| Per avvicinare la gente alla musica, bisogna avvicinare la musica alla gente.
|
Conversazione per soli e pianoforte.
Introduzione. Allegro ma non troppo.
Riccardo Caramella è un pianista torinese che vive in Francia, a Mandelieu-la-Napoule, da circa venticinque anni. In Italia e all’estero il suo nome gira soprattutto fra gli appassionati di rarità musicali: per esempio la misconosciuta produzione pianistica degli operisti nostrani (Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi, Ponchielli, Catalani, Leoncavallo, Puccini, Mascagni, Giordano, Cilea); o il fatto di aver inaugurato le relazioni musicali fra l’Europa e la Cina con una storica registrazione del Concerto del Fiume Giallo di Xian Xinghai. Questa chicca, realizzata nel 1988 con l’Orchestra sinfonica di Radio Pechino diretta da Yuan Fang, è stata ed è tuttora un best seller internazionale. Fu incisa per Nuova Era, intraprendente etichetta discografica di cui Caramella fu per qualche anno il direttore artistico.
![]() |
Copertina del disco Nuova Era con musiche di compositori cinesi. A sinistra Caramella con il direttore Yuan Fang. |
Ho conosciuto Caramella nel 1995 per una collaborazione pubblicitaria, ma il ricordo è tuttora vibrante sia per lui che per me. Con uno dei miei team dell’agenzia BGS e il regista svedese Johan Camitz avevamo appena terminato, a Parigi, le riprese di un grazioso spot per la Swatch. Un giovanissimo percussionista, stordito da un estenuante pomeriggio di sesso e ridestato alla dura realtà da un segnale del suo orologio, parte in allarmante ritardo per raggiungere in teatro il suo posto in orchestra. Dovrà solo eseguire un colpo di piatti che costituisce il climax della composizione in programma (un po’ come succedeva ne L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock), ma la sua assenza pesa dietro le quinte come una maledizione. Il concerto è iniziato da un pezzo e si sta già pensando di sostituirlo, alla meno peggio, con un lavorante del teatro ignaro di musica. Ma il ritardatario balza in scena proprio al momento giusto, dopo una rocambolesca corsa in motocicletta nell’ottavo arrondissementparigino. Per sonorizzare adeguatamente il breve filmato e sincronizzare la vicenda con quel colpo di piatti, ci voleva la consulenza d’un musicista esperto e fu per questo che chiedemmo aiuto a Caramella. Si trattenne nel laboratorio di postproduzione fino alle tre di notte, e solo molti anni più tardi ho scoperto che per lui quella non era una notte qualsiasi. Minacciato – a mia e altrui insaputa – da un cancro, era atteso alle otto del mattino in ospedale per subire un intervento tanto complicato quanto decisivo. E si era buttato a capofitto nel lavoro proprio per non pensare al domani. Probabilmente arrivò trafelato in sala operatoria come il giovane rompicollo del nostro spot sul suo palcoscenico. Passò la prova e guarì. Non è superstizioso, ma per lui sono una specie di messaggero di buona fortuna.
Dopo quella e altre sporadiche collaborazioni professionali ho sentito Riccardo al telefono o per e-mail, di tanto in tanto, ma non l’ho più incontrato di persona. Fino al 2 maggio 2016, quando – approfittando di un suo fugace passaggio a Milano – vado a prelevarlo alla FonoVideo, dove sta combinando qualcosa per la pubblicità, con la precisa intenzione di offrirgli un pranzo all’Osteria della Cagnola, mitica trattoria milanese dove ancora potevi abbuffarti di nervetti in insalata e rognoncini trifolati. Una piccola nostalgia come un’altra, tradita dalla storia che avanza e che tutto travolge: perché al posto dell’Osteria vedo ora un Asian Fusion restaurant, per di più nel suo giorno di chiusura settimanale, sicché non posso nemmeno togliermi lo sfizio di domandare ai camerieri cinesi se conoscono il Concerto del Fiume Giallo.
Edo, il fonico che lavora col musicista da più di vent’anni (“insostituibili e ineguagliabili”, dice Caramella di lui e di Giorgio, tecnici della FonoVideo), deve importare un cd nel suo sofisticato sistema di editing. Dice che ci vorranno parecchi minuti, aggiungendo che i cd sono roba d’altri tempi, destinata a scomparire definitivamente da un momento all’altro. Volano a ruota libera ricordi e considerazioni sui supporti del passato e sul revival modaiolo del vinile. «Negli anni ho messo in piedi una collezione di diciottomila incisioni», rivela Riccardo, «dai cilindretti ai cd, passando per i 78 giri e i microsolchi. Adesso comincio a domandarmi cosa ne sarà di questo patrimonio, dal momento che nessuno dei miei eredi è interessato al collezionismo musicale.»
«Questo è niente al confronto col mio patema di oggi», ribatto amaramente. «L’Osteria della Cagnola, dove volevo portarti, ha fatto la stessa fine dei rulli di Edison e dei piattoni di gommalacca: non esiste più.»
Ma per Riccardo è quasi un sollievo. «A mezzogiorno mi bastano un panino e un bicchiere di vino. Il colesterolo impone delle regole.»
Andante orientale.
Mostra meno dei suoi anni (65). E l’aria da artista e showman ce l’ha, forse per via dei capelli mediolunghi, brizzolati. Tra poco uno sconosciuto interromperà la nostra conversazione tre volte, chiamandolo Maestro. Ci sediamo all’aperto vicino all’Arco della Pace, in un posto chiamato Living, e ordiniamo ravioli alla salvia senza burro e due bicchieri di Gavi.
Riccardo mi sta dicendo che Pollini e Muti hanno un brutto carattere. A malincuore lo avverto che questa è un’intervista. «Ho il dovere di dirtelo», sottolineo; «preferisco giocare a carte scoperte, perché una volta ho intervistato una cara persona che amava esprimersi in romanesco, e quando lesse l’intervista – tutta in dialetto, oltre che acidamente polemica su molte persone in vista – mi rimproverò di aver abusato della sua schiettezza.»
«Di torinese ho solo l’accento, dunque non corro rischi. Comunque cerca di non farmi domande troppo serie: non sono tagliato per l’accademismo.»
«Nemmeno io. Adesso ricominciamo dal principio. Stavi malignando su Pollini. Io lo adoro.»
«È freddo come il ghiaccio. Con Schönberg va bene, ma Chopin...»
«Io ho un debole per i musicisti algidi. L’emozione è nulla senza controllo», sostengo parafrasando una indimenticabile pubblicità della Pirelli. Ci tengo a farlo arrabbiare, così poi l’intervista viene meglio. «Prendi i tenori, per esempio. Se li lasci fare, sbracano. Hanno bisogno di direttori d’orchestra freddi e cattivissimi, capaci di metterli in riga e spegnere sul nascere il loro bollore.»
«Sui tenori sono d’accordo», ammette. «Sono l’anello mancante fra la scimmia e l’homo sapiens.»
«Battuta indecente. Se fossi Caruso ti sfiderei a duello.»
«Sui direttori d’orchestra ne ho una peggiore. Sai qual è la differenza tra un direttore d’orchestra e un preservativo?»
«No.»
«Nessuna. Con entrambi sei più sicuro, ma senza è molto più bello.»
«Mah. Da ascoltatore temo più i cantanti che i direttori. Il mondo è andato in brodo di giuggiole per i Tre Tenori. Enfasi a un tanto al chilo! Ancora non riesco a capacitarmi del fatto che ci sia capitato in mezzo Plácido Domingo, di solito rigoroso e scafato, una specie di De Niro per il melodramma.»
«Sì, i tenori tendono a strafare. I soprani e i baritoni sono più disciplinati. Comunque, dopo la Callas il belcanto è finito.»
«Che ci faceva un torinese come te con l’Orchestra di Radio Pechino?»
«Quella è una storia epica. Sai che, fra tante altre cose, ho sempre fatto anche il consulente musicale per le aziende. Ho lavorato per Barilla dopo Morricone e Vangelis, non so se ti ricordi quegli spot diretti da Tarsem. A un certo punto mi ritrovo da una parte l’Iveco (del Gruppo Fiat, ndr) e dall’altra la Lufthansa che vogliono fare relazioni pubbliche con la Cina. Iveco per aprire una fabbrica a Nanchino, Lufthansa per aprirsi un varco nei cieli proibiti: all’epoca la Repubblica popolare cinese concedeva alle compagnie straniere un diritto di sorvolo talmente striminzito da costringerle a giri disumani per evitare violazioni dello spazio aereo. Per avvicinare i popoli non c’è niente di meglio della musica: così gli italiani mi chiedono come si fa a portare l’Orchestra della Scala a Pechino, e i tedeschi sono disposti a mobilitare Karajan a qualunque prezzo. Ma io faccio notare che questo è un modo di pensare da colonizzatori. È il solito Occidente pronto a esportare i suoi valori, sordo alla cultura dei destinatari, sebbene possano vantare anch’essi una civiltà millenaria.»
«E allora?»
«E allora non c’è Scala o Karajan che tenga. I cinesi, insisto, toccherebbero il cielo con un dito se noialtri cominciassimo a riconoscere e a valorizzare il loro patrimonio musicale. Iveco e Lufthansa potrebbero coordinarsi per un’impresa che veda per la prima volta la Cina in condizione di parità con l’Occidente. La proposta viene accolta con entusiasmo. Alla fine dell’operazione, ho ricevuto complimenti e pacche sulla spalla da Gianni Agnelli in persona.»
![]() |
Pechino, 1988. Caramella con l'Orchestra sinfonica di Radio Pechino durante l'esecuzione del Concerto del Fiume Giallo. Derivato da una cantata patriottica composta da Xian Xinghai nel 1939, durante la seconda guerra sino-giapponese, il concerto è il risultato di un arrangiamento a più mani successivo alla morte dell’autore (1905-1945), con contributi di musicisti come Yin Chengzong e Chu Wanghua. Popolarissimo in Cina, ha acquisito spiccate valenze politiche a partire dal suo esordio, nel 1969, durante la Rivoluzione culturale.
|
«Vuoi dire che è bastato un disco per raggiungere obiettivi di quella portata?»
«Certo che no. Il disco era solo una parte del progetto. Che cominciò con un concerto dal vivo e proseguì con una straordinaria tournée dei musicisti cinesi, accompagnati da me come solista. Quarantadue concerti in Europa e gran finale a Pechino, dov’erano presenti anche gli inviati di venti testate giornalistiche fra le più importanti d’Europa: Frankfurter Allgemeine, la Repubblica, El País, Le Figaro... Non ti dico la risonanza che ne risultò. 185 pagine sulla carta stampata e non so quante ore di televisione.»
«Ma fai tutto tu? Insomma: suoni il piano, sei il manager e il producer di te stesso, inventi campagne mondiali di PR... Non ce l’hai un agente?»
«Ne avevo uno tanti anni fa, ma rinunciai ai suoi servigi quando mi organizzò un tour massacrante negli Stati Uniti. 42 serate in 44 giorni! Alla fine ero talmente a pezzi che mi ribellai, deciso a muovermi da solo per il resto della vita.»
«Dove eravamo rimasti?»
«Il minibus con il quale giravamo per l’Europa con gli orchestrali di Pechino era già una campagna di per sé. Era un modello allestito ad hoc dall’Iveco, arredato con le poltrone di bordo di prima classe della flotta Lufthansa. Talmente chic che lo presentarono al Salone dell’Auto di Ginevra, per fare impressione sul pubblico e sulla stampa. Sulle fiancate erano esibite le identità dei patrocinatori e del nostro ospite d’onore, la musica cinese.»
Contrappunto, dissonanze e fuga.
Nel frattempo, al tavolino accanto al nostro, si è seduto un tipo di mezza età. Ha i capelli a spazzola, grigi e cortissimi; il volto scavato da una vita probabilmente spericolata; un maglione rosso fulgente. Sembra concentrato su un disegno che sta tracciando sul suo tovagliolo di carta. Mentre disegna, ascolta avidamente le nostre chiacchiere, ma nessuno di noi due se ne accorge. Quando il discorso scivola su Rossini (nome inevitabile, se con Riccardo Caramella si parla di musica a tavola), lo sconosciuto interloquisce. Ha inteso “Rossellini” e a bruciapelo mi domanda se ho visto Roma, città aperta, come se fosse l’ennesimo episodio di Star Wars appena uscito nelle sale. Annuisco distrattamente mentre, in simultanea, Riccardo mi domanda se conosco il motivo per cui l’Italia, dopo essere stata per secoli il faro mondiale della musica strumentale, nell’Ottocento si è fatta fregare dai tedeschi. Ma l’uomo dal maglione rosso non demorde, deciso a trasformare in trio il duetto che sta ascoltando. Adesso pretende di sapere da noi chi altri c’era nel film, oltre ad Anna Magnani. Ci scruta con occhi spiritati. Sussurro il nome di Aldo Fabrizi sottovoce e senza guardarlo, per non perdere il filo del discorso col mio interlocutore ufficiale. Riccardo Caramella ha in testa una tesi precisa a proposito del primato perduto degli italiani:
«I nostri erano talmente presi dall’opera lirica da trascurare quasi completamente la musica strumentale.»
Lo guardo affascinato. «Cazzo», dico, «non ci avevo pensato.»
«Sembra ovvio», conclude, «ma è una verità che non trovi nei libri di storia della musica. Neanche Massimo Mila – uno dei miei numi tutelari – ha messo a fuoco questo punto. E ti sto parlando di un maestro vero, uno dei pochi musicologi e critici seri che ho conosciuto durante tutta la mia vita. A proposito di Mila: pensa che, malgrado la nostra amicizia, non ha mai scritto, né bene né male, delle mie malefatte musicali.»
Adoro Mila e la sua Breve storia della musica. A casa, vado a controllare. In realtà anche Mila accenna a questa specie di monomania italiana per il melodramma; in più esplora una serie di ragioni storiche che vanno dalla dispersione all’estero, nella seconda metà del Settecento, dei compositori italiani più influenti dell’epoca, alla diversa concezione del Romanticismo in Germania e in Italia.
«Maestro», dice l’intruso dai capelli a spazzola, rivolgendosi questa volta a Caramella e mettendogli sotto il naso la cosa che ha disegnato sul tovagliolo. «Ho schizzato le due cameriere. Che ne pensa dello stile? Non le pare un po’ leonardesco?»
«Senza dubbio», mormora il pianista con un filo di voce, visibilmente disorientato. Io penso a Bach che si lasciava ispirare da Vivaldi, ai viaggi formativi di Mozart in Italia, e poi a una specie di buco nero mediterraneo dal quale emerge impetuosamente una sola energia dominante e onnivora, quella del melodismo sentimentale.
![]() |
Giacomo Puccini: lettera autografa da Vacallo (Svizzera) a Milano, indirizzata a Giulio Ricordi, 15 novembre 1890. Collezione privata Riccardo Caramella. Puccini scrive: «Gentilissimo Sig. Giulio, il Doge di Vacallo stà bene e lavora. I sudditi son calmi e in salute. Poco freddo poichè la sala è riscaldata dal patriarcale camino dogale. Il Kromprinz (in realtàKronprinz, “principe della corona”, scherzoso modo di riferirsi al figlioletto Antonio, ndr) è il più vegeto rampollo della repubblica. La czarina è un pò... secondo il solito. A giorni faremo ritorno alla capitale. La mia favorita Manon è cresciuta e mi pare in buona salute. Dal mio primo ministro Oliva (uno dei librettisti della Manon Lescaut, ndr) non ho più notizie, attendo il 4° atto e 2°. Di Madrid niente? A quando l’andata? Abbiamo una splendida stagione e a dir la verità mi rincresce tornare a Milano. Qui lavoro tanto bene!! Sempre all’oscuro di tutto, senza notizie e senza noje. Elvira mi incarica di salutarla e così ancora la Signora Giuditta (Giuditta Brivio, moglie di Giulio R., ndr) e la Ginetta. A presto dunque e discuteremo ancora perchè... è malattia cronica per me. Ossequi alla Signora e alla Rosina, Tito e Manoli (Tito ed Emanuele detto Manolo, figli di Giulio Ricordi, ndr). Tante cose aff. dal suo Giacomo Puccini.» |
«Ma i nostri operisti hanno composto, oltre alle Norme e alle Traviate, ai Rigoletti e alle Butterfly, un sacco di altre cose: intime, per pianoforte. C’è voluto un film come Il Gattopardo per far scoprire quel valzer inedito di Verdi. Orchestrato da Nino Rota, ma in origine era una composizione per piano solo: come tale l’ho registrata per primo», ricorda con orgoglio Riccardo, che alle pagine “segrete” dei compositori italiani ha dedicato una mole impressionante di incisioni e scritti di corredo. «Ti ho già parlato, in una e-mail, del tango ante litteram di Puccini. Una delle tante prove di quanto i nostri operisti fossero curiosi di ciò che andava accadendo negli ambiti musicali di tutto il mondo.»
Ostento un po’ di snobismo, per punzecchiarlo. «Sì, ma si tratta sempre di musica, come dire?, marginale. Bisogna aspettare uno come Busoni per dire: ecco un italiano con le palle, che ha qualcosa di nuovo da dire.»
Mi guarda storto. Non ammette che si manchi di rispetto ai nostri eroi nazionali della musica, ai quali ha dedicato una vita di ricerche contribuendo non poco a farne conoscere gli aspetti più trascurati. «Lo sapevi, per esempio, che Una furtiva lagrima era la rielaborazione di una paginetta per pianoforte che Donizetti aveva scritto a undici anni per l’esame di ammissione al conservatorio di Bergamo? Più spesso di quanto non si creda i nostri operisti hanno tirato fuori arie immortali da precedenti composizioni da camera, scritte per puro sfizio personale. Insomma hanno fatto il cammino inverso di Liszt: invece di parafrasare arie d’opera trascrivendole per il pianoforte, sono partiti dai propri fogli d’album per dare nuova vita a intuizioni già pronte per l’uso.»
«Da qualche parte ho letto che il valzer di Musetta nella Bohème, la romanza Quando me n’ vo soletta, ha un’origine del genere...»
«Sì, era un adattamento del Piccolo valzer per pianoforte in mi maggiore che Puccini aveva già composto qualche tempo prima. Pensa un po’: per una cerimonia militare!»
«La musica è come il maiale. Non si butta via niente.»
«Neanche Mascagni buttava via niente. Per l’intermezzo sinfonico della Cavalleria riciclò qualcosa che aveva già scritto per una funzione ecclesiastica.»
Anche l’uomo dal maglione rosso comincia a sentirsi trascurato come il tango di Puccini, il capriccio di Bellini e il notturno di Catalani. Si alza, ci tende solennemente la mano per un congedo definitivo ma, invece di pronunciare un arrivederci o un addio, se ne esce con un’altra battuta dadà: «Vero che sembro la fotocopia di Pasolini?»
![]() |
Gioachino Rossini: Un rien, documento autografo, Parigi 1860. Collezione privata Riccardo Caramella. Il frammento musicale, tuttora inedito, l’ho ascoltato in gran segreto da un’esecuzione di Caramella. Intimo, delicato, ha una partenza melanconica che diventa spiritosa nella lunga scala ascensionale che lo conclude. |
Un rien. Tema e variazioni.
Siamo parchi. Faccio notare a Riccardo che stiamo consumando un rien laddove Rossini sarebbe stato felice di divorare almeno quattro hors d’oeuvre, prima delle portate più corpose. «A proposito», aggiungo, «guarda che sul tuo cd sui Péchés di Rossini oeuvreè stato scritto con la s finale. Per quel poco che so di francese...»
«È stato lui a scrivere così, e abbiamo rispettato il suo errore. Ma quello è niente. Ti manderò la copia di un menu dove scrive Bordò e Schiampagne.»
![]() |
Rossini compositore di menu. |
Un rien, un nonnulla, è anche il cimelio più idolatrato da Riccardo Caramella, che lo custodisce insieme ai molti feticci di una collezione comprensiva di spartiti originali e altri documenti autografi.
«Quel rien, scritto tra parentesi da Rossini in persona sopra un doppio pentagramma, lo vidi per la prima volta a quindici anni, in casa di Alberto e Marisa Bruni Tedeschi. Lui è stato un famoso industriale ma anche collezionista d’arte e soprattutto compositore di spicco: ho suonato una quarantina di volte in tutto il mondo la sua Fantasia-recitativo, quasi una danza per pianoforte e orchestra, uscita anche in cd. Lei è una donna affascinante, di rara simpatia e pianista di gran classe, amica fedele di, ormai, tutta una vita. E i figli – il compianto Virginio, Valeria, Carla: – a tutti sono da sempre molto affezionato. Il rien (“un nulla, un pensierino da poco”) stava su una parete, inquadrato in una preziosa cornice del Bonzanigo, il grande ebanista di casa Savoia. Rossini aveva regalato a qualcuno non solo la cornice ma anche il frammento musicale in essa contenuto, tuttora inedito: l’ho registrato, prima o poi lo pubblicherò.»
«E adesso quel rien ce l’hai tu. Che hai fatto, l’hai rubato?»
Ride.
![]() |
Caramella con Marisa Borini (terza da sinistra) e le figlie Carla Bruni e Valeria Bruni Tedeschi, a Venezia per l'inaugurazione del Fondo Alberto Bruni Tedeschi alla Fondazione Cini (3 novembre 2009). Marisa, non solo pianista e concertista ma anche attrice, compare in vari film francesi e italiani di e con Valeria, tra cui il recentissimo La pazza gioia di Paolo Virzì. Col nome di Marisa Bruni Tedeschi ha appena pubblicato in Francia un’autobiografia, Mes chères filles, je vais vous raconter... (Éditions Robert Laffont, 2016), che sta ottenendo molto successo e sarà presto pubblicata anche in Italia. Nel libro l’autrice cita a più riprese Caramella. |
«No. Nel novembre del 2009, mi occupai dell’apertura del Fondo Alberto Bruni Tedeschi alla Fondazione Cini di Venezia. La famiglia Bruni Tedeschi volle farmi un regalo speciale per esprimere la sua gratitudine e, a sorpresa, mi vidi recapitare quell’oggetto di lunga adorazione. Mi commossi. Sapevo benissimo quanto valesse, affettivamente, anche per loro.»
Per l’eccentrica ironia di Rossini, pronto a minimizzare, con le parole, persino il proprio talento – tanto da intitolare Quelques riens pour album il dodicesimo volume dei suoi Péchés de vieillesse – Caramella nutre una venerazione viscerale. «Da insanabile gourmet etichettava come Acciughe, Cetrioli e Fichi secchi certi suoi Péchés per pianoforte, senza curarsi minimamente di stabilire qualche corrispondenza concettuale fra quegli alimenti e i rispettivi contenuti musicali.»
«Forse l’uomo dal maglione rosso, sebbene così magro, è una sua reincarnazione. Rossini ci tiene d’occhio dall’aldilà, per sentire se spettegoliamo su di lui.»
«O per rimproverare il nostro disinteresse per il burro. Il suo umorismo era debordante, e non solo di natura gastronomica. Prendi l’introduzione della Petite messe solennelle: sembra un tributo ai battellieri del Volga. Altro che musica sacra.»
«Rossini si atteggiava a conservatore ma era avanti di mezzo secolo sulle convenzioni di allora. E così si tirò addosso critiche da tutti i fronti: dalle avanguardie del Romanticismo e dalle anime pie ancorate al passato.»
Sono un fanatico della Petite messe, a cominciare dal sound: due pianoforti e l’armonium, oltre alle voci. Cito con entusiasmo la registrazione di Sawallisch. Colgo un impercettibile lampo di risentimento nello sguardo di Riccardo, che si affretta a farmi notare, con nonchalance, di aver inciso anche lui quel capolavoro, con Mario Borciani all’altro piano e Istvan Ella all’armonium, sotto la guida di Gabor Mathauser. «E con i mitici Madrigalisti di Praga: dodici angeli, come voleva Rossini. Puoi trovare l’incisione su YouTube», aggiunge di sfuggita.
In effetti la discografia di Riccardo Caramella è sterminata, e spazia in un repertorio in gran parte alternativo rispetto a quello delle multinazionali del disco. Si va da Benedetto Marcello a Sgambati, da Chausson ad Addinsell, dalle trascrizioni pianistiche da Gluck a quelle dalle sinfonie di Beethoven. Un indirizzo da scopritore, che Caramella si è dato fin dagli inizi di carriera. «Che dovevo fare? Puntare sui notturni di Chopin, dopo Cortot, Rubinstein, Horowitz, Magaloff, Arrau, Bolet e altri duecento? Te l’immagini, una concorrenza simile? Ho preferito tendere l’orecchio alle pagine meno frequentate, fare spesso ricerche per conto mio, concentrarmi sugli inediti, promuovere iniziative di divulgazione musicale oltre a esibirmi dal vivo e incidere dischi.»
Durante i suoi recital e i suoi concerti di musica da camera, Riccardo usa intrattenere il pubblico raccontando storie e aneddoti sulle composizioni in programma. Dotato di notevole comunicativa, riesce a infondere calore e vivacità in occasioni solitamente austere e un po’ ingessate. Appartiene a una schiera di artisti poco visibili nell’olimpo divistico, ma indispensabili al recupero storico – e didattico – di un patrimonio che rischia di essere sopraffatto dai suoi capolavori più celebrati e risaputi.
La cultura della musica deve molto agli operatori piccoli e indipendenti. Sono coraggiosi e al tempo stesso vulnerabili: molte delle etichette per cui Caramella ha lavorato sono scomparse nel frattempo, e buona parte della sua discografia è finita fuori catalogo. Per questo Riccardo sta facendo caricare a poco a poco dall’amica Valérie, in un canale denominato Maison Vuillod, tutta la sua produzione su YouTube. La tecnologia ci aiuta sempre di più a colmare i buchi di memoria.
Riccardo e io ci conosciamo, lo ripeto, grazie alla pubblicità, materia che fa storcere il naso ai palati fini. Ma c’è da chiedersi che fine farebbe la musica, senza il sostegno del marketing e degli sponsor. Caramella si è sempre rimboccato le maniche, andando a cercarsi da solo i finanziamenti necessari alla produzione e alla distribuzione di dischi il cui contenuto è stato a lungo ignorato dai colossi come la Universal o la Sony. Certi suoi cofanetti antologici portano stampati, sulla custodia, marchi come AstraZeneca, Sofitel e Galbani, quest’ultimo presente, guarda caso, su un’edizione dei Quatre mendiants e dei Quatre hors d’oeuvres di Rossini.I quattro mendiants– alla lettera “mendicanti”, “accattoni” – sono le nocciole, i fichi secchi, le mandorle e le uvette, alimenti frugali per filosofi, atleti e monaci dell’antichità. Nella tradizione provenzale fanno parte dei tredici dessert della vigilia di Natale, e dal medioevo rappresentano altrettanti ordini religiosi perché di ciascuno ricordano il colore del saio: agostiniani (noci e nocciole), francescani (fichi secchi), carmelitani (mandorle) e domenicani (uva secca).
![]() |
Copertina di Ugo Nespolo per il cd Rossini: Quatre mendiants, quatre hors d’oeuvres, con esecuzioni di Riccardo Caramella. Nuova Era, 1996. |
Allegro scherzando.
In un’ora di Living, confortati solo da una dozzina di ravioli dietetici e un quartino di Gavi a testa, non si può che galleggiare in superficie. La personalità degli artisti merita di più, e quella del mio interlocutore mi intriga in modo particolare: perché è un amico, ma un amico sconosciuto, del quale mi sono fatto un’idea vaga e incompleta sulla base di indizi e impressioni sparse. Non ho mai avuto, per esempio, neanche l’occasione di assistere a una delle sue esibizioni pubbliche. Per questo ci lasciamo ripromettendoci di continuare l’intervista in altra occasione.
![]() |
Artisti in tournée per la Petite messe solennelle di Rossini, 1989. Da sinistra: Eun-Kan Song, basso; Paolo Barbacini, tenore; Riccardo Caramella, piano; Mario Borciani, piano; Giovanna De Liso Vaio, contralto; Júlia Pászthy, soprano; Jiří Kotouč (Madrigalisti di Praga). Al soprano ungherese Júlia Pászthy si alternava Laura Cherici (assente nella foto). In precedenza, il pulmino era stato allestito per la tournée europea dell’Orchestra di Radio Pechino. |
Il 7 giugno ci risentiamo, questa volta al telefono.
«Nella foto che mi hai mandato vedo il minibus Iveco-Lufthansa e un gruppo di persone tra cui ci sei tu, ma neanche un cinese», esordisco. «Anche se leggo sulla carrozzeria “European Tour of the Beijing Radio Symphony Orchestra”.»
«Quella foto non c’entra con il tour cinese, è successiva. A un certo punto il minibus diventò mio....»
«Un petit rien su quattro ruote?»
«A impresa conclusa, il furgone mi fu regalato. In quel periodo collaboravo con un noleggiatore di autobus per le tournée che facevo con grandi orchestre. In varie occasioni mi chiese in prestito il pulmino per trasportare musicisti come Sting e altre celebrità on tour, mi pare anche i Rolling Stones. Dentro c’erano il frigo e a ogni sedile i ripiani con la luce. Una figata. Nella foto sono con il cast della Petite messe solennelle, nel 1989.»
«Qualcuno chiama “musica seria” quella dei compositori classici, ma tu hai sempre l’aria di spassartela.»
«Storici, musicologi e critici dall’anima triste hanno ingessato la musica classica facendola diventare un supplizio per orecchie elitarie. Che cazzata! Se inquadri quella musica nel suo contesto storico, scopri che era fatta per procurare felicità, mica per rompere i coglioni. E i geni non sono statue di marmo, sono esseri umani. Hai mai letto I grandi musicisti di Schoenberg? Non Arnold, l’altro Schoenberg, il critico americano. Per me il più bel libro mai scritto sulla musica. Invece di menarla con le analisi tecniche e specialistiche ti racconta gli uomini, il loro modo di pensare e di vivere, e da quello capisci meglio le loro opere. Prendi Beethoven: era mica un busto di gesso. Era un maniaco del caffè. Certe mattine faceva il giro delle migliori botteghe di Vienna, sette-otto per volta. Si faceva spargere i chicchi sul bancone, li ispezionava come se fossero diamanti e ne sceglieva un po’ in un negozio e un po’ nell’altro, per mettere insieme la miscela ideale.»
«Ogni nota della Nona un grano di caffè. L’ho sempre pensato che per gli artisti il caffè è meglio della cocaina.»
«E il suo testamento, l’hai letto?»
«No.»
«Pazzo! Devi leggerlo assolutamente! Lo trovi in internet.»
«Finisco un libro di Stephen King e poi....»
«No, lo devi leggere subito. Prima di sera!»
«Obbedisco.»
«Giura.»
«Lo giuro.»
«Una delle più grandi pagine letterarie di ogni tempo. Non puoi capire Beethoven, non sai un cazzo su Beethoven se non hai letto il suo testamento. Hanno messo in un ghetto di rompicoglioni lui e altri giganti. Mozart. Van Gogh. Per tutti lo stesso destino: uccelli da impagliare. Uomini in carne e ossa ridotti a fantasmi, come se fossero già morti quando creavano i loro capolavori. Tu vai a un concerto ed è come se andassi in chiesa, al cimitero, al museo delle cere. E nessuno osa fiatare. Se ti scappa un colpo di tosse ti mettono alla gogna. Ma non era affatto così! Liszt, per dirne uno, suonava che era una festa per tutti, ed era lui per primo a non metterla giù dura! E mica si offendeva se qualcuno si stravaccava sul tappeto e un altro faceva merenda! Guardali i vecchi dipinti, le vecchie illustrazioni che ritraggono i concertisti e il loro pubblico. Ma in quale vangelo c’è scritto che a teatro è vietato sorridere, e che se batti le mani tra un movimento e l’altro del quartetto o della sinfonia sei uno stronzo troglodita? All’opera, grazie a Dio, si applaude anche a scena aperta, prima ancora che il tenore di Nessun dorma arrivi al Vincerò... Per non parlare dei concerti rock...»
«Ecco perché ce l’hai su con Pollini.»
«Nessuno l’ha mai visto sorridere. Nessuno può dire: ho visto i denti di Maurizio Pollini.»
«Non toccarmi Pollini, sono un suo fan.»
«Quando uno si rivolge alla platea con quell’aria di soave disprezzo, è come se pensasse: sto suonando per il popolo bue.»
«Magari è solo introverso.»
«Io il pubblico lo adoro come si adora un amante, voglio fare sesso con lui. Se fosse possibile vorrei che gli spettatori venissero a sedersi sulle mie ginocchia mentre suono. Mi rifiuto di capire quelli che si fanno venire il rigor mortis appena sentono scartare una caramella.»
«Io se mi strappano la barbella m’incazzo, invece.»
«Prendi questo tabù di non applaudire tra un movimento e l’altro. C’è sempre qualcuno che ci prova, e gli altri lo guardano in cagnesco. Dal palcoscenico, quando succede a me, li incoraggio: dàì, dài, dico, un applauso in più non ha mai ammazzato nessuno. La gente normale ha voglia di partecipare, di far sentire il clap clap delle sue mani, così come ha voglia di ballare ai concerti rock. La musica è una festa! Imbalsamarla è un delitto!»
«Ho visto su YouTube che, prima di attaccare il tema di Un uomo, una donna, istighi gli spettatori a cantare in coro da-ba-da-ba-dà...»
«Però fatelo a tempo, aggiungo. Poi li frego. Alla ripresa, sullo stesso ritmo e con le stesse note iniziali, suono un’altra cosa (in quel caso si trattava di una suite dedicata al cinema francese), mentre loro stanno ancora dabadabadando!»
«Fai l’istrione come Bollani... Il comédien, come dicono nella tua nuova patria.»
![]() |
Torino, 1976. Prove a tavolino della trilogia teatrale L’eroe borghese di Carl Sternheim, nel foyer del Teatro Gobetti. Caramella (secondo da sinistra, accanto al regista Mario Missiroli) ricorda la supervisione, durante le prove, di Anna Maria Guarnieri: «Faceva la maglia e tentava (poverina) di insegnarmi a recitare.» |
«Oh, Bollani è molto più bravo di me in queste cose. Anche perché il genere di musica che fa – in modo assolutamente geniale e sorprendente – offre ben più libertà della musica classica. Il fatto è che tutti sono stati indotti a credere che nel Settecento, nell’Ottocento, fosse indispensabile mantenere un contegno austero, inflessibile. Che errore! Persino con Chopin, così come con Liszt o Paganini – con loro in persona, intendo – era lecito avere un bicchiere in mano, masticare qualcosa. I Lieder di Schubert erano creati e giravano nelle taverne. Il concertismo “ufficiale” è noioso.»
«Glenn Gould era così stufo dei concerti che a un certo punto decise di non darne più. Ma a lui facevano schifo per un’altra ragione. Diceva che sono un’esibizione da circo, e che li si frequenta non per autentica passione musicale ma per godere sadicamente al minimo errore del solista. Se non lo colgono in fallo, rimangono delusi. Per questo detestava tutto il repertorio concepito apposta per il pianoforte, musica impura, fatta per consentire ai pianisti di mettere in mostra le proprie acrobazie... Preferiva Bach a Liszt e Chopin.»
«In effetti, quando c’è un pianista sulla scena, i posti che vengono prenotati prima di tutti gli altri sono quelli da cui si possono vedere le sue mani. A me non ha mai dato fastidio. Vuoi guardarmi le mani? Voilà! Che male c’è? La gente si deve divertire. Ne ha il diritto. A volte vai a teatro dopo esserti fatto il mazzo tutta la settimana, in ufficio o in fabbrica o dove ti pare: sei stanco, la vita non è tutta rose e fiori, non è giusto che diventi una rottura di palle anche alla Scala o nelle sale da concerto. Sai cosa ho fatto io durante un concerto di gala? Un mezzo striptease. Faceva un caldo boia, sudavo, e allora mi sono rivolto al pubblico chiedendo: trovate disdicevole se mi tolgo un po’ di roba, visto che i fari mi stanno cuocendo alla griglia? In quattro e quattr’otto mi sfilo la giacca del frac, il papillon, il gilet. E sai che ti dico? Non sono stato il solo a sentirmi meglio. È stato distensivo anche per il pubblico. Hanno visto che ero una persona vera, non un manichino da vetrina, e giù applausi. E non sai quante volte l’ho fatto, ad esempio a Salamanca. Quando anni dopo sono tornato nello stesso teatro, appena entrato in scena mi hanno gridato dalla galleria: “Sácate el frac!”, togliti il frac. Forse si ricordavano più di quel gesto che della mia prestazione.»
«Togliersi qualche vestito di troppo è simpatico. Io sono andato oltre: in una serata pubblica a Cannes, durante il festival internazionale della pubblicità, stavo facendo uno speech sui problemi del nostro tempo – che io chiamo “età nuda” – e mi sono tolto via tutto, tranne le mutande. Le mie quotazioni, in termini di simpatia, sono andate alle stelle. Ma a me piace il teatro anche quando incute timore reverenziale. Sono uno di quelli che trattengono la tosse fino alle lacrime, e che prima di farsi scappare uno sbadiglio si piegano giù fino al tappeto. Una volta alla Scala ho dormito quattro ore sul Parsifal. Ho mancato di rispetto a Wagner e alla Scala. Me ne vergogno ancora adesso.»
«Non avresti dormito se durante lo spettacolo ti avessero servito cioccolata e sorbetti, come nel Sette/Ottocento. Domenico Barbaja, prima di diventare uno dei più geniali e importanti impresari teatrali della storia, iniziò vendendo cioccolata calda oppure barbajada – il prodromo del cappuccino, inventato da lui – e organizzando il gioco d’azzardo. Dove, secondo te? Alla Scala, ovviamente. E nello stesso tempio della musica, nei palchi, i “signori” banchettavano serviti da orde di camerieri. Pensa che a un certo punto il governatore austriaco dovette emanare un’ordinanza per far chiudere delle finestrelle nei palchi, visto che venivano usate per buttare sulla pubblica via i resti dell’opulenta magnata! Al San Carlo di Napoli, invece, passava l’uomo col carretto dei gelati. Si fermava la rappresentazione per suonare l’Aria del Sorbetto e permettere ai gelatai di entrare e servire il pubblico.»
«Insomma ho capito che sei quel che si dice un animale da palcoscenico. Parli con la gente, la fai cantare, scherzi, rimpiangi i gelati di Napoli, te ne freghi dell’aura...»
«Di solito i miei spettacoli durano tre ore: non sto lì solo a suonare, racconto aneddoti, cerco di presentare gli autori soprattutto come uomini, evito in ogni modo di fare didattica visto che della musica non c’è niente da capire ma solo tutto da ascoltare facendosi più o meno trasportare, mostro filmati e immagini... Sono convinto che questo metta il pubblico a suo agio, cosa che mi fa sentire tra amici.»
«Una via di mezzo tra il sacro, il jazz club e il cabaret. Sì, penso che con la musica da camera si possa fare.»
![]() |
Caramella attore. Nel 1976 interpreta un prete cattolico in 1913, terza parte della trilogia L’eroe borghese di Carl Sternheim. Lo spettacolo va in scena all’Alfieri di Torino dall’11 novembre all’8 dicembre 1976, poi al Manzoni di Milano fino all’Epifania e altri quattro mesi di tournée in Italia, con la regia di Mario Missiroli e musiche di Benedetto Ghiglia. Nel cast Paolo Bonacelli, Mimmo Craig, Giuliana Calandra, Anna Nogara, Gianfranco Barra, Teodoro Cassano, etc. |
Études et Préludes.
«Quando sei sotto i riflettori, non provi mai un senso di paura? Hai mai sperimentato il panico?»
«Paura no. Emozione e preoccupazione, per default. Certe volte dico a mia moglie, che da 36 anni subisce i miei sbalzi d’umore: sono troppo tranquillo e la cosa mi preoccupa. Il panico una volta sola, ne parleremo dopo. Nel 1967 ho debuttato, con altri due allievi della Maestra Golia, al circolo San Paolo di Torino di piazza Bernini, una saletta da duecento posti. Alla fine gridavano bis, bis, ma io non mi ero preparato nessun bis, pensavo che sarebbe già stato un miracolo che mi lasciassero arrivare alla fine. Con la faccia più tosta del mondo mi sono risistemato sullo sgabello e ho azzardato un pezzo che stavo ancora studiando, il Valzer in la minore opera postuma di Chopin. La fortuna aiuta gli audaci, pensavo. Ho preso tanti applausi da far venire giù la sala. E da allora lo suono quasi sempre come bis.»
![]() |
Ritratto dell’artista da giovane. Caramella nel 1976, durante le prove de L’eroe borghese. |
«Bella prodezza. Eri pagato?»
«No, il primo concerto pagato sarebbe arrivato tre anni più tardi...»
«Immagino che se non ti pagano puoi permetterti di fare quello che vuoi.»
«Me lo ricordo bene il primo concerto pagato, ho ancora la marchetta sul libretto Enpals. Fu alla Villa Olmo di Como.»
«Ecco, tentiamo un flashback un po’ più ardito. Dove hai studiato? Come è cominciata la tua vita da pianista?»
«Sono nato in una famiglia di melomani. Nessun professionista in casa, ma la musica era ben radicata nel nostro ceppo: un piacere sublime, al quale era difficile sfuggire. Specialmente l’opera: lo capivi anche dai nomi. La mia mamma si chiamava Gioconda, sua sorella era zia Carmen, e c’era un altro zio, di nome Amelio, che tutti chiamavano Otello. Ho rischiato di chiamarmi Nabucco o Tannhäuser, mi è andata di culo.»
«Anche mio nonno paterno era patito dell’opera. Chiamò Alfredo e Mario i figli maschi, in onore di Alfredo Germont e Mario Cavaradossi.»
«Ma quelli erano solo nomi di personaggi, peraltro così diffusi da rendere poco automatico il riferimento alla fonte d’ispirazione. Mentre a casa nostra erano titoli d’opera. Come se avessero chiamato Traviato il piccolo Alfredo e Tosco il piccolo Mario.»
«E poi?»
«Ho sempre studiato privatamente, presentandomi al conservatorio di Torino per gli esami; il diploma, invece, l’ho conseguito al Paganini di Genova. Ho cominciato ai tempi delle elementari, con un maestro che si chiamava Cavatorta e dava lezioni private. Pensa un po’ che abbinata: Cavatorta-Caramella. E non era ancora niente: poi ho studiato con la Maestra Golia. Caramella-Golia, non è buffo? E fosse finita lì! Ho suonato anche con Berthilde Dufour, primo violino solista dell’Orchestra di Cannes. Duo Caramella Dufour. Aspetto con ansia di esibirmi con qualche Rossana. Però ho registrato diverse composizioni di Lorenzo Ferrero, mio compagno delle elementari, tra cui il primo Concerto per pianoforte e orchestra.»
![]() |
Torino, 1958. Riccardo Caramella (terzo da sinistra nella fila più in alto) e il compositore Lorenzo Ferrero (quinto da sinistra nella fila più in basso) in una foto-ricordo scolastica. |
«A Pollini queste combinazioni non succedono. Per questo con lui non si ride.»
«Ti dicevo di casa mia. Sapevamo le opere a memoria e le cantavamo. La domenica mattina, a casa si svolgeva questo rito un po’ assurdo. Grandi e bambini cantavamo, metti, l’Aida tutta intera (genitori, zii, cugini), e io li accompagnavo al pianoforte. Che palle, per un ragazzino. Te l’immagini? Invece di andare a giocare a biglie coi compagni... Ma oggi resta uno dei ricordi più belli della mia vita, altro che i concerti al Musikverein!»
«Fino a quando è durata?»
«Fino ai dodici, tredici anni. Nel frattempo e in seguito, ero passato dal maestro Cavatorta alla maestra Roggero e da questa a Maria Golia, pianista sublime, una che da giovane rivaleggiava costantemente, ai concorsi, con Benedetti Michelangeli.»
![]() |
Circolo San Paolo, Torino. Caramella al piano con la maestra Maria Golia e il marito Ugo Barbaglia, insegnante di solfeggio e armonia. |
«Non bruciamo le tappe. Vai con ordine. Cosa hai imparato dai tuoi maestri?»
«Il primo mi ha dato i rudimenti, poi ho avuto una crisi di rigetto – non per il pianoforte in sé, ma per il fatto che, nell’inconscio, non provavo piacere a studiare prevalentemente brani in origine quasi sempre non pianistici: trascrizioni di opere, sinfonie... Ho detto ai miei che non volevo più saperne. “Allora restituiamo il piano che abbiamo in affitto”, dice mamma; e io tiro un respiro di sollievo, visto che avevo preso la drastica e definitiva decisione di chiudere irrevocabilmente con la musica.»
«Come ne uscisti, da quella crisi?»
«Dopo sei mesi il maledetto strumento mi mancava. Vado dai miei e dico che magari potrei ricominciare a suonicchiare, ma che non se ne parla proprio di maestri: faccio da solo. Gioia assoluta di mamma e papà che non volevano certo fare di me un professionista, ma solo iniziarmi alla musica suonata. Ed ecco che, come per magia, il giorno dopo ricompare il “mio” pianoforte, l’ormai vecchio e malato, ma inseparabile, Hartmann verticale. Era stato comprato fin dall’inizio. Quando avevo deciso di smettere era solo stato parcheggiato e revisionato presso un accordatore. Passati altri sei mesi capii da me, anche se ero solo poco più che un bambino, che non puoi suonare il piano senza una preparazione tecnica come si deve. La mia nuova maestra, la signora Roggero, mi aiutò moltissimo. Era talmente umile da avere il coraggio, in capo a un anno, di dichiarare ai miei: non ho più nulla da insegnargli, non saprei dargli di più. Pensa che persona! Così onesta da rinunciare a un cliente e soprattutto a un possibile allievo da mostrare!»
«Sembra la storia di un enfant prodige.»
«Macché prodige. Ne avevo ancora di cose da masticare, e quante! Ebbi una fortuna sfacciata. La maestra uscente (Roggero) volle accompagnare di persona mamma e me al conservatorio per la ricerca di un nuovo insegnante. E l’usciere ci dice che proprio la signora che sta passando nel corridoio, Maria Golia, dà anche lezioni private. Di meglio non poteva capitarmi!»
«Parlami di lei.»
«Una pianista immensa, davvero degna di competere con Michelangeli. Purtroppo decise di ritirarsi prematuramente. Smise di suonare da un giorno all’altro per dedicarsi in esclusiva alla famiglia, al figlio. Per me è stata una seconda madre. A cinquant’anni suonati andavo ancora da lei a chiedere consigli. Qualche volta la pregavo in ginocchio di ritornare in scena, una tantum, magari con me a quattro mani o due pianoforti: macché, aveva detto basta ed era un “basta” irremovibile. Fu a casa sua che conobbi Alexis Weissenberg, Emil Gilels, Georges Cziffra e, cinquant’anni fa, incrociai per la prima volta Marisa Borini, pianista e concertista anche lei. Quando Maria Golia morì, dieci anni fa, scrissi di getto un pezzo sul Giornale della Musica, sopraffatto dalla tristezza, dalla gratitudine e dai ricordi.»
![]() |
Un ricordo di Caramella sul Giornale della Musica, dedicato alla maestra Maria Golia dopo la morte di lei. |
«Immagino che il passaggio più delicato, per un musicista, sia quello dagli studi all’attività professionale vera e propria. Conosco dei giovani musicisti, fanno una fatica del diavolo per affermarsi. Era così anche ai tuoi tempi?»
«Non è stata una passeggiata. Avevo diciotto anni e mezzo quando è morto il mio papà. Per cinque anni ho fatto la doppia vita: pianista e rappresentante di materiali elettrici, in particolare della ICEL (Industria Conduttori Elettrici Lugo), cosa che mi ha fatto diventare un concorrente “temibile” di Alberto Bruni Tedeschi, presidente della Ceat. Ufficialmente sono persino stato per qualche mese un agente della B Ticino.»
![]() |
Torino, 1985. I figli di Caramella, Paola e Niccolò, all’assalto dell’Hartmann di papà. |
«Ce l’hai ancora l’Hartmann della tua giovinezza?»
«Sì, non potrei disfarmene. Adesso si gode la meritata pensione nella nostra casa di Torino e lo uso molto raramente. Ogni tanto lo “visita” Roberto Grosso, il tecnico e accordatore che da decenni mi segue, quando può anche in tournée. Impareggiabile nella preparazione di un piano per un concerto o una registrazione: un vero artista! Ed è anche un bravo compositore: in varie occasioni ho suonato le sue musiche o i geniali arrangiamenti che ha fatto apposta per me.»
«Spesso ci si dimentica dell’apporto e del valore dei tecnici, quando si fa musica da professionisti.»
«Proprio un paio di settimane fa è venuto apposta da Torino per seguire le registrazioni dei miei prossimi due cd, con l’ormai abituale presenza dell’amica Valérie Vuillod. Ne sono successe di tutti i colori: allarmi che suonavano, usignoli che cantavano a squarciagola proprio davanti al mio studio, aerei ed elicotteri che temevo volessero atterrare in giardino e, la vera chicca, una corda che si rompe sull’ultimo accordo del Walzer n. 2 (quello che per anni si è pensato facesse parte della Suite n. 2 per jazz orchestra, mentre sembra ormai accertato che fosse uno dei movimenti della Suite for variety orchestra) di Dmitrij Šostakovič. Devi vedere sul filmatola mia espressione... E Roberto, tanto per mettermi di buon umore, dice di non avere la corda di ricambio... C’erano ancora diversi brani da registrare!»
«Così è la vita. Siamo tutti sospesi a una corda.»
Terrore in fa diesis.
«Hai accennato all’esperienza del panico. Sentiamola.»
«Panico e praticamente disperazione ma, ancora una volta, un gran colpo di fortuna. Accadde a Miami, nel 1978. Avevo da non molto compiuto i ventisei anni, era il mio debutto negli Stati Uniti, alla Florida International University. Mi presentavo con Skrjabin, uno dei miei autori preferiti. Avevo in programma, ultimo brano del concerto fino a quel momento andato alla grande, la Sonata n. 4 in fa diesis maggiore, mirabile quanto insidiosa. È una sonata in due movimenti: dall’Andante del primo si passa senza pausa al Prestissimo volando del secondo. Tonalità di Fa diesis terrificante, numero impressionante di note da suonare, velocità spaventosa. Parto benissimo, come un treno, e all’improvviso precipito in un buco nero: vuoto di memoria. Disperato, salto a pie’ pari, ovviamente senza fermarmi, due pagine di spartito e tiro fino alla fine, sudando come un condannato a morte. Il pubblico sembra non accorgersi della catastrofe. Scatta l’applauso, mi alzo e scappo in camerino mentre quelli applaudono in standing ovation. In camerino piango, stordito, per non so quanti minuti e non ritorno in scena malgrado le richieste fragorose e incessanti di bis. Toc toc. Bussano alla porta.»
«Il Commendatore venuto a regolare i conti con Don Giovanni...»
«No, tre angeli scesi dal cielo. Emil Gilels, Rudolf Serkin e Artur Rubinstein.»
«Non ci credo.»
«Ci devi credere, invece. Anche se è la cosa più magica che mi sia mai capitata. “Perché sei scappato?”, domanda Gilels. “Di là ti stanno ancora applaudendo.” E io: “Ho sbagliato tutto, la mia carriera è irrimediabilmente finita.”»
«Ma tu che ci facevi a Miami, tra quei mostri sacri?»
«Erano anche loro a Miami per un festival internazionale e credo che fossero nella stessa università per un simposio o qualcosa del genere. Ma stammi a sentire, adesso viene il bello.»
«Vai avanti, sono sulle corde.»
«Emil Gilels, il mio idolo assoluto, l’inarrivabile Gilels che avevo avuto l’immenso piacere di conoscere dalla Maestra Golia, mi mette una mano sulla spalla e mi regala la più grande lezione di sempre. Mi dice: “Il giorno che smetterai di fare questi sbagli, smetti di suonare perché non sarai più un artista.”»
«Ti fece capire che gli artisti non sono macchine, e le macchine non sono artisti.»
«Paradossalmente, quell’errore fu il mio colpo di culo. Mi insegnò che sbagliare è umano. Come ho sempre detto, per il pubblico può diventare una fortuna essere presente quando una ballerina cade, un tenore stecca, un pianista parte per la tangente. Se in scena c’è un artista di valore, lì scatta la reazione e la ricerca della riscossa e gli spettatori potranno ascoltare e vedere qualcosa di veramente eccezionale e irripetibile.»
«The show must go on.»
«Soprattutto must go on per l’artista. Se dovesse non riprendersi e mollare sarebbe la fine per lui, ben più che per il pubblico. In ogni caso ognuno di noi sa che l’errore è inevitabile, e deve imparare a conviverci. Il che non vuol dire che devi prenderla alla leggera, anzi.»
«Peccato che siamo al telefono. Vorrei stringere la mano che ha stretto quella di Gilels, Serkin e Rubinstein.»
«Te l’ho detto della stretta di mano con Karajan?»
«No.»
Maestoso.
«Credo sia successo quello stesso anno. Ero in tournée per l’Italia e mi trovavo a Palermo. Un recital nella discoteca universitaria. Non la discoteca con le cubiste, beninteso, ma l’archivio sonoro dell’ateneo, situato in una chiesa sconsacrata. C’erano migliaia di lp. Guarda caso, Karajan era a Palermo anche lui. Aveva diretto qualcosa al Teatro Massimo il giorno prima del mio recital e doveva tornare subito a Berlino; ma per uno dei soliti scioperi (la sola astensione dal lavoro del personale Alitalia che mi è rimasta nel cuore) era rimasto bloccato in città un giorno di più. La sera, furibondo e non sapendo che cazzo fare, va a spasso, arriva alla bella chiesa illuminata e entra per curiosare dove sto suonando io, che continuo tranquillo e sereno, non sapendo che in sala c’è Lui. Dunque figurati la sorpresa quando, finito lo spettacolo, me lo vedo apparire in camerino.»
«Non vale. La fortuna ha un debole per i tuoi camerini.»
«Puoi ben dirlo. E pensa che anche quella sera finivo il concerto, lo giuro, con la Quarta di Skrjabin. Bussa, apro, mi tende la mano e mi fa: “Buonasera, sono Herbert von Karajan”, come se mi potesse succedere di scambiarlo per qualcun altro.»
«Un rappresentante della B Ticino.»
«Si congratula con me e mi dice: “Penso che lei suonerebbe benissimo in duo con Leon Spierer; mi lasci il suo numero di telefono.”»
«Sarai svenuto per l’emozione. E poi?»
«Saluta e se ne va.»
«Tutto qui?»
«Aspetta. Il giorno dopo suono a Catania e poi parto per Bari, dove mi aspettano al Petruzzelli. Quando sono in tournée, la prima cosa che faccio è raccomandare al portiere dell’albergo di non passarmi telefonate per nessun motivo prima dello spettacolo. Prima del concerto il letto è la sola cosa che m’interessa. E invece, quel pomeriggio, drin drin.»
«Karajan?»
«No. Il centralinista si scusa. Dice che non si sarebbe permesso di disturbare se in linea non ci fosse stata mia madre. Per una comunicazione urgentissima. Mi metto in allarme. Mamma sapeva benissimo che prima di ogni concerto ero in uno stato comatoso. Dunque penso: deve essere successo qualcosa di grave.»
«Invece?»
«Mamma dice che mi ha cercato un certo Mattoni da Berlino, per conto di Karajan (i giovani si chiederanno perché chiamassero mia madre... non esistevano ovviamente i cellulari e avevo lasciato quindi il numero di casa di Torino). Sembra una cosa importante, dovrei richiamare. A quei tempi non era così facile districarsi alla svelta con le telefonate internazionali. Cincischio fra centralini, prefissi, linee occupate. Finalmente ce la faccio. Mattoni vuol sapere se sono libero in aprile per incontrare Spierer, primo Konzertmeister dei Berliner Philharmoniker. Per Karajan avrei disdetto anche un impegno in paradiso, ma da bravo sbruffone dico con nonchalance: “Guardo l’agenda.”»
«E ci andasti?»
«Di corsa. Feci una prima prova con Spierer e il mitico Maestro fece varie apparizioni nella sala dove ci avevano sistemato.»
«Non sapevo che Karajan sovrintendesse personalmente anche alle attività cameristiche dei membri dell’orchestra.»
«In quel caso si trattava del leader dei Berliner, non di uno qualsiasi. Spierer era una specie di braccio destro per il Maestro. O almeno così mi parve. E non credo sovrintendesse, ma che magari desse consigli.»
«E come andò a finire?»
«Nacque subito una magnifica intesa, musicale e personale con Leo (ormai potevo chiamarlo così, risparmiando la n). Dopo qualche tempo, Spierer ed io partimmo per una lunga tournée.»
![]() |
Arezzo, 13 aprile 1980. Il violinista Leon Spierer, all’epoca primo Konzertmeister dei Berliner Philharmoniker, in duo con Riccardo Caramella. |
«Com’era, Karajan?»
«Severo e di poche parole, ma gentile, per il poco che l’ho visto.»
«Il duro di Berlino. E cosa suonavi con Spierer?»
«Il programma cominciava con due sonate di Pergolesi: la n. 1 in sol maggiore e la n. 12 in mi maggiore. Proseguiva con la Suite italienne di Stravinskij, più nota nella versione originale per orchestra, quella in forma di musica di scena per il balletto Pulcinella. Il lavoro di Stravinskij prendeva le mosse proprio dai temi principali di quelle due sonate di Pergolesi, citate in modo esplicito nella suite del balletto e nelle conseguenti versioni da camera. Si finiva con la Sonata n. 2 in re minore, op. 121 di Schumann. Lidia Palomba pubblicò sulla Gazzetta del Popolo una recensione di cui ancora ricordo il titolo: Chiare, fresche e torbide acque. Pergolesi la chiarezza, Stravinskij la freschezza, Schumann il torbido.»
«Qual è stato il tuo primo disco?»
![]() |
Caramella in due concerti con il Pražák Quartet, fondato a Praga nel 1972. In alto a Bergamo, il 28 gennaio 1982; in basso a Gorizia, nel 1985. All’epoca, il quartetto era formato da Václav Remeš, primo violino; Vlastimil Holek, secondo violino; Josef Klusoň, viola; Josef Pražák, violoncello. |
Finale: presto.
Starei volentieri al telefono fino a domani con Caramella. Il suo serbatoio di memorie, di aneddoti, di divagazioni, è straripante. E la sua conversazione è un contagioso allegro con brio che ti fa scordare l’orologio. Puoi ascoltarlo per due ore filate senza perdere la sensazione di stare ancora all’ouverture. Se hai il vizio del fumo e hai finito le sigarette, capisci che è tempo di accelerare.
«Scusami Riccardo, sto prendendo appunti e ho finito la carta. Peggio: ho esaurito anche la mia riserva di memoria e non vorrei trovarmi anch’io, poi, in piena sindrome di Miami, anche se la mia tastiera è solo quella del computer. Perciò devo saltare non due ma duecento pagine, e volare di corsa alla fine. So che di recente hai dato l’addio ufficiale alle scene, ma non ti ci vedo a giocare a golf tutto il tempo...»
«Non parlarmi di golf. Era il mio sfizio. Ho dovuto mollarlo cinque anni fa a causa dell’ernia del disco.»
«Del disco. Ti pareva. La musica ti attacca pure alla schiena. Dimmi cosa fai. Non ce l’hai anche tu qualche onlus di cui occuparti? Io mi do da fare per un’associazione benefica che si occupa di tumori.»
«Odio la parola beneficenza, preferisco solidarietà. Ho collaborato spesso con diverse grandi istituzioni. Nel 1991, per esempio, ho fatto una quarantina di concerti in una decina di paesi a fianco dell’Unicef, più due long playing e due cd (allora si stampavano entrambi) per la diffusione della Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia. Ma poi mi sono convertito alle organizzazioni microscopiche: mi piace vedere con i miei occhi dove vanno a finire i soldi che il pubblico, la gente, gli sponsor mi affidano. Risultati modesti ma tangibili, visibili come il pulmino che ho procurato al comune di Mandelieu per il trasporto di disabili e anziani. Un’associazione che mi sta molto a cuore è Rêves, che provvede a realizzare i sogni dei bambini seriamente malati. Per esempio nuotare a cavallo di un delfino.»
«Insegni?»
«Assolutamente no, anche se qualche volta ho partecipato da docente a delle master class. Ma ho smesso. Non ho mai creduto ai corsi di perfezionamento tenuti da insegnanti che vanno e vengono. L’unico che può aiutarti a migliorare è il tuo maestro abituale, perché conosce tutto di te.»
«Passiamo all’Album fur die Jügend. Che consiglio daresti ai giovani in uscita dai conservatori? Ne conosco alcuni di talento notevole – pianisti, violinisti, persino un sassofonista – che hanno già all’attivo premi internazionali, e che se fossero cinesi avrebbero già le agende in ebollizione e un contratto a vita con la Deutsche Grammophon. Ma quanto alla carriera, sono ancora alla fase uno.»
«Sai cosa facevo nelle master class? Dopo un po’ di musica dicevo: basta. Adesso vi insegno come si fa a scrivere una lettera, un programma, un curriculum. Non so se sono migliorati nel frattempo, ma i conservatori sfornavano ragazzi in grado di suonare ma incapaci di muoversi sul pianeta Terra. Alieni sprovvisti di nozioni elementari come le regole dell’autopromozione e, spesso, persino del bagaglio culturale indispensabile per contestualizzare la musica e afferrarne il senso profondo. Come fai a capire l’Ottocento tedesco se non sai niente dello Sturm und Drang, o Debussy se non conosci l’impressionismo? Che ne sai di Chopin se non hai mai letto né I dolori del giovane Werther né Le ultime lettere di Jacopo Ortis? Le lingue, poi: zero. Come pensi di affrontare una cena col direttore spagnolo di un teatro, o col direttore francese di una società di concerti? E anche se quel direttore fossi io, italiano, perché mai dovrebbe affascinarmi un curriculum uguale a mille altri? Perché mi fai sapere che sei capace di suonare il Chiaro di luna di Beethoven o il Concerto in la minore di Schumann? È ovvio che devi conoscerli!Ce ne sono mille altri che propongono le stesse pagine, quelle di sempre. Se invece scrivi al responsabile di un’orchestra per dirgli che hai in repertorio il Concerto in sidi Domenico Puccini, il nonno di Giacomo, o il Concerto in la minore per pianoforte e archi di Mendelssohn, desti curiosità e attenzione, perché è roba che non suona nessuno.»
«Immagino che oltre a registrare musiche poco frequentate, come il Fiume Giallo, ti sia capitata anche qualche prima mondiale.»
«Proprio il concerto di Mendelssohn che ho appena menzionato, per esempio. E altre cose ancora, tra cui la Fantaisie pastorale di Milhaud. Ecco, a proposito di Milhaud: 1992, era il suo centenario e avevo scoperto che la Fantaisie pastorale non era mai stata incisa. Ne parlai subito con Philippe Bender, per tanti anni direttore dell’Orchestra di Cannes con la quale avevo fatto molte tournée. Aggiungemmo il Carnaval d’Aixe un altro inedito, il Concertino per trombone, ed ecco che il disco era fatto. Sponsorizzato da Lavazza e Continente: avevano intuito entrambi che ne sarebbe nato un po’ di rumore. Grazie ai due inediti, infatti, tutti i giornali e le riviste specializzate ne parlarono a profusione e, per fortuna, entusiasticamente.»
![]() |
Cannes, Noga Hilton, 29 maggio 1992. Registrazione di un album con musiche di Milhaud nel centenario della nascita del compositore. Riccardo Caramella con l’Orchestre régional de Cannes-Provence-Alpes-Côte d’Azur diretta da Philippe Bender. |
«Dicevi che agli studenti insegnavi a scrivere lettere...»
«Questo io facevo: scrivevo lettere, lettere, lettere e – quando lo hanno inventato – spedivo fax, fax, fax (adesso c’è anche l’e-mail, dovrebbe essere più facile). E avanzavo proposte insolite di programmi. Tormentavo i destinatari della mia corrispondenza fino al punto che uno di loro mi rispose: “Le mando il contratto e poi venga a suonare, così finalmente la smetterà di scrivermi e telefonarmi.” E a quei tempi non c’era nemmeno il conforto della fotocopiatrice e del computer, con i suoi meravigliosi copia-incolla: olio di gomito, Lettera 22 e bianchetto sempre a portata di mano.»
«Non so se lo sai, ma ho fatto per quattro anni il corrispondente epistolare in un ufficio della Mondadori, negli anni sessanta. Penso di aver sfornato non meno di settantamila lettere. L’uso del bianchetto era assolutamente proibito.»
«Io ce l’avevo ma lo usavo di rado, solo nei momenti di disperazione. A ogni errore di battitura, il foglio finiva accartocciato nel cestino e si ricominciava da capo.»
«Con un’imprecazione per contrappunto. Chissà se i nostri giovani lettori hanno mai sentito parlare del bianchetto.»
«Il telefono poi. Quante notti mi è toccato di star sveglio a torcermi le mani, in attesa che il 15 o il 170 mi passassero la chiamata che avevo richiesto per un paese estero. E quando finalmente il centralinista mi metteva in contatto col numero, la persona non c’era più!»
«Dal bianchetto alle notti in bianco. Altri tempi.»
«Questo è il mio consiglio ai ragazzi: studiate lo strumento per qualche ora in meno e investite il tempo risparmiato in autopromozione. Dovete imparare a sedurre chi ha il potere di darvi del lavoro.»
«Leccare il culo?»
«No, quello mai e poi mai! Io ho sgomitato tantissimo, ma sono orgoglioso di avere la lingua ancora pulita. E di essere stato alla larga dai politici. Ciò che voglio dire è questo: il talento artistico comincia a rendere qualcosa solo a condizione di farlo conoscere. Suonare benissimo è inutile se il solo a saperlo sei tu. E per farti conoscere, devi applicare qualche regola di marketing e comunicazione. Non vendere le cose che vendono tutti, vendi qualcosa che tieni in pugno solo tu. Fai delle ricerche, appropriati di un repertorio alternativo, esplora tutti i modi possibili per far sapere al prossimo che al mondo non ci sono solo i notturni di Chopin, e che hai in tasca cognizioni e pagine di musica che potrebbero rinfrescare i soliti programmi e aiutare chi li organizza a fare cultura.»
«Detto così, sembra un po’ cinico.»
«No, è solo pratico. E sincero. Col mercato della musica devi farci i conti, se vuoi entrarci e restarci; l’idealismo del sognatore serve, ma non basta. Sai quanto guadagna un agente? Il 15% del compenso dell’artista. Se un agente si sbatte per un semi-esordiente, sa già a priori che porterà a casa qualche briciola, talvolta persino insufficiente a coprire le spese. Molto più facile e redditizio occuparsi di artisti affermati con cachet importanti. Qualche volta scommette su qualcuno, più per passione che per calcolo. Succede molto di rado. Sono stato agente anch’io, in passato, perché pur di stare nel mondo della musica ho fatto di tutto. Quando nel 1980, sul lago Balaton, mi sono imbattuto negli allora sconosciuti ragazzi del Pražák Quartet, coi quali ho poi fatto più di 25 anni di concerti, mi son detto: questi sono dei giganti, prima o poi li porto alla Scala,li devo assolutamente piazzare. E tanto mi sono sbattuto che ci sono riuscito! Dove sta il calcolo? Dove sta la passione? Non sono due facce della stessa medaglia?»
«Doveva essere un finale-presto, ma sta diventando un lentissimo. Colpa mia: non voglio saltare nessuna delle cose che dici. Ma adesso dobbiamo proprio tirar giù il sipario, è ora di cena, Rossini ci aspetta. Dai, passami una bella frase di chiusura.»
«Non sono né Rubinstein né Kempff, ma suonando tutto ciò che loro non suonavano sono riuscito a crearmi un mio cantuccio nel mondo della musica. E questo ha fatto di me un uomo artisticamente fortunato e felice.»
© Pasquale Barbella