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Poemetto licenzioso

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    1.         Lassa materia che ne’ buchi neri
    2.         per libido t’affondi, sii maestra
    3.         e guida del poeta[1]sì che veri

    4.         risonino i suoi versi e la finestra
     5.         da cui osserva il cielo[2]non si chiuda,
    6.         ma resti aperta da sinistra a destra

     7.         perché alla vista s’offra schietta e nuda
    8.         la nuda verità che va cercando.
    9.         Trema la mano e tutto il corpo suda

  10.         per l’arduo peso di cantare il quando,
   11.         il come, il dove s’inverò la vita;
  12.         di come l’universo dallo sbando

  13.         del caos primevo fece la sortita
  14.         che rese il mondo ciò che il mondo è.[3]
  15.         E tu, filosofia, mai passita

  16.         sia la passione che mi tira a te:
  17.         a te sola m’affido[4], ché il tuo lume
  18.         rischiara ogni ricerca, ogni perché.

  19.         D’Ulisse tu accendesti il vivo acume
 20.         quando alla porta d’Ilio gli sovvenne
  21.         la porta di Penelope[5], e per schiume

 22.         di rabbia e nostalgia quasi non venne;
 23.         fu allora che scommesse di piegare
 24.         la Troia al suo volere, e ciò che avvenne

 25.         è noto da millenni al cielo e al mare.
 26.         Usò la vaselina[6]: e il suo cavallo
 27.         duro, di legno, lui lo fe’ passare

 28.         come dono d’amore oltre quel vallo,
 29.         e tale a ciurma di spermatozoi
 30.         la schiera achea schizzata dallo stallo[7]

  31.         le membra addormentate degli eroi
 32.         troiani profanò fino allo spasmo
 33.         definitivo[8]. Tale a tutti noi

 34.         si presenta l’istoria: dall’Erasmo
 35.         di Rotterdam al sadomasochismo,
 36.         eterna è la questione dell’orgasmo

 37.         mèta primiera di cosmico attivismo.
 38.         Intorno al “vengo” ruota l’officina
 39.         de l’universo e d’ogni meccanismo;

 40.         vola il pisello alla passerina,
  41.         la vite alla rondella, il chiodo al foro;
 42.         la toppa della chiave è una topina

 43.         e rigirarsi in essa è il suo lavoro;
 44.         senza una buca non s’erge palazzo,
 45.         a tasca o cassaforte va il tesoro,

 46.         alla curva del ciel ascende il razzo,
 47.         s’intrude il tomo dentro lo scaffale,
 48.         per tutto c’è una càzzola e c’è un cazzo[9].

 49.         E fino a quando dura, non è male:
 50.         se star nel fodero ama la pistola
  51.         più che darsi alla guerra, è naturale

 52.         che avremo molto meno groppo in gola,
 53.         meno morti da piangere, più figa,
 54.         se il guerrier solo al piacer suo s’immola

  55.         invece che al conflitto et a la briga[10].
 56.         Per vivere esultando basta poco:
  57.         giro di tango, fox, merengue, giga[11]

 58.         sì che la storia si traduca in gioco
 59.         fra chi dona e chi prende. Dentro e fori
 60.         s’accenda fra le parti un gran bel foco:

  61.         goda il treno nel tunnel[12], e tutti i cori
 62.         del mondo si fibrillino a l’istante.
 63.         Si dica basta a chiacchiere e rancori:

 64.         si dedichi ciascuno al proprio amante.
 65.         Prodi si nasce, con due berluschioni
 66.         e un bosso in mezzo per andare a quante

 67.         politiche si vogliano erezioni.[13]
 68.         Cui prodest azzannarsi ne l’arena
 69.         e i popoli trattare da coglioni?[14]

 70.         Più tempo al pene[15], meno a questa pena
  71.         inflitta a l’italiani dalla tele.[16]
 72.         S’argini alfine questo fiume in piena:

 73.         a la pace social s’erga una stele
 74.         marmorea, un fallico obelisco
  75.         che solo a la vagina et al suo miele

 76.         s’acconci con un docile «Obbedisco.»
  77.         Ogni DJ c’insegna che la via
 78.         per far trillare i suoni d’un bel disco

 79.         è un perno dentro il buco[17]. Per magia
 80.         la scheda che ne l’urna si sprofonda
  81.         la gonfia e nasce la democrazia;

 82.         la terra intera di passion s’inonda
 83.         nutrendo le radici della pianta
 84.         e a mo’ d’immensa topa le asseconda

 85.         per generare il fiore che t’incanta;
 86.         femmina è l’acqua, pesce ardito e sano
 87.         ciò che in essa s’addentra: remo e manta,

 88.         chiglia di nave, becco di gabbiano,
 89.         turgido iceberg, siepe di corallo,
 90.         cozza, Titanic, alga, cormorano;

  91.         la rosa si protende col suo giallo
 92.         nettare a l’ape che ne succhia il succo;
 93.         in primavera la natura è un fallo

 94.         in cerca d’una falla, e non c’è trucco
 95.         censorio che distolga dal godere
 96.         la lingua ingolosita dal caciucco.[18]

 97.         Pure da morto, perso ogni potere,
 98.         chi vivo è stato aspira a farsi largo
 99.         dentro un riparo: scatola, paniere,

100.         feretro ch’addolcisca il suo letargo;
101.         e a sua volta la bara si protende,
102.         quale container a la stiva del cargo,

103.         verso l’oscura fossa[19]che l’attende;
104.         né si può dir che sia meno eccitato[20]
105.         il corpo che a la bara non s’arrende

106.         e scelse in vita d’essere cremato,
107.         ché ogni gran di cenere a l’amplesso
108.         de l’urna ceda il suo sospir, beato.

109.         Or pure quei che credi senza sesso
110.         sperano sempre d’inoltrarsi alquanto
111.         in qualche antro, e godono lo stesso:

112.         il filo di cotone si fa vanto
113.         de la cruna de l’ago, ch’a sua volta
114.         fora e s’infila ne la stoffa; il guanto

115.         in cui la mano tua si fa sepolta
116.         è come una vagina a cinque strade;
117.         la calza che il tuo passo cinge e ascolta

118.         si surriscalda eretta, e molle cade
119.         quando il piede si scosta dal suo abbraccio;
120.         nemmeno il ketchup volentieri evade

121.         dal collo di bottiglia; e pure il ghiaccio,
122.         che dicono insensibile, si scioglie
123.         per la lussuria, quando dal crepaccio

124.         del frigo man pietosa alfin lo coglie
125.         e al ventre dello shaker lo consegna
126.         come maschio assetato d’una moglie;

127.         e lì si lascia sbattere e s’impregna
128.         di Campari, di rum e d’altri umori,
129.         squagliandosi al tepore della fregna.

130.         La nebbia che distende i suoi vapori
131.         su la pianura, ansiosa aspetta il raggio
132.         di sole che le penetri nei pori

133.         e la disciolga col suo caldo assaggio;
134.         cede la sabbia al piede che la preme
135.         e ama farsi orma al suo passaggio;

136.         la finestrella al vento freme e geme
137.         per impetuosa voglia di scirocco,
138.         e come se ne l’aria fosse un seme

139.         spalanca le sue ante e da quel brocco,
140.         furente amante sbattere si lascia,
141.         forzando ogni chiusura et ogni blocco.

142.         Il cosmo è congiunzione: cala l’ascia
143.         a suggellare il taglio che produce;
144.         la terra si fa morbida bagascia

145.         al peso de l’aratro che l’induce
146.         a un solco dopo l’altro; la sua ombra
147.         il campanile allunga ne la luce

148.         come a volerla del suo gambo ingombra;
149.         non c’è Venezia senza Canal Grande,
150.         oca senz’oco, sgombro senza sgombra,


151.         né fiume senza letto. Da le Ande
152.         a l’Appennini ciò che move il mondo
153.         è figa che s’allaccia intorno al glande.






[1] L’A. elegge a musa ispiratrice la materia nel pieno del suo dissolvimento orgasmico, allorché lassa– disfatta dal survoltaggio della propria libido– si lascia risucchiare senza piú protezione dal vortice del buco nero.
[2] Nella finestra alcuni esegeti, incoraggiati probabilmente dai vv. 136-141, hanno preteso di identificare l’organo femminile, qui sublimato come massimo impulso alla ricerca interiore e alla conoscenza dell’altro da sé (il cielo). La tesi mal s’accorda con l’apertura da sinistra a destradi cui al v. 6, che farebbe pensare a una disposizione impropria (orizzontale? trasversale?) della vagina e delle relative vie di accesso.
[3] L’A. preannuncia fin dall’introduzione la tesi pansessualista dell’opera: l’universo nel suo insieme, e i singoli fenomeni che ne determinano l’evoluzione geografica, biologica e storica, come risultato di congiunzioni fra “enti penetranti” ed “enti penetrati”.
[4] Gli uterosillabisti, fondatori di una corrente d’indagine critica che proclama il primato del suono delle parole sul loro significato, hanno elaborato la cosiddetta «teoria della fi», sopravvalutando in questo caso la ricorrenza di tale sillaba nei termini finestra, filosofia (doppia fi), affido e l’oggetto stesso del poema, figa.
[5] La porta d’Iliola porta di Penelope: dopo anni di estenuanti battaglie e di tentativi falliti, Ulisse trova nel rimpianto della vagina dell’amata l’ispirazione per lo stratagemma che consentirà finalmente ai greci di invadere la città di Troia.
[6] La vaselinaè qui da intendersi nell’accezione metaforica di dolcezza. Si tratta naturalmente di una dolcezza ingannevole: ciò che ai Troiani deve apparire come un dono pacificatore (l’ipertrofico stallone ligneo) è invece, com’è noto, l’espediente che permetterà alla truppa nascosta nel suo ventre di stuprare il nemico a sorpresa, durante il riposo notturno pesantemente favorito dalle libagioni.
[7] Nella tripla accezione di “permanenza prolungata” (nella pancia del quadrupede), di “empasse” (la snervante lunghezza dell’assedio senza risultati soddisfacenti) e di “stallone”.
[8] La critica si è a lungo divisa sull’interpretazione di questo passaggio: gli eroi troiani, destinatari di un attentato orgasmico fin troppo esplicito, hanno indotto un numero cospicuo di commentatori a fornire una lettura in chiave omosessuale dell’allegoria; altri hanno rimarcato, per contro, la natura dei soggetti principali dell’azione, il cavallo duroe il vallo (ovvero il baluardo: l’opera di difesa e fortificazione militare, la porta d’Ilio) da sfondare. Gli eroi dormienti stanno agli aggressori achei come gli ovuli stanno alla compagine spermatozoica in arrivo.
[9] Dopo aver esposto un ampio campionario di comuni sinonimi del pene (pisello, vite, chiave, palazzo, tesoro, razzo, tomo), il poeta si concede la libertà di inventare un neologismo (cazzo) alquanto curioso, spiegabile solo con la necessità di chiudere il verso con una rima. Ma allora perché non “bazzo”, “vazzo” o “jazzo”? Dibattuta da decenni, la questione sarà sviscerata da studiosi di chiara fama nell’imminente congresso La rima del cazzo in programma a Pernambuco.
[10] Con sei secoli e mezzo di anticipo, il poeta profetizza uno dei pensieri portanti del Sessantotto e del movimento hippy («fate l’amore, non fate la guerra», «mettete dei fiori nei vostri cannoni»).
[11] Per metà dei critici si tratta di una lungimirante profezia sull’evoluzione della musica popolare. Per l’altra metà il testo sarebbe stato qui manipolato da uno o piú goliardi del XX sec. Si ricorda al lettore che il manoscritto bucaccesco è stato rinvenuto da privati, in forma frammentaria e lacunosa, solo nel 1945, tra le macerie d’un antico bordello fiorentino, e che può aver subìto arbitrari interventi prima di approdare al mondo accademico.
[12] Per questo e altri presunti anacronismi, si veda la nota precedente.
[13] Scottato dai disastri causati in Firenze dall’interminabile guerra civile tra Guelfi e Ghibellini, l’A. auspica l’avvento di una nuova Polis, la res pubica, governata dalla democrazia, ovvero da cittadini designati dal popolo attraverso lo strumento delle libere erezioni.
[14] Si allude probabilmente al guelfo Arcurio, condottiero della Media Setta passato alla storia per la frase «E chi non è con me, orchite lo colga!» pronunciata durante una cena con esponenti della Sega Nordica, della Bega Nazionale e dei Casini Centrali.
[15] Pervaso di civile indignazione, il vate ascrive al delirio distruttivo dei potenti la responsabilità delle carestie (penuria = carenza di pene) che afflissero e decimarono la popolazione del suo tempo.
[16] Probabile errore di trascrizione (dallatele in luogo di dalle tele: “tele” è chiaramente plurale). È nota l’avversione dell’A. per gli oli su tela con il ritratto del guelfo Arcurio, che il raffigurato andava disseminando per città e campagne a scopo propagandistico. Bucaccio stesso si fece promotore di azioni iconoclastiche facendo dipingere, su quei ritratti, ortaggi  rossi sul naso del condottiero (che al rosso era allergico).
[17] Il passo piú controverso dell’opera. Chi è il DJ? Come si pronuncia? Si è avanzata l’ipotesi che DJ sia l’acronimo di Discum jactans, «lanciatore del disco”, “discobolo” nel latino tardomedievale; ma la congettura non convince, giacché, a differenza del giavellotto, il disco («attrezzo circolare in legno con centro metallico e orlo assottigliato e rivestito di lamina, che si lancia in gare sportive” secondo B. Segni, 1551) non può farsi perno dentro il buco. Anche di questo si discuterà al congresso letterario di Pernambuco.
[18] 94-96: E non v’è censura dietetica che possa distogliere una lingua livornese dal godimento della zuppa di pesce eseguita secondo la ricetta tradizionale della città. Si noti l’audace rovesciamento di generi e ruoli: lingua, sostantivo di genere femminile, qui in una funzione prevalentemente maschile; e caciucco, maschilissimo sia dal punto di vista grammaticale sia dal punto di vista metaforico (“pesce” è la variante ittica di “uccello”), come oggetto femminile di concupiscenza maschile.
[19] Secondo il poeta, nemmeno la morte ha il potere di mortificare i sensi; anzi li esalta. Il funerale, nelle costumanze della nostra cultura, equivale a una doppia penetrazione: della salma nel feretro, e del feretro nella tomba.
[20] Nel senso di “arrapato”.

Il popolo non esiste

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“Popolo” è una parola troppo pronunciata, e il più delle volte a sproposito, dai nostri politici.

Chi si appella al “popolo” deve essere osservato e monitorato con sospetto.

Chi – ad esempio – andasse proclamando di essere stato “eletto dal popolo” mente alla collettività e a sé stesso. Nessuno è “eletto dal popolo” ma da una parte della società, e c’è gran differenza fra le due cose.

Perché il popolo non esiste. O non esiste più. Se non in qualche remota landa forestale, fra tribù o altre forme di convivenza non ancora ibridate da elementi esterni.

Nel mondo contemporaneo la nozione di popolo suona equivoca e superata, perché i flussi migratori e la progressiva mescolanza di genti hanno modificato profondamente quegli assetti etnici, storici e culturali che un tempo rendevano uniche e monolitiche le identità territoriali. Non si può parlare di “popolo della Crimea” o di “popolo veneto” finché in Crimea e nel Veneto ci siano cittadini – persino pochi o pochissimi, persino uno solo – che per origine geografica, cultura o tendenza politica non si sentano, o non vengano considerati, affini alla maggioranza.

Il concetto di “popolo” è tendenzialmente oppositivo e ingiustificato, qualora non si affermi per autodifesa in un contesto di persecuzione, sfruttamento, razzismo. Può esistere un popolo di vittime, ma non può assolutamente giustificarsi un popolo di carnefici. Laddove il presunto popolo manifesti – anche attraverso strumenti democratici quali il referendum e la rivendicazione organizzata – la propria volontà a scapito della volontà delle minoranze, può scattare la violenza dell’oppressione, della caccia alle streghe, della coazione all’esodo. Nei casi peggiori: della camera a gas. Perché dove più forte si fa il volere dei tanti, più deboli diventano le garanzie dei pochi.

Gli umiliati, gli offesi, i diseredati non sono necessariamente un gruppo etnico o una comunità territoriale: sono una categoria universale dell’umanità, da difendere in quanto tale e aiutare ad uscire dalla propria condizione. Nella foto: Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, olio su tela, 1901. Milano, Museo del Novecento.

Talvolta dal sentimento condiviso di una comunità si leva un grido di libertà contro lo strapotere del dominatore. Grido sacrosanto. Ma pure in questi casi dobbiamo stare attenti alle parole, perché il “popolo” che si solleva contro l’ingiustizia non deve, oggi, essere necessariamente contraddistinto ed etichettato per etnia, territorio, lingua, etc. In altre parole: se lo stato italiano mandasse i carri armati nel Veneto, farebbero bene a ribellarsi non solo i veneti da cento generazioni ma anche i pugliesi o gli africani che abitassero nella marca trevigiana. Popolo, insomma, non si nasce; semmai si diventa, sotto la pressione di eventi talmente drammatici da sfigurare la libertà di tutti, e dico tutti, coloro che abitano un certo territorio.

In un mondo progredito non si può continuare a parlare di popolo, ma di società. La nozione di “società” è estremamente più aperta e moderna, perché comprende le diversità invece di respingerle. Non a caso il concetto di “popolo” è andato radicalizzandosi, negli ultimi decenni, nel pensiero di destra.

Coloro che in varie parti del mondo, Europa compresa, oggi propugnano – in nome dell’indipendenza, della libertà, dell’identità territoriale – il diritto sovrano di autodeterminarsi e di modificare profondamente i rapporti con entità che considerano politicamente estranee ai propri interessi, hanno il dovere di precisare se e in quali modi intendano garantire la sopravvivenza e la sicurezza delle minoranze.

Gli strumenti a disposizione delle democrazie – elezioni, referendum, campagne politiche, manifestazioni di piazza etc. – sono un grande risultato di secoli di lotte, ma diventerebbero un controsenso se adoperati per sottomettere, opprimere o escludere una parte, anche minima, della società. Perché a connotare la vera democrazia non basta la libertà: deve essere sommamente rispettato anche il principio di eguaglianza. Presa da sola, la libertà, come sosteneva Norberto Bobbio, è ambigua in quanto non esclude conflitti fra le aspirazioni dell’uno e quelle dell’altro; mentre l’eguaglianza appartiene a tutti senza eccezioni, e o c’è o non c’è[1].

Dobbiamo sperare ardentemente nella rimozione totale di tutto ciò che favorisca la discriminazione, l’emarginazione, la vessazione, la schiavizzazione di individui e gruppi, siano essi omogenei per etnia, cultura, religione, ideali, oppure misti ma semplicemente non allineati con il pensiero dominante nell’ambiente geopolitico in cui si trovano. La democrazia, conclamata anche da chi non sa nemmeno cosa sia, si basa su un principio di libertà non individuale né di parte ma collettivo: non è democratica nessuna idea che rifiuti il valore della parità e dell’eguaglianza.

Non solo discutibile, ma anche suicida è la tendenza alla frammentazione dei presunti popoli, al loro volersi autoconfinare in piccoli spazi, in minime patrie: specialmente nell’era delle relazioni totali, planetarie, e di quel fenomeno – positivo o negativo che sia – che va sotto il nome di globalizzazione. Piccolo, nel mondo della globalizzazione, equivale a zero, se non si possiedono risorse abbondanti o non si è riconosciuti o tollerati all’estero per mera convenienza (i cosiddetti paradisi fiscali...)

Alcuni credono di avere o meritare risorse sufficienti (p. es. la capacità imprenditoriale di produrre e distribuire beni di consumo) per sentirsi autorizzati a rivendicare la propria autonomia e ad uscire dalle relazioni vigenti. Se davvero ad abitare il Veneto fosse un “popolo” omogeneo, fatto solo di veneti e di indipendentisti, ed io avessi il potere di concedergli l’indipendenza, glie la concederei seduta stante, salvo applicargli un bel pacchetto di ritorsioni il giorno dopo: altissime frontiere di filo spinato, embargo totale, arresto per gli italiani sorpresi a far mercato nero di formaggio d’Asiago o Recioto della Valpolicella. Ma siamo nell’astrazione assoluta, perché a Venezia potrei (e vorrei) viverci anch’io, e non mi piacerebbe essere travolto da un’ondata di minaccia, di razzismo, di violenza o di esclusione per il solo fatto di non sentirmi “veneto”. Se è questione di economia, i veneti proclamino pure l’indipendenza del pandoro, ma sappiano che noialtri non-veneti proclameremo l’indipendenza dal pandoro. Se lo producano e mangino tra loro, i signori indipendentisti.

Altri credono nella “democrazia diretta” anziché in quella rappresentativa, e a parole il loro ideale suona bellissimo, se non fosse che, alla fine, la democrazia diretta offre scarse garanzie di eguaglianza e giustizia nei casi in cui una parte dei cittadini volesse, per esempio, sopraffare le altre o sbarazzarsene del tutto. La differenza tra democrazia e autoritarismo, in tal caso, scomparirebbe di colpo, affogando nel più nero dei paradossi.

Il problema è che quasi tutte le democrazie sono imperfette, e che molti dei rispettivi membri si affannano a renderle più scadenti anziché impegnarsi a migliorarle.

P.B.





[1]«[...] mentre la libertà è in genere un valore per l’uomo in quanto individuo, donde le teorie politiche fautrici della libertà, cioè liberali o libertarie, sono dottrine individualistiche, tendenti a vedere nella società piuttosto un aggregato d’individui che non una totalità, l’eguaglianza è un valore per l’uomo in quanto ente generico, cioè in quanto è un ente appartenente a una determinata classe, che è appunto l’umanità, donde le teorie politiche propugnatrici di eguaglianza, o egualitarie, tendono a vedere nella società una totalità di cui occorre considerare quale tipo di rapporti esista o debba essere istituito tra le diverse parti del tutto.» (N. Bobbio, scritti di impegno civile raccolti a cura di Marco Revelli in Etica e politica, Milano: Mondadori, collana I Meridiani, 2009).

La pubblicità Fiat, 1

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L’articolo completo è apparso per la prima volta nel n. 5 di BILL magazine.

In Un secolo di storia italiana, Valerio Castronovo ha sviscerato le vicende della Fiat dal 1899 al 1999. Non cento pagine, ma duemilanovantaquattro nella prima edizione,[i]indici compresi. Un chilo e novecento grammi di ricerche polpose. Senza contare gli aggiornamenti al 2005,[ii]la biografia di Giovanni Agnelli[iii](il fondatore) e una costellazione di saggi sull’industria italiana in Piemonte e nell’Italia intera. Quanto basta per desumerne che la narrazione dei legami tra Fiat e il Paese supera abbondantemente il peso dei Promessi sposi e di qualsiasi altro romanzo storico imperniato su peripezie di coppia. Vi si narra di liberalismo e nazionalismo, guerre e dopoguerra, fisco e fascismo, protezionismo e crisi durissime, ricostruzioni e missioni diplomatiche, guerra fredda e motorizzazioni di massa, miracoli economici e autunni caldi, scontri di potere e lotte di classe, anni di piombo e ristrutturazioni, scandali economici e competizioni globali. Naturalmente con un cast da kolossal, dagli Agnelli ai capitani della finanza, da Vittorio Valletta a Cesare Romiti, da Andreotti a Kissinger.

Un manifesto di Giuseppe Riccobaldi Del Bava, 1928.

L’autore sfiora anche il tema della comunicazione per ricordare il lancio più clamoroso di tutti: quello della Balilla, avvenuto nel 1932. La vettura fu «presentata a Mussolini il 9 aprile a Roma, nel parco di Villa Torlonia, ed esposta poi in bella mostra in varie manifestazioni e rassegne dall’uno all’altro capo della Penisola. Tant’è che essa divenne popolare nell’immaginario collettivo, e nei sogni di benessere e distinzione dell’italiano medio.» Castronovo cita il famoso manifesto di Marcello Dudovich con l’elegante signora in blu disegnata di spalle mentre procede a grandi passi verso l’automobile rossa, e quello di Plinio Codognato col piccolo balilla in camicia nera che si accinge a scagliare un sasso (non contro la vettura, bontà sua). Inutile cercare nel libro ulteriori riferimenti alla pubblicità. Tra le dozzine di dirigenti Fiat menzionati nel volume, quelli preposti ai servizi di comunicazione (come Oddone Camerana e più tardi Vittorio Ravà) non vengono citati neanche di striscio; a malapena vi figura Maria Rubiolo, responsabile dei rapporti con la stampa, per ricordarci che nella galassia Fiat «non mancavano le donne con incarichi di particolare importanza».

Meno marginale appare il ruolo dell’advertising in Agnelli: una storia italiana. 18 interviste sulla dinastia, l’impresa, il Paese, a cura di Antonio Calabrò.[iv]Una delle diciotto interviste riguarda proprio il nostro argomento: non è rivolta né a Camerana, né a Pirella, né a Gillo Dorfles, né a Umberto Eco ma – figuratevi un po’ – a Giorgio Forattini, il caricaturista autore del lancio della Uno in quattro neologismi: Uno! è sciccosa, Uno! è comodosa, Uno! è risparmiosa, Uno! è scattosa. Episodio che la dice lunga su quanto variegato, contraddittorio e talvolta acritico sia stato l’impegno della maison nelle sue scelte di comunicazione.
Manifesto di Giuseppe Romano, 1928.


Il disinteresse degli storici e degli osservatori verso la pubblicità Fiat non deve stupire. Pochissime sono le case automobilistiche il cui stile di comunicazione sia realmente diventato una costola indivisibile dal corpo della marca. Volkswagen, Audi, Volvo, Mercedes, BMW si riflettono nei loro messaggi commerciali come dentro uno specchio. E non vale rilevare che il progetto di un’immagine univoca e consistente nel tempo è inapplicabile alle case “generaliste”: la gamma Volkswagen è non meno varia di quella della Fiat o della Renault, contiene diverse categorie di modelli e anch’essa si rivolge a diverse fasce di pubblico.

La comunicazione della Fiat esiste, anzi è debordante, ma va cercata altrove. È nella sua storia e nei giornali (suoi e altrui), non nei suoi poster o nei suoi spot, anche quando questi tentavano (e non sempre avveniva) di ancorarsi al contesto generale. 

Certo c’era un fil rouge tra la cultura futuristico-fascista e l’imponenza ostentata da un artista come Codognato nei suoi tributi alle vittorie nel Gran Premio d’Europa, alla Fiat 509, alla 514. E ancora di più nei manifesti di Mario Sironi del 1934 (Velocità – Primato dell’Italia Fascista. FIAT – Record mondiale velocità assoluta) e del 1937 (Fiat 500 – La vetturetta del lavoro e del risparmio). Il primo si riferiva ai risultati raggiunti dai motori Fiat nella motonautica (Oceania, la motonave passeggeri costruita dalla Società triestina di navigazione Cosulich, poi requisita dalla Marina militare e affondata dai siluri di un sommergibile britannico il 18 settembre 1941) e nell’industria ferroviaria (la gloriosa Littorina). Il secondo associa la 500 alla lupa capitolina e ai suoi figli, Romolo e Remo. Chiusa la parentesi fascista[v], Mario Sironi tornò occasionalmente a prestare la sua mano alla Fiat tra il 1952 e il 1954, con manifesti dedicati alla 1900. Anche De Chirico fornì il suo tributo alla casa torinese, con un lavoro del 1950 per la Fiat 1400.
Manifesto di Plinio Codognato, 1932.

Programmaticamente rappresentativi di questa magniloquenza aziendale sono anche i manifesti del 1928 disegnati da Giuseppe Riccobaldi Del Bavae Giuseppe Romano, accomunati dall’idea di trasformare le quattro lettere di FIAT in strutture architettoniche. Riccobaldi le traduce in pareti d’autosilo, mentre sulla rampa scorrono due berline blu (o la stessa in due fasi del tragitto, secondo i principii dinamici del futurismo). Una specie di trasfigurazione del Lingotto, la cui rampa è «destinata a permettere alle vetture di raggiungere l’aerea pista di collaudo che riesce a stupire addirittura il grande architetto Le Corbusier. Questo manifesto è considerato un capolavoro, così come non meno importante ed efficace dal punto di vista grafico risulta essere quello creato da Riccobaldi nel 1935 per la Fiat 1500 che corre nella notte lungo un’antica via romana.»[vi]Giuseppe Romano compendia in un’unica immagine classicismo e modernità trasformando la sigla FIAT in una fabbrica-tempio d’impatto assiro-babilonese, sormontata da statue grecoromane come negli archi di trionfo; un cielo rosso e giallo produce spirali vorticose come a voler compensare, coi suoi effetti dinamici, la rigida ponderosità dell’edificio; dagli ombrosi meandri della scritta schizza verso l’esterno una flotta di berline e di torpedo dai colori squillanti. Quel che si dice un forte statement, un imperioso think bigche esprime tutta l’autorevolezza acquisita dalla Fiat in meno di trent’anni dalla sua fondazione; un’esibizione di potenza sovrumana, motivata dalla consapevolezza dei risultati ma anche dalle debolezze del sistema (persino allora, nonostante una penetrazione nel mercato nazionale prossima al 90%, i costi erano così esorbitanti da abbassare quella “produttività” che è l’ossessione di Marchionne).

La storia, insomma, si ripete. Già allora l’industria torinese doveva difendersi dall’attacco delle forestiere: soprattutto della Ford e della General Motors; e anche allora dovette premere, come in altri momenti della sua esistenza, sui ministeri dell’economia e della finanza per ottenere misure protezionistiche. Non che il regime fascista fosse particolarmente tenero con il senatore Agnelli e la sua fabbrica; l’Ovra li teneva tutti d’occhio, padroni e maestranze, nel timore che da Torino partissero scintille di rivoluzione sociale.
Mario Sironi, 1937.

Con la patria nel motore


La Fiat di Sergio Marchionne, con la sua convulsa agenda di missioni a Detroit, stop a Termini Imerese, escursioni a Belgrado, referendum interni, evasioni da Confindustria, piani d’investimento e disinvestimento, promesse e ultimatum, fa sorgere un dubbio retroattivo: ma la Fiat è mai stata davvero una bandiera per noi italiani? L’abbiamo mai amata come si amano la mamma e la squadra del cuore? Quanti di noi hanno realmente tifato per lei, negli ultimi trenta o quarant’anni? E lei cos’ha fatto, per farsi amare senza riserve?

Metto il naso fuori e respiro un incessante défilé di Ford, Peugeot, Volkswagen, Citroën, Nissan, Toyota, Opel, Renault, Hyundai – insomma l’atlante mondiale su quattro ruote. Io stesso, da secoli fedele all’automotive italico, ho per la prima volta in vita mia tradito la famiglia per concedermi a una straniera di passaggio: temo di aver ceduto a un irresistibile raptus antimarchionnico. Ma che relazione c’è, se c’è, fra una grande marca e il suo paese?

Nel cuore dei cittadini una marca può certamente aspirare a diventare simbolo di patria, come la bandiera e l’inno nazionale.

IKEA = Svezia.

Swatch = Svizzera.

Per non parlare di Coca-Cola = America.

Ricordo quella volta che mandai ad Atlanta, capitale della Georgia, della Coca-Cola e di Via col vento, tre ragazzacci per un lavoretto sulle Olimpiadi del 1996. Il trio entrò in una cafeteria e ordinò una Pepsi, tanto per vedere come buttasse. Finirono tutti e tre sbattuti sul marciapiede a calci nel sedere, come ubriaconi da saloon ma senza aver bevuto.

Ma sì, anche la Fiat ha inciso tantissimo sul nostro modo di essere, di muoverci, di pensare; soprattutto negli anni del boom è stata “una dei nostri”, spingendoci – anche se ancora culopezzati – al volante delle sue impavide utilitarie. E poi?

Poi mi è venuto il sospetto che non sia stata una passione travolgente, radicale, reciproca e durevole. Alla prima occasione, milioni di fedeli passavano al nemico. La Fiat avrà anche avuto un gran peso e una gran presenza nella nostra vita, ma forse – o soprattutto – perché era qualcosa di enorme, di tentacolare. Una mera questione di dimensioni. Fosse stato amore vero, i suoi problemi di oggi sarebbero forse meno gravi, almeno sulla scena italiana.

Sì, Fiat è l’Italia, ma a modo suo. E l’Italia cos’è? Tutti credono di saperlo, ma forse non lo sa nessuno. In fatto di automobili e camion, la Germania – a torto o a ragione – sembra essere il più attendibile testimonial delle sue marche. Vale anche per la Svezia e la Volvo: identità matematica tra due espressioni. Nel sentimento comune, l’Italia stava alle auto come Armani all’abbigliamento. Design, bellezza, Giugiaro, Pininfarina, Alfa, Lancia, Maserati. Quanto alla tecnologia: chi può dire di non essere un fan della Ferrari? Ma quando chiedi al tuo vicino perché abbia comprato una Golf o una BMW, ti risponde che la Germania è un’altra cosa.

Le campagne più recenti della Fiat insistono sulla sua e la nostra italianità proprio perché l’italianità della Fiat – intesa come sentimento percepito, radicato, condiviso – è andata da un pezzo a farsi benedire. In uno spot del 2010 c’è un giovane papà che per far addormentare il bebé gli racconta, a mo’ di favola, il piano industriale di Marchionne. «In cinque anni raddoppia la produzione di veicoli in Italia e aumenta l’esportazione», sussurra l’illuso. Che si ripromette di comprare «un’auto italiana». Infine le dichiarazioni istituzionali: «Nasce una nuova fabbrica e appartiene a tutti noi. Fabbrica Italia è il piano industriale del gruppo Fiat. Un cammino da fare tutti insieme per rendere gli italiani di domani orgogliosi di quelli di oggi.» E sull’immagine del tricolore: «Le cose che creiamo ci dicono cosa diventeremo.» Ancora più patriottico, anzi quasi universale data la presenza del Papa e di Madre Teresa di Calcutta, lo spottone del 2007 per il lancio della nuova Cinquecento, scritto da Marchionne in persona. Una specie di remake all’italiana di Think different della Apple, un Think Italian con la partecipazione di Carabinieri e vittime delle Brigate Rosse e della mafia. C’erano dentro tutti: Falcone e Borsellino, il bambino di Nuovo cinema Paradiso, Indro Montanelli, Eduardo De Filippo e Alberto Sordi, Coppi e Bartali...

Patriottismo fuori tempo massimo, che ha dato la stura a una quantità di interventi satirici sui social network. Negli Stati Uniti, approcci analoghi voluti da Marchionne per il rilancio della Chrysler e della Motor Town hanno avuto successo perché più attendibili: lì è stato effettivamente compiuto qualcosa di buono, è risorta la speranza concreta di salvare azienda e lavoro, un’opportunità tale da giustificare qualsiasi impennata retorica e l’umidità dei fazzoletti. Supereroi popolari come Eminem e Clint Eastwood, lungi dal sembrare i soliti mercenari dell’endorsement, davano l’impressione di essere convinti e convincenti supporter di una causa sociale: ridare un orizzonte ai lavoratori e ai cittadini di Detroit e dell’America intera. Sullo sfondo un sostanzioso intervento governativo, il sorriso di Obama benedicente, la sua stretta di mano con Marchionne.

Coca-Cola, per riprendere la similitudine da cui siamo partiti, è molto più America di quanto la Fiat non sia Italia. Da oltre un secolo batte il chiodo dell’American way of life, non tanto con gli slogan quanto con iniziative parallele ai maggiori appuntamenti della nazione. Quando i soldati andavano (e vanno) in guerra, ricevevano (ricevono) cassette di Coca-Cola che valevano (valgono), alla borsa dell’emozione, quanto una lettera da casa. Non era e non è solo un soft drink: era ed è la madre putativa di Santa Claus, la vestale del 4 Luglio e del Thanksgiving Day, l’effervescenza consolatoria dei giorni amari e quella briosa dei giorni speciali. Coca-Cola ha insegnato come si fa a penetrare nei panni e nella pelle del prossimo: non solo con l’advertising, ma con tutto ciò che le ruota intorno – i calendari, i vassoi, i registratori di cassa, i posacenere, le casse spedite ai fronti di guerra, i distributori automatici personalizzati; e specialmente la diffusione, più nei fatti che a parole, di un’idea di prossimità con la vita delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle istituzioni, del paese.

P.B.

(1-Continua)







[i] Valerio Castronovo, Fiat 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano: Rizzoli, 1999.
[ii]Fiat: Una storia del capitalismo italiano, dove la parte già nota viene abbreviata per favorire una migliore circolazione dell’opera.
[iii]Giovanni Agnelli, Torino: Utet, 1971 e Einaudi, 1977.
[iv] Con la collaborazione di Letizia Bindi e un audiodocumentario di 4 CD allegato al volume. Roma-Milano: Rai-Eri e Rizzoli.
[v] Esulano un po’ da questo studio, ma non si possono dimenticare le cartoline di  Gino Boccasile dedicate alle Camicie nere durante il secondo conflitto mondiale. Messaggio: «I 70.000 lavoratori della Fiat, mentre approntano strumenti di guerra, inviano il loro cameratesco saluto ai fratelli in armi.»
[vi] Da Il manifesto Fiat 1899-1965 a cura di A. C. Quintavalle, catalogo della mostra al GAM di Torino del 2001.

La pubblicità Fiat, 2

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La prima parte di questo articolo la trovate qui. L’articolo completo è stato pubblicato nel n. 5 del trimestrale BILL.

 

Cosa può fare la pubblicità per una marca di automobili?

Agenzia: Collett Dickenson Pearce, Londra, 1973 circa.
Risposta: tutto e niente.

I destini delle case automobilistiche italiane, prima e dopo i loro passaggi epocali (Autobianchi, Lancia, Ferrari e Alfa interamente nel gruppo Fiat tra il 1968 e il 1986), sono stati guidati non solo dalla progettualità e dalla politica aziendale, ma anche da giudizi e pregiudizi collettivi che non sempre la comunicazione ufficiale è riuscita a controllare. E qui, sulla parola “comunicazione” riferita al mondo automobilistico, si intreccia una rete di distinguo che non trova analogie in nessun altro settore merceologico.

L’automobile, tanto per cominciare, è già comunicazione. Protagonista di un megaspot che si svolge in diretta sull’asfalto (in Italia anche sul marciapiede), 24 ore su 24, sotto gli occhi di una audiencetotale – senza limiti di età, di censo, di sesso, di provenienza geografica, di religione, di aspirazione, di fascia culturale. Trattasi poi di entità oggettivamente interessante per gran parte della popolazione: le auto trovano opinion maker ad ogni angolo di strada e in ogni bar, privilegio precluso alla massima parte dei prodotti – dai filati ai profilattici, dai reggiseni agli ascensori.

L’automobile è uno dei pochi articoli industriali – forse l’unico – che possa permettersi di occupare pagine intere di giornali e riviste d’opinione, copertine comprese, alla pari coi divi dello spettacolo, dello sport e della politica. I nuovi modelli vengono descritti e recensiti come nessuna réclame potrebbe fare, e sui Saloni si concentra un’attenzione pari a quella di cui godono i giochi olimpici, le sfilate d’alta moda, i festival del cinema. E, a proposito di cinema, può contare moltissimo la consacrazione di questa o quell’autovettura negli inseguimenti di James Bond, nelle storie on the road, così come in film e telefilm di qualsiasi genere che a volte diventano di culto. Il sorpasso di Dino Risi comunica più alfismo e più italianismo di qualsiasi campagna studiata a tavolino per l’Alfa Romeo.
Carl Ally, 1971.

Cos’è che muove il passaparola e decreta il successo di una marca o di un particolare modello? Dubito che la pubblicità sia al primo posto in questo meccanismo, anche se – in certi casi – può dare la spinta giusta. Ciò detto, fa riflettere il fatto che la campagna di advertising più notevole e più citata di tutti i tempi sia stata pensata per un’automobile. Volkswagen, Think small. Che lezione possiamo trarne senza cadere in contraddizione, dopo aver confessato il nostro scetticismo sul ruolo della pubblicità nel settore auto? Le lezioni sono due: una di ordine formale, l’altra di stampo contenutistico. La virtù formale delle campagne Volkswagen sta nella coerenza di stile e linguaggio perseguita per decenni. Ma la lezione primaria sta in un’intuizione di Bernbach valida ancora oggi:

Una marca diventa veramente grande quando la sua pubblicità può permettersi di esprimere opinioni sulle cose che contano.

Bernbach forse non l’ha mai detto, ma lo ha fatto. Howard L. Gossage lo ha detto con altre parole, e anche lui lo ha fatto.

Le campagne italianistiche di Marchionne esprimono, a ben vedere, opinioni sulle cose che contano; ma le esprimono troppo tardi, quando nessuno ci crede più. Nessuno: neanche Marchionne.

Che cosa spingesse gli automobilisti a scegliere una macchina anziché un’altra è un busillis che m’incuriosiva già a vent’anni, molto prima di esordire nella carriera pubblicitaria. Ero magazziniere nella concessionaria Alfa Romeo di Potenza, ai tempi in cui l’Alfa era in joint venture con la Renault e ne produceva le utilitarie su licenza per fare concorrenza alle Fiat. Il concessionario era un uomo d’affari intraprendente, molto popolare nella zona, tant’è che le strade della Basilicata si erano messe a brulicare di Dauphine, Ondine e R4. A ventisei anni suonati, trasferito a Milano da un pezzo, conquistai la patente e comprai una Dauphine di seconda mano con la liquidazione della Mondadori. La trovavo bellissima, una vera berlina a cinque porte, color fumo di Londra; la odiai soltanto quando si mise a danzare un suo sinistro valzer su una lastra di ghiaccio rimasta in agguato primaverile su un tornante per Madesimo, e quando si sollevò letteralmente dall’asfalto sulla litoranea istriana, incalzata dai soffi della bora. Fedele agli affetti, mi consentii più tardi una Renault R8 e subito dopo entrai in una lunga, indimenticabile sequenza di Alfa – Giulie, Giuliette, 164, 166. Ricordo ancora una folgorante headline per la Giulia del 1962, L’ha disegnata il vento: tutto lo spirito Alfa condensato in cinque parole.

Scusate, scusate. Qui si sta facendo modesta filosofia e vano autobiografismo invece di servirvi la storia pubblicitaria della Fiat, come da accordi con Bill. Ma che storia volete che vi racconti? Esiste una Fiat advertising story o ne esistono tante, una per ogni anno e per ogni modello?

Ripartiamo da zero. Anzi da uno (con la u minuscola). Perché almeno un principio vorrei darlo per scontato:

Nella percezione del pubblico, le fortune di un brand non dipendono dalla sola pubblicità, ma da una miscela di segnali trasmessi dall’azienda produttrice e da altre fonti.

Lapalissiano? Mica tanto. Poche sono le aziende che riescono a disciplinare la propria identità, il proprio servizio, la propria reputazione in modo solido e coerente vita natural durante; e che riescono ad armonizzare la propria offerta e la propria voce con le attese dell’opinione pubblica.

Nel caso Fiat, le “altre fonti” sono state, sono e saranno praticamente infinite: si va dalla cronaca economica e politica al bocca-a-bocca spontaneo, dall’amplificazione del dissenso sindacale a quella delle vicende sportive. Più grande è l’azienda, più le voci si confondono nell’aria; e diventa poi assai difficile governare il coro, ricomporre le contraddizioni, rilanciare la propria identità in modo univoco, attraente, credibile. La storia della Fiat e del suo contesto è così complessa, e talvolta drammatica, da cospirare contro le migliori intenzioni dei suoi manager. E, va da sé, anche contro le peggiori.

Il teatro dei poveri


La Fiat è stata ed è costretta a fare continuamente i conti con la situazione del paese. E con la competizione globale, da molto prima che il globalismo assumesse le connotazioni e il nome che gli diamo oggi. La sua storia pubblicitaria è un susseguirsi di episodi a sé stanti, talvolta felici, spesso irrimediabilmente datati: come le pagine e i manifesti che per un lunghissimo periodo, dalla ricostruzione postbellica ai primi anni settanta, occupano spazi con anonime fotografie di questo o quel modello, tra vedute turistiche, famigliole in città o al picnic, modelle ignote e famose (Gina Lollobrigida nella nuova 500, 1957); persino gli artisti cedono volentieri al kitsch e al banale, da Annigoni (Fiat 850, 1964) a Salvatore Fiume (Fiat 126, 1973).[i]Nel frattempo, nelle sale cinematografiche si proiettano filmati promozionali di durata interminabile (talvolta fino ai cinque minuti): mortalmente didattici e noiosi, malgrado la presenza di dive e divi del cinema e del teatro. Oggi costituiscono un prezioso documento sull’Italia del boom e sulla relativa pop culture. La Fiat spiega alle famiglie com’è fatta un’auto, come la si usa, che cosa se ne può fare; il bagagliaio si apre così e serve per metterci dentro la spesa, o le valigie quando si va al mare o in montagna (anche le vacanze di massa erano una novità); e guardate cosa c’è sotto il cofano: un gran bel motore! E qui, lo vedete questo buco? Ci si mette la benzina.
Agenzia Italia BBDO, Milano, 1976 circa. Direzione creativa: Emanuele Pirella, Michael Göttsche. Copywriter: Annamaria Testa. Art director: Bruno Ferlazzo.          

In un cinespot del 1957 per la 500[ii], realizzato tenendo a bada la fantasia come si tiene a bada un doberman, una garrula voce maschile fuori campo recita la sua lezioncina senza omettere nulla: «Eccola, la Fiat 500. È proprio la piccola grande vettura, interessante sotto qualsiasi punto di vista. Graziosa, vero? La 500, s’intende! (ndr: battuta sull’apparizione in campo di una modella sorridente). Potrete guardarla dall’alto in basso e non si sentirà affatto in soggezione. È scattante e veloce e tiene la strada benissimo. Prende pochissimo posto e parcheggiare è facilissimo: appena il tempo di dire 1... 2... e il gioco è fatto! Piccola sì, ma ci si sta bene in una... due... tre... quattro persone. E per una visibilità totale, potete aprire il tetto a piacere, così l’azzurro del cielo vi sarà compagno di viaggio. Ovunque andiate, al mare o ai monti, la 500 vi sarà amica fedele. La 500 è tecnicamente modernissima, economica e maneggevole. Queste le doti che vi faranno entusiasti della Fiat 500.»

Così era la pubblicità nostrana ai tempi di Think small. Per forza: l’Italia non era mica l’America. Le quattro ruote erano state, per oltre mezzo secolo, soltanto roba da ricchi, nonostante i meritevoli sforzi costantemente compiuti dalla Fiat per renderle accessibili ai più. Era finalmente giunto il momento di promuovere davvero ampi strati di popolazione all’automobilismo, e per educarli al grande passo la pubblicità funzionò come un “teatro dei poveri” che sembrava la caricatura capitalista dei Lehrstücke di Bertolt Brecht. Ma non abbiamo il diritto di riderne: gli odierni inserti telepromozionali, quelli che ci assillano coi materassi, gli yogurt, i prosciutti e persino le auto interrompendo ogni sorta di programma tv, sono di gran lunga più primitivi dei loro cineantenati.

I media eccitavano la sete di automobilismo con servizi redazionali e cover story più autorevoli di qualsiasi campagna pubblicitaria, grazie a un instancabile lavorìo di P.R. Basta consultare eBay per accertarsene. Un esempio per tutti: “Epoca” (settimanale allora in voga nella fascia medioalta), data illeggibile, anno 1957: in copertina la 1200 Fiat, rossa, con modella bionda in tailleur blu che sorride mentre si accinge a montare a bordo. Uno strillo promette: «Nell’interno tutti i particolari». La presenza delle auto nei media era talmente invasiva che la Rai di quei tempi, vuoi per comprensibile ritegno, vuoi per ipocrisia democristiana, impediva per regolamento l’accesso a Carosello alle case automobilistiche, già vistosamente gratificate dalla “pubblicità redazionale” nei telegiornali e in trasmissioni ad hoc.[iii]Già nel 1955, quando la pubblicità propriamente detta era ancora del tutto assente dai palinsesti televisivi, la Rai aveva mandato in onda un intero cortometraggio sulla neonata 600, l’auto che sarebbe diventata il simbolo indiscusso del boom economico e del benessere alla portata di tutti.

Contrariamente ad altre marche italiane come Campari, Cinzano, Martini, Olivetti, la Rinascente e Pirelli, la Fiat ha inciso pochissimo – dal 1899 agli anni settanta del Novecento – sulla fondazione di un immaginario visivo basato sulla ricerca grafica e pubblicitaria. Pur essendo la massima espressione dell’imprenditoria nazionale, ha lungamente preferito, in questo campo, cavarsela col fai-da-te e con saltuari ricorsi agli artisti, anche quando altri si affidavano sistematicamente alla sperimentazione colta, al cartellonismo d’autore, all’illustrazione d’avanguardia. Le sue frequentazioni esterne – il già citato Sironi, Dudovich per la Balilla, Nizzoli per i lubrificanti e poco altro – furono occasionali e, sebbene memorabili, non dovettero incidere a lungo sull’immagine pubblica.

Evoluzione della specie: da Brecht a Carl Ally


Nel 1969 la Fiat deve fronteggiare contemporaneamente pesanti problemi interni (una rovente e prolungata stagione di proteste e rivendicazioni sindacali) e il rapporto con l’economia e il mercato mondiale. L’avvocato Agnelli «aveva sottolineato come fosse indispensabile  raggiungere ‘una struttura  industriale più dinamica, con un’articolazione  settoriale e territoriale economicamente motivata’: sia per evitare una ‘progressiva emarginazione’ del sistema produttivo italiano, sia per garantire la ‘sovranità delle nostre scelte future’. Di qui l’importanza che, a suo avviso, rivestiva l’allineamento dell’industria automobilistica alle strategie dei maggiori gruppi stranieri.»[iv]
«I latini hanno un sacco di difetti, ma le automobili le sanno fare.» Agenzia non identificata, 1981.

Non è un caso se proprio in quel periodo la Fiat comincia a guardarsi intorno e a esplorare con minore diffidenza e maggiore curiosità il mondo della consulenza specializzata. E lo fa mirando finalmente ai livelli più alti. Per la pubblicità nei mercati esteri arruola una leggenda della creative revolution: Carl Ally, l’uomo che era riuscito a sferrare il colpo mortale alla provocatoria campagna Avis rent-a-car della Doyle Dane Bernbach.[v]

Ally tratta la Fiat come una marca moderna, brillante, combattiva. Un annuncio diventato di culto presenta Enzo Ferrari accanto a una utilitaria: Mr. Ferrari drives a Fiat, uno degli esempi più appropriati di uso del testimonial. Così il testo: «Il signor Ferrari al quale ci riferiamo è proprio quel signor Ferrari che produce alcune delle auto più veloci e costose del mondo. Per uso personale, invece, guida proprio una Fiat. Non perché creda che una Fiat sia migliore di una Ferrari. Ma solo perché pensa che le macchine che facciamo noi siano più adatte delle sue per andare in giro in città. Comunque, è alquanto illuminante il fatto che fra le tante small carsin vendita in Europa – una cinquantina in tutto – abbia scelto una Fiat. Illuminante, ma non sorprendente, se considerate che in Europa, dove si vendono auto piccole da tre generazioni, le Fiat si comprano più di qualsiasi altra marca. Volkswagen compresa. Tenetelo bene in mente, se state pensando di comprarvi una small car. Dopotutto, in fatto di macchine, è difficile che uno come Ferrari si lasci abbindolare.»
BGS Barbella Gagliardi Saffirio, primi anni novanta.

Un altro annuncio, del 1971, proclama a caratteri cubitali: «Per ogni Volkswagen venduta in Italia, si vendono 8 Fiat in Germania. Per ogni Renault venduta in Italia, si vendono 3 Fiat in Francia. Per ogni Volvo venduta in Italia, si vendono 9 Fiat in Svezia.» Primati che, ahimé, sarebbero durati lo spazio di un mattino. «Dopo lo scioglimento nell’ottobre 1973 del sodalizio con la Citroën, s’era definitivamente dissolta la prospettiva di acquisire la leadership in ambito europeo elevando la produzione al 9% su scala mondiale e al 30% nell’ambito del Mercato comune. Invece che alla trasformazione della Fiat in una ‘grande impresa transnazionale europea’, preconizzata nel 1969 da Agnelli, si stava assistendo da un paio d’anni a una perdita di quota della casa torinese rispetto ai concorrenti stranieri.»[vi]

Ally collabora con la Fiat fino al 1978. Indimenticabile lo spot con lo stuntman Rémy Julienne che compie spettacolari acrobazie con una Fiat 124 – scalinate a tutta velocità, slalom da capogiro fra i Tir, salti da terrazza a terrazza, percorsi tra pozzanghere alluvionali – per raggiungere il porto e balzare al volo su un ferryboat già salpato. Ironica ma rassicurante la frase di chiusura: «Fiat 124. The family car.»[vii](Julienne ne ha fatte di tutti i colori in oltre 1400 film, compresi sei della serie James Bond).

Al nuovo corso, inaugurato nel 1970 per dare smalto alla gamma, partecipa anche una delle agenzie più glam di tutti i tempi, la Collett Dickenson Pearce di Londra: la nave scuola di Alan Parker, John Hegarty, Charles Saatchi e Frank Lowe, tanto per citare qualche nome. Sono targate CDP campagne inossidabili come quelle per i sigari Hamlet, le sigarette Benson & Hedges, la Heineken che «raggiunge le parti dove le altre birre non arrivano». Tra i lavori Fiat della CDP si ricordano soprattutto il poster The new Fiat 132, con un lupo nero travestito da pecora bianca, e il lancio internazionale della Ritmo (ribattezzata “Strada” nei paesi anglofoni) con un lungo spot diretto nel 1978 da Hugh Hudson in forma di documentario industriale: i robot provvedono all’assemblaggio di buona parte della vettura incalzati dalla rossiniana cavatina di Figaro (Largo al factotum). Il claim finale è «Handbuilt by Robots», fatta a mano dai robot.[viii]

Dopo anni di servizio interno supervisionato da Alberto Beccaria e tutelato da Maria Rubiolo, la nuova Fiat comincia a dotarsi di una vera e propria struttura organizzativa dedicata alla mediazione fra le istanze del marketing e l’offerta creativa esterna. Oddone Camerana, intellettuale e scrittore imparentato con gli Agnelli, con l’aiuto del prezioso braccio destro Eugenio Trucchi provvede allo sviluppo di una rete di consulenze creative che segnano – verso la metà degli anni settanta – una svolta radicale rispetto alla dimessa politica dell’home made. In Italia entra in campo Emanuele Pirella (Italia BBDO) con il partner Michael Göttsche e una compagine di brillanti collaboratori: Annamaria Testa, Lele Panzeri, Enrico Radaelli, Bruno Ferlazzo, Daniele Cima... Il linguaggio della Fiat diventa leggero, cordiale, persino divertente: la 126 Personal, Amica della città, in un annuncio stampa si presenta come «1a assoluta nel rally: ‘Casa, ufficio, scuola, negozi e ritorno’.» Nel 1978 Annamaria Testa spara un claim, L’evoluzione della specie, che sembra attagliarsi non solo al lancio della Ritmo assemblata dai robot ma anche al nuovo corso della comunicazione intrapreso dall’azienda.

Curiosamente è in Francia che l’italianità della Fiat diventa un tema portante della pubblicità, ed è proprio la Ritmo a fornire lo spunto per una campagna snobisticamente altezzosa nei confronti degli italiani. In un annuncio stampa del 1981 il modello S85 è affiancato a una Ferrari, e il titolo recita: «Les Latins ont beaucoup de défauts, mais ils savent faire les automobiles.» (I latini hanno un sacco di difetti, ma le automobili le sanno fare.) Non proprio politically correct, ma appunto per questo simpatico ed efficace. In un altro pezzo della serie, dedicato alla Ritmo Abarth, la vettura troneggia su un capitello e sullo sfondo guizzano i fulmini di Giove: «Les Dieux de l’automobile ne seraient-ils pas Latins?» (Non sarà che gli dei dell’automobile sono latini?). Un approccio che la dice lunga sulla nostra reputazione in Gallia, nel bene e – soprattutto – nel male. Gli autori, insomma, fingono di stupirsi delle nostre virtù tecnologiche, e usano la leva della cattiveria e del pregiudizio per rendere più credibile la qualità del prodotto. Tra le righe si legge: se ve lo diciamo noi, che consideriamo i latini degli emeriti cialtroni, potete fidarvi. Ma di notevole, in questo caso, non c’è solo la provocazione: c’è che la Fiat di quegli anni l’ha approvata, in barba alle sue consuetudini fin troppo prudenti in fatto di pubblicità e mostrando a sorpresa un coraggio mai visto prima.

Ma facciamo un passo indietro e torniamo agli anni settanta. Come e più del solito, l’azienda ha un’infinità di gatte da pelare. Patate bollentissime. Qualcuna a caso: la “violenza proletaria”; l’assedio del terrorismo; la crisi economica, gravissima anche allora; il difficile dialogo con le forze politiche al potere (Umberto Agnelli “rompe” con la Democrazia Cristiana dopo esserne stato un senatore, deluso dall’eccessivo conservatorismo del partito); i crescenti handicap rispetto ad altre case europee... «Lo slogan ‘La volontà di continuare’, inventato da Maurizio Costanzo, era un urlo disperato. La Fiat era sola. I politici avevano già tante angosce: crisi economica, terrorismo, guerra fredda, povertà e arretratezza nel Nordest e nel Meridione, ci mancava solo la Fiat. E poi che la Fiat fosse in crisi nessuno ci voleva proprio credere.»[ix]

Siamo nel 1977 quando l’Italia BBDO comincia a pubblicare sui giornali annunci istituzionali sul tema strategico della “volontà di continuare”. L’appello all’italianità si fa ricco di promesse e pressante, come in tutti i periodi neri della Fiat story: «Domani. Su questa parola, nel 1977 la Fiat investirà mille miliardi.», «Fiat vuole che ‘know how’ diventi una parola italiana», «Oggi un’azienda non può permettersi di sprecare nemmeno una lira. Per questo Fiat investe 200 miliardi all’anno in ricerca e sviluppo.», scrive Annamaria Testa in pagine di quotidiano che mettono in luce i progressi tecnologici raggiunti negli undici settori di produzione dell’azienda. Ma la pubblicità, anche la più illuminata, deve continuare a scontrarsi con la crudezza del contesto. Nel settembre del 1979, tanto per dirne una, un commando di Prima Linea esegue l’assassinio di un dirigente, l’ingegner Carlo Ghiglieno...

Gli anni ottanta – dopo le grandi manovre sperimentali del decennio precedente – si aprono all’insegna di una più convinta apertura alle agenzie. L’episodio Forattini rimane un tentativo isolato di riprendere le vecchie abitudini. Fiat Auto instaura relazioni più profonde e durature con la CGSS di Torino (già presente nel paneldei collaboratori per lavori below-the-line e per consulenze ad altre aziende del gruppo), con la Canard di Torino per i marchi Autobianchi e Lancia, con la Benton & Bowles (poi DMB&B) per la Uno e la Ritmo, con la Conquest per l’Alfa Romeo. Altre agenzie si occupano dei Lubrificanti (BJKE, Lintas, Feeling) e di Iveco, dotata di una struttura di marketing e comunicazione totalmente separata da quella di Fiat Auto. Per Iveco ho lavorato anch’io (l’agenzia era la BJKE) con Giorgio Tramontini, e il mio riferimento era il designer Gianni Brunazzi, prima interno all’azienda e poi titolare di uno studio indipendente.
“New Stilo. Now with satellite tracking”, 2007. Agenzia: Leo Burnett, Brasile. Direzione creativa: Ruy Lindenber. Copy: Guilherme Facci. Art: Paulo Areas.

Con le campagne realizzate negli ultimi trent’anni dalla CGSS (poi BGS), dalla DMB&B, dalla Leo Burnett (dal 1992), dalla Impact & Dolci Biasi, dalla Armando Testa (Lancia, dal 1992), dalla Burnett BGS e, più recentemente, dalla Red Cell e dalla 1861united (Alfa Romeo), dalla Saffirio Tortelli Vigoriti alla “creative factory” interna Independent Ideas e altre ancora, la comunicazione della Fiat, comprese le più recenti iniziative sul web, rafforza – tra alti e bassi – la sua statura di big investor nel mainstream della pubblicità moderna. Le idee fluttuano entro una gamma di qualità piuttosto larga, ma le esecuzioni sono quasi sempre eccellenti; basti scorrere la lista dei registi, scelti sempre fra i più interessanti del momento: da Enrico Sannia a Massimo Magrì, da Barry Myers a Bill Hudson, da Dario Piana a Michel Gondry. I tre spot Tipo del 1988 (CGSS)[x]rimettono in gioco l’Italia come major player nell’arena dell’industria automobilistica europea, nel solco delle provocatorie campagne comparative di Carl Ally. In uno dei tre episodi la Tipo supera le prove più impegnative di un collaudo su pista bagnata, ma i tecnici non ne sono affatto felici. Per forza: appartengono alla concorrenza tedesca. La campagna vince premi dappertutto, compresi un bronzo a Cannes e un grand prix dell’Adci; e ha influenzato persino la mia vita, perché è stato uno degli argomenti più convincenti per farmi decidere di entrare in partnership con la CGSS e fondare, nel 1990, la BGS.

Il 1990 è anche l’anno in cui la Fiat, di solito così austera, cede al piacere di scherzare. Aldo Biasi arruola il regista più ridanciano del mondo, il geniale Joe Sedelmaier, per «Speriamo che sia Fiat», uno spot che prende in giro la povertà dei “modelli base” della concorrenza per promuovere la ricchezza di dotazioni della Uno[xi]. La campagna più famosa di Sedelmaier, quella di Wendy’s contro McDonald’s, con le tre vecchiette deluse dalla quantità di carne presente in un Big Mac, ha fatto entrare la domanda polemica Where is the beef? nel frasario quotidiano dell’americano medio. Come la Garbo in Ninotchka la Fiat finalmente ride, anche se i dolori non sono finiti.

Ma adesso l’azienda è impegnata in una impressionante opera di rinnovamento, sia nel vertice che nella produzione; a due squadre di supertecnici, guidate da Paolo Cantarella e Luigi Francione, è stato affidato «il compito di convertire la Fiat alla lean production. Il modello era quello vincente della Toyota, sia pur non importato tale e quale dal Giappone ma recepito attraverso il filtro dell’esperienza americana.»[xii]La formula giapponese, ricordata con la definizione di “qualità totale”, ispira anche un annuncio stampa voluto da Vittorio Ravà e pensato ad hoc dal sottoscritto: «Nulla è così perfetto che non si possa migliorare.» Vi campeggia un cerchio rosso che allude sia alla bandiera giapponese, sia alla perfezione del circolo. L’annuncio esce una o due volte e viene subito ritirato: l’orizzonte della “qualità totale”, infatti, si va allontanando giorno per giorno dalla visuale. Perché un simile sogno possa compiersi è necessario rivoluzionare l’azienda e le sue pratiche da cima a fondo. I cambiamenti necessari sono di tale portata da concedere poco spazio alle speranze, e men che meno alle promesse.

L’episodio è marginale, ma simbolizza con involontaria esattezza l’eterno conflitto tra le aspirazioni della Fiat, il difficile contesto in cui opera e le sue necessità di comunicazione. La Fiat incarna tutte le contraddizioni di un paese che non ha ancora trovato, e che troverà chissà quando, un humus più favorevole alla cultura del progresso e meno attaccato allo statu quo. Non si può parlare della sua comunicazione astraendola dal contesto. Nel caso Fiat la pubblicità equivale a una ruota di scorta: strumento indispensabile ma umilissimo, destinato a temporanee opere di soccorso e a rientrare, compiuta la sua piccola e provvidenziale funzione, nell’ombra del portabagagli.

P.B.
Progetto di applicazione Fiat Eco:Drive e relativa campagna, Cyber Lion a Cannes 2009 (vedi www.fiat.com/ecodrive/). Digital company: Akqa, Londra. Chief creative officer: James Hilton.





[i] Sulla “Domenica del Corriere” del 30 dicembre 1973, contestualmente a un articolo sui regali natalizi corredato da due disegni inediti di Fiume, esce una pagina per la 126 (Giovanisce il traffico e voi) realizzata dall’artista.
[ii] A lungo il gruppo Fiat produsse in proprio, attraverso una struttura interna denominata Cinefiat, pubblicità per i propri veicoli e documentari sui più svariati settori industriali di sua pertinenza: dall’aeronautica alla siderurgia, dalla motonautica all’ingegneria civile.
[iii] In Carosello non mancava del tutto l’automobilismo, ma era, per così dire, di specie collaterale: tra i primi sketch andati in onda nella trasmissione inaugurale, nel 1957, c’era Un sentimento di sicurezza della Shell con il suo «contributo per la sicurezza nel traffico: Giovanni Canestrini vi parla di guida a destra o guida a sinistra» (direttore creativo Mario Belli, sceneggiatore Giovanni Canestrini, agenzia CPV, produzione Incom, regista Luciano Emmer). Le compagnie petrolifere furono tra i maggiori investitori pubblicitari nell’era della motorizzazione di massa.
[iv] Valerio Castronovo, Fiat 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano: Rizzoli, 1999.
[v] Carl Ally, formatosi alla mitica Papert, Koenig, Lois, fondò la Carl Ally, Inc. nel 1963 (poi Ally & Gargano). La Hertz, che per anni aveva subito gli attacchi pubblicitari della concorrente Avis  (We try harder)perdendo quote di mercato, si rivolse ad Ally verso la fine degli anni sessanta alla ricerca di una soluzione. Ally e il suo straordinario copywriter Jim Durfee sistemarono definitivamente la questione con annunci intitolati: «Da anni Avis vi va dicendo che è solo il n. 2. Adesso noi vi diciamo perché.», «Il n. 2 dice che si dà più da fare. Di chi?», «Hertz ha un concorrente che sostiene di essere solo il n. 2. Non è facile dargli torto.»
[vi] V. Castronovo, op. cit.
[vii] Le fonti consultate ascrivono alla Politecne la produzione dello spot, a Giacomo Battiato la regia e a Dido Mariani la direzione della fotografia. Il team creativo era probabilmente formato da Marty Puris e Ralph Ammirati, autori di molti annunci Fiat della Carl Ally (compreso quello con Ezio Ferrari) e co-fondatori, nel 1973, della Ammirati Puris Lintas.
[viii] Lo spot dei robot è indicativo di quanto fosse spesso determinante l’influenza di tecnici e ingegneri sulla comunicazione Fiat. Altrettanto celebrativo della tecnologia è stato, per esempio, lo spot “Il motore del 2000” per la Fiat Uno Fire nel 1992, con la canzone di Lucio Dalla. Agenzia: Leo Burnett.
[ix] Marco Benedetto, Lingotto story, per www.blitzquotidiano.it
[x] Autori Silver Veglia e Adelaide Giordanengo, direzione creativa di Pietro Gagliardi e Silvio Saffirio, produzione Filmmaster, regia di Ed Bianchi, direzione della fotografia del glorioso Gordon Willis.
[xi] Agenzia Impact & Dolci Biasi; autori Aldo Biasi, Alberto Aimo, Flavio Fumagalli, Paolo Pedrazzini.
[xii] V. Castronovo, op. cit.

L'ora illegale

Torino e Carl Ally

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Ci sono aziende così grandi da non potersi permettere la semplificazione, così annose da rendere impenetrabile l’ombra nei corridoi, così torinesi da tradurre le voci in sussurri, i pensieri in allusioni, la leggerezza in gravità, le alleanze in cospirazione. Per un non-torinese come me l’aria che si respirava nelle stanze manageriali del gruppo Fiat aveva un odore tutto suo: malinconico, acido, vagamente ostile. I sorrisi, sempre beneducati, preludevano non di rado a qualche trappola, di cui non conoscevi con esattezza né il mittente né il movente. La Fiat era ai miei occhi una specie di convento di clausura, con molte suore travestite da funzionari e infinite gradazioni gerarchiche; ad accomunarle c’era solo un pessimismo sottile, liquido e beffardo, espresso con la raffinata prudenza acquisita in decenni di addestramento all’arte della rassegnazione. Varcare la soglia del convento, o dei conventi (ho avuto in sorte di collaborare con varie imprese della Famiglia), mi metteva sempre in un penoso stato d’ansia: per fortuna mi è capitato raramente di dover affrontare la balena da solo, senza la vicinanza e la protezione di torinesi – o almeno piemontesi – di sua vera o presunta fiducia. In Iveco andava meglio: l’interlocutore più diretto mi aveva preso a benvolere per contiguità professionale, esercitando egli stesso, in azienda, un ruolo creativo. Ma era un’eccezione. Altrove, per sentirmi un po’ meno a disagio, dovevo incollarmi come uno scudiero al fianco di tutori accreditati in quei meandri; e neanche questo fu mai bastevole a creare, intorno all’alieno che sapevo di essere, una percepibile corrente di favore. Luca di Montezemolo, di cui mi ero guadagnato la stima professionale ai tempi in cui guidava la Cinzano, mi procurò contatti e contratti col mondo Fiat, negli anni ottanta: l’agenzia per cui lavoravo allora, la Bozell Jacobs Kenyon & Eckhardt, ne ricavò budget importanti, ma io finii in sala operatoria con l’ulcera perforata e la peritonite. Più tardi, all’epoca dell’agenzia BGS, i miei partner di Torino dosarono con estrema cautela i miei contatti diretti con Fiat Auto, sebbene si trattasse del nostro cliente numero uno: li ringrazio ancora oggi per avermi tenuto alla larga dai composti chimici che tanto mi avevano ossidato qualche anno prima. Dopo la gastrectomia non disponevo più di stomaco sufficiente da sacrificare alla Maison delle Ombre. Il dono più gratificante che potessi riceverne non andava oltre qualche bugia detta con grazia, come quella volta che fui presentato al Presidente, durante una cena di gala. Con una calorosa stretta di mano e un sorriso radioso, Gianni Agnelli esclamò: «Finalmente! Mi hanno tanto parlato di lei!» Suonava così musicale, quella bugia, che la ricordo ancora con commozione.[1]
Oddone Camerana, L'imitazione di Carl, Firenze: Passigli, 2002. Il Doppio ritratto di copertina è di Egon Schiele, Neue Galerie der Stadt Linz.

In Fiat ebbi fuggevoli incontri con una persona che appariva persino più riservata e vulnerabile di me. Oddone Camerana, parente degli Agnelli, fu per molti anni a capo dei servizi pubblicitari di Fiat Auto. La sua gentilezza era pari alla sua reticenza, e l’intensità dei suoi silenzi inversamente proporzionale al grado di esuberanza che una mente superficiale si aspetterebbe da un gestore della comunicazione d’impresa. In realtà apprezzavo il suo ritegno, la sua misura, il suo tono di costante e aristocratico understatement, anche se tutto ciò mi rendeva più diffidente e guardingo del solito. I nostri brevi incontri sarebbero nati e morti nel più asettico dei mutismi, se altri accanto a noi, più eloquenti e scafati, non fossero stati bravi ad intrecciare fra loro, anche a nostro beneficio, conversazioni brillanti e baroccamente allusive: briefing o feedback nella sostanza, ma frammezzati ad alate e ridenti escursioni nel gossip, sempre evitando con cura di far nomi e precisazioni inequivocabili, come se sulle scrivanie, al posto dei fermacarte, giacessero pesanti orecchie vive d’elefante, pronte a captare il torbido strisciante in quei discorsi. Camerana presiedeva a quei ludi con sublime distacco, facendo filtrare, di tanto in tanto, esigui indizi di complicità, ma cancellandoli all’improvviso con cenni di body language tendenti all’accelerazione o alla sospensione della commedia in corso. Non ricordo colloqui lineari. Era sempre come se le decisioni fossero state prese altrove (infatti era così) e gli ambasciatori si esibissero in un’antica e garbata danza di corte, con la schiera dei cavalieri che ciclicamente avanza verso le dame per indietreggiare subito dopo. Ad ogni incedere corrispondeva un’affermazione, ad ogni retrocessione una negazione; ad ogni avanzamento l’adesione fedele, anzi deferentissima, alle disposizioni ricevute; ad ogni retromarcia una strizzata d’occhio all’agenzia, come per dire: «Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare.»

Non so se l’innata ritrosia procurasse a Camerana più simpatie o più critiche, più amici o più nemici. Conosco uno solo dei suoi detrattori, il più feroce. Lui stesso.

Uscito dalla Fiat, Camerana si è dedicato alla sua vera passione, la letteratura, ed è uno scrittore ammirevole, probabilmente sottovalutato. Il libro che ho appena riletto, L’imitazione di Carl, uscito dodici anni fa, è il suo acuto e spietato autoritratto. È scritto in forma di romanzo, per depistare più l’autore che il lettore, o meglio per elevare i contenuti della narrazione alla sfera dell’universalità: ma il filtro non inganna nessuno; l’evidenza suggerisce che le vicende e i sentimenti del protagonista hanno ben poco di romanzesco, riferendosi al cento per cento all’esperienza vissuta. Il Carl del titolo è una vecchia conoscenza, anche se indiretta, di tutti i pubblicitari del mondo: Carl Ally, leggenda statunitense dell’advertising e della rivoluzione creativa degli anni sessanta e settanta, titolare della Carl Ally, Inc. e poi della Ally & Gargano, autore di famosi exploit per la Volvo, la Hertz, la Pan American, la Federal Express.

L’imitatore di Carl, ovvero Camerana, nella finzione si chiama Alter, soprannome che la dice lunga sulla distanza che lo separa non solo da Ally e dal mondo intero, ma anche da sé. Schivo ed elusivo fino all’autodisistima, Alter si imbatte per caso nell’Opposto Assoluto, la star di Madison Avenue, e ne subisce il fascino travolgente. Quanto l’italiano è insicuro ed esitante, tanto è impetuoso ed estroverso l’americano: il classico winner consapevole del proprio talento, deciso a trarre massimo profitto e massimo godimento dal successo, proprietario di imbarcazione e aereo personale, disinibito in qualsiasi occasione, schietto fino alla strafottenza. Ally se ne sbatte della torinesità, al contrario di qualsiasi italiano che, capace o incapace di afferrarne il senso e gli umori, venga a trovarsi nella condizione di dover fare i conti col suo peso.
Uno degli annunci più famosi della Ally & Gargano, con un testo di Jim Durfee.

Tra i due nasce un affiatamento nient’affatto scontato, un’amicizia modellata non sull’affinità elettiva ma sul suo esatto contrario. Alter vede nell’americano la libertà di cui si sente inguaribilmente privo, e gli si accosta per scrutare gli ingranaggi che rendono possibile un simile surplus di «energia canagliesco-seduttiva». La curiosità per gli atteggiamenti, i pensieri, le parole e i comportamenti di Carl procede di pari passo con l’autoricognizione introspettiva:

«Gli sarebbe piaciuto far parte della categoria di coloro che erano impegnati  ad essere se stessi, ma finiva sempre per cadere in un mare di complicazioni. E se cercava, com’era successo a Copenhagen, di farle passare come raffinatezze e non ci riusciva, allora diventava improvvisamente un estraneo. Tacendo e mormorando alla maniera dei merli in gabbia e compiendo gesti di assenso ai discorsi che sentiva, raccoglieva più adesioni che se avesse aperto bocca ed era la prova della validità della teoria secondo la quale la sola presenza in società di soggetti come lui era spesso sufficiente ad assicurarne il gradimento.»

Per chi vive di marketing e pubblicità L’imitazione di Carl non è solo un avvincente trattato di autoanalisi, ma anche uno scandaglio nella galassia Fiat e, più in generale, nel problematico tessuto di relazioni che lega, e allo stesso tempo divide, l’impresa e i suoi consulenti “creativi”.

Osteggiato da molti, tollerato da pochi e protetto – con cautela – solo da Camerana e dai suoi collaboratori più diretti, Carl Ally riuscì per qualche anno a piazzare in America, in Europa e (in un caso) persino in Italia campagne spigliate e aggressivamente brillanti, in bizzarra antitesi con il bilanciato tecnicismo descrittivo e inoffensivo del committente. Dalle cucine Fiat, solidamente ancorate alla più dietetica delle gastronomie, sfuggirono raffiche di annunci fortemente speziati, suscitando più dissenso che orgoglio tra le suore: e non solo le torinesi, ma anche e soprattutto quelle dei monasteri di periferia, le consociate o filiali americane ed europee, che Camerana chiama – non so se per fedele ricorso alla nomenclatura aziendale in uso o per puro sarcasmo – “Affiliazioni”.

Carl Ally, del resto, era tutto fuorché un “fornitore”, come il management dell’augusta Casa si ostinava a definirlo e considerarlo per poterlo far fuori alla minima occasione favorevole. Era uno che osava permettersi di suggerire ai vertici della Fiat una joint venture con la Ford, o di tentare – richiesto da Agnelli in persona – il pilotaggio di una difficile operazione di relazioni pubbliche con il Metropolitan Museum (mai attuata per altri motivi). Non era solo il creativo che sappiamo, ma anche un imprenditore con le palle d’acciaio, un businessman abituato a trattare alla pari con i suoi clienti e a imporre le sue vedute. Proprio per questo si procurò in Fiat invidie e nemici d’ogni risma, che gli fecero intorno terra bruciata e resero infine vani gli sforzi di Camerana per tenerlo a galla.

«Dando a molti la possibilità di essere attivi senza l’obbligo di essere dinamici, le grandi organizzazioni di allora, lungi dal risentirne, si avvalevano dell’inerzia di fondo e della necessità di agire a comando sentita da chi era soggetto a impedimenti simili a quelli da cui era affetto Alter. Il quesito che si poneva senza ricevere risposta era sapere quanti fossero quelli come lui e se la psicologia del lavoro se ne fosse occupata.»

Se tale era il clima, si capisce quale trauma provocassero nei ranghi monacali della Fiat le campagne di Carl Ally, delle quali si dà un sommario resoconto qui. Carl metteva nel suo lavoro una grinta da uomo d’azione. Aveva combattuto due guerre (in Europa e in Corea), pilotato cacciabombardieri, guadagnato onori militari, e smessa l’uniforme era diventato l’eroe della pubblicità comparativa, perché vedeva anche il mercato come un campo di battaglia. Questo spirito da John Wayne, corretto tuttavia da una sincera propensione liberal e soprattutto da un superiore equilibrio etico, allarmava i burocrati e i venditori più conformisti (qualcuno arrivò ad accusare le sue campagne di marxismo) ma era esattamente ciò che catalizzava l’interesse di Alter.[2]

Carl Ally, insomma, era non solo l’America ma l’America migliore: non tanto un luogo geografico o la patria del capitalismo quanto una funzione della psiche, agli antipodi di altre funzioni più complesse e più esposte all’effetto logorante delle inibizioni. America! Così brutalmente schietta che un collega e amico americano, rivedendomi a New York dopo l’intervento chirurgico al quale ho accennato, mi domandò ad alta voce e in presenza d’altri: «Per che cosa ti hanno operato? Cancro?»

Nel libro, ricco di aneddoti (impagabile quello della preparazione della campagna antiruggine), c’è anche un rapido ritratto di Amil Gargano, il famoso partner di Ally: un altro che non scherzava in quanto a one-man show. «Sapeva infatti scrivere sceneggiatura e dialoghi, stendere il piano di produzione e dei costi, disegnare la scenografia, scegliere gli attori e i costumi sapendo dove scovarli, comporre la musica, effettuare le riprese, montare, mixare, presentare al cliente la copia lavoro, vendendogliela così da ottenere l’approvazione e, per concludere, fare arrivare alle televisioni le copie necessarie alle uscite programmate sui vari canali. Tutto ciò in grande economia di tempo e di denaro per tutti.»

Il romanzo di Camerana cresce strada facendo e diventa via via più intenso quando si comincia a scoprire che il programma emulativo di Alter (“l’imitazione” del titolo) non dipende solo da una specie di bisogno psicoterapeutico, ma anche dal fatto di aver percepito fin dal primo incontro, in Carl Ally, le doti più insolite, antiretoriche e persino scorbutiche di cui solo sono provvisti i veri maestri di morale.

P.B.




[1]A proposito di Torino e dei suoi doni: una volta andai senza accompagnatori a trovare il giovane brand manager di una primaria industria della città (non Fiat). Scopo della visita era presentargli una proposta creativa per una pagina destinata a una rivista per venditori. Il mio interlocutore balbettò qualche complimento ma sembrava in imbarazzo. Chiese qualche giorno per rifletterci. Questo tipo di temporeggiamenti era ed è piuttosto normale, specialmente nei casi in cui presenti dei progetti a persone autorizzate ad ascoltare e bocciare, ma non ad approvare. Al momento del congedo si aprì in un sorriso e disse, con mia sorpresa, che aveva preparato un regalo per me. Mi pregò di seguirlo in una stanza adiacente, dove prese e mi consegnò una scatola confezionata con eleganza. «Dev’esserci un equivoco», protestai; «è davvero troppo presto per il mio compleanno.» Nella scatola c’era un maglione beige a girocollo, di pregiatissimo cachemire. «Non è per il tuo compleanno ma per farmi perdonare», disse arrossendo; «sto per chiederti di non venire più di persona, ma di mandarmi l’account executive. Ti stimo al punto che mi metti in soggezione e non oso confutare in alcun modo il tuo lavoro.» Il giorno dopo telefonò al mio collega account per bocciare l’annuncio.
[2]Camerana riporta, tra altri, questo aforisma di Ally: «Nel capitalismo l’uomo sfrutta l’uomo, nel comunismo avviene il contrario.»

Design e pubblicità

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Abitare: 40 anni di pubblicità

Questo articolo è uscito sul mensile Abitare n. 432, ottobre 2003.

Abitare nasce in un’Italia che cambia pelle. Il boom economico genera miracoli d’ogni specie. Escrescenze di cemento si addensano agli orizzonti delle città, mentre il cuore del Presente pulsa tra vibrazioni hi-tech, cromature brillanti, oggetti di culto degni del MoMA, dralon, mobili svedesi, Porsche, op, pop. Mina e i cantautori rivitalizzano una canzone stremata dall’Alzheimer. Milano si accende per Strehler e i concerti di Norman Granz. E alla fuga in avanti del paese fa da contrappunto la voce di chi ci mette in guardia da eccessivi ottimismi. Nel 1960 esce La noia di Moravia, nel 1962 La vita agra di Bianciardi. Fellini con La dolce vita, Visconti con Rocco e i suoi fratelli, Antonioni con L’avventura, Risi con Una vita difficile e Il sorpasso, Olmi con Il posto, e Pasolini, Maselli, Rosi, visualizzano in modo indelebile la metamorfosi e le sue inquietudini.
Aleksandr Michajlovič Rodčenko, manifesto di propaganda del libro, 1924.

Se la scena è in ebollizione figuriamoci la pubblicità, specchio attendibile del costume. Proprio in quegli anni raggiunge il climax la contrapposizione tra la noblesse della grafica europea (nelle varie correnti e sfumature) e la logica militare e metodica dell’American advertising, qui sbarcata al seguito di marinese multinazionali. C’è anche chi tenta mediazioni tra l’affiche d’anteguerra e i nuovi tempi. Armando Testa supera il test con un colpo di genio: la sintesi mirabile, quasi zen, del manifesto Punt e Mes, con la sfera e la mezza sfera color rosso sangue.
Radio Brionvega TS 502 “Cubo”, design di Richard Sapper e Marco Zanuso, 1964.

Ma più che convergenze, la grafica degli atelier e la comunicazione orientata dal marketing cercano lo scontro: fra le pagine dello stesso giornale, sui muri della stessa città. Ed è proprio negli spazi dedicati al design, all’architettura, agli arredi – vedi Abitare– che il contrasto si fa più emblematico. Perché, fino a quel momento, era stato naturale per la pubblicità europea andare a braccetto col design e l’editoria: figlia delle stesse tendenze, talvolta degli stessi autori, a partire dal futurismo, dal costruttivismo, dal neoplasticismo. Design e pubblicità avevano attraversato insieme i manifesti del team Rodčenko-Majakovskij, l’agenzia Dongo di Magritte, la Merz Werbezentrale di Schwitters, la redazione di De Stijl, il Bauhaus, la neue Typographie. E a Milano la Campari di Depero e Munari, L’Ufficio Moderno («prima rivista pratica mensile dei sistemi moderni di organizzazione, con speciale riferimento ai problemi di vendita e pubblicità»), lo Studio Boggeri con Bayer, Schawinsky, Carboni.
Marchio Pura Lana Vergine di Franco Grignani, 1964.

Fin dagli esordi, e per almeno dieci anni, Abitare ospita annunci che riflettono i divergenti orientamenti stilistici. Lo studio Confalonieri & Negri osserva mobili (Delitala), cucine (Boffi) e rivestimenti (Chimica Lucana) attraverso la lente estetica dell’allusione. L’assenza di testo accentua gli enigmi di un codice intenzionalmente ellittico; la pagina stessa aspira al rango di invenzione colta e si rivolge al lettore con cortese, elegante distacco. Franco Grignani applica i moduli cinetici dell’optical art a una serie di ipnotici avvisi per Alfieri & Lacroix e la Ceramica Gresparma. Italo Lupi esalta gli aspetti progettuali delle lampade di Carruthers per Fontana Arte, e simula la copertina di un magazine per la collezione Leuka della Molin.
Annuncio Alessi del 1991. Agenzia Pirella Göttsche Lowe.

Al polo opposto, Philips scende in campo con la fonovaligia AG 2009. Nella foto, didascalicamente descrittiva, giovani abbigliati in modo formale ascoltano dischi e sorridono; sullo sfondo si nota una racchetta da tennis, indizio inequivocabile, nel 1962, di uno status elitario. Messaggio à la Madison Avenue, forse banale ma fondato su solide investigazioni motivazionali.

Un terzo modello di comunicazione, del tutto privo di accensioni e durissimo a morire, si limita a esporre un prodotto, un logo e un indirizzo: tributo asettico e atemporale di nove mobilieri su dieci al proprio catalogo.
Annuncio Cassina per la poltroncina Barrel di Frank Lloyd Wright. Agenzia D’Adda Lorenzini Vigorelli BBDO, 2003.

Gli autori di formazione elvetico-germanica e quelli delle agenzie internazionali si guardano talmente in cagnesco da provocare, negli anni Settanta, una frattura all’interno dell’Art Directors Club. Oggetto della contesa: l’ingresso nell’associazione dei copywriter, osteggiato dai primi (inclini a un orgoglioso isolamento) e caldeggiato dai secondi (allenati al lavoro d’équipe). Nel frattempo spira aria nuova in agenzie come la Young & Rubicam, creativamente diretta da Jeffrey Tucker[1]e fucina di talenti come Emanuele Pirella e Michele Göttsche; la Troost e la CPV, dirette in periodi diversi da Luigi Montaini; e le nascenti filiali della TBWA, della GGK, della DDB. A queste maisons si deve un diverso uso del testo, spesso ironico e spiazzante, talvolta corrosivo.
Dall’alto in basso. A sinistra: annunci Vetroflex di Erberto Carboni, anni ’60; Salone del Mobile, 1962; laRinascente, art director Adriana Botti, 1967. A destra: Tecno, 1962; Candy, studio Staff, 1968; Scic, di Franco Maria Ricci, 1968.

Per un paio di decenni, prima che un’acritica infatuazione per la tv sottraesse pensiero e ricerca all’evoluzione della pubblicità stampata, sulle marche dell’arredamento e dell’interior design si concentra la crème del talento professionale. Fra il ’68 e il ’79 spiccano campagne come quelle per Brionvega (Young & Rubicam), Arflex (Studio Iliprandi), Alessi (sempreverde di Pirella e Göttsche, con la collaborazione di Enrico Radaelli, Roberta Sollazzi e altri). Proprio per Alessi, Aldo Tanchis scrive nel 1984 una headline, “La storia dell’arte è fatta di disobbedienze”, che ben si attaglia anche alla storia della pubblicità. La tesi trova sistematiche dimostrazioni nelle idee della STZ (Suter Tschirren Zucchini) per Boffi, Bosch, B&B, iGuzzini. Di Fritz Tschirren è anche un non dimenticato avviso per questa rivista; la parola ABITARE vi campeggia composta da mobili e arredi leggibili anche come segni alfabetici.
Dall’alto in basso. A sinistra: Vortice, art director Fritz Tschirren, STZ, 1980; Merati, art director Michele Provinciali, foto di Ennio Vicario, 1968. A destra: Pino Tovaglia per la Rai, 1971; Gabbianelli di Italo Lupi, 1982. In basso: Abitare di Fritz Tschirren, STZ, 1982.

Fra gli Ottanta e i Novanta, belle pagine di Gavino Sanna per le moquette Louis de Poortere (Benton & Bowles, testi di Milka Pogliani), Artemide (Young & Rubicam, testi di Gaspare Giua), Graniti Fiandre (idem) e Iris Ceramiche (idem, con la collaborazione di Francesco Rizzi). Daniele Cima e Renata Prevost citano Frank Lloyd Wright, Adolf Loos e Henry van de Velde – “Nessun ornamento è valido se non si inserisce organicamente nel tutto” – nella campagna per i divani Elam (Centrokappa). Pure di Centrokappa è un ispirato lavoro di Raymond Gfeller, Max Casalini e Pino Pilla per Kartell, “Facciamo progetti per il presente”. Ugualmente esemplari le pagine per Bassani Ticino (agenzia Alberto Cremona, autori Lorenzo Marini, Pino Pilla, Alessandro Petrini, altri) e le “tappezzerie tipografiche” di Felix Humm ed Elio Bronzino per Molteni & C. (agenzia FCA/SBP).
Dall’alto in basso: Cucine Boffi, art director Fritz Tschirren, copywriter P. Barbella, STZ, 1979; Elam, art director Daniele Cima, copy Renata Prevost, agenzia Centrokappa, 1982; B&B, art director Fritz Tschirren, STZ, 1988.

Alla seconda metà dei Novanta risale una campagna Cassina della BGS (autori Barbella, Greco, Pettinari): foto e testi smitizzano prodotti vissuti come troppo elitari. Di Cassina si occupa, dal 2002, la D’Adda Lorenzini Vigorelli BBDO, con i mobili che scendono letteralmente “in piazza” in nome di una nuova libertà di arredamento. Una possibile apertura ai prossimi quarant’anni di pubblicità su Abitare.

P.B.

Dall’alto in basso: Louis de Poortere, art director Gavino Sanna e Cesare Guidi, testo di Milka Pogliani, Benton & Bowles, 1980; Cassina, art director Letizia Pettinari, copywriter Roberto Greco, BGS, 1995; Rex, agenzia Verba DDB Needham, 1995.


[1] Non sono sicuro al 100% che si chiamasse così. Si gradiscono conferme o interventi correttivi. Grazie.

Dal Bronx a Mad Avenue

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In questa foto George Lois somiglia al Cary Grant di Intrigo internazionale. Curioso, perché l’attore vi interpretava il ruolo di un pubblicitario: intelligente ma superficiale, tutto il contrario di Lois.

Per una di quelle irragionevoli ambizioni che bruciano il sonno a tanta bella parte dell’umanità, Steven si è messo in testa di fare il copywriter. Giovane ebreo del Bronx, sogna di sfondare in un’agenzia di Manhattan:

«A ventun anni avevo deciso che il lavoro più fantastico del mondo era fare il copywriter in città e scrivere le pubblicità di viaggi che comparivano sulla rivista Esquire: gente colta che sorseggiava cocktail in ambienti elegantissimi. Avrei avuto l’aspetto di un pubblicitario, parlato di pubblicità, avrei impersonato la pubblicità, e i ragazzi ricchi che venivano da università come Yale e Dartmouth non avrebbero avuto nulla in più di me. Sarei entrato a far parte del loro mondo. Sarei uscito dal mio quartiere.»

Steven mette insieme un portfolio di esercitazioni, compra un cappello grigio «modello copywriter» e parte speranzoso all’assalto di Madison Avenue. Scrive a trentasei agenzie ma riesce a rimediare solo due colloqui, uno più deludente dell’altro.

L’impiegato di un centro di collocamento gli spiega con franchezza come stanno le cose: «Cominci con due punti di svantaggio, Robbins. Vieni dal City College. I pubblicitari si fidano soltanto di quelli come loro.» E, purtroppo, non c’è posto nelle uniche due agenzie di New York che assumerebbero un ebreo: la Grey e la Doyle Dane Bernbach. Le altre «vogliono gente che viene dal club»: tipi giusti che giocano a tennis o a golf, non a basket; bianchi-anglosassoni-protestanti laureati negli atenei dell’Ivy League e vestiti dai Brooks Brothers.

Respinto dalla serie A dell’advertising, il ragazzo del Bronx ripiega su un campionato considerato inferiore (ai suoi tempi non ci sono né la Chiat/Day né altri scintillanti stadi di periferia). A denti stretti scende in California, assunto da un’agenzia di Los Angeles in cerca di un «newyorkese autentico».

Passano gli anni, fa carriera, diventa un direttore creativo di successo. Nel frattempo, a New York le cose sono cambiate drasticamente: «Nei primi anni sessanta alcune agenzie più piccole avevano cominciato ad assumere greci, italiani ed ebrei come grafici e copywriter, e queste prime persone riuscite a penetrare nell’ambiente avevano fatto colpo producendo un lavoro più creativo e più fresco del solito materiale di base prodotto ormai da tanto tempo dalla vecchia guardia. Dopo un po’ anche le agenzie più importanti avevano seguito la tendenza e assunto gente di vari gruppi etnici.» Una di queste fa ponti d’oro a Robbins per la «freschezza di approccio che ci piace. Uno stile californiano.»

Steven Robbins non esiste nella realtà. È il protagonista di The Old Neighborhood, un romanzo di Avery Corman del 1980.[1]Ma lo scrittore mostra di conoscere fin troppo bene il mondo della pubblicità americana: com’era prima della creative revolution e come ne fu trasformato. E se gli esordi del suo copywriter ebreo, nato nel Bronx nel 1934, sono così irti di ostacoli, provate a immaginare quelli di William Bernbach, che nel borough di Robbins ci era nato più di trent’anni prima.

Spesso la letteratura riesce a illuminare le svolte della storia e del costume in modo più incisivo di quanto possa fare un’intera biblioteca di saggistica specializzata. Il romanzo di Avery Corman ci ricorda che la rivoluzione creativa di Bernbach, George Lois (anche lui del Bronx) e compagni non fu soltanto stilistica, ma anche e soprattutto sociale[2]. Una vertiginosa ascesa della meritocrazia contro pregiudizi di classe e privilegi di sapore razzista. La serie di manifesti DDB intitolati «Non è necessario essere ebrei per apprezzare il pane Levy’s» è una risposta ironica e orgogliosa all’antisemitismo dilagante. Senza proclami teorici declamati ai quattro venti, Bernbach usa l’arma che gli è congeniale, la pubblicità, per rendere onore a quella società multietnica senza la quale il Nuovo Mondo non esisterebbe nemmeno.

La rivolta più paradossale della storia, fatta a colpi di headline e body-copy anziché a colpi di ghigliottina o di tritolo, è comprensibilmente nello spirito dei tempi e fiancheggia rivendicazioni espresse in modo più doloroso e diretto. Sono gli stessi anni di Martin Luther King e Malcolm X, dei fratelli Kennedy, dei riotsa Detroit e altrove, insomma delle battaglie per i diritti civili di tanti cittadini cui non è concesso di condividere, con gli ariani, nemmeno gli autobus e gli orinatoi.
La copertina di Esquire creata da George Lois nel settembre 1965 compone l’identikit dell’eroe ideale dei giovani americani di quegli anni con i volti di Bob Dylan, Malcolm X, Fidel Castro e John Jennedy. Il secondo e il quarto erano già morti, Castro è riuscito a scampare a diversi attentati. 

Che la pubblicità migliore e la critica sociale procedessero allora di pari passo si coglie a colpo d’occhio nel lavoro di George Lois, attivo non solo nelle stanze della réclame ma anche in quelle redazionali. Superbe le copertine di Esquire, sintesi visive di pensiero etico e politico concepite con magistrale competenza da art director. «I messaggi di Esquire», secondo James Wolcott di Vanity Fair, «non erano propriamente provocazioni da agit-prop. Troppo sofisticati per funzionare come segnali di protesta.Lois lanciava palle di neve cariche di messaggi sovversivi, ma voleva che il loro contenuto drammatico innescasse il dibattito anziché il consenso passivo.»
A Dallas Lee Oswald, presunto killer di John Kennedy, viene ucciso da Jack Ruby sotto il naso della polizia. Un servizio di Esquire ritorna su quei fatti quattro anni dopo: ecco come Lois interpreta la cover story.

Sia pure con modalità completamente diverse, l’accoppiata Pubblicità & Protesta torna a esprimersi nel mondo contemporaneo, specialmente nei luoghi politicamente caldi del pianeta. A proposito della Primavera Araba scrive Imma Vitelli: «Era il 2005, e in quel caso la circostanza casuale, l’incidente della Storia, che fece di singoli individui una folla, fu l’assassinio di un ex premier, Rafiq Hariri. Per settimane, piazza dei Martiri a Beirut si riempì della febbre dei libanesi, che alla fine vinsero la battaglia e mandarono a casa i siriani, che occupavano da trent’anni il loro piccolo paese. A colpirmi, i primi giorni, furono le immagini sofisticate della rivolta, le spille e i manifesti e le sciarpe e le magliette, brandite dalle signorine altolocate di Ashrafieh in piazza con i cagnolini e le filippine al seguito. Feci una ricerca, e scoprii che a organizzare l’intifada, i suoi slogan, i suoi loghi, a dare una forma laccata a ciò che era una genuina rivolta di popolo era intervenuta una nota società di marketing, la Saatchi & Saatchi»[3]. Il trimestrale Bill ha pubblicato nel suo primo numero un ampio servizio sulla pubblicità nei paesi coinvolti nella Primavera Araba.

P.B.

Malcolm X a trentanove anni, ripreso il 26 marzo 1964 prima di una conferenza stampa di Martin Luther King. Manca meno di un anno al suo assassinio (21 febbraio 1965). Quello di King avrà luogo il 4 aprile 1968.



[1]Pubblicato anche in Italia, da Bompiani, nel 1981 con il titolo Il vecchio quartiere. Il romanzo più famoso di Corman è Kramer vs. Kramer (1977), da cui furono tratti adattamenti per il teatro e il cinema. Il film sceneggiato e diretto da Robert Benton (1979), con Dustin Hoffman e Meryl Streep, portò a casa cinque Oscar.
[2]Vedi quiper una sintesi storico-sociale del fenomeno. Per approfondire: Mara Mancina, Bill Bernbach e la rivoluzione creativa, Milano: Franco Angeli, 2007.
[3]In Tahrir – I giovani che hanno fatto la rivoluzione, Milano: Il Saggiatore, 2012.

Mappa del labirinto

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Dal 31 maggio 2013, data del mio esordio come posteggiatore di post, questo caffè virtuale si è andato riempiendo di voci, quasi tutte mie. Gli avventori potrebbero trovare avventuroso orizzontarsi razionalmente nel labirinto di titoli e argomenti che intasa ormai il Dixit. Speranzoso di agevolare la navigazione, tento qui un parziale sommario delle tappe, assortite per tema principale. Cliccate dove vi porta il dito. Grazie.

Maurits Cornelis Escher, Relatività, litografia, 1953.
Arte
 
Agnolo Bronzino
Alberto Burri
Architettura
Arte africana e afroamericana
Diego Velázquez
El Greco
H.R. Giger
Henri Matisse
Lucian Freud
Ron Mueck
 
Cause civili
 
Antimilitarismo
Civiltà multietnica
Grandi navi a Venezia
 
Cinema          
 
250 biopics
Catene (Raffaello Matarazzo)
Cesare deve morire (Paolo e Vittorio Taviani)
Cinema e pubblicità
Django Unchained (Quentin Tarantino)
Drive (Nicolas Winding Refn)
...E ora parliamo di Kevin (Lynne Ramsay)
Hitchcock (Sacha Gervasi)
Il grande Gatsby (Baz Luhrmann)
Il ladro di Bagdad (Ludwig Berger, Michael Powell, Tim Whelan)
L’amore (Roberto Rossellini)
La grande bellezza (Paolo Sorrentino)
Mazzacurati e dintorni
Pietà (Kim Ki-duk)
Reality (Matteo Garrone)
Rothko (Carl Hindmarch)
 
Fotografia
 
Magnum Photos
 
Libri
           
Arthur Rimbaud
Charles Baudelaire
Gli asparagi e l’immortalità dell’anima (Achille Campanile)
I pascoli del cielo (John Steinbeck)
Il futuro è adesso (Giorgio Triani)
Il nostro quartiere (Avery Corman)
Il resto è rumore (Alex Ross)
L’Avversario (Emmanuel Carrère)
L’imitazione di Carl (Oddone Camerana)
La letteratura è resistenza (Premio Chiara)
Moby Dick (Herman Melville)
Oscar Wilde
Ottagono (Pasquale Barbella)
Per amore, solo per amore (Pasquale Festa Campanile)
Pubblicità segreta (Pasquale Barbella)
Raccontare Milano (Pasquale Barbella)
 
Musica
 
Cole Porter
Cuba
Ennio Morricone
Father and Son (Cat Stevens)
Fenesta ca lucive (Trad.)
Frank Zappa
Gloomy Sunday (Rezsö Seress)
I’ll Be Seeing You (Sammy Fain)
Jazz
La traviata (Giuseppe Verdi)
Leoš Janáček
Lou Reed
Maurice Ravel
Musica del Novecento
Odio e lacreme (Nino D’Angelo)
OK Computer (Radiohead)
Pascal Comelade
Survival (Bob Marley)
You’ll Never Walk Alone (Richard Rodgers)
 
Politica e società
 
Berlusconi
Catastrofe della logica
Degrado e corruzione
Disoccupazione
L’Italia e le donne
L’Italia e le donne 2
Odonomastica
 
Pubblicità e marketing
 
Absolut Vodka
ADCI Annual
Alfa Romeo
Arte e pubblicità
Benetton Story
Carl Ally
Copywriting
Dal Bronx a Madison Avenue
Fiat Story
Howard L. Gossage
Luigi Montaini
Marketing e sponsorizzazione
Olivetti Story
Procter & Gamble
Pubblicità e cambiamento
Pubblicità e immigrazione
Pubblicità segreta
Sessismo e pubblicità
 
Scienze
 
Astrofisica
 
Umorismo
 
Coccodrillo preventivo
Il Duomo di Tartaglia
L’autunno del patriarcore
Madonna Santanchessa
Matteo e Silvio
Nepoti di Mubarak
Poemetto licenzioso
 
Viaggi
 
Sì, viaggiare



Memorie di un copywriter

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Questo testo è stato pubblicato nel libro Bill Bernbach e la rivoluzione creativa di Mara Mancina, Milano: Franco Angeli, 2007.

Bill Bernbach: il più amato, il più tradito


I.

Il sigaro era cubano. La faccia di Chicago. L’accento barese, ma non estremo come quello del mio compaesano Lino Banfi. Una specie di Al Capone, però su un fisico alto e imponente. Si teneva all’erta con il tennis, e ogni tanto gonfiava i bicipiti e diceva: «Senti che muscoli.» Mi soffiò il fumo sul naso e borbottò con voce paterna:

«È proprio vero che te ne vuoi andare?»

«Sì.»

«Non ci credo.»

«Ho firmato.»

«Quando?» (ciglia aggrottate).

«Ieri sera.»

«E perché?»

«Te l’ho detto dieci volte.»

«Spiegamelo per l’undicesima. Oggi sono un po’ tardo di comprendonio.»

«Dai, Luigi. Non è il momento di scherzare.»

Era un terzo grado che ricordo in bianco e nero, come nei film con Bogart.

«Riepiloghiamo. Tempo fa Cottinini ti ha promesso la dirigenza e un pacco di soldi. Poi se n’è scordato.»

«Visto che lo sai?»

«Ma si è scusato del contrattempo, e ha giurato che sistema tutto. Immediatamente. Se questa volta non mantiene la promessa, lo sollevo di peso.»

C’era da prenderlo in parola: Luigi era famoso per certi scatti. In un corridoio della Troost aveva trafitto il piede di un account con un bisturi da esecutivista. Qui aveva mancato per un pelo la testa di un altro malcapitato, bersagliato dal lancio di un pesante posacenere di cristallo.

«Ha giurato di sistemare la cosa solo dopo aver ricevuto la mia lettera di dimissioni», obiettai.

«Embè? Prima, dopo, che differenza fa? C’era un problema. Il problema non c’è più.»

«Lo so.»

«E allora?»

«Vado via lo stesso.»

«Sei scemo?»

«Ho già firmato.»

«È come aver firmato un foglio di carta igienica. Non possono obbligarti ad andare.»

«Sono uno di parola. Ho firmato: niente dietrofront. Farei una figura di merda.»

«Ma non sei contento qui?»

«Mi mancherai.»

«Non ti ho fatto vincere un sacco di premi?»

«Non lo dimenticherò mai.»

«Non è questo il posto migliore che puoi trovare in giro?»

«Garantito.»

«E dove stai andando?»

«Lo sai.»

«Dimmelo un’altra volta.»

«NCK.»

«Devi essere completamente pazzo.»

«Ma di parola.»

«Avrei capito una Young & Rubicam. Ma la NCK!»

«Avevo deciso di accettare la prima offerta in arrivo. Mi avesse chiamato la Young, sarei andato alla Young. Mi avesse chiamato un’officina meccanica, sarei andato nell’officina meccanica. Mi avessero chiamato quelli del Cobianchi…»

Il Cobianchi era la più famosa latrina pubblica di Milano. Stava in un sotterraneo di Piazza del Duomo.

«La NCK! Tempo due mesi, e torni qua di corsa. Non è il tuo ambiente. Non ti faranno uscire un annuncio decente nemmeno se piangi in ginocchio.»

«È una sfida.»

«Una sfida del cazzo. Un suicidio. Tu in NCK non ci vai. Vuoi scommettere?»

«Scommettere che?»

«Che ti faccio cambiare idea.»

«Impossibile.»

«Ti offro una chance che nessun altro può offrirti.»

«Cioè?»

«Un mese di training a New York.»

«Già fatto l’anno scorso.»

«Dove?»

«In Kenyon & Eckhardt.»

«Quisquilie. Io sto parlando della Doyle Dane Bernbach.»

Silenzio.

«Hai sentito? Un mese di training alla DDB di New York.»

Silenzio, sudore, sigaretta.

«Respira. Devi solo dire sì, e io sollevo questo telefono e parlo con un amico della DDB. Uno che conta, culo e camicia con Bill. Gli parlo davanti a te, si decide in diretta. Adesso.»

Secondo i cinici ogni uomo ha un prezzo. Scoprii con orrore di avere un prezzo anch’io. Sentii la mia voce sussurrare:

«Se riesci a mandarmi alla DDB di New York per un mese, faccio marcia indietro. Firma o non firma. Perderò la faccia ma, in questo caso, chi se ne frega.»

«Parla più forte. Non ti ho sentito.»

Alzai il volume.

L’uomo dal sigaro cubano e la faccia di Al Capone era Luigi Montaini, il mio direttore creativo. Il luogo: la sua stanza alla CPV, Corso Europa 2, Milano. L’anno: il 1971. Luigi telefonò in mia presenza alla DDB e chiacchierò per dodici minuti, tutto pappa e ciccia, con un tale dall’altra parte. Forse era il grande Bob Levenson in persona, non ricordo bene. Poi riagganciò con un sorriso largo come dai Navigli al Central Park.

«È fatta. Manca solo l’OK formale di Bernbach in persona e subito dopo si concorda la data di partenza. Prendono gente da tutto il mondo, non dicono di no a nessuno. Figurati se dicono di no al sottoscritto.»

In DDB, Luigi ci aveva lavorato. Prima a New York, poi a Düsseldorf. Per questo, appena tornato in Italia, aveva fatto il botto che aveva fatto. Una rivoluzione. Di quelle incendiarie, che possono cambiare il corso della pubblicità per almeno dieci anni.

«Ma io non posso aspettare il sì o il no. La fine del mese è vicina. Quelli di via Borgonuovo mi stanno aspettando.»

«Te l’ho già detto: è cosa fatta.»

«E se Bernbach dice no?»

«Fidati.»

«Fino a quando? Il tempo stringe.»

«Dammi due giorni. Tre al massimo.»

Bernbach disse di no. Aveva sempre accolto tutti, ma era proprio di quei giorni la decisione di frenare gli italiani. Motivo: la DDB stava per aprire una filiale a Milano. Non aveva senso dare asilo intellettuale a ragazzi di agenzie concorrenti.

Andai in NCK e me ne pentii in capo a cinque minuti, ma questa è un’altra storia.

Luigi Montaini impersona il boss senza scrupoli in un servizio fotografico della rivista Nuovo, 1984.

II.

Flashback. Fino alla telefonata di Luigi, la CPV era stata la migliore alleata italiana della DDB. In assenza di una DDB italiana, era la CPV a occuparsi, d’accordo con l’agenzia-mito di New York, di due clienti storici di Bernbach: Polaroid e Avis autonoleggio. Lavorare con Montaini, e per clienti come quelli, era il mio punto di contatto con Bernbach e con la creative revolution che il maestro aveva scatenato, prima in America e, un po’ più tardi, in Europa.

Avis – quella di We try harder, campagna non meno pugno-nella-pancia di Think small per il Maggiolino Volkswagen – ci lasciava liberi di inventare gli annunci che volevamo, all’unica condizione di attenerci al format internazionale. Per Polaroid era obbligatorio adattare in italiano le campagne stampa, ma la TV era affar nostro. Perché noi avevamo Carosello, due minuti e mezzo di brodaglia in cui far bollire un’idea – una minestra che nessun format pensato altrove era in grado di ingoiare.

Montaini aveva assunto nuovi creativi di sua fiducia, tra cui Neri Pelo, un barbuto pieno di talento che aveva lavorato con lui alla DDB di Düsseldorf. Su Avis, Neri e io lavorammo in coppia e sfornammo in un ristorante, schizzandoli sui tovaglioli di carta, una ventina di annunci concettuali e spiritosi: tutti approvati al primo colpo, sia da Montaini sia dal cliente. I caroselli Polaroid erano tra le cose migliori della CPV persino prima dell’arrivo di Montaini; se ne occupava, insieme al copy di turno, un giovane e brillante producer, Paolo Limiti, che avrebbe poi fatto carriera come sceneggiatore e conduttore televisivo. Grazie all’aiuto di Montaini e di Limiti, i caroselli Polaroid di cui mi occupai sono tra le cose più dignitose che ho fatto in quel periodo.

Ma prima del 1969 non avevo ancora capito niente né di Bernbach né di me stesso. Alla pubblicità ero arrivato nel ’67, con idee confuse e senza crederci fino in fondo. Ero al terzo e ultimo anno di un corso di copywriting. La scuola era patrocinata dalla Campari, le lezioni erano serali e, per due anni e mezzo, le avevo frequentate dopo aver sgobbato tutto il giorno alla Mondadori. A scuola c’erano due docenti di copywriting. Erano alti come pertiche, erano sardi ed erano fratelli. 

Silvio Fadda, il maggiore dei due, dava del lei a tutti. Una sera mi disse:

«Lo vuole un consiglio? Lasci perdere. Questo mestiere non fa per lei.»

Mario, il più giovane, al prossimo dava del tu:

«Cercano un copy nella mia agenzia. Anche se siamo solo a metà del terzo anno, uno come te può farcela. Se vuoi ti procuro un appuntamento.»

Fui assunto. L’agenzia era la CPV, la più grande e rinomata di quei tempi. I Fadda avevano ragione tutti e due. Imparai il mestiere in fretta, come Mario aveva intuito. Ma mi sentivo impacciato e superficiale, un pesce fuor d’acqua, sebbene i capi e i colleghi vedessero in me uno su cui puntare. Quella sensazione di estraneità durò fino a quando Bernbach non fece irruzione nella mia esperienza – attraverso Montaini e, soprattutto, con le sue campagne leggendarie, che in Italia non fummo prontissimi a capire e ammirare.

Nel Sessantasette ero più incuriosito dal Sessantotto che da Bernbach. Anche in questo senso la CPV era una nave scuola, com’era d’uso definirla. Il mio primo capo, una donna bellissima e tosta, militava in un gruppuscolo, come si chiamavano allora i movimenti della sinistra extraparlamentare. Non ricordo se il suo gruppo fosse quello dei marxisti-leninisti o dei maoisti. Il suo Sessantotto era iniziato da un pezzo, da quando aveva lasciato “L’Unità” – giornale che lei considerava di estrema destra. Era stata anche inviata speciale in Algeria, ai tempi della guerra d’indipendenza, e non aveva paura di niente e di nessuno. Le sue scelte erano radicali:

«Meglio scrivere annunci Maidenform che articoli di giornale. I compromessi sono uno schifo.»

«Non è un compromesso lavorare in pubblicità?»

«No, è la situazione ideale per far esplodere il sistema dall’interno.»

Per boicottare il capitalismo arrivava in agenzia alle undici e cominciava a lavorare a mezzogiorno. Nel pomeriggio dedicava almeno un’ora del suo tempo a quella che considerava una ineludibile missione umanitaria: prendersi cura della mia rieducazione. Ai suoi occhi ero un giovane qualunquista con aspirazioni borghesi. Mi prescrisse alcune letture fondamentali, tra cui Comma 22 di Joseph Heller e tre opuscoli del Che Guevara, tutti con la copertina rosso-fiammante. Mi aprì gli occhi sul Vietnam e sulla questione mediorientale (la Guerra dei sei giorni scoppiò proprio al mio ventunesimo giorno di CPV). Era ebrea, ma stava dalla parte dei palestinesi. E soffriva da morire, perché suo padre era “passato per il camino”, a Mauthausen. Si impegnò a rifondare persino i miei gusti musicali, facendomi ascoltare tre volte di seguito un album di Chico Buarque de Hollanda e provvedendo alla traduzione simultanea di Funeral de um lavrador.

Fu un periodo intenso ma breve. Mi dedicai più a Marcuse che a Bernbach. Come copywriter me la cavavo fin troppo bene, ma dovetti affrontare ulteriori tappe prima di essere illuminato da Think small. Passai alle cure di un altro direttore creativo, junghiano convinto. Alla Campari mi avevano fatto studiare non solo Rosser Reeves, quello dell’U.S.P. (unique selling proposition), ma anche La strategia del desiderio del prof. Ernest Dichter, l’impavido motivazionalista viennese. Avevo imparato che le automobili e le saponette sono estensioni simboliche della nostra sessualità, zone erogene in outsourcing. E altre cose fantastiche, una specie di sfuggente pornografia dei consumi che non aveva nulla a che fare con l’ironia, l’understatement e la concretezza di Bernbach.

Per due anni navigai nella corrente, adeguandomi alla cucina della casa: rosseriana, dichteriana e rispettabile, persino prestigiosa. La “rivoluzione creativa” esplose in Italia all’improvviso, quando nel ’69 Luigi Montaini tornò in Italia come direttore creativo di una piccola agenzia, la Troost, e subito dopo fu reclutato in CPV. Montaini sconvolse in pochi mesi il panorama. Riempì giornali, muri e tv di annunci, manifesti e commercial intelligenti, spiritosi, provocatori. Il testo non era più un semplice accessorio dell’immagine, ma il suo metanolo. Insieme, testo e immagine facevano una molotov.

Non ero il solo a essere in ritardo. In Europa la lezione di Bernbach fu assorbita lentamente. Gli americani erano avanti anni luce, ed era già un miracolo, per noi periferici, aver afferrato qualcosa del pensiero di Ogilvy o di Leo Burnett. O di aver acquisito familiarità con i meccanismi della scuola Procter & Gamble.

III.

L’ho presa un po’ alla larga per mettere il dito su due o tre paradossi che riguardano William Bernbach e la sua influenza nel mondo della comunicazione.

Singolare destino, il suo. È diventato l’idolo numero uno di tutti i pubblicitari del mondo per aver smantellato, con il suo lavoro, il mito del primo della classe, della supremazia, della leadership. Maestro nell’uso del paradosso, Bernbach è diventato un paradosso egli stesso, qualificandosi come principe indiscusso della pubblicità ma anche del suo contrario, l’antipubblicità. Nel suo coerente impegno di iconoclasta della réclame, Bernbach ha sistematicamente schivato l’esaltazione acritica dei prodotti che gli venivano affidati, in nome del minimalismo e della reticenza.

Ai posteri ha lasciato solo una manciata di campagne brillanti e il passaparola, guardandosi bene dal concedere scritti o altre testimonianze di prima mano che rendessero meno impenetrabile la sua biografia. Non ci sono misteri sulla sua visione creativa, sulle campagne che rivoltarono come un guanto l’advertising dei suoi tempi e di quelli a venire, ma rimane per molti versi enigmatico l’uomo, se si considera che gli exploit che lo hanno consegnato alla storia della professione fanno parte della sua maturità. Bernbach era alle soglie dei cinquanta quando seminò ammirazione e scompiglio con la campagna Volkswagen, costringendo l’establishment di Madison Avenue a dubitare di tutto ciò in cui aveva creduto fino a quel momento e a sintonizzarsi su una nuova lunghezza d’onda.

Col senno di poi, tutto ciò che precede Think smallvale come esplicita anticipazione delle sue idee; ma la ricostruzione del percorso, soprattutto del tratto di strada che conduce al 1949 – anno in cui, trentottenne, fonda la Doyle Dane Bernbach – è tuttora alquanto impervia, disseminata com’è di lacune più che di rivelazioni.

Un altro dei paradossi di cui sono costellati l’opera e il mito di Bernbach riguarda l’estensione e la profondità della sua influenza. Estensione planetaria, profondità – ahinoi – misurabile in millimetri. L’uomo che tutti i pubblicitari del mondo dicono di aver eletto a proprio maestro continua a essere il più amato, ma anche il più tradito. Dopo la “rivoluzione creativa” di cui è stato massimo propulsore, il marketing e la pubblicità occidentali hanno restaurato, con rare eccezioni, la retorica del think big, dell’iperbole, dell’apparenza, dello stereotipo, del pallonismo, con risultati persino più insulsi di quelli che, a metà del secolo scorso, Bill Bernbach si era trovato tra i piedi. Ma ciò che sembrava perdonabile quando la pubblicità era ancora adolescente, i media non ancora sovraccarichi, la competizione di mercato non disperata come oggi, non trova più alcuna giustificazione, se non in una sorta di diffuso infantilismo, surreale quanto patologico. Altro paradosso: tutti chiedono a gran voce più creatività, tutti ne hanno paura.

Bernbach genio incompreso?

Mah: c’è da chiedersi se esistano geni compresi. Quella che chiamiamo genialità comporta, per definizione e come effetto, infrazioni talmente significative agli schemi ordinari da generare, nello sguardo di chi osserva, reazioni di ebetudine quando non di viscerale rifiuto. Così è stato, in parte, anche per Bernbach. Ma in questo caso – ulteriore paradosso – le parti sono rovesciate. Non è di Bernbach il pensiero complicato: le sue idee sono difficili da concepire, ma facili da comprendere. Mentre è artificiosa la pubblicità convenzionale. Più è vuota, più è artificiosa. Ci vuole del talento per fare della comunicazione decente, e ce ne vuole forse altrettanto per fare schifezze. E allora, perché la maggior parte degli utenti (ma anche delle agenzie) preferisce sguazzare nella discarica anziché darsi da fare in giardino?

Il marketing più conservatore tende probabilmente a considerare intellettuale e formalmente spartana, quasi dimessa, la lezione di Bernbach e dei bernbachiani. Molto cervello e pochi effetti speciali. Fanno eccezione la Gran Bretagna e i paesi culturalmente cugini (ma non gli Stati Uniti, o non più). Eppure Bernbach è meno arzigogolato di una ricerca motivazionale e, soprattutto, dell’abuso che mediamente se ne fa. Il suo occhio mira al concreto, al centro del bersaglio, mentre l’occhio del marketing è spesso più attratto dal contorno, dall’alone, dalle sfumature. E più è nebbiosa la visibilità, più il marketing – con la complicità di ricerche sottilissime sul subconscio del “consumatore” quando sceglie un drink o fa la pipì – si diverte a costruire congetture barocche, monumenti inattendibili alla banalità. Bernbach ci mette in guardia dai trucchi, ma i trucchi sono tuttora l’unica attrazione capace di scaldare i sensi dell’investitore medio. Il quale crede solo nell’idolatria del prodotto: ed essendo privo di senso idolatrare un flacone di shampoo o una bottiglia di aceto, è costretto a giocare le sue carte in una dimensione parallela a quella del mondo reale, un eden farraginoso ed enfatico, fatto di aspirazioni strampalate e di suggestioni oblique.

Bernbach ha scosso lo scenario della comunicazione commerciale facendovi irrompere ciò che mancava: il linguaggio quotidiano, l’esperienza mentale plausibile, l’autenticità dei desideri e dei sentimenti – ovvero le più elementari materie prime per ottenere quella credibilità che tutti gli investitori dicono di cercare. La sua pubblicità non è mai stata elitaria; si è rivolta a tutti parlando delle esperienze di tutti. Comprati un’automobile piccola, ti costa meno e la parcheggi dove ti pare: questa, poi, non ti lascia a piedi nemmeno se infuria una bufera di neve. Abbiamo una notizia deprimente per il tuo bambino: nei nostri magazzini siamo pronti con i quaderni, i libri e le cartelle del nuovo anno scolastico. Se questa bottiglia di scotch è tua la vedi già mezza vuota, ma se è di chi ti sta ospitando è ancora mezza piena. Il nostro principale concorrente è dieci volte più grande di noi; per questo siamo costretti a farci il culo e a farti contento; in più, se vieni da noi la coda è più corta.

La crescente attualità di quella visione è un dato di fatto difficile da confutare. Ai suoi tempi, Bernbach fu un maestro necessario; oggi che non c’è più dovremmo considerarlo un maestro indispensabile. Perché nel frattempo la pubblicità si è attorcigliata sempre di più su se stessa, nutrendosi delle proprie uova – i codici, i vezzi, i gimmick inventati nella sua preistoria. E quanto più pretende di avvicinarsi ai desideri e alle aspirazioni del prossimo, tanto più se ne discosta, ripetendo stancamente i propri cliché e dimenticando l’alfabeto della vita.

P.B.


 

Chiesa e mass media

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Questo articolo è comparso nel 2013 sul trimestrale Bill – Un’idea di pubblicità. Nel frattempo il mio interesse per Papa Francesco e le sue iniziative è andato crescendo. Spero che la sua concezione umanistica, il suo linguaggio e la sua capacità di ascolto e di dialogo possano essere d’aiuto anche ai non cattolici, in un momento storico turbato da vecchi e nuovi conflitti impermeabili a qualsiasi azione diplomatica.

 

Chiesa e messaggio nell’era di San Supermarket


Non è facile, per un inesperto di religioni come me, interpretare i dati forniti dall’ultimo Annuarium statisticum ecclesiae, che danno in leggera ma progressiva crescita il numero dei cattolici nel mondo. Questa sezione del censimento si basa infatti sul calcolo dei battesimi, ma non darei affatto per scontata l’equazione tra battezzati e fedeli ortodossi. Si può essere battezzati e discostarsi in vari modi, anche estremi, dalla fede ereditata alla nascita. Di crisi parla apertamente un acuminato saggio di Bruno Ballardini, Gesù e i saldi di fine stagione[1], sul quale ritorneremo in seguito. Ballardini cita, tra l’altro, un sondaggio[2]del 2010 secondo il quale «la fiducia nella Chiesa è arrivata ai minimi storici: per quanto riguarda la piena fiducia dei fedeli verso l’istituzione, si è passati da un 59,2% nel 2000 a un 47,2% nel 2010; dato ancora più significativo è stato espresso riguardo alla fiducia nel papa, dove si è passati da un 77,2% nel 2003, con Wojtyla, a un secco 46% nel 2010, con Ratzinger.» In netto ribasso anche il fronte delle vocazioni, delle ordinazioni sacerdotali, delle suore.

Stiamo comunque parlando di numeri da capogiro: dai 1.200 milioni di censiti in su, con incrementi in Africa e Asia e una incerta stabilità in Europa. La quantità, comunque, non è garanzia sufficiente di buona salute: quando mi chiedono come sto, rispondo che sono contento di essere magro perché offro meno corpo ai colpi del nemico. L’ipertrofia ha già esposto e continua a esporre la Chiesa alla moltiplicazione di errori, contraddizioni e lacerazioni interne: basti pensare alla congerie di organizzazioni e lobby (Ballardini le chiama «concorrenza interna»), a volte potentissime, sviluppatesi in seno all’istituzione – Opus Dei, Comunione e Liberazione, Movimento dei Focolari, Legionari di Cristo, etc. La Chiesa non parla con una voce sola, e rischia di essere sopraffatta dalle sue stesse filiazioni.
Città del Vaticano, Italia e Argentina hanno salutato con emissioni filateliche l’elezione al pontificato di Jorge Mario Bergoglio.

L’osservatore poco incallito può trarre conclusioni ingannevoli dai due fenomeni che contraddistinguono la comunicazione contemporanea della Chiesa: la prorompente sovraesposizione mediatica a partire dal papato di Karol Wojtyla, e la pronta e sapiente adozione di tutti i nuovi strumenti di comunicazione offerti dallo sviluppo tecnologico. Gli ultimi giorni e le esequie di Giovanni Paolo II ingombrarono i canali tv in modo così esagerato e prolungato da obliterare qualsiasi record precedente. La sua agonia produsse un fenomeno di «accanimento esegetico incentrato sulla sua persona e sulla testimonianza di fede che rendeva a Dio e agli uomini soffrendo in pubblico», per dirla con le parole dello scrittore Antonio Scurati. Nel suo libro Dal tragico all’osceno. Narrazioni contemporanee del morente[3]Scurati si sofferma anche sulla contraddizione fra il senso del sacro e la profanazione mediatica: «la smisurata attenzione cresciuta attorno alla lenta morte di un Papa, la superfetazione dei discorsi di commento, potrebbero apparire come chiari sintomi di una sovracompensazione nevrotica per la dolorosa mancanza di senso religioso.» Riferendosi anche a un altro supershow, le Giornate mondiali della gioventù (GMG) durante il papato di Benedetto XVI (replicate di recente in Brasile con Francesco I), Ballardini rincara la dose: si tratta di «nuove forme di ibridazione fra media e religione, che possono degenerare e condurre unicamente alla desacralizzazione di quest’ultima.»

Il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano dal 2002 al 2011, è stato tra i più fervidi sostenitori della necessità di rinnovamento della comunicazione ecclesiastica, a partire dalle prediche in parrocchia. «Non bastano una bella chiesa, dei ricchi paramenti e un coro intonato per celebrare una buona messa, che riesca a trasmettere alla gente il mistero della fede. Non vi accorgete che le messe domenicali sono sempre meno frequentate? Ci vuole un’alta responsabilità da parte dei nostri preti. I fedeli vanno a messa non per la sontuosità della cerimonia, ma per la capacità del sacerdote di trasmettere cose straordinarie», ebbe a dire in uno dei suoi numerosi interventi sull’argomento.[4]

Nuovi media e vecchie abitudini


Nella sola Italia si contano circa 26.000 parrocchie, ma è difficile dire quante di esse siano effettivamente in linea – dal punto di vista dell’aggiornamento tecnologico – con le aspettative più avanzate delle gerarchie, oggi iperattive attraverso tutti i new media. Il viaggio di papa Bergoglio in Brasile e le contestuali GMG sono stati un megaevento senza risparmio di tweet, dirette streaming, flashmob e quant’altro. Monsignor Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, così risponde a chi si domanda come mai anche il SIR, Servizio per l’informazione religiosa, si sia dotato di un canale YouTube: «Al tempo del Web 2.0, le parole non bastano più per restituire a ciascuno di noi la complessità della vita. Oggi la comunicazione, dicono gli esperti, è sempre più interattiva e convergente. Per non parlare dell’esplosione dei social network che, persino senza volerlo, aggiungono informazione a informazione, opinione a opinione. Come lo fanno? Con le parole, sempre importanti, ma anche con le immagini. Con i volti e con i racconti filmati, con i frammenti rubati alla vita di strada e con le fotografie, con le musiche e le narrazioni più originali, dove la fantasia è padrona assoluta del campo. Dinanzi a tanta ricchezza di vita, fede e comunicazione, il SIR non poteva restare a guardare.»[5]In realtà il cristianesimo ha fondato buona parte della sua cultura anche sulle immagini: si pensi all’architettura religiosa, alla grande pittura, alla scultura. Gli artisti hanno costruito un immaginario del cristianesimo più solido della Chiesa stessa, e certamente più ecumenico: alla borsa valori dell’anima, le azioni di Giotto, Michelangelo e compagni non subiscono nessuna delle flessioni che inquietano le gerarchie religiose, e sono universalmente apprezzate anche da chi cristiano non è.
Noto (Siracusa), estate 2013. Avviso affisso nell’atrio della chiesa di San Francesco all’Immacolata.

A consultare il portale della Chiesa cattolica ci si rende conto di quanto pressante sia diventata, per i suoi dirigenti, l’urgenza di rendere più attuali i metodi di comunicazione. Ai media generici interessano i conclavi, i viaggi dei pontefici, gli scandali finanziari e sessuali e, come s’è visto, la morte; ma la Chiesa è essa stessa un potente sistema di informazione e si esprime direttamente attraverso una miriade di canali diretti (giornali, riviste, radio, web) e di episodi, spesso indicativi di una entusiastica propensione all’apostolato alla moda. Uno per tutti, scelto a caso: «I frati di Assisi hanno piazzato una webcam sulla tomba del Poverello. In due mesi 18 milioni di contatti da 123 Paesi al sito del Sacro Convento; la maggiore affluenza il 2 e il 3 maggio, quando il Papa si è connesso e ha inviato una preghiera.»

Fra tradizione e cambiamento


La Chiesa indossa abiti nuovi e qualche volta il cambiamento è benemerito, se è vero che Ratzinger e il suo successore si sono dati e si danno da fare per moralizzare il chiacchieratissimo IOR e ripulire gli apparati da incrostazioni e abusi di varia natura. In più, papa Francesco ha reintrodotto nei suoi rapporti con l’esterno quel calore umano di cui Benedetto XVI era alquanto carente, e tiene a respingere il più possibile i segni esteriori del potere e i simboli protocollari: francescanamente esalta la povertà e non esita a criticare l’egoismo, la ricchezza, il consumismo. Ma a dispetto di tutto ciò, la sostanza del messaggio centrale della Chiesa resta inflessibilmente immobile. «Se è vero che Francesco ha rivoluzionato molte abitudini vaticane, non tutto è rivoluzionario in questo papa», scrive Stéphane Le Bars su Le Monde. «La sua dottrina globale è identica a quella del suo predecessore, si tratti della morale sessuale, del celibato dei preti, del ruolo delle donne, delle questioni etiche e bioetiche.»

La Chiesa si rivolge a un target talmente vasto e disuguale da non potersi o volersi permettere rinnovamenti o riposizionamenti radicali, anche per non tradire i seguaci più conservatori. Il lavorìo intellettuale delle sue élite è frenetico, talvolta sofisticato e persino affascinante, ma ha l’unico scopo di ribadire e rafforzare, con nuove argomentazioni e sottigliezze teologiche, la quadratura dogmatica di sempre. L’apertura all’ascolto e al dialogo è più proclamata che reale; qualsiasi idea che possa minimamente deviare dal sentiero tracciato viene bollata con l’accusa di “relativismo”, eufemismo coniato per evitare la parola “eresia” e le sue tristi connotazioni storiche a base di inquisizione e roghi.
In Roger’s Version (Knopf, New York 1986 – Rizzoli, Milano 1988), John Updike racconta di uno studente di informatica ossessionato dall’idea di dimostrare l’esistenza di Dio per mezzo di un elaboratissimo software.

Si direbbe che persino le arti, nell’ottica populistica (absit iniuria verbo) della Chiesa, siano oggi viste come cedimenti anziché come modi di cementare un’intesa intellettuale con il pubblico non allineato. Sebbene la storia della musica trabocchi di eccelsi capolavori di musica sacra, alle messe italiane (persino durante le cerimonie funebri) si ascoltano orrende canzoncine di qualità sub-sanremese, non di rado cantate da fedeli stonati e gracidanti, come se la mediocrità delle composizioni e delle prestazioni fosse una superiore garanzia di spiritualità. Una infelice battuta di papa Francesco riportata dai media, «non sono un principe rinascimentale che ascolta musica invece di lavorare», taglia sul nascere qualsiasi speranza di ravvedimento, almeno per quanto riguarda le note, i suoni, le voci.

Da più parti si è fatto notare che la Chiesa ha da tempo preso le distanze dagli orientamenti più avanzati del Concilio Vaticano II, voluto in tempo di guerra fredda da Giovanni XXIII (di cui i devoti sembrano ricordare soltanto la bonomia e la semplicità di linguaggio). Non sono un vaticanista, ma serbo la convinzione che nessun pontefice abbia saputo tentare il dialogo con i non cattolici meglio di quanto abbia fatto papa Roncalli. Dopo di lui il messaggio della Chiesa è ridiventato autoreferenziale, estraneo alle orecchie e al cuore di chi non ne fa parte o sente di non farne parte. Molta Bibbia, molta promozione della fede e del dogmatismo, ma scarsa incidenza sul modo di pensare e di agire della collettività, se non nei casi – invero assai discutibili – di convergenza con fazioni politiche interessate a sbandierare temi delicati come l’aborto o la morte assistita a scopo spudoratamente propagandistico.

In Italia la fine della Democrazia Cristiana dopo mezzo secolo di egemonia politica e culturale poteva essere, per la Chiesa, l’occasione di affrancarsi da ingombranti complicità politiche e rilanciarsi come guida morale super partes. Così non è stato, almeno a giudicare dagli effetti. Abbiamo il paese più cattolico del mondo ma anche, dal punto di vista etico, uno tra i più sconcertanti, volgari e corrotti: il malcostume politico e finanziario sono stati e continuano ad essere più influenti del cristianesimo, e non mi pare che ciò possa essere considerato un successo della Chiesa.

Spiritual shopping


Da un pezzo vado chiedendomi dove sia andato a finire, in questo paese e forse in tutto l’Occidente, il senso del sacro: non questa o quella specifica fede o militanza, né un preciso set di prescrizioni calate dall’alto o da lontano, né tanto meno la moda delle adesioni a culti orientali peraltro intesi in modo sommario e superficiale; ma proprio il sentimento di base, l’impulso che precede qualsiasi scala di valori e ti predispone a scegliere consapevolmente da che parte stare. Il saggio-inchiesta di Ballardini (ammirevole per documentazione, compiutezza ed energia narrativa), prima di passare all’enumerazione e alla descrizione dei principali “concorrenti” della Chiesa, cita una risposta provocatoria quanto illuminante del sociologo statunitense George Ritzer[6]: al supermercato. «Negli Stati Uniti, [...], parallelamente al fenomeno delle Mega-church, le super-chiese che vengono costruite per accogliere migliaia di fedeli, additate come causa principale della “walmartizzazione” della religione (ma oggi drammaticamente vuote a causa della “recessione” religiosa), i grandi centri commerciali vengono vissuti come vere e proprie cattedrali, luoghi in cui si celebra il rito più importante della nostra civiltà: il consumo.»
Città del Vaticano, 1960. Papa Giovanni XXIII durante una benedizione. Foto di Elliott Erwitt (Magnum Photos).

Vengono in mente le intuizioni e le ironie di scrittori come Don DeLillo, che in Mao II[7]descrive un matrimonio di massa (seimilacinquecento coppie nello Yankee Stadium di New York, tutte affiliate alla Unification Church del discusso predicatore sudcoreano Sun Myung Moon), e John Updike, che ne La versione di Roger[8]racconta l’ossessione di uno studente di informatica incaponitosi a dimostrare l’esistenza di Dio con l’aiuto di un elaboratissimo software.

Gli scenari del sacro, insomma, diventano sempre più opachi proprio nell’epoca della loro magnificazione spettacolare. Più li vedi e meno vedi: specialmente se consideri il sacro come un figlio naturale della penombra, dell’intimismo, dell’introspezione.

Per colpa della televisione tutti chiedono a tutti «che cosa ne pensi del nuovo papa?», come se la questione si esaurisse nel rifiuto di un anello d’oro o nella simpatia indotta da qualche frase pronunciata in pubblico. Pessimo inizio. Non di tifoseria ha bisogno la Chiesa, ma di un concilio urgente, dagli esiti coraggiosi e sorprendenti. È la conclusione cui arriva Ballardini nel suo libro, e la condivido senza riserve.

P.B.




[1]Piemme, Milano, 2012.
[2]Indagine Demos&Pi realizzata per la Repubblica in collaborazione con LaPolis di Studi Politici e Sociali dell’Università di Urbino, aprile 2010.
[3]Bompiani, 2012.
[4]http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5714
[5]http://www.chiesacattolica.it/comunicazione/
[6]G. Ritzer, La religione dei consumi, Bologna: Il Mulino, 2000.
[7]Einaudi, 2003.
[8]Rizzoli, 1988.

Altro che privacy

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Lo scettico Germain, professore di lettere frustrato dal fallimento come scrittore, conosce i limiti dei suoi allievi di liceo e per questo li sfida con temi elementari del tipo “Come ho trascorso il weekend”. Uno dei ragazzi, Claude, lo sorprende con uno svolgimento apparentemente innocuo ma nient’affatto banale. Claude racconta di aver fatto visita a un compagno di classe, Rapha, per aiutarlo nei compiti di matematica, e descrive l’ambiente di quella casa, e le persone che la abitano, con un’ironia che costeggia la critica sociale. L’insegnante fiuta indizi di talento e decide di incoraggiare il ragazzo aiutandolo a sviluppare le sue capacità. Lo incuriosisce specialmente l’ultima parola dello scritto: «Continua», come se Claude avesse stabilito di spiare a oltranza quella casa e quella famiglia e di narrarne le vicende quotidiane.

Così avviene. L’adolescente, alquanto misterioso e intrigante, prende a frequentare la casa di Rapha con regolarità, e mette su carta le puntate del suo gossip senza cedere ad alcuna inibizione. L’esistenza dei suoi personaggi – “normali” quanto basta, e quindi non immune da difficoltà di percorso e relative inquietudini – diventa materia di morboso voyeurismo non solo per lo scrivente, ma anche per i suoi due lettori, ovvero il professore e la moglie gallerista. Istigato dal docente, che crede – non senza ipocrisia – di poter mantenere l’esperienza entro i confini della decenza, Claude aumenta progressivamente la sua disinvoltura di spia e narratore, diventando pericoloso per sé e per gli altri. Finirà con turbamento collettivo e vite sconvolte.
L'allievo e il suo maestro (Ernst Umhauer e Fabrice Luchini).

Dans la maison di François Ozon (2012; titolo italiano Nella casa) è un film che ti tiene sulla corda con originalità e intelligenza dal principio alla fine. Sembra fatto di niente (casa, scuola, hobby e lavoro di persone come tante altre) ed è fatto, invece, di tutto. Non si era mai vista al cinema una riflessione così intensa e al tempo stesso leggera, emozionante e persino spiritosa su realtà e letteratura: un piccolo saggio sul creative writing, sullo storytelling – come va fin troppo di moda chiamarlo al giorno d’oggi – e sulla cattiveria necessaria ad ogni scrittore che si rispetti. Il liceo di Germain e di Claude si chiama Flaubert, e flaubertiana è la visione letteraria del docente che, per interposta persona, dirige e scrive una Éducation sentimentale dei giorni nostri.
Lo scrittore in erba e la madre del suo compagno di scuola (Ernst Umhauer ed Emmanuelle Seigner).

Ozon si diverte a creare sconcerto nei lettori di Claude e nello spettatore giocando a mettere in scena episodi e coups de théâtre che non sai quanto siano frutto dell’osservazione o dell’immaginazione del diabolico studente. Ma i confini tra realtà e invenzione sono così sfumati da rendere verosimili entrambe. Claude l’ha capito bene; e si comporta da deus ex machinaprovocando, nelle vite degli altri, situazioni e cambiamenti degni del suo romanzo-verità. In questo arriva a superare il suo maestro.
La gallerista e il professore (Kristin Scott Thomas e Fabrice Luchini).

Tutto, nel racconto di Ozon, si tiene in piedi mirabilmente, senza forzature: la psicologia dei personaggi (Claude compreso), i loro moventi, le loro bugie – anche quelle che gli stessi bugiardi credono verità. Lo sguardo del regista è bonario ma non risparmia nessuno: né la scuola né la middle class, né gli intellettuali né l’industria culturale nel suo complesso (molto spassose le ironie sulla fallimentare galleria d’arte contemporanea diretta dalla moglie di Germain). Eccellente la prestazione degli attori. Fra i quali spicca Fabrice Luchini, nel ruolo del professore che tiene il profilo basso ma nasconde dentro di sé l’anima di un Mefistofele. Impagabili le sue critiche al giovane Faust come quando, storcendo la bocca insoddisfatto di certi passaggi, lo accusa di essere pronto a far carriera come scrittore di sceneggiati tv o, peggio, di cataloghi d’arte.

P.B.


Dans la maison(Nella casa), 2012. Regia e sceneggiatura di François Ozon, da una commedia di Juan Mayorga. Con Fabrice Luchini, Ernst Umhauer, Kristin Scott Thomas, Emmanuelle Seigner, Denis Ménochet, Bastien Ughetto. Direzione della fotografia: Jérôme Alméras. Musica: Philippe Rombi.

Fiori, ferro e fuoco

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Where Have All the Flowers Gone?

{Dove sono andati a finire tutti i fiori?}, parole di Pete Seeger, musica derivata da una work song irlandese di autore anonimo pubblicata a New York nel 1888 dall’editore Frank Harding, Drill, Ye Tarriers, Drill {Dateci dentro con quella trivella, lavativi, dateci dentro}, 1955, usa; due strofe aggiunte al testo nel 1960 da Joe Hickerson.

Lanciata da Pete Seeger con un album Folkways di canzoni brevi di cui non si accorse quasi nessuno, The Rainbow Quest. Ripresa con successo nei primi anni Sessanta – nella versione completata da Hickerson – dal Kingston Trio, da Peter, Paul & Mary, da vari altri folksinger americani e da una indimenticabile Marlene Dietrich che la incise più volte e in tre lingue. Testo francese di René Ronzaud e Francis Lemarque per la Dietrich: Où vont les fleurs; di Guy Béart per Dalida: Que sont devenues les fleurs. Testo tedesco per la Dietrich: Sag’ mir, wo die Blumen sind di Max Colpet. La canzone ha avuto versioni in molte altre lingue, compresa la nostra.
Marlene Dietrich.

Pete Seeger ha più volte dichiarato di essersi ispirato a una pagina de Il placido Don, il ciclo di quattro romanzi dello scrittore sovietico Michail Šolochov (Nobel 1965 per la letteratura) dedicati all’epopea dei cosacchi nello scenario della rivoluzione. In nome del realismo socialista, la monumentale opera di Šolochov incorpora numerose tracce folkloriche, compresa la citazione di canti tradizionali della sua terra. Uno dei personaggi del romanzo, Darja, canta una filastrocca per fare addormentare il suo bambino, la stessa notte in cui il marito Pëtr si appresta ad abbandonare la casa e il villaggio per aggregarsi all’armata cosacca:

Kolòda-duta,
dove sei stata?
Ho badato ai cavalli.
E cos’hai visto?
Un cavallo sellato
dalla frangia dorata.
E dov’è il cavallo?
È legato al cancello.
E dov’è il cancello?
È finito nel fiume.
Dove sono le oche?
Sono in mezzo al canneto.
E dove sta il canneto?
Le ragazze l’han tagliato.
E dove sono le ragazze?
Hanno preso marito.
E dove sono i mariti?
Sono andati alla guerra.
Pete Seeger.

Nel 1955 — anno duro per Seeger, inquisito dalla commissione per le attività antiamericane insieme ad Arthur Miller e altri intellettuali «sospettati di comunismo» — il folksinger si ritrova un appunto in tasca mentre vola verso una università dell’Ohio. In venti minuti butta giú un testo intriso di malinconia, che ricalca lo schema della filastrocca di Darja:

Where have all the flowers gone?
Long time passing.
Where have all the flowers gone?
Longtime ago…
Where have all the flowers gone?
The girls have picked them ev’ry one.
Oh, when will you ever learn?
Oh, when will you ever learn?

«Dove sono andati a finire tutti i fiori? / Ne è passato di tempo. / Dove sono andati a finire tutti i fiori? / È stato tanto tempo fa… / Dove sono andati a finire tutti i fiori? / Le ragazze li hanno colti tutti quanti. / Oh, ma quando imparerai? / Oh, ma quando imparerai?»

E poi: dove sono andate le ragazze? Hanno preso marito. E dove sono i giovani mariti? Sono in uniforme. E dove sono andati i soldati? Nelle tombe. E dove sono le tombe? Sotto i fiori. E dove sono andati i fiori? Li hanno colti le ragazze. Il ciclo della storia si ripete per l’eternità: «Oh, ma quando imparerai?»

Seeger si chiede quale musica accompagni i versi riportati da Šolochov: ma come rintracciarla? In assenza di indizi, istintivamente si rifà alla melodia di una robusta canzone irlandese, Drill, Ye Tarriers, Drill, popolare negli Stati Uniti fin dai primi tempi del vaudeville. Lanciata nel 1888 da un trio di comici in una farsa musicale, A Brass Monkey, si era presto diffusa fra i vaudevilliersdell’epoca diventando un grande successo di Thomas F. Casey, .;di J. W. Kelly, . W.;di Maggie Cline, le glorie del momento. Fu anche uno dei primi titoli immortalati su rullo nella preistoria della fonografia: risale addirittura al 1891 un’incisione del tenore irlandese George J. Gaskin, .;accompagnato al piano da Edward Issler, per la Edison’s North American Phonograph Company.

Drill, Ye Tarriers, Drill si prestava naturalmente a una certa varietà di adattamenti spontanei, a uso di minatori, operai di cantiere, frequentatori di pub. Seeger ricorda di essersi ispirato a una variante che circolava fra i tagliaboschi. Sia come sia, nata da scampoli di folklore russo e irlandese mediati dalla sensibilità di un americano, la nuova ballata è pronta ad affrontare il suo viaggio per il mondo. Ma il tutto sembra arenarsi dopo una prima incisione votata all’oblio: rassegnato, Seeger lascia perdere i suoi fiori e le sue ragazze rimaste senza marito a causa della guerra.

Al ripescaggio provvede qualche anno più tardi Joe Hickerson, folksinger a sua volta e docente di etnomusicologia, fondatore e presidente dell’Oberlin College Folksong Club, futuro direttore dell’Archive of Folk Culture della Biblioteca del Congresso. Hickerson porta la canzone nei college e nelle università dopo aver aggiunto due strofe al testo, la canta nei club, provoca l’interesse di gruppi come il Kingston Trio e altri. Where Have All the Flowers Gone? diventa uno degli inni della protesta non violenta, anticipa il Sessantotto americano passando tra campus e “figli dei fiori”, e associa l’entusiasmo dei movimenti impegnati a un filo di remota, pungente malinconia.

Molte delle canzoni di Seeger nascono da commistioni multiculturali; spesso, come nel caso di questa, si tratta di adattamenti, riproposte, revisioni di motivi preesistenti di varia provenienza geografica: da If I Had a Hammer a Waist Deep in the Big Muddy, da Turn, Turn, Turn a Guantanamera. Fra i suoi maestri il padre Charles Seeger, etnomusicologo insigne; i celebri ricercatori “sul campo” John e Alan Lomax; e Leadbelly e Woody Guthrie, con i quali il giovane Seeger ebbe contatti prima di fondare, nel 1940, il gruppo degli Almanac Singers. Il periodo più intenso e visibile della sua carriera ha però inizio nel 1949, quando fonda gli Weavers con Lee Hays e si guadagna la fama di «padre del folk revival americano».

P.B.

Selezione discografica

1960, Pete Seeger, The Rainbow Quest, Folkways.
1961, The Kingston Trio, Where Have All the Flowers Gone, Capitol.
1963, Pete Seeger, Live at Newport 1963-1965, Vanguard.
1962, Dalida, Dalida, Barclay.
1962, Tommy Steele, Butter Wouldn’t Melt in Your Mouth, Decca.
1962, Marlene Dietrich, arr. Burt Bacharach, Marlene Dietrich Returns to Germany, His Master’s Voice.
1962, Pete Seeger, The Bitter and the Sweet, Columbia.
1962, Peter, Paul and Mary, Peter, Paul and Mary, Warner Bros.
1963, Bobby Darin, Golden Folk Hits, Capitol.
1963, The Searchers, Meet the Searchers, Pye.
1963, Lys Assia, Lys Assia, Telefunken.
1964, The Brothers Four, More Big Folk Hits, Columbia.
1964, Vanessa Redgrave, Where Have All the Flowers Gone, Topic Records.
1964, The Four Seasons, Born to Wander, Philips.

1965, Joan Baez. Farewell Angelina, Vanguard.
1965, Johnny Rivers, Where Have All the Flowers Gone, Imperial.
1966, Shirley Verrett, Singin’ in the Storm, RCA Victor.
1967, Wes Montgomery, The Final Years, a&m.
1968, Lester Flatt & Earl Scruggs, Changing Times, Columbia.
1969, The Peddlers, Birthday, CBS. 
1971, Bobby Bare, The Mercury years 1970-1972, Bear Family.
1972, Earth, Wind & Fire, Last Days and Time, Columbia.
1972, Richie Havens, On Stage (live), Polydor.
1976, Patty Pravo, Tanto, RCA.
1977, Gong, Live Etc., Virgin.
1987, A.P.P.L.E., A Sensitive Fascist is Very Rare, Vinyl Communications.
1994, Arlo Guthrie, Pete Seeger & Tao Rodriguez-Seeger, More Together Again, Vol. 1, Rising Son.
2001, Liz Callaway, The Beat Goes on, Fynsworth Alley.
2005, Dolly Parton, Norah Jones & Lee Ann Womack, Those Were the Days, Sugar Hill.
2008, Chris de Burgh, Footsteps, V2.
2009, Jimmy Somerville, Suddenly Last Summer, Strike Force Entertainment. 
Jimmy Somerville.

Pensieri spettinati

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Ebreo polacco, comunista ma ipercritico su qualsiasi regime, arrestato nel 1941 dalla Gestapo, internato in un campo di concentramento da cui evase con una uniforme da SS, il poeta Stanisław Jerzy Lec (1909-1966) è rimasto famoso per i suoi spietati aforismi, pubblicati anche in Italia con il titolo Pensieri spettinati. Rileggiamone alcuni, senza far finta che non siano diretti anche a noi.

Il potere passa più spesso di mano in mano che di testa in testa.

Salutatevi stringendovi la mano. Crescerà il consumo del sapone.

La folla urla con una sola grande bocca, ma mangia con mille piccole.

I lupi sono probabilmente più nobili delle pecore, fanno fatica a immaginare di poter vivere senza di queste. Le pecore invece? Lasciamo perdere.

Lo sporco peggiore è quello morale, istiga a un bagno di sangue.

Peccato che Caino e Abele non fossero fratelli siamesi.

L’istinto di autoconservazione è a volte la molla del suicidio.

Se almeno dal fondo tutto sembrasse elevato!
«Si abbracciarono così stretti che non rimase spazio per i sentimenti.» (Nella foto di Régis Bossu: il bacio di Leonid Breznev, capo dell’Unione Sovietica dal 1964 al 1982, ed Erich Honecker, che governò la Germania Est per un ventennio).

Tutti vogliono il nostro bene. Non fatevelo portar via.

Diffida del tuo cuore, è avido del tuo sangue.

I valori umani universali sono quelli che non conviene contrabbandare da un paese all’altro.

Ho notato che la gente ama pensieri che non obbligano a pensare.

In che cosa credo? In Dio, se esiste.

Oltre alla forza di gravità, cosa è che ci trattiene sul globo terrestre?

Più piccoli sono i cittadini, maggiore sembra l’impero.

Perché gli uomini non sono più cannibali? Beh, bisogna pur credere in un qualche progresso della cucina.

Aveva la coscienza pulita. Mai usata.

Il cannibale non disprezza l’uomo.

(Da: Stanisław J. Lec, Pensieri spettinati, nuova edizione a cura di Pietro Marchesani, traduzione di Riccardo Landau, Milano: Bompiani, 1984).



 


Alla ricerca di Rufus, I

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Questo video è una sintesi dell’ultimo diario di viaggio di Raffaello Robbiati (Rufus), pubblicato in un blog che aveva allestito per l’occasione (http://rufus-a-roundtheworld.blogspot.it/). Un giro del mondo attraverso i continenti, compiuto da un ragazzo curioso, provvisto di entusiasmo, apertura mentale, zaino e poco altro. Dopo aver esplorato il pianeta, Rufus ha perso la vita in un incidente stradale a Milano, a poche centinaia di metri da casa sua. 

P.B.

Positivamente no

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Il film cileno No – I giorni dell’arcobaleno solleva una serie di considerazioni contraddittorie sulla natura della propaganda e sulle sue procedure. Com’è noto, racconta – in modo documentato e appassionante – la fine del regime di Pinochet, nel 1988, sconfitto da un referendum popolare; e offre un ampio resoconto delle due campagne, quella del sì e quella del no (un’opposizione "arcobalenica" in quanto costituita da diciassette partiti), ricostruendone le strategie, i dibattiti spesso laceranti, gli ostacoli e le scelte creative.

Vince il “no” contro tutte le aspettative, le manovre e le minacce dei cattivi, grazie a una campagna testardamente voluta e difesa, contro il parere di molti, da un pubblicitario esperto di soft drink e telenovelas. René Saavedra, questo il suo nome, è un giovane creativo di successo, ben inserito nel sistema vigente e sufficientemente cinico da sopportare il leader della sua agenzia, un losco fiancheggiatore dei militari al potere. Saavedra rappresenta in modo simbolico una classe intellettuale né di destra né di sinistra; è uno che insomma non si espone, anche perché deve badare da solo a un figlioletto: la sua ex moglie, militante del dissenso e perciò perseguitata dalla polizia, non può garantire alcuna sicurezza al bambino.

Dopo qualche tentennamento il creativo accetta il compito di interessarsi alla campagna del no, cooptato da uno dei leader più moderati della compagine anti-Pinochet. Presto si trova in conflitto con i suoi stessi committenti. Il fronte politico, specialmente l'ala sinistra, si aspetta una dura campagna di denuncia: vorrebbe smascherare le nefandezze e le oscenità della dittatura in corso, con il suo terribile repertorio di torture, ammazzamenti e desaparecidos. Del resto l’occasione che si presenta è unica. Sotto la pressione internazionale Pinochet ha consentito non solo il referendum che potrebbe travolgerlo (come infatti avverrà), ma anche una parvenza di par condicio televisiva, novità eccentrica dopo il pluriennale bavaglio della censura.

Il generale insomma gioca a fare il democratico, almeno per finta (sotto sotto i suoi sgherri sono all’opera con le solite intimidazioni e rappresaglie). Fa il generoso perché è convinto di stravincere. Questa sua convinzione non è poi tanto campata per aria: il paradosso dei regimi peggiori è che il popolo, in maggioranza, ci sta. Si è visto altrove e, temo, si continua e si continuerà a vederlo ancora: i Pinochet si riproducono ovunque, con o senza l’uniforme militare, e sanno bene che il braccio di ferro produce più consenso che disgusto. È nella natura del populismo fottere il prossimo rendendolo masochisticamente felice di farsi fottere. Tanto i morti, i torturati e gli scomparsi non sono altro che “feccia comunista”, o etnica, in ogni caso “diversa” dalle anime pie blandite dal despota di turno.

La propaganda è l’arma vincente degli Hitler, dei Mussolini, degli Stalin, dei Pinochet così come di mezze calzette come il nostro Berlusconi. Quattro slogan strillati al vento, possibilmente ripetuti un milione di volte, e i seguaci spuntano come funghi. Che cosa se ne deve dedurre? Che più la pubblicità gioca sporco, più ha successo? Non è bello da insegnare nelle accademie, ma la storia gioca spesso a sfavore degli idealismi.

Saavedra non vuole saperne di rivangare gli orrori della tirannia o di sublimarne le vittime. Dice che se insisti sulle sfighe sei destinato a perdere. E dimostra, ahinoi, di aver ragione. Se vuoi fregare uno come Pinochet devi puntare su promesse di speranza e di futuro radioso. Dimenticare ciò che è stato e ciò che è. La campagna del no deve puntare sul concetto di “allegria”.

E allegria fu. Pinochet uscì di scena grazie a una pubblicità stile Chebanca prima maniera. Gente felice che canta e balla: il magico futuro del Cile. Bene, meglio così. Ma se la conclusione fu un sospiro di sollievo, le modalità per arrivarci impongono qualche riflessione amarognola. Nelle società, anche le più moderne, c’è un ampio zoccolo duro di individui che preferiscono lasciare ad altri il compito di usare il cervello. Un “lasciare ad altri” che è diverso dal “delegare”: è il lasciare della rinuncia, non l’affidamento ragionato delle proprie idee o dei propri interessi a qualcuno ritenuto in grado di rappresentarli in tua vece.

Saavedra, insomma, aveva ragione. Se vuoi combattere contro chi ti inganna, devi usare lo stile del nemico: promettere la felicità, anche se sai che non è merce facile da trovare al mercato. Se invece di raddolcire la audience con un jingle ti basi sulla crudezza dei fatti, finisci col rivolgerti a chi sta già dalla tua parte: e sai in partenza che chi sta dalla tua parte è numericamente in minoranza. Come spesso avviene è ai pigri e agli indecisi che devi lanciare un messaggio; e quelli non li attiri con la ragione, ma con la pancia.
Gael García Bernal in una scena del film No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín, Cile, 2012.

C’è un solo momento, nel quarto d’ora di show ballereccio allestito dal fronte del no, in cui si intravede qualcosa di intenso. Va in onda uno spezzone di cronaca con un poliziotto che manganella senza pietà un dimostrante. La voce fuori campo dice che entrambi i protagonisti della scena, il picchiatore e il picchiato, vogliono in fondo le stesse cose. Pace, famiglia, tranquillità, benessere. Sono entrambi due poveri diavoli, messi l’uno contro l’altro dalle circostanze, e sarebbero ben contenti di non doversi più trovare nell’assurdità di quella situazione. Viene in mente Pasolini.

No – I giorni dell’arcobalenoè un film di rara intelligenza, realizzato in modo volutamente antiestetico perché sembri più vero del vero. In realtà il personaggio di René (interpretato con efficacia da Gael García Bernal, visto nei panni di Che Guevara ne I diari della motocicletta) è inventato, ma tutto il materiale che gli ruota intorno – le campagne, i programmi tv, la gestione del referendum – è autentico al 100%.

È forse la prima volta che le tecniche professionali dei pubblicitari vengono trattate con competenza in un film. Merito di Pablo Larraín, il regista, e dello sceneggiatore Pedro Peirano. Il tutto, comunque, viene dal teatro: più precisamente da un dramma di Antonio Skármeta, autore anche del romanzo da cui fu tratto Il postino.

P.B.

Democrazia e paradossi

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Mi sforzo come posso, spesso sbagliando, di spiegarmi qualsiasi idea o fenomeno con un minimo di razionalità, non perché la logica sia di per sé una virtù ma perché credo presieda all’ingegneria dell’universo. Se la palla sporge oltre il pendio si mette a rotolare verso il basso, e solo un pazzo può presumere che il contrario – ovvero la risalita spontanea della sfera dal fondovalle alla cima dell’altura – sia non solo possibile, ma anche auspicabile. E non sto parlando di palle metaforiche, ma di palle vere, quelle che comunemente si usano nei giochi, negli sport.

So bene che questa inclinazione, per fortuna non soltanto mia, implica una certa rigidezza d’animo: mi rende sospettoso delle passioni troppo pronunciate, degli scoppi incontrollati di emozione, di certi turbinii sentimentali, della fede religiosa, del fanatismo da stadio e di tante altre cose che fan bella e dolente la vita. Ma al tempo stesso, pur nella massima tolleranza nei confronti di chi non pensa come me e talvolta addirittura amando caratteri opposti al mio, mi sorprende la crescente sfiducia di individui e istituzioni verso i più elementari principii della logica. Il fatto che non sempre tali principii siano scritti e codificati con chiarezza non attenua, ma anzi incrementa, il mio stupore.

È la politica a offrirmi, di continuo, le massime occasioni di sconcerto. Già me n’ero reso conto ai tempi dell’ascesa di Forza Italia e del suo leader. In Sudamerica, mi dicevo, ogni volta che qualcuno fa un colpo di stato subito corre a occupare i mezzi di informazione: e noi votiamo uno che i mezzi di informazione già li possiede? E non fu questa la sola palla a scalare il pendio. Ci ritrovammo i leghisti nelle liste elettorali, nelle camere e al governo: un paradosso che ancora m’inquieta, quello di un paese comandato da secessionisti.
Isaac Newton in un ritratto di Godfrey Kneller, 1702. Londra, National Portrait Gallery.

Mi interrogo sulla legittimità naturale – non dico sulla legalità, perché la legalità è pur sempre opera umana – di accadimenti come quelli che ho appena enunciato. E fossero i soli! Il movimento di Grillo e Casaleggio va oltre qualsiasi legge della fisica. Non perché esista: ci mancherebbe altro. Forse la sua esistenza è persino necessaria. Di antiscientifico c’è solo la sua eleggibilità. Vero che tutti, secondo logica, dovrebbero poter accedere alle istituzioni di un paese democratico: ma perché anche quelli che programmano e promettono di sfasciarle in toto?

In certi momenti mi sono cullato – poco razionalmente, lo ammetto – nell’illusione che l’Italia avesse un indiscutibile primato nella coltivazione di contraddizioni così ardite. Apprendo invece che gli altri non sono messi meglio. Alle elezioni europee di ieri c’è stato un vero boom dell’antieuropeismo, specie in Francia e in Gran Bretagna. E mi domando: non sarà che la macchina degli ordinamenti istituzionali si sia avariata profondamente e dappertutto, al punto di necessitare di una revisione generale? È legittimo consentire l’accesso di partiti e movimenti antieuropeisti in un consesso europeista? Non è come se una falegnameria spalancasse l’ingresso ai tarli?

P.B.


Lavorare gratis

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Uno dei segni più sconcertanti di questa crisi è la svalutazione del lavoro – ovvero di quel bene che consente agli individui e alle società di sopravvivere dignitosamente, e che non a caso costituisce il fondamento stesso della nostra costituzione. Esigere gratis la merce, il servizio e il sudore altrui è un paradosso: mina la logica dello scambio utile tra le parti e non ha precedenti nemmeno nella preistoria (io ti dò la carne secca e tu mi dai il sale). 
Farsi pagare per una prestazione sembra essere diventato un lusso, specialmente nell’area professionale della comunicazione. Fra le tante voci che da tempo si vanno levando per denunciare questa assurdità riportiamo quella di Antonella Meoli, copywriter e consulente strategica: una testimonianza che, per sintesi e lucidità, vale per tutte.

Lavoro come freelance e, tra i miei clienti, c’è un’importante azienda. 

Collaboro piuttosto bene con diversi product manager. 

Uno, a differenza degli altri, ha però l’abitudine di mettere in gara (non retribuita) ogni lavoro, anche minimo. 

Si tratta di lavori così banali che vincere o perdere la gara dipende più dal caso che dalla qualità delle proposte. 

Immagino infatti che tutti i contendenti siano in grado di dare risposte analoghe.

Ho espresso delle perplessità in merito.

Il product manager in questione mi risponde, stupito, che pensava che coinvolgermi in queste gare fosse per me una «buona opportunità», ma che se mi creava disagi «lavorare gratis», si sarebbe comportato di conseguenza.
Foto: Martin Parr, 2009. Magnum Photos.

Nonostante questo sia per me un cliente importante, ho risposto:

«Lavorare gratis non mi crea disagi, mi crea perdite. Fare il copy è la mia professione, non il mio hobby. Lo faccio con passione, ma l’obiettivo non è sentirmi bene invece che a disagio. L’obiettivo è guadagnare un onesto e doveroso compenso. La differenza tra un dilettante e un professionista è proprio questa: il professionista non lavora a tempo perso, si fa pagare.

Lavorare gratis NON è una buona opportunità.

Lavorare gratis ripetutamente per ottenere, al massimo, il giusto compenso solo su uno dei lavori fatti ogni 4 o 5, non è un investimento: è un’inutile perdita di tempo. Tu lavoreresti se sapessi che l’azienda ti paga un mese ogni 5 con la motivazione che gli altri 4 mesi sono intervenuti dei cambiamenti che hanno vanificato il tuo lavoro? Chi comprerebbe mai dei biglietti di una lotteria se il massimo della vincita fosse il rimborso del biglietto acquistato?»

Probabilmente perderò il cliente e, francamente, non potrei permettermelo.

Ma se tutti i miei colleghi fossero altrettanto fermi nel rifiutare proposte indecenti o, peggio, non offrissero la loro disponibilità a gareggiare gratis perché è comunque «una buona opportunità», ne guadagneremmo tutti. Perlomeno in dignità.

A.M.



Corruzione senza anticorpi?

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In Italia il catalogo del male sforna continuamente nuove creazioni. Dopo la collezione Expo ecco spuntare, puntualmente, la collezione Mose. La moda di allungare le mani ovunque giri del denaro pubblico è l’imperativo immorale di tante canaglie di lusso assiepate ai piani alti e medioalti del potere.

I danni prodotti da questa malacreatività non sono soltanto economici. Crescono a dismisura nel paese, in simmetria con gli scandali, il disincanto e il rancore generalizzato verso la politica, considerata di per sé stessa la culla del crimine.

Chi sostiene perentoriamente che tutti i politici sono uguali, chi attacca tutto e tutti perché tanto sono tutti ladri senza alcuna eccezione, non si rende conto di aver esternato una constatazione di natura antropologica: come se fosse prescritto, dalle leggi naturali che governano il comportamento della specie umana, che l’accesso al potere è fatalmente infettivo, e che nessuno – per quanto pulito e idealista sia stato fino al giorno prima – può sottrarsi alla malattia morale che lo colpirà.

La logica di chi dice «sono tutti uguali» deve per forza implicare, per conseguenza, che «siamo tutti uguali»: non possiamo affermare che gli altri hanno tutti braccia, gambe, collo e culo senza ammettere, sia pure indirettamente, che siamo anche noi dotati di braccia, gambe, collo e culo. Quella affermazione nasconde dunque una involontaria quanto tetra confessione su chi la pronuncia. Come dire: sono onesto, o sono onesta, perché mi trovo nella concreta impossibilità di scambiare favori e tangenti; non intrigo, non sfrutto, non fotto il fisco, non arraffo perché la mia condizione attuale me lo impedisce; ma se anch’io fossi sul carro giusto, non potrei fare a meno di seguire lo stesso tracciato degli altri. Se il potere, insomma, corrompe tutti, perché non dovrebbe corrompere anche me?

Il qualunquismo è la morale dei perdenti. Solo che i perdenti non lo sanno. Non perché siano stupidi: a volte sono così sani e scafati da rimuovere abilmente, dalla propria coscienza, il sospetto di essere antropologicamente simili a coloro che accusano in massa. L’immaginazione dei più dotati sa sempre trovare una via d’uscita dalla potenziale contraddizione in cui sono andati a cacciarsi affermando che i politici sono tutti fatti della stessa pasta – o della stessa casta. Possono tentare di dimostrare, per esempio, il proprio teorema in questo modo: i potenti sono tutti uguali tra loro (e diversi da me) perché la sirena del potere – specialmente la sirena del potere politico – attira di default solo le mele marce; io, non essendo marcio dentro, non muoverei mai un dito per partecipare alla cosa pubblica; il potere, anche il più modesto, non ha alcun effetto su di me; non lo voglio, la politica non mi interessa, è una droga inventata solo per chi vuole drogarsi.

Ma se questa teoria corrispondesse al vero, che senso avrebbe lamentarsi o protestare contro chicchessia? Come si può combattere la cosiddetta casta, se si presume che a quella di turno ne seguirà un’altra in tutto simile alla precedente, e poi un’altra ancora in un futuro di caste senza fine, tutte antropologicamente malate e inguaribili, tutte cleptomani, tutte furbissime e col pelo sullo stomaco?

Il qualunquismo è l’altra faccia del vittimismo, e il vittimismo non porta da nessuna parte. Il qualunquismo sarebbe sbagliato anche se, per assurdo, i presupposti da cui ha origine fosserofondati e universalmente condivisibili. Non mi stanco mai di ripetere questo pensiero: «Senza qualche utopia si sta seduti tutta la vita sullo stesso cesso.»

P.B.


Pubblicitario umanista

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Il più citato, il più amato, il più più più. Di Bill Bernbach, fondatore della pubblicità anticonvenzionale e democratica, si parla e si scrive senza tregua da oltre sessant’anni. Ma Bill non aveva lasciato in giro nessun libro tutto suo: le sue dichiarazioni, interviste, conferenze bisognava andarsele a cercare una per una, se si voleva ascoltare la sua voce senza mediazioni. E a sorpresa, zac!, esce un prezioso volumetto – scarno e limpido come il personaggio, meno di cento pagine – dove ci sono tutte, ma proprio tutte, le sue uscite pubbliche; da cui si può cogliere il suo pensiero in diretta, senza passare attraverso l’interpretazione altrui. Grande lezione non solo di advertising, ma anche e soprattutto di umanesimo: non a caso il titolo del libro è Bernbach pubblicitario umanista.
A cura di Giuseppe Mazza, Milano: FrancoAngeli, 2014. Collana Impresa, comunicazione, mercato diretta da Vanni Codeluppi.

Sempre sia lodato il curatore del volume, Giuseppe Mazza, già benemerito per la coraggiosa rivista trimestrale Bill. Un’idea di pubblicità. È vero, su quelle pagine ci scrivo anch’io, il che rende alquanto scontato il mio entusiasmo. Ma scriverei su Bill se non mi piacesse? Certo che no: tanto più che con la pubblicità ho chiuso, senza rimpianti, e non mi prenderei la briga di tornarci su – sporadicamente – se non fosse per il culto che nutro per Bernbach. E la stima che nutro per Mazza.

Il libro è obbligatorio per i pubblicitari di ogni ordine e grado: ça va sans dire. Ma sarebbe un peccato se rimanesse confinato nell’angusto recinto degli addetti ai lavori. Il motivo lo spiega lo stesso Bernbach: «Perché non dovremmo usare le nostre capacità per convincere le persone, lavorando in favore di cause importanti, in cui crediamo?»

P.B.

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