certa familiarità, in un certo senso il nostro legame è indissolu­bile, anche se l’amore o quello che sembrò amore è totalmente fuori gioco. Amo Françoise, è la mia speranza di futuro, il mio pre­sente; tu sei l’ultimo, l’unico consistente raccordo con la mia biografia, senza di te sarei una persona nata adulta all’improvviso, una pianta senza radici, un platano di plastica.

***

Credevo di essermi liberato per sempre di certe ossessioni. Illusione. Torno a casa e Françoise mi domanda a bruciapelo se ho letto La voz di oggi. «Non leggo bollettini parrocchiali», ho risposto impulsivamente. Non so perché mi sia uscita di bocca quella frase sprezzante; non avevo mai avanzato, né in privato né in pubblico, riserve sulla qualità dell’informazione locale.

«Il giornale parla di Theo», ha detto Françoise senza badare al mio sarcasmo. «Lo dipinge come un malfattore. Lo hanno arre­stato mentre faceva l’autostop sul lungomare di Playa Roja, cin­que o seicento chilometri da qui. Imputato di gravi reati in patria, dicono. Ma si escludono, almeno per ora, provvedimenti di estra­dizione.»

Theo è stato ricondotto in manette a La Capital, su un cel­lu­lare, per essere rinchiuso nell’unico penitenziario esistente sull’isola. Non avevo mai fatto caso alla prigione. «Non è inse­rita nei nostri programmi turistici», mi informa Françoise, «ma dovre­sti averla vista anche tu. Oltre l’Hospital, verso le campa­gne.»

Non sapevo neanche delle campagne. Evidentemente non mi sono mai spinto al di là del mio naso: non in quella dire­zione, al­meno.

«Gli devi una visita, è il meno che puoi fare per lui.»

Una visita? E perché? Ero così contento di essermi sbaraz­zato di lui.

«Non ti dovrebbe essere difficile ottenere un permesso», rin­cara la dose, «dati i tuoi rapporti istituzionali.» Allude al ministro della cultura, evidentemente. Che rogna. Theo ricom­pare quando meno te l’aspetti per metterti a disagio: la sua spe­cialità.

Purtroppo ha ragione Françoise: ottenere il permesso per una visita al detenuto è stata la cosa più facile del mondo. Fosse stato altrettanto facile ottenere il rinnovo del passaporto, forse ora non sarei qui a macerarmi l’anima. Chi l’avrebbe detto che Ulisse, un compagno senza il quale non riuscivo nemmeno a fare due passi, si sarebbe messo in testa di sconvolgere la mia pace? Mi ero quasi scordato di lui, dei suoi misteri, della sua turbolenza; e rieccolo tra i piedi, sia pure custodito in una cella, a sciupare il momento magico che attraversiamo, a beffare ogni illusione di tranquillità. Sento che il nostro incontro non mi farà bene ma non oso dirlo a voce alta, non oso deludere Françoise e la sua ingenuità, raggio di sole in questa landa senza sole.

***

«Perché sei venuto?»

«Perché ti voglio bene», ho mentito.

«Che imprudenza.»

«Il bene che ti voglio o la visita?»

«L’uno e l’altra.»

«Dimmi di te.»

«Faccio lo sciopero della fame.»

«Non hai l’aria patita.»

«E tu che fai?»

«Il critico d’arte.»

«Anche questa è una scelta imprudente.»

«A quando il processo?»

«Non lo so.»

«Hai un avvocato?»

«Faccio da me.»

«Ti rispediranno in Grecia?»

«Ne dubito. Come sta Françoise?»

«Bene. Fa la guida turistica.»

«Dalle un bacio da parte mia.»

«Non lasciarti abbattere.»

«Da cosa?»

«Da niente.»

«Sei preoccupato per me?»

«Dovrei?»

«Non pensare più a quella roba.»

«Quale?»

«Sai bene di cosa parlo.»

«Tu ci pensi ancora?»

«No.»

«Hai paura?»

«No.»

«Cosa posso fare per te?»

«Non ho bisogno di niente.»

«Non ti fa piacere rivedermi?»

«Grazie per essere venuto.»

«Tornerò.»

«Non tornare. Dimenticami. Cancellami: è un consiglio da amico.»

«Ho già dimenticato troppe cose. Non voglio dimenticarne altre.»

«Dimenticare fa bene.»

«Allora sto benissimo. Ho dimenticato persino perché sono arrivato in questo paese.»

«Per curarti, no?»

«Per curarmi da cosa?»

«So da cosa sono venuto a curarmi io.»

«Droga?»

«Sono venuto a disintossicarmi. Io non dimentico niente.»

«Che cosa ti aspetti dal processo?»

«Una pena sopportabile.»

«Auguri. Il tuo sidecar ti aspetta.»

«A presto. Ma tu fammi un piacere.»

«Quale?»

«Non venire più qui. Per nessuna ragione. Giuralo.»

Ho giurato senza la minima esitazione.

Indossava una casacca tra il blu e l’antracite, avevamo quattro gomiti puntati su un tavolino di fórmica blu con una gamba più corta delle altre e non vedevo l’ora di evadere – io, più prigioniero di lui. Di sottrarmi a quel colloquio sghembo e inna­turale, i cui sottintesi sembravano avere più sostanza delle parole pronunciate. Nemmeno adesso riesco a spiegare, a me stesso, le ragioni della mia sopravvenuta avversione nei con­fronti del greco. Cerco di ricordare le radici del dissidio, ma non le trovo da nes­suna parte. Non mi ha fatto niente di male, salvo rimproverarmi la scelta di un soprannome (Ulisse) e un’overdose di (presunta) naïveté. Insomma mi ha trattato come si tratta un facilone, e io ne ho desunto che si reputa più avveduto di me. Ho troppo orgoglio per passarci sopra; ho vent’anni più di lui, potrei essere suo padre. Ma è anche vero che lui ha vissuto esperienze più dure delle mie, la sua adole­scenza non dev’essere stata uno scherzo, deve averne passate di tutti i colori – e non è ancora finita. Sincero fino all’autolesionismo, poi. Non nasconde nulla di sé, delle sue zone d’ombra. Forse dovrei fare qualcosa per lui, è solo come un cane.

Ma so già che non muoverò un dito.

© Pasquale Barbella.

(11 – Continua)


Chroma. Capitolo V

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LETTERE DA CHROMA
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Capitolo V




Rosé


Helga Ross dicono di non averla mai vista in stato di sobrietà. Il suo cappello rosa pende ora a sinistra ora a destra, come un te­game in continua esitazione esistenziale. Al terzo whisky si mette a snodare lo stesso racconto con le stesse parole, più o meno; parla in inglese con un marcato accento tedesco ma la costruzione delle frasi non appartiene a nessuna delle due lingue. Dice di aver varcato per errore le porte dell’inferno e di avervi soggiornato quanto basta per afferrarne il senso, un senso puramente geome­trico, lei dice «corbusie­riano, ma nei colori di un Barragán»; in­somma c’è tanto di quel colore laggiù da farti venir voglia di bianco e nero, di vecchi film fotografati da Gregg Toland. Helga è una citazione via l’altra: beve, cita, fuma e cita, un Niagara di ri­mandi, c’è da rimanere obnubilati dai suoi zigzag. Cita aforismi di Karl Kraus («La bruttezza del presente ha valore retroattivo»; «L’erotismo sta alla sessualità come il guadagno alla perdita») e pagine e pagine di enciclopedia universale in mezzo alle sedie di Vienna capo­volte sui tavoli, nella luce sfatta del Kursaal all’ora di chiusura, fra sbadigli di camerieri desolati e boiserie affumicate. Dice che l’inferno è una metropoli dai molti quartieri tutti uguali, salvo il colore che qui è blu lì è giallo, ma con più sfumature che nel campionario Pantone: colori mai visti da occhio umano; le case sono cubi perfetti, di rado parallelepi­pedi verti­cali o orizzontali, la materia sembra latta o lamiera zin­cata, non ha approfondito, le superfici sono talvolta lineari e tal­volta ondulate. Qua e là si ergono torri cilindriche e coni senza appa­rente funzione, ma poi ti accorgi delle feritoie su in alto, le scopri quando alzi la testa per vedere da dove hanno sparato. Nelle zone di confine fra il rosso e l’arancio o fra il verde e l’amaranto o fra qualunque altro rione e il contiguo si spara e si spara, giorno e notte i cecchini fanno il loro bum bum, a volte i soldati in tuta viola del quartiere viola escono su tank viola per invadere l’ocra o l’azzurro e lasciare in giro qualche cadavere ocra o azzurro sul cemento di vicoli ove rimbombano a tutto vo­lume vecchi dischi di mambo y merengue. Assicura Helga che laggiù ogni colore spara su tutti gli altri colori, chi muore è prati­camente morto due volte e non c’è più verso di rialzarsi, per for­tuna oltre alla polvere da sparo vola anche musica nei cortili, la gente si ammazza fra ondate di valzer o di tango o di rock se­condo il luogo, la trage­dia non ruba spazio all’allegria; giura e spergiura che è tutto sacrosantamente vero, tanto che può citare le canzoni di Benny Moré o di Nick Drake colte al volo nell’ozono tra fischi di piombo e foschie post-tritolo, schizzi di ketchup e scazzi di fuggiaschi. Le sue fantasticherie scivolano come lacrime di cera sul gres del pavimento unto, è tardi, ancora un goccio per favore, nossignora, la saracinesca non vede l’ora di accasciarsi come una palpebra spenta dal peso di troppi ricordi, domani, domani, stanotte no, dormire, fra cuscini di nostalgia: si stava meglio all’inferno, forse, almeno qualcosa succedeva, tutto quel technicolor dov’è finito?, qui c’è solo whisky autarchico e mal di testa, dammi del ghiaccio, ghiaccio per la mia borsa del ghiaccio, sto meglio con la borsa del ghiaccio sulla fronte, la borsa del ghiaccio sulla fronte mi tiene compagnia, non c’è nes­sun guerrigliero né giallo né viola da queste parti, nessun soldato né verde né blu nelle notti di Helga.

Ross è una presenza fissa al Kursaal, una specie di istitu­zione. Se la osservi bene e fai girare lo sguardo nella sala noti una certa affinità fra lei e l’ambiente: hai la sensazione di essere pre­cipitato in un vasetto di crema da maquillage, lei un relitto dipinto fino all’inverosimile, una teenager decrepita; e il salone da ballo, se gli togli qualche stucco e i tendaggi in falso velluto rosa, e all’esterno rimuovi il ridicolo tetto a pagoda che sormonta il tetto, lo riconosci per quello che è, un garage o al massimo un dopola­voro ferroviario travestito da nightclub. Del resto muovere i piedi è tutto quello che ci vuole. Meglio se c’è una pulsazione tribale: qualcuno ogni tanto fa risuonare cadenze primitive fra le rose di plastica e il denso mix di ani­setta e colonia («un tango, madame?»). Io ci porto a ballare ogni sabato Françoise: ha la stessa pettinatura che portavi tu quando ci siamo conosciuti, ri­cordi?, i capelli a caschetto o qualcosa di simile, eri la mia Louise Brooks allora, la mia Lulù – questo non lo dimenticherò mai, spero. Anche a te pia­ceva ballare, chissà quando e perché abbiamo smesso; le coppie che ballano dovrebbero ballare tutta la vita, è un espediente che aiuta; guai ad allontanarsi troppo a lungo dalla pista, quando smetti di ballare cominci a scrutare il tuo Fred o la tua Ginger con la lente d’ingrandimento e la festa è finita.

Rifacendosi il maquillage, Helga – che la sa lunga su Orfeo – sostiene che altrove hanno reclutato le migliori orchestre pagane pagandole oro: qui di pagano c’è solo questa pseudo-pagoda liberty che vuol dire libertà ma la libertà è ben altro, dice lei: «Non sei granché libera fra questo niveo algore di stucchi, la li­bertà è nera, la libertà è Tropici lucidi e calze di seta notturna, questa al massimo è una stazione termale per malati di fegato, al solo pensarci mi esplode come ibisco la cirrosi.»

A volte la ascolto volentieri perché il suo è un parlare rapsodico, imprevedibile, da oracolo in tilt, al limite dell’improvvisazione jazzistica (mentirei se giu­rassi sulla completa at­tendibilità delle mie traduzioni), come quando sola al centro della pista si è messa a vorticare come un derviscio e ad apostrofare gli or­chestrali: «Suonatemi il valzer più oppiaceo del vostro repertorio», ha declamato, «m’impunterò su un tacco a spillo per far girare la notte nel suo mantello. Ecco: bravi: è la musica più squinter­nata che abbia mai udito, un po’ di nausea fa bene alla malin­conia. Da bere! Mandatemi il coppiere più biondo e svaporato, berrò anche lui; nossignori, non bevo per dimenticare ma per ricerca interiore, non sto neanche a commentare la qualità dei vostri intrugli, mi contento di qualsiasi surrogato purché con­tenga alcool, sono una donna di spirito – in tutti i sensi.»

A me la musica del Kursaal va bene, la prendo come viene, è come il tempo: bello o brutto conviene adeguarsi, muoversi è l’essenziale, finché suonano sei in ballo, Françoise sbadiglia ma ci sta, più la guardo più è carina e quando parla la si sta a sentire: non è ipercritica, non sta a lamentarsi mattina e sera, ma non puoi dire nemmeno che sia assente: si è molto divertita a leggere Le anime morte e spera che non mettano Gogol’ al rogo (prima o poi dovrò parlarti anche di questo); non fa pro­getti di fuga ma se pro­prio si partisse some of these days: «Av­visatemi che magari vengo anch’io», dice sorridendo. Io, io a partire neanche ci penso ma non mi dispiace l’idea che Françoise farebbe i bagagli per se­guirmi: mi sveglierei presto e, avvolto in coperte di lana per non tremare, berrei il suo caffè bollente seduto sui gradini del condo­minio in cui abita. Non sono più abituato ai superalcolici e basta un bicchiere a mandarmi su di giri, a procurarmi delle visioni. Ho visto Ub ballare con la sua Porsche su una pedana girevole, o me­glio: era fermo e la pedana girava per lui: il salone delle feste balla anche per chi non sa ballare e penso: i luoghi si muovono come e più di noi, dev’esserci musica nella spina dorsale della terra – correnti di musica soffiata dai venti più alti; il silenzio e l’immobilità sono condizioni artificiali, la morte è il progetto più audace che mente umana abbia mai concepito, ci siamo in­ventati la morte per sfiducia nelle nostre energie, ci siamo inven­tati il vuoto per non sostenere troppo a lungo il peso della danza e lo choc del risveglio quotidiano.

Intorno al Kursaal, ma anche in altri vicoli spenti della capitale, la notte è tutta un formicolare di passeggiatori solitari e guardinghi. Puoi vederne anche di giorno, ma danno meno nell’occhio. Li chiamano MP: memory pusher, spacciatori di ricordi. (Forse era uno di loro l’italiano del fiume, anche se non aveva da vendere né cartoline di Parigi né souvenir di Lourdes. Un contrabbandiere di parole, narratore di storie inconcludenti da due soldi al minuto; ma non ne sono certo, ci aveva lasciato andare senza esigere un centesimo. O forse confidava nella generosità spontanea del prossimo. Sia come sia, non sapevo ancora nulla degli MPquando incontrammo il Re dei Verbi.) Ripensandoci, ricordo di averne notato alcuni indugiare in qualche quadrivio, appoggiati pigramente al muro con una vecchia borsa di pelle a portata di mano o uno zaino sfilacciato sulla schiena; altri seduti sul marciapiede tra vecchie riviste sgualcite tenute ferme coi sassi; altri ancora girovagare a passo lento con shopper di plastica gonfi e pesanti, o borse di tela unte di grasso; ma non mi ero reso conto di chi fossero e di cosa si aspettassero dai passanti. Finché uno di loro non mi abbordò sfacciatamente. Si guardava intorno con una tale circospezione da farmi pensare a un commercio clandestino di eroina, cocaina, crack; o al mercato nero di valuta.

«Hai da accendere?», biascicò in spagnolo, portandosi alle labbra una sigaretta.

Subito dopo la fiammata sussurrò:

«Ho delle Luckies. Originali, ultima stecca. Te la passo a un prezzo di favore, quasi un regalo.»

Notai la sua ventiquattrore, malconcia e rigonfia in modo grottesco. Nelle tabaccherie era impossibile trovare sigarette d’importazione. Ero tentato, ma non sapevo come nascondere la stecca e rinunciai. Il ragazzo cambiò strategia.

«Che ne dici dei Beatles? Ho un 45 americano di Yesterday. Un Capitol rarissimo. Vale un Picasso ma lo svendo perché manca la custodia. L’affare della tua vita.»

«Che me ne faccio? Non ho il giradischi.»

Scoppiò a ridere.

«E a che ti serve un giradischi? Hai forse bisogno di riascoltarla per la milionesima volta? Hai dimenticato anche quella?»

Rimasi zitto e immobile. Sapevo di Yesterday, ma non riuscivo a farne venire a galla neanche una nota. Forzai la memoria, ma era come spingere un camion senza ruote. E dire che era la nostra canzone, un tempo; forse l’unica cosa che abbiamo sinceramente condiviso, tu e io.

«Ho capito», disse il tizio, con un ghigno volpino e sgradevole. «Vuoi che te la canti? Quanti soldi hai?»

Affondai meccanicamente una mano in tasca, raccogliendo una manciata di monete. Mi sentii l’uomo più imbecille del mondo. L’altro me le tolse di mano con un gesto avido e brusco, le contò con una sola occhiata e me le restituì altrettanto sgarbatamente, con una smorfia di disgusto sulle labbra.

«Con queste non ti canto nemmeno Jingle bells. Va’ a farti fottere.»

© Pasquale Barbella

(5 – Continua)


Chroma. Capitolo XII

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Capitolo XII
 

Aqua


Helga è stata scaricata dal ministro Rodríguez per le sue intem­peranze. Non le ha perdonato nessuna delle stravaganze esibite alla festa, a cominciare da quell’abito da sera, prova inequivoca­bile di una fuga di notizie della cui segretezza lui era responsa­bile. Glielo ha strappato di dosso e fatto a pezzi nel pied-à-terre dei loro convegni, all’indomani della cerimonia, scatenando con quel castigo uno scoppio di pianto inconteni­bile. Lo racconta lei stessa, senza pudore, a chiunque le offra da bere. Io non le ho of­ferto da bere, non mi spingo a simili bassezze; ma ho lasciato campo libero alla signora Goldman e ho costretto Fran­çoise a far comunella tutti e quattro insieme, noi due, la Goldman e la Ross, nell’angolo più appartato del Kursaal. Helga indossava un abito da sera color sangue, incen­diario come le sue gote e la tinta dei capelli. Il suo monologo era declamatorio come al solito, un’invettiva contro il genere maschile senza eccezioni: sembrava non avvedersi della mia presenza, per lei ero poco più di un’ombra tra le ombre, una silhouette anonima e asessuata, un punto qualsiasi della platea indistinguibile da chi, sul palcosce­nico, è accecato dai riflettori. A tutti gli uomini della sua vita di­ceva di aver donato se stessa – non solo il corpo, le carezze, la protezione di amante-madre, ma l’anima intera, tanto che: «Ve­dete? di me non è rimasto più niente», proprio così ha detto toc­candosi i seni, come se non riuscisse più a sentirseli sotto le dita. «Ho donato tutto ciò che possedevo e anche ciò che non posse­devo: mi sono persino prostituita per loro. Per sentirmi poi accu­sare di insensibilità mostruose. “Vedova nera” hanno scritto con lo spray sulla mia porta di casa, quando il mio ultimo marito, sciagurato, si è tolto la vita con l’automobile che io stessa gli avevo procurato, estorcendola al primo spasimante capitatomi a tiro. Per Ugo ho fatto pazzie: era la depressione fatta persona, l’ho conosciuto che balbettava e tremava come un foglio di carta, stava in piedi per inerzia; ho fatto il diavolo a quattro per strap­parlo all’ospedale, sembrava praticamente incurabile, hanno do­vuto arrendersi e consegnarmelo come un pacco per non subire più le mie incursioni, la mia invadenza. L’ho sposato così com’era, quasi in trance; ci ha messo mesi per rendersi conto di avere una moglie, un’amante, un’infermiera, una nutrice. Quando ho scoperto, in modo assolutamente casuale, l’unico antidoto pos­sibile a quel torpore, ho ripreso a sperare di salvarlo. Io gli rac­contavo storie della mia vita come si raccontano favole ai bam­bini malati, per consolarli o distrarli dalla spossatezza: della mia famiglia in fuga da San Pietroburgo all’epoca della rivolu­zione, dei successi di mia madre nei cabaret di Vienna e Ber­lino, del pa­dre che ho conosciuto a trent’anni suonati quando è com­parso improvvisamente dal nulla, dei miei matrimoni, dell’uomo che avevo amato più di tutti e di cui lui, Ugo, era la copia carbone. Gli parlavo delle dimore in cui ho vissuto prima di finire in queste to­paie, dei cristalli, degli arazzi, delle opere d’arte, dei saloni, dei parchi, del personale in livrea, degli chauffeur che si prendevano cura di me quando mi sentivo tra­scurata, delle automobili mera­vigliose che hanno rallegrato l’esistenza di tutti gli uomini con cui, ahimè, ho avuto a che fare. Ed era proprio quello il tasto che avrei dovuto subito toc­care! Le belle auto! L’avessi saputo prima, mi sarei risparmiata mille fatiche inutili.

Non sapevo dove pe­scarla, qui, un’auto decente. Era un uomo spento, e non lo avrei riacceso con il surrogato di una Trabant. Ci voleva ben altro. Frequen­tavo il Kursaal anche allora, e non mi mancavano i corteggiatori. Quando Vla­dimiro cominciò a circuirmi sul serio, scattò l’ispirazione. Ardeva dal desiderio di farmi dei regali, aveva perso la testa per me. Una sera mi prende da parte e si toglie qualcosa di tasca con aria di mistero: “Guarda cosa ti ho portato”, sussurra, e mi si avvicina più del dovuto, respiran­domi sul collo come se io fossi il suo ossigeno. Era un collier da perderci gli occhi: favo­loso, non trovo altre parole per descriverlo. Tempestato di dia­manti veri: conosco il genere, non è facile ingannarmi in materia di preziosi. “Credi che potrei permettermi di indossarlo libera­mente in un paese pieno di malelingue come questo?”, gli do­mando. E lui, “No di certo: non in pubblico, questo va da sé. Ma potrai indossarlo per me e solo con me ogni volta che vor­rai, nell’intimità di un nido già pronto – da stasera stessa.” Ma che regalo è un regalo che non puoi mostrare a nessuno, se non a chi te lo ha donato? Questo gli obiettai, rifiutando cortese­mente il bijou (e Dio solo sa quanto mi piacesse). “Hai ragione; scegli tu un dono più appropriato; questo lo rimetto nella cassa­forte da cui l’ho preso, è troppo compromettente.” “Sarebbe altrettanto com­promettente una voituredegna di questo nome?”, domandai con nonchalance, mettendolo alquanto in difficoltà. “Vedrò quello che posso fare”, promise. Lui man­tenne la sua promessa, io mantenni la mia. Patto col diavolo: ho imparato a mie spese cosa significa. Nel momento stesso in cui accettai il suo dono – quella vettura nuova fiammante venuta da chissà dove, un gioiello mai visto sulle stradacce di questa pianura senza capo né coda – capii di essermi condan­nata a una doppia schiavitù: le perversioni di Vladimiro e la gelosia di Ugo. Avrei potuto prevedere le prime, ma il com­portamento di Ugo non riesco a spiegarmelo. Come si fa ad accettare un dono e a respingere, con sdegno, il donatore? Io l’ho guarito con quel regalo: è stata la sua medicina, il suo ritorno alla vita; e come mi ha ripagato? Col disprezzo del cor­rotto verso il corruttore. Ha tagliato i ponti con me, ma si è tenuto l’oggetto dello scan­dalo. Il seguito della storia non mi riguarda. O l’oggetto si è vendicato in vece mia, o a vendicarsi è stato lui, cancellando in un sol colpo il corrotto e il prezzo della corruzione.»

La lampada accanto a noi investiva di luce obliqua il volto congestionato della narratrice e conferiva una consistenza car­nosa al rosso del suo vestito. Helga riesce a dare a ogni frase una di­mensione tragica; persino quando ha sollevato il braccio per richiamare l’attenzione del cameriere c’era qualcosa di tea­trale nel gesto. Ha sussurrato poche parole all’orecchio del cameriere, è sembrato un contatto sensuale, un bacio languido e furtivo. Il giovane ha annuito, l’ha aiutata ad alzarsi, l’ha presa sotto braccio e accompagnata fino al palcoscenico. L’ensemble aveva appena smesso di suonare per concedersi un intervallo. Helga ha parlot­tato col pianista, devono aver preso degli accordi. Gli altri strumentisti hanno lasciato lo stage, dirigendosi verso il bar. Il pianista ha annunciato al microfono che la signora Ross avrebbe declamato una delle sue poesie, come usava fare una volta: un gradito ritorno alle consuetudini. Lei ha chiesto o piuttosto ordi­nato a un tecnico invisibile, con un altro dei suoi gesti enfatici, di abbassare le luci. Anche il brusio nella sala si è attenuato di colpo; un signore anziano ha zittito l’ultima fonte di disturbo, un chiassoso quartetto di goliardi.

«La poesia di questa sera è intitolata Nuotano gli assenti. La dedico a mio marito, Ugo Huber, che spero sia in ascolto nono­stante tutto. Il pianista non conosce ancora il testo che sto per leg­gervi, ma è un cavaliere senza paura e si è detto pronto a improv­visare un dialogo fra i miei versi e l’ispirazione musi­cale del momento.» Ha estratto un foglio dalla trousse, lo ha dispie­gato davanti al microfono e ne ha distillato lentamente il conte­nuto. Mai la sua voce era stata più gutturale:

«Dove sono quelli che ti offrivano con orgoglio nella pe­nom­bra
di case fresche cattivo vino viola mentre fuori
un sole fanatico di polvere intontiva fino allo svenimento
foglie di alberi eroici e masochisti; che strade hanno preso
e quanto gli è costato, se gli è costato, dimenticarci
e farsi dimenticare, disperdere le impronte, darsi
alla macchia, infilarsi in altre storie, altre vite; a chi
versano, se versano, da bere, e cosa; in quale baule, quale
cassaforte, quale cantina o soffitta hanno messo via
i dischi morti, gli stracci di vecchie inquietudini, i ritratti
di gruppo, i souvenir, il campionario di confessioni invo­lon­tarie
fatto di oggetti di poco conto ma sempre pronti a testimo­niare?

Vanno e vengono lungo il tempo, si perdono e a volte si ri­tro­vano
un po’ più logori come molli coperte di ieri
los amigos non più sconsiderati come allora.
Alcuni li rivedi in gallerie e zone pedonali di città inesi­stenti
come marinai della sera nel fumo rosso dei bar all’aperto;
guardano ragazze chiare che bisbigliano così piano
che può udirle solo il cotone bianco dei reggiseni.
Sorseggiano spiriti color ruggine da bicchieri di vento,
una caviglia posata con leggerezza sull’altro ginocchio;
le loro ombre si spostano come lancette d’orologio
intorno ai frammenti vetrigni di poemi infranti.
Esili erbe importune forano il panno stinto
di ex tavoli da biliardo abbandonati al sole.
Negli antichi luoghi di raduno generazioni effimere
di mosche fluttuano e fluttuano nell’aria soavemente
drogata da indizi di canfora e pesche acide.

Nuotano con precisione silenziosa gli assenti
in piscine spaziali: niente è più generoso e immemore
dell’acqua quando si tratta di combinare malessere e pia­cere;
piccole infelicità senza spiegazione nota
prendono il largo come pesci
variopinti nella trasparenza.»

Ha poi accartocciato il foglio in un pugno tenuto vicinis­simo al microfono, così da far risuonare, in un silenzio sbalor­dito, il lamento di dolore della carta; e lo ha lanciato lontano da sé, verso il pubblico, come a volersene liberare per sempre. L’ha raccolto uno dei goliardi: era talmente sbronzo che me lo ha ceduto per pochi spiccioli.

© Pasquale Barbella

(12 – Continua)

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Capitolo XIII
 

Rouge scandale


Riprendo la penna dopo un periodo alquanto agitato, e questa volta non posso (né voglio) fare a meno di riallacciare con te la comunicazione interrotta. Insieme a questa lettera partiranno oggi stesso le altre che non ti avevo spedito; non c’è motivo di conti­nuare ad autocensurarmi, sono un cittadino libero in un libero stato, è stata l’immaginazione malata di Theo a influen­zarmi ma è tempo di ritornare alla ragione. Spero di trovarti in buona salute e che questa volta mi rispon­derai presto, perché lo scopo principale di questo scritto è chie­derti il divorzio. Intendo regolarizzare la mia situazione con F. e credo che con­venga anche a te chiudere col passato, rifarti un ménage senza doverti più curare dei vincoli preesistenti. Con­fermo – con un’esplicita dichiarazione contrat­tuale – la mia totale rinuncia a rivendicare il possesso dei beni di mia pro­prietà all’epoca della nostra convivenza, in cambio di tua ana­loga rinuncia a ulteriori relazioni patrimoniali. Vedrai che le formalità dello sciogli­mento saranno più fluide del consueto, dal momento che viviamo già separati da parecchio tempo. Per quanto mi riguarda ho già avviato la procedura (uso non senza disgusto la fraseologia che il caso richiede): come vedi, allego una serie di carte già sottoscritte e autenticate, alle quali man­cano solo la tua firma e la delibera di un tribunale italiano. Consulta un legale per prevenire eventuali intoppi.

Per la prima volta a memoria d’uomo il governo dell’isola ha vacillato, scosso da uno scandalo senza precedenti. La crisi poli­tica ha investito, seppure di striscio, la mia attività e per­sino la mia sfera privata. Le dichiarazioni di Helga Ross hanno fatto il giro della capitale, suscitato proteste, manifesta­zioni di piazza. Per due settimane non s’è parlato d’altro. Albe­rico ha trascurato il remake leonardesco per mettersi a confezionare striscioni e parte­cipare a cortei, suscitando le mie rimostranze (ho minacciato di denunciarlo per assenteismo e ci ho rinun­ciato solo per compia­cere F., che mi ha pregato di chiudere un occhio). Le cose sem­brano tornate alla normalità da quando il contestatissimo ministro della cultura, l’onorevole Vladimiro Rodríguez, è stato «rimosso dal suo incarico per malversazioni, importazioni illegali e con­dotta generale non confacente al ruolo», secondo il comunicato diffuso dall’ufficio stampa del governo e ripreso senza commenti dai mezzi di comunicazione. Né La voz, né la radio, né la televi­sione si sono spinte a rica­marci sopra; il gossip giornalistico è una piaga che qui non alligna. Nessuno ha mai fatto il nome di Helga Ross o alluso – in modo palese o vago – ai suoi rapporti con il “rimosso”. Ma la reticenza delle fonti ufficiali e dei mezzi d’informazione non ha spento il brusío della folla; le circostanze che hanno deter­minato lo scandalo sono di dominio pubblico e le malelingue hanno arricchito di particolari indi­mostrabili la vi­cenda, già fin troppo piccante, dell’ex ministro e della sua favo­rita. In bi­blioteca e in lavanderia è tutto un fiorire di arguzie su presunte performance sadomaso con regolare impiego di fruste, bian­cheria eccentrica, stivali di cuoio, tacchi a spillo e altri acces­sori che non sto qui a elencare. E fosse solo questo. La Goldman è diventata una star dei salotti, ricercatis­sima per le sue testimo­nianze e le sue ricostruzioni; la signora non si arri­schia a formu­lare accuse concrete ma è abile nell’arte di stuzzi­care le fantasie di chi pende dalle sue labbra; non ha mai precisato, per esempio, se la coppia dello scandalo si sia mac­chiata di qualche responsa­bilità nei confronti di Huber, respon­sabilità che abbiano diretta­mente a che fare con la sua morte; ma l’assurda eventualità viene ormai spacciata per certezza, grazie a qualche illazione appena accennata, a spostamenti di sopracciglia, sguardi improvvisa­mente deviati verso il soffitto, sospiri, giri e rigiri di ventaglio, sottili turba­menti, ripiegamenti artificiosi d’un labbro. La vox po­puli sembra essersi tuffata, con morboso compiacimento, fra gli stucchi e le trine di una Versailles immaginaria; l’incidente di Ugo, le poesie di Helga, le erezioni di Rodríguez sono le tessere d’un gioco di società più sussurrato che gridato (le manifestazioni di piazza erano, quelle sì, un grido, ma più generico e prude, meno dettagliato e immaginoso della fase 2).

Non loderò mai abbastanza la saggezza della vecchia Paul­son, che ha saputo smentire in pieno la sua reputazione di gran parla­trice osservando, in ogni circostanza, un silenzio irrepren­sibile sull’argomento: tanto da meritarsi una tardiva quanto rapida ascesa politica. Il vuoto di potere creatosi al ministero della cul­tura non è durato a lungo; Lady Paulson è stata invitata dal primo ministro in persona a subentrare a V.R. e ad assu­merne le fun­zioni «con effetto immediato»; si è fatta un po’ pregare ma alla fine ha accettato. Sicché ora rispondo diretta­mente a lei per la mia attività. Mi ha già convocato due volte per informarsi sull’andamento dei lavori, si è congratulata per l’accuratezza dei miei report e mi ha sollecitato, con garbo, ad avviare presto le ri­cerche su una tela di Henry Courtney Selous conservata al Victo­ria and Albert Museum di Londra, Queen Victoria opening the Great Exhibition in Hyde Park, 1 May 1851. Una composizione affollata e monumentale, con schiere di dignitari, prelati, diplo­matici e militari di rango che fanno ala alla regina, al principe consorte, al principino di Galles nel costume delle Highlands, alla duchessa di Kent e altri membri della famiglia reale. Sulla sinistra spiccano, opportunamente impettiti, ufficiali britannici e alti commissari del Common­wealth, l’arcivescovo di Canterbury, il duca di Wellington; a destra ambasciatori e autorità coloniali tra cui un ospite cinese, il signor Hi Sing, di passaggio a corte all’epoca della celebra­zione e immortalato in quel Gotha per puro capriccio del caso.

Non solo la signora Paulson, ma anche i protagonisti dello scon­quasso – Helga e l’incauto amante – si sono distinti per discre­zione, sebbene non fosse esattamente questa la virtù che li ha portati alla ribalta. E se per l’uomo la ragione del silenzio può essere comprensibile (lo si dice non solo in prigione, ma a pane e acqua in cella d’isolamento, in attesa dell’esemplare con­danna che non tarderà ad arrivare), enigmatico appare invece il ritiro della Ross, non più vista né udita al Kursaal o altrove dopo la notte dei suoi sfoghi in prosa e in versi. Si mormora di un suo tempestivo trasferimento in altra parte dell’isola e, strano a dirsi, Helga non ha lasciato dietro di sé solo una mol­titudine di detrat­tori, ma anche uno stuolo consistente di fan che ne compiangono il destino e si sentono privati di una pre­senza vivificante («l’isola è incolore senza di lei», si è lasciata sfuggire Françoise). Non così Alberico, il mio tormento quoti­diano, caricatura vivente dell’artista rinascimentale; il quale, in barba a ogni illuminato umanesimo, predica la superiore giusti­zia e santità della forca, alla quale dovrebbero pendere gli «sfruttatori del popolo». Ma a chi dovrei credere, se la Goldman giura che pure questo copista da strapazzo si è avvoltolato, a tempo debito, tra le lenzuola di Helga Ross, «benemerita protettrice delle arti di ogni ordine e grado» se­condo l’acida definizione circolante tra i ventagli?

Basta: non intendo affliggerti oltre con queste cronacucce. Rallègrati per me: ho ritrovato in pieno la mia forma, il lavoro sembra aver infilato la strada giusta, amo e sono riamato. Con l’aiuto di una commissione istituita ad hoc, Lady Paulson sta pre­parando una cerimonia per il varo della Primera Galería Nacional, con l’esposizione della Gioconda e di altri due capolavori in fase di compimento, un Rubens e un Dalí. E mi ha già cooptato fra i relatori dell’evento: toccherà a me la pre­sentazione della copia di Leonardo, non è lusinghiero? Venti minuti di intervento per illu­strare la storia dell’opera, l’humus da cui è scaturita, l’influenza dell’autore sulle arti e sulla cul­tura occidentali. (A proposito di Occidente: più diplomatica del suo grottesco predecessore, Evelyn Paulson ha messo subito in cantiere investigazioni – assai opportune, bisogna dargliene atto – sulle arti asiatiche e dei conti­nenti periferici). Ti terrò aggiornata sugli sviluppi del progetto.

Quanto ai fatti che ci riguardano entrambi, conto su di te, sulla tua sollecitudine. Il nostro divorzio non è meno sacro del matrimonio che ci unì. Ci restituisce alla vita e non c’è più un mi­nuto da perdere: presto, finché possiamo dirci ancora gio­vani. Te l’ho detto che Françoise non ha ancora compiuto trentadue anni? Pensa, vorrebbe un figlio; e, conoscendo la sua determinazione, temo che finirà per farmi cedere. Anche noi, ricordi?, favoleggia­vamo di prole, alla sua età. Ma ci stan­cammo presto di coltivare quel progetto, rinviandolo sine die a favore di urgenze più impel­lenti. Meglio così, forse: la pater­nità non è mai stata davvero in cima alle mie aspirazioni, non mi ci vedo nel ruolo di padre, è una responsabilità alla quale neanche a cinquant’anni mi sento pre­parato. Ma F. insiste, e non demorderà – non ho dubbi su questo.


P.S. – Theo entra ed esce dalla mia vita come se la mia vita fosse il suo palcoscenico. Da assente, incombe su di me più di quanto incombesse a piede libero. Per la seconda volta è finito su La voz, a causa del suo sciopero della fame. Non che il gior­nale menzionasse apertamente una siffatta bizzarria; si è limi­tato a ri­portare, in poche righe, il «trasferimento del detenuto dal peniten­ziario all’Hospital» per imprecisate «cause di sa­lute». Mi è toc­cato rendergli visita di nuovo, ma non ho voglia di dilungarmi sul tema, adesso. Te ne scriverò più avanti, forse – se e quando mi mancassero argomenti più seri con cui intrat­tenerti.

© Pasquale Barbella

(13 - Continua)



Chroma. Capitolo XIV

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Capitolo XIV
 

Fiamma


Perché diffidare delle imitazioni? Quelle dell’inferno sono spesso all’altezza dell’originale, e generalmente costano meno. Non ti nascondo che fa un certo effetto vedere una lingua di ma­genta 80 e giallo 99 sprizzare ed elevarsi, con scatto magi­strale, nel diffuso grigio tenue di un mondo in perenne letargo croma­tico: la nebbia tranciata a metà dal guizzante colpo di lama, le nu­vole basse squarciate dal fulmine aranciato, l’asfalto con le sue pozzanghere vilipeso da un mitragliamento di schegge stellari. Il Kursaal brucia: spettacolo fuori pro­gramma. Françoise e io stretti tra la folla degli spettatori accorsi da ogni angolo della capitale: l’estasi dipinta sui volti, sprazzi improvvisi di luce nelle co­scienze, ricordi di altri incendi, altri colori, altri calori. L’insegna frigge tra le fiamme, esplodono vetrate, viscere d’inferno schiz­zano – incontenibili – dai buchi dell’edificio. «Satana, Satana», biascica a ripetizione un vegliardo alla mia destra, investito da nubi intermittenti di nebbia rossa e fumo color pece. Il cielo stesso è in allarme; lampeggia nevroticamente, come se un banale falò potesse comprometterne la stabilità. I vigili del fuoco sono costretti a combattere su due fronti: più delle fiamme li impegna l’assembrarsi dei curiosi, un’onda fremente di stupore e tre­more, di rabbia e felicità. Finché gli idranti, per puro senso di giustizia, non si ritorcono contro di noi; e vedi l’intero piazzale immolarsi alla furia congiunta degli elementi, l’acqua e il fuoco folleggianti per puro gusto dell’allegoria, un modesto ma efficace acconto dello show di tutti gli show – la fine del mondo. Fa la sua figura anche la polizia a cavallo, elegante­mente apocalittica nei tentativi di disperdere il volgo: gli sfollagente branditi come spade di San Giorgio sulla cresta del drago, il blu cobalto delle uniformi, i co­pricapi risorgimentali, i corpi elastici da stuntmen alle prese con la fanteria nemica. Nel frattempo senti, anche da lontano, crepi­tare il salone delle feste con tutti i suoi addobbi di cartapesta, pre­cipitare fragorosa­mente i lampadari, godere d’orgasmo i tendaggi violati. S’inarca ancora di più il tetto a pagoda, verso l’alto, pie­gandosi in due come un foglio da riporre definitivamente nel cas­setto dei documenti inservibili; ma è illusione di breve durata, giac­ché le fiamme ingolosite se lo divorano in una vampata. «E adesso, dove andremo a ballare?», mormora Françoise, deso­lata come se le avessero svaligiato l’appartamento. Vero è che si do­vrà aspettare un bel pezzo prima che la discoteca di Greensleeves possa rinverdire – è il caso di dirlo – i fasti del Kursaal. Vorrei provare lo stesso patema di Françoise, ma non ci riesco. Certo, piacevano anche a me quelle serate e quel sublime mauvais goût; sapevo apprezzare anch’io la sventa­tezza del luogo, la triviale musichetta da tabarin, la decompressione cerebrale cui potevi ab­bandonarti senza rite­gno, persino la stravaganza organolettica dei liquori, risultato di un’immaginazione autarchica ma non per que­sto meno con­fortante. Ma più del Kursaal trovo affascinante il suo rogo. Sarà pure orrendo il foco che l’offende, ma che spasso. Da quanto tempo non vado al cinema, a teatro? La mia mente re­clama energiche schiarite, e questa esperienza vale un elettro­choc: indolore, peraltro.

Chi l’avrebbe detto, però, che le ceneri del Kursaal avreb­bero causato i primi, striscianti dissapori tra me e Françoise? Dopo aver prodotto il più grandioso spettacolo di massa che l’isola ri­cordi, il fuoco ha osato insinuarsi anche nell’intimità del nostro nido, producendo incrinature fastidiose. Crepe quasi invisibili, garantito; che mi impegno solennemente a non lasciar degenerare. Ma di origine sospetta. Cosa avrà voluto dire, colei che affettuo­samente chiamo «il mio topolino», quando si è messa a stigmatiz­zare l’atteggiamento «insensi­bile» di certi individui, guardandomi fisso negli occhi come se li vedesse per la prima volta? E perché, quando finalmente si è cambiato discorso, si è messa a compian­gere la solitudine di Theo, «un idealista» lo definisce adesso – con qualche cedimento alla retorica, vizio dal quale mi era parsa meravi­gliosamente immune; – e mi ha rimproverato di non an­darlo a trovare più spesso, non senza ricordarmi che le uniche due volte che l’ho fatto è stato solo dietro sua insistenza? (Inciden­tal­mente: nel suo letto d’ospedale, Theo non mi ha nemmeno riconosciuto, o – peggio – ha fatto finta di non riconoscermi; ha risposto a monosillabi alle domande che gli rivolgevo, non a tutte ma solo a quelle più facili da capire: domande sulla qua­lità del cibo, su come si sentiva fisicamente, sul caldo e sul freddo, sulla sollecitudine degli infermieri. Che ci vado a fare? Le visite lo la­sciano indifferente, non lo smuovono dall’apatia, non gli recano alcun sollievo ammesso che ne abbia bisogno, è lì che dorme o dormicchia nella più passiva beatitudine).

Il rogo non ha provocato vittime, ma sulle cause dell’incendio le fonti ufficiali e la voce popolare si schierano su sponde con­trapposte. «Corto circuito», sostengono bollettini e notiziari; «at­tentato», pretendono le masse. Non mi stupi­rebbe se mi dicessero che è la solita signora Goldman a inne­scare questa o quella dice­ria. Ma anche Alberico non scherza; ogni volta che apre bocca ti viene da pensare che nei suoi recessi nasconda una miccia al po­sto dell’ugola, i passaparola che riesce ad attizzare sono dinamite. Te l’ho mai descritto, questo pittore di falsi? Descritto fisica­mente, intendo. Temo di averti dato di lui un’immagine più pitto­resca (pardon!) che reale. Non immaginarti né barbe bianche né baschi sul capo, né altri vezzi di stampo bohémien. L’uomo non ha niente di solenne, a parte il pessimo pseudonimo e la pretesa di conside­rarsi un artista. Lo diresti un ometto qualunque, malcre­sciuto, dal ventre prominente e dalle gambe storte; rosso di capelli, occhiali fuori misura, eterne ciabatte e un camice blu – quello sì, “da pittore” – che non si è mai preso la briga di sbattere in lavatrice. Si devono a sputasentenze come questi – le Goldman, gli artisti fasulli – le voci che annunciano anche sull’isola lo sbarco del terrorismo internazionale, quando non addirittura lo scatenarsi del «terrorismo di stato». C’è chi non esita ad accu­sare i servizi segreti e chi dà per certa la rivendicazione del presunto attentato da parte di gruppi di questa o quella fazione etnica, religiosa o politica. L’attrattiva più tipica dell’isola – la quiete – subisce inaudite scalfitture, una dopo l’altra, proprio nel momento in cui il governo si dà da fare come non mai per mettere al bando ogni residuo di fuliggine. Mai, dicono gli anziani, il potere aveva fatto concessioni paragonabili alle più recenti: città nuove di zecca, avveniristiche per concezione architettonica e sociale, so­lari, idealmente orientate alla pacifi­cazione del pianeta (il pro­getto Chroma prevede la coabitazione di culture diverse, «alla pari», in ciascun condo­minio); la valorizzazione dell’arte e dei suoi benefici; l’effetto decongestionante del colore. Tutto questo è già in pericolo prima ancora di realizzarsi, grazie al disfattismo di pochi. E chi osa sussurrare proprio qui quell’accusa terribile e in­giusta, «regime», dovrebbe domandarsi come mai il suddetto regime esiti così tanto a imporre il silenzio, a spazzar via con un colpo di scopa l’ingratitudine di questo dissenso nascente e del tutto campato per aria.

P.S. – Grazie di cuore per la pronta risposta alla mia richie­sta. Siamo ufficialmente divorziati: congratuliamoci a vicenda. Hai già fissato la data delle nuove nozze? Io non ancora: Françoise sostiene che non c’è fretta.


© Pasquale Barbella

(14 - Continua)
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