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Surrealismo in costume da bagno

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Federico Garibaldi: immagine della serie blueShores, in mostra dal 21 aprile 2016 all'UniCredit Pavilion di MIlano.

Nel blu dipinto di blues.

Le immagini sono come il denaro: l’inflazione le spoglia di valore, di potere e di senso. La tecnologia digitale, rovesciando a getto continuo miliardi di figure su una quantità di supporti elettronici fissi e portatili, deposita – persino sulle opere d’autore – un’ombra di depressione analoga, per certi aspetti, alle conseguenze dei black days di Wall Street. A risentire maggiormente di questo collasso è l’iconografia dei sogni, e il sogno più condiviso dall’umanità è la vacanza, simbolo di fulgida evasione e superiore benessere. La rete trabocca di cartoline illustrate, un genere che ebbe larga condivisione nell’era della carta, ma che non ha più né la funzione sociale né l’innocente charme di quei tempi, quando spedirsele a vicenda era la prova tangibile di una prossimità sentimentale trasmessa da distanze baciate dalla spensieratezza. La proliferazione di inquadrature turistiche ha perso la capacità di stupire, adescare e sedurre, proponendosi come ridondante vetrina commerciale di alberghi, villaggi e destinazioni che sembrano uguali. A queste banconote fuori corso gli utenti rispondono con una produzione personale altrettanto implacabile, impallando e declassando paesaggi e monumenti per farne sfondo di selfie usa-e-getta.

Al progressivo svuotamento di significati che la minaccia, la fotografia reagisce con un’arma talvolta infallibile: la provocazione. I provocatori più efficaci sono i fotoreporter e gli artisti. Ai primi è il contesto storico, con i suoi abusi e i suoi disastri, a fornire la materia prima dello choc. Agli altri è la riflessione creativa, la personale visione del mondo, la volontà di rimettere continuamente in gioco le proprie inclinazioni estetiche per caricarle di nuova dinamite. È questo il caso di Federico Garibaldi, fotografo che alla descrizione sfacciata preferisce i sottotesti. Non solo quando va a caccia di prede armato di Canon, Hasselblad o i-Phone, ma anche quando si esprime a parole. Il titolo della sua mostra all’UniCredit Pavilion di Milano, blueShores, denuncia fin dall’ironia del titolo l’ambiguità dei contenuti. Rive blu, ma quel blu è anche – in inglese – sinonimo di tristezza, amarezza, malinconia.

Dalla serie blueShores.

La spiaggia mediterranea ha assunto, dagli anni sessanta del secolo scorso, una polivalenza semantica nella quale si concentrano tutti i cliché geografici e culturali dei paesi che vi si affacciano – l’estate al mare, le chiappe chiare, gli ombrelloni, l’abbronzatura da esibire come una conquista a fine vacanza e fine illusione. La storia e la geopolitica si sono incaricate di minare la solarità incandescente di quel mito, fino a stravolgerne – nell’immaginario comune – il carattere di sublime attrazione. Violata da popoli in fuga, l’idea assoluta (e assolata) che avevamo della Spiaggia entra in conflitto con sé stessa, sprigionando dissonanze e turbamenti che credevamo estranei alla quieta adorazione delle sabbie e dell’azzurro. Alle nostre piccole fughe dallo stress quotidiano, provvisorie e ridenti, si sovrappongono fughe di segno diverso, il cui “sapore di sale” non viene dal jukebox o dagli auricolari ma da roventi grovigli di speranza e tragedia.

Dalla serie blueShores.

Garibaldi non è così ingenuo, o così moralista, da sventolarci sotto il naso l’evidenza di quella contraddizione, né si sogna di tradurla in monito didascalico e feroce. Si limita, almeno in apparenza, a rovesciare – intorbidandola – l’illusione della Spiaggia come centro di delizie paradisiache e ferragostane. Il suo blu non è dipinto di blu ma dipinto di blues. I suoi colori si spengono come lampade fulminate, o si sciolgono per desaturazione nell’acido di nebbie dolenti. Le forme perdono la sicurezza confortante dei contorni nettamente definiti, contorcendosi in un’overdose di sovrapposizioni, sopraffazioni, sovvertimenti. Il sole è spodestato da tempeste cromatiche da maltempo nordico. Le sdraio giacciono vuote e abbandonate. L’estate che si credeva o si sperava eterna e trionfante soccombe alla quinta stagione, la più severa, quella in cui si addensano gli iceberg dell’anima. La festa è finita? Sì e no: Garibaldi lascia a ciascuno di noi libertà di risposta. Ma c’è poco da esultare. Sotto i suggestivi riflessi di onde al tramonto si percepisce il languido glamour d’una bionda annegata. Come detriti di pallida carne, visti rasoterra dal mare, i bagnanti ne costituiscono uno sfondo accessorio e sbiadito. A volte si ergono, sul lungomare, edifici permalosi e notturni, popolati dai molti fantasmi dell’epoca nostra. La notte incombe sul giorno anche quando s’indovina, fuori campo, la presenza di un sole offeso, umiliato, in esilio.

Ciascuna delle immagini in mostra ha segreti da narrare, doppiezze da esibire. Opere aperte nel senso più letterale, allusive, estreme come macchie di Rorschach in libera uscita. Agitate da un impetuoso, beffardo, destabilizzante vento di poesia.


“Flame”, dalla serie Around the South.


Due birre sui Navigli.

Milano, pomeriggio inoltrato, né caldo né freddo. Usciamo da un covo sui Navigli con due birre in mano. Menabrea. Federico Garibaldi è nero dal collo ai piedi (la testa è indecisa fra il bianco e la cenere): pantaloni a cavallo basso, maglia di cotone lavato con cernierona laterale e maniche alla zuava, stivali alti con due cerniere vistose e asimmetriche. Non mi va di usare il minirecorder, sa di terzo grado. Preferisco riportare a memoria le risposte degli interrogati. Lo so che è rischioso, ma tanto il rischio è più loro che mio. Propongo di camminare fino alla Darsena: coi gomiti sul parapetto si cazzeggia meglio.

Dovrei essere arrabbiato con te. Hai steso un velo di horror sugli arenili pugliesi della mia adolescenza. Come ti è venuto in mente?

Non è horror, è paradosso. E comunque stravedo per le tue spiagge: con la scusa di quella serie (blueShores, ndr) ci sono tornato in vacanza cinque estati di seguito. Ho un debole per i paradossi visivi. A volte tolgo l’audio al televisore, prendo una birra dal frigo e lascio scorrere le immagini ascoltando qualcos’altro. La realtà rimane identica a sé stessa, ma il suo senso cambia drasticamente. In spiaggia ho fatto qualcosa di simile: ho azzerato idealmente l’audio per concentrarmi sugli atteggiamenti e i gesti dei bagnanti. In Puglia, la fisicità balneare mi sembra diversa che in Liguria, dove sono nato e cresciuto. È più disinvolta, esibita come una sfida. Uno show non meno survoltato delle mie fantasie.

Sì, ora che mi ci fai pensare c’è qualcosa di vagamente teatrale nel body language dei pugliesi. Su una spiaggia estiva lo si nota di più, perché sei fuori dai tuoi panni consueti e devi surrogare col corpo i messaggi dell’abbigliamento. La vita di spiaggia è surrealismo puro. Però quando hai fotografato i panettieri di Altamura hai scelto uno stile decisamente realistico. Cosa ti ha spinto, in quel caso, verso un linguaggio così diverso dal tuo?

Quel lavoro aveva presupposti diversi. Intanto era una commissione e non una mia riflessione sull’assurdità del reale. E, come per tutte le commissioni, accettandola avevo deciso di giocare con regole non mie. Poi, in quel caso, mi piaceva confrontarmi con lo stereotipo. L’operazione era ibrida – forse anche un po’ sbagliata – ma proprio per questo è stata molto divertente. È stato come adattare il tuo punto di vista a uno sguardo che non ti appartiene. 

Dalla serie Il pane di Altamura.

Anche se ti ho visto fare esperimenti di ogni genere, la prima cosa che si pensa di te è che sei uno specialista della moda. Mi sono sempre chiesto se attraverso le immagini di moda si possa trasmettere anche qualcosa di diverso dalla moda. Illuminami, sono un interlocutore trasandato e inelegante.

A parte il fatto che menti sapendo di mentire, io non mi ritengo un vero specialista della moda. È un mondo che spesso mi ospita con indulgenza, a volte con simpatia, ma non ci apparteniamo a vicenda. La moda ha una sua grammatica specifica, suggestiva al massimo grado. E ti chiede di raccontare delle storie, cosa che per un fotografo è sempre un invito a nozze. Ti sfida a esprimere un pensiero, ma devi rispettare le sue regole. La tua domanda racchiude in sé il presupposto stesso del mio lavoro nella moda. Più che i suoi contenuti mi eccitano le sue contaminazioni. Mi piace parlare dello stato d’animo di chi indossa una maschera, più che la maschera stessa. In una ragazza di vent’anni non vedo la super model, ma le cose che le passano per la testa. Mi affascina il backstage della vita, più che la sua passerella.

Da un servizio per Vogue Italia.

Lo so che sei un creatore di immagini, ma fa’ finta di essere un sociologo, così ci divertiamo. Per me la differenza più evidente tra la pubblicità della moda e quella degli altri settori è che nella seconda si sorride e si ride senza un perché, meglio se con esagerata ebetudine, mentre nella moda i personaggi tendono a essere serissimi, talvolta scontrosi. La moda non dovrebbe procurare felicità?

È un mistero. Ho spesso l’impressione che l’arte della moda viva sé stessa come una sorta di monade senza finestre, un pianeta a parte. E questo è strano, perché ciò che indossi dovrebbe concepirsi, per definizione, come un’interfaccia fra te e il mondo che ti circonda. Eppure è ferocemente autoreferenziale. La moda è diffidente: sospetta che l’ironia non le si addica, anche se non mancano eccezioni, talune clamorose. In generale, il pensiero che la governa non ama mettere in discussione i propri canoni espressivi. Ora però fammi aggiungere che l’euforia dilagante nel resto della pubblicità è persino più bizzarra. La domanda che mi viene più frequente e spontanea è: «Ma che cazzo c’è da ridere, amico?»

Cambiamo area. Il reportage. L’edizione 2015 del World Press Photo, la massima rassegna internazionale dedicata al fotogiornalismo, è stata al centro di animose polemiche per l’elevata presenza di servizi ritoccati e manipolati, molti dei quali sono stati squalificati. Entro quali limiti, secondo te, è lecito alterare immagini destinate all’informazione?

La premessa – soggettiva – è che solo un dio, cattolico o kafkiano che sia, sa vedere il mondo così com’è. La mente umana è destinata a interpretare, sempre. Anche quando non vuole. Eppure c’è un dubbio che mi frulla in testa: un punto di vista cambia la realtà o semplicemente la indaga? La foto che ritrae Kim Phúc – «the napalm girl» – la offre alla storia dell’umanità. Racconta la cattiveria di chi ha bombardato, il dolore delle vittime, la solidarietà di chi ha soccorso. Poi scopri che chi ha bombardato e chi ha subito e sofferto quelle bombe erano lo stesso esercito. Quella foto non giudica. Descrive. Eppure, descrivendo, formula uno dei più efficaci atti d’accusa di sempre sull’assurdità della guerra.[1]Quando ebbi l’occasione di chiacchierare di questo argomento con un grandissimo fotografo, Ferdinando Scianna, gli dissi che a me sarebbe mancato il coraggio di fare quella foto. Forse avrei messo la macchina da parte e cercato di dare una mano. Mi rispose che una volta che sei lì, il vero obbligo morale che hai è quello di scattare la foto, e farla talmente bella e forte da poter esprimere con la massima intensità il senso della denuncia. Da un punto di vista personale credo che la fotografia esista per interpretare la realtà, non per descriverla. Tuttavia, un conto è aiutare le cromie di una foto con lo sviluppo o con il ritocco, diverso è creare una situazione che non esisterebbe senza il nostro intervento e raccontare poi che quella è la realtà. Questo a mio avviso non è fotogiornalismo.

A proposito di fotogiornalismo, che cosa intendi per “reportage neoclassico”? Ho trovato questa frase nel tuo sito.

Non lo so. Non l’ho scritta io. Se penso al neoclassicismo mi viene in mente la dissertazione di Friedrich Hauser sulla scultura neo-attica.[2] Lui proponeva il neo-attico come alternativa alle stravaganze barocche dell’arte ellenistica. Anch’io sono spesso adescato da tentazioni barocche. I fronzoli sanno essere seducenti, quando ci si mettono. Alla fine però sento sempre la necessità di depurare, arrivare all’essenza, per sfuggire alla trappola dell’autocompiacimento più superficiale. Questo sforzo di isolare l’essenza delle cose – della natura, forse dell’arte – mi fa pensare a un altro grande teorico del neoclassicismo, Winckelmann. Il pensiero indipendente sta nella copia, non nell’imitazione. Copiando la realtà, l’uomo ne fornisce un’interpretazione; e se prova a copiare gli antichi, scopre che sta accarezzando l’essenza del futuro.

Ho visto che all’Expo hai partecipato, con altri tre fotografi, a una dimostrazione creativa promossa dalla Sony per il lancio della sua A7R II. Hai ripreso moltitudini e individui immersi in un biancore abbagliante. Che volevi dire?

Volevo dire che il mondo, nonostante tutto, è profondamente bianco. Ingenuo e misterioso. E volevo aggiungere che l’uomo, nell’infinito di quel bianco, si smarrisce. Si isola. Si confonde. E finisce col sentirsi assolutamente solo. È diventata famosa la frase di Diane Arbus, quando ha detto che «una fotografia è il segreto su un segreto. Più ti dice e meno sai.»[3]Ogni uomo porta con sé mille segreti. E l’implacabile scorrere della metropoli li fa incrociare in ogni strada. Ma loro, ignari, nemmeno si salutano.

Da una serie realizzata con la Sony A7R II per Milano Expo.

Mi è capitato di vedere qualcuno dei tuoi video. Ce ne vuoi parlare?

Amo raccontare storie. I video me ne danno l’opportunità. Non ho ad oggi alcuna pretesa di fare cinema. Preferisco fondere le immagini e i suoni, come se l’operazione avesse un senso di qualche tipo. In verità a me pare che i video che faccio si nutrano più di una componente estetica che di una sociale. Indago più il come che il cosa. Eppure, il mio non è affatto amore per la forma estetica fine a sé stessa. Credo solo che nella vita il come contenga il cosa. Anche da un punto di vista sostanziale.

Che stai architettando per i prossimi mesi? Parla pure liberamente, tanto ci leggono in pochi. 

Mi piacerebbe dare una forma nuova al mio desiderio di raccontare. Sto lavorando sulle forme. Forse ne ho trovato un paio interessanti. Fra l’altro, mi penso sempre più vicino all’arte astratta. Non la vivo come un’alternativa. Semmai come un punto di riferimento. Su un altro piano, ho accettato un incarico come direttore creativo di una nuova rivista, in uscita a settembre, RV Magazine. Il progetto fonde la moda e le arti. Mi stuzzica l’idea di concepire progetti in un ruolo così esplicitamente registico. Mi obbliga e m’insegna a fidarmi di un team. Bello, no? Uno dei primi servizi sarà un’intervista a un grande copywriter. Ne conosci qualcuno?



© Pasquale Barbella


Dal 21 aprile al 15 maggio
blueShores
Mostra fotografica di Federico Garibaldi
UniCredit Pavilion
Piazza Gae Aulenti 10, Milano






[1] La fotografia cui si fa riferimento, simbolo famoso della guerra nel Vietnam, mostra Kim Phúc all’età di nove anni mentre, completamente nuda, fugge da un villaggio correndo insieme ad altri bambini, dopo essere stata gravemente ustionata sulle braccia e sulla schiena da un bombardamento al napalm delle forze aeree del Vietnam del Sud. La foto fu scattata da Nick Út, che vinse il premio Pulitzer e il premio World Press Photo of the Year 1972.
[2] Friedrich Hauser, Die neu-attischen Reliefs, 1889.
[3]«A photograph is a secret about a secret. The more it tells you the less you know.»

La tournée

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Andy Gii, Dance me to your beauty with a burning violin.

La tournée

Era il nostro nono o decimo aeroporto. Noi eravamo troppi, loro erano lenti. Aprivano, svuotavano, toccavano. Esaminavano tutto, oggetto per oggetto. Libri, mutande, dentifrici, spartiti, violoncelli. Arrivò il mio turno che ero già sudato. L’aria condizionata non funzionava. A me toccò il doganiere con la cicatrice. Lo sfregio partiva da un’estremità del labbro, costeggiava il naso e si estendeva fino a uno zigomo. Il taglio della bocca ne risultava alquanto deformato. Mi ordinò di aprire la valigia. Sebbene avesse già maltrattato gli smoking di diversi miei colleghi, manipolò il mio – identico agli altri – allo stesso modo, dispiegandolo per tutta la lunghezza sul tavolaccio, come un cadavere nella morgue. Nel farlo, mi lanciava occhiate che sembravano di rimprovero. Il mio papillon gli scivolò sul pavimento lurido, ma forse fece apposta a farlo cadere.

Dopo dieci minuti di indagine infruttuosa, dedicò tutti i suoi sospetti al mio povero violino. L’apprensione era tale da fiaccarmi il respiro. Non era né uno Stradivari né un Guarneri, ma valeva più di quanto la mia esperienza meritasse. Lo trasse dalla custodia con maggior delicatezza di quanta ne avesse concessa ai miei indumenti e, impugnandolo per il manico, lo scrollò nell’aria, come per accertarsi che la cassa armonica non nascondesse insidie imperdonabili. Lo depose infine sul banco dove giacevano alla rinfusa i contenuti del mio bagaglio e, a gesti, mi ordinò di prendere le mie cianfrusaglie e sgombrare alla svelta. Acchiappai le mie cose come potevo e le sistemai alla meno peggio quando fui in prossimità dell’uscita. Metà dell’orchestra e dei coristi era già fuori, l’altra metà doveva ancora passare i controlli. Fuori c’erano luce violenta, caldo secco e poche piante striminzite sparse in un piazzale terroso. Il pullman era bianco e azzurro con indecifrabili scritte rosse sulle fiancate e sul retro. Alcuni erano già montati a bordo, altri indugiavano all’esterno. Il direttore parlava in inglese con due sconosciuti che erano venuti ad accoglierci, uno anziano e uno sui trent’anni; indossavano abiti scuri e cravatte. L’anziano, ossequioso, ci fu presentato come impresario; l’altro come suo assistente. I due funzionari ci offrirono bibite imbottigliate, premurosi. L’autista del pullman aveva il sorriso giovane, ma era abbastanza corpulento da sembrare più maturo della sua età. Appena vedeva uscire dall’aeroporto uno di noi, correva a togliergli i bagagli di mano e a sistemarli, ordinatamente, nell’apposito vano dell’automezzo. Tra una di queste incombenze e l’altra gli rimaneva il tempo di accendersi sigarette a ripetizione. Rideva e si sforzava di comunicare, senza successo, con noi. Notai che gli mancava un dente dall’arcata inferiore. Pronunciava spesso il proprio nome toccandosi il petto, nel timore che potesse sfuggirci; non era difficile impararlo, somigliava all’italiano Zaccaria.

Il sole era già al tramonto dietro le montagne nude e rossicce quando la lunga attesa giunse al termine e fummo finalmente pronti a partire. La capitale non doveva essere lontana. La stanchezza collettiva era palpabile. Non vedevo l’ora di fare una doccia e distendermi, anche per poco, su un letto. Presi posto accanto a Marika sperando di poterla corteggiare un po’, ma dormiva. Guardavo i suoi capelli dorati e, attraverso il finestrino, il paesaggio ocra, desertico e sempre uguale a sé stesso. C’erano pochi camion in circolazione e i taxi e le auto private erano ancora meno. Mi assopii anch’io e riaprii gli occhi quando, con un sobbalzo, il pullman si fermò. Ero troppo indietro per rendermi conto di cosa stesse accadendo davanti. Non era questione di semafori o passaggi a livello, perché si udivano voci alterate e sovrapposte e si percepivano ondate di agitazione. La porta anteriore si aprì con uno scatto e qualcuno montò a bordo. Non vedevo bene: metà dei miei compagni di viaggio si era alzata in piedi. Una voce perentoria ordinò a tutti di stare seduti. Tre uomini dal volto coperto puntarono delle armi contro di noi. Altri, dall’esterno, indussero in malo modo Zaccaria a scendere dalla sua postazione: continuarono a malmenarlo anche quando fu disceso. Analoga sorte fu riservata ai nostri due accompagnatori, l’impresario e il suo assistente. Furono identificati a colpo sicuro, trascinati all’uscita e scaricati nella polvere come sacchi di fieno. Le proteste del più giovane furono silenziate a calci nella schiena, sul ventre, sul viso. Dal finestrino lo vidi sanguinare, sgomento quanto doveva esserlo lui. Sapevo che quel genere di violenza esiste, ma solo assistendovi di persona mi rendevo conto della sua concretezza, della sua meccanicità.


Uno degli assalitori prese posto al volante. I tre estromessi stavano forse ringraziando il dio che gli aveva concesso di rimanere in vita. Il motore continuava a borbottare. Dopo qualche minuto il resto del commando – una dozzina di uomini in tutto – montò a bordo, le porte si chiusero e il pullman ripartì, ansando e rumoreggiando sulle buche. I nuovi arrivati, in abiti civili ma armati come militari, si mescolarono ai passeggeri occupando punti strategici: davanti, a metà, dietro e in prossimità delle portiere. Indossavano dei passamontagna. Quasi subito la strada principale fu abbandonata. All’imbrunire cominciammo a inerpicarci su per tornanti impervi. Da qualche parte, forse, ci scrutavano le aquile. Eravamo ancora in viaggio quando il buio si fece così fitto da oscurare le speranze.

Nessuno pronunciò parole.

Prima di allora non avevo mai pensato al fatto che i musicisti potessero avere dei nemici. Non parlo delle rivalità, grandi o piccole, che fioriscono in qualsiasi ambiente visitato dal germe della competizione; alludo a un’inimicizia superiore, rovente, pronta – persino a tua insaputa – a esplodere come tritolo. Credevo che la musica fosse una forma di natura super partes, come i sassi, i camaleonti, i fili d’erba. Ci sequestrarono gli strumenti e ci occultarono alla vista del mondo, alloggiandoci in grotte oscure e trattandoci come prigionieri di guerra. Alcuni di noi, nei giorni e nei mesi che seguirono, supplicarono i guardiani affinché ci fosse concesso di riavere i nostri strumenti. Negarono sempre, come temendo che i suoni, una volta sprigionati nell’aria apatica dell’altopiano, potessero raggiungere orecchie indiscrete e vendicative. Io preferivo pensare che la musica li atterrisse di per sé, che le melodie di cui eravamo custodi avessero il potere di irrompere nel loro equilibrio interiore e mandare in frantumi le loro certezze. Speravo di riavere il violino e l’archetto per poterli usare a mo’ di mitra e machete. Volevo fendere il cuore degli aguzzini a colpi di Grieg e Saint-Saëns, per fargli avvertire il taglio di lame sconosciute e invisibili. Tale era allora, più che la mia ingenuità, l’astrattezza in cui ero racchiuso, la cella d’oro d’un rifugio persino più stretto della grotta in cui maledicevo la notte.

Bruciarono le viole, i violini, i violoncelli e i loro compagni dorchestra in una sera di luna calante e stanco vento. Il fuoco faceva gemere quella catasta da teatro, aceri e abeti d’una vita anteriore. Volavano in un carnevale di scintille i segreti dei liutai, le vernici offese, le nostre identità sfigurate. L’apocalisse non procurò ai piromani nessuna delle gioie che forse si erano aspettati. La rigidità dei volti, illuminati dai bagliori mobili del rogo, non ne ricavò alcun raddolcimento. Non risero. Gli sguardi rimasero incollati, più torvi del consueto, al falò che avevano appiccato. M’illudo che nell’idea di quel martirio ci fosse una certa purezza, come se, ad alimentarla, non fosse stata l’intenzione di umiliarci, ma semplicemente il bisogno – pratico e terribile – di disfarsi d’un carico ingombrante. A partire dal giorno dopo, infatti, ci trasferirono altrove, dopo averci divisi in piccoli gruppi.

Sono libero e vivo. Amici e familiari hanno fatto una colletta per comprarmi un altro violino. Ma in tournée ci vado malvolentieri, anche in città non troppo lontane dalla mia.

Per quanto ingannevole possa sembrarvi, gli incubi mi aiutano a suonare meglio.


© Pasquale Barbella




Visitors

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Visitors

Oggi ho dovuto cacciare, in modo più brusco del solito, l’ennesimo visitor dell’Enel. Dialogo al cancello di casa, io di qua, lui di là dalle sbarre. Il poveretto, vestito di blu e incravattato a dovere, infila anche un braccio fra i metalli, pretendendo una stretta di mano che gli concedo malvolentieri.

Mr Enel, con largo sorriso: «Buongiorno. Sono dell’Enel. Sono qui per mostrarle...»

Sfoggia un dossier.

Io: «Vuole ripetere il nome dell’azienda?»

Mr Enel: «Enel.»

Io: «Ancora? Beh, se ne vada. Immediatamente. Sono anni che mi scocciano, di persona e al telefono. Se avete qualcosa di importante da comunicarmi, scrivetemi. Arrivederci.»

Mr Enel: «Signore, per l’appunto, è già scritto tutto qui.»

Io: «Davvero? Allora mi lasci le carte, le leggerò quando avrò tempo.»

Mr Enel: «Perdoni, signore, devo spiegarle bene i contenuti. Nel suo interesse. Lei è già cliente Enel, non ho nulla da venderle...»

Io: «Bravo, dunque se ne può andare anche subito. Sono già cliente Enel e stia sicuro che non cambio fornitore: tanto siete tutti uguali, dei gran rompicoglioni, e uno mi basta e avanza.»

Mr Enel: «Mi scusi, signore, ma non c’è motivo di tanta irritazione. Come le dicevo siamo qui per renderle un servizio. Qui ci sono novità che le permettono di risparmiare in modo significativo sulla bolletta. Per esempio, non ci sarà più bisogno di attivare la lavatrice dopo le otto di sera, perché potrà risparmiare a qualunque ora.»

Io: «Senta, parliamoci chiaro. Nessuna azienda fa sconti sulle bollette. Quindi me lo dica subito: dov’è il trucco?»

Mr Enel: «Nessun trucco, signore, glie lo assicuro! Per la legge Bersani...»

Io: «Se l’Enel vuole farmi uno sconto, me lo faccia, punto e basta. Non vedo il bisogno di starla a sentire. Se invece quello che ha in mano è un nuovo contratto, se lo porti via e tanti saluti. Non ho nessuna intenzione di imbarcarmi in un nuovo contratto, comporta burocrazia a non finire e rotture di palle.»

Mr Enel: «Non è un nuovo contratto, signore. Solo che, per aderire al nuovo programma di risparmio...»

Io: «Risparmio un cazzo. Se fosse così, applicatemi il programma di risparmio in automatico, non vedo necessità di nuove scartoffie.»

Mr Enel: «Ma è per rispettare la sua privacy, signore...»

Io: «Quale privacy d’Egitto! Non fate altro che scassarmi le palle tutte le settimane: sarebbe questo il vostro rispetto per la privacy? Beh, sia breve, mia moglie è uscita e devo badare alla cucina. Non vorrà mica che mandi in fiamme la casa per starla a sentire.»

Mr Enel: «Deve solo mostrarmi l’ultima bolletta che ha ricevuto...»

Io: «Ahi, ci risiamo! Le bollette me le mandate voi, ma poi volete vedere proprio la mia copia, come se fosse diversa da quella che avete nel vostro cazzo di database! È sempre così, con voialtri delle energie. Acqua, luce e gas: sempre a rompere le scatole alla gente, con la scusa di regalare chissà quali sconti. Se vi si presta orecchio per un attimo, ecco che arriva la canzone dell’ultima bolletta. Io non le mostro nessuna ultima bolletta; se ci tiene a vederla la chieda in azienda, loro ce l’hanno. Adesso ho le patate che vanno in fumo. Se ne vada e non torni mai più.»

Mr Enel: «Signore, io faccio il mio lavoro. Non è giusto che lei mi tratti così.»

Io: «Non ho nulla di personale contro di lei, mi creda. Lei è venuto per conto dell’Enel e l’Enel mi sta facendo incazzare, tutto qui. Porti via le sue carte o, se preferisce, le infili nella buca delle lettere. In ogni caso mi lasci in pace: la conversazione è finita.»

Mr Enel: «Come vuole, signore. Ma ne verranno altri, e altri ancora continueranno a telefonarle finché lei non li ascolterà. Nel suo interesse. Domani stesso le telefoneranno, e le chiedo soltanto di indicarmi a quale ora preferisce ricevere la chiamata, così il disturbo sarà minimo.»

Io: «Se domani chiameranno, farò esattamente quello che ho fatto finora: li manderò affanculo. A qualsiasi ora.»

Se ne va, contrito. Anch’io sono contrito. Sbaglio qualcosa? Davvero devo sottopormi a estenuanti botta-e-risposta con questi dell’acqualucegas? Per ricavarne cosa? A me sta bene che la lavatrice lavori dopo le otto: le mie mutande possono aspettare. Che ci guadagno ad ascoltare violatori di domicilio e menate da call center? Qualcuno di voi è felice di essere stato paziente con loro? Sta risparmiando centinaia, migliaia di euro? Per favore me lo dica.

P.B.



Il fascino discreto della geometria

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Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Andrea Stillacci per Lux.

Il fascino discreto della geometria

Tra gli eventi del Fuorisalone, l’insieme delle iniziative su design e creatività che animano Milano durante il Salone del Mobile, c’era anche Failures. Process beyond success, una mostra di progetti firmati 
da designer contemporanei ma rimasti irrealizzati o modificati in corso d’opera. Una specie di glorificazione postuma dell’insuccesso, ispirata dal fatto che sovente, nelle attività creative, si arriva a un risultato condiviso dopo una sequenza di fallimenti, scazzi, revisioni e messe a punto che modificano in modo sostanziale l’intuizione di partenza. Nell’ambito della rassegna, Daniele Cima – noto art director pubblicitario prima di applicarsi più liberamente alle arti visive – ha esposto una serie di artwork intitolata Upcycled words: 55 frasi pubblicitarie scartate dai committenti, recuperate dal cestino e riciclate in forma di altrettante composizioni grafiche. Cima ha introdotto una valenza ironica nel suo tributo al fallimento, associandovi l’idea del riciclo ecologico di materiali consegnati alla discarica, ma degni di essere utilizzati in una funzione diversa da quella per cui erano stati concepiti. Come bottiglie vuote salvate dalla spazzatura ed elevate al rango di portalampada, le frasi bocciate ma sedimentate nella memoria dei rispettivi autori riaffiorano dall’oscurità vestite a festa. E si prendono una rivincita, come i greci sconfitti da Roma ma vittoriosi per cultura ed eleganza. Se l’origine pubblicitaria cui erano destinate era effimera di default, queste frasi aspirano ora – attraverso il recupero di Cima – a una superiore stabilità.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Anna Montefusco per Sottilette Kraft.

La serialità – formale e sostanziale – di questo lavoro gli conferisce una patina aggiuntiva di fascino. La mostra e il catalogo (Chimera editore) allineano 55 quadrati che possiamo leggere come una summa di variazioni sui temi della forma, del colore e della typography. Le parole dei copywriter, destinate allo spegnimento e all’improvviso non solo “risorte” ma anche survoltate e aggiornate a un destino più dignitoso, partecipano a un revival della grafica concettuale e dei suoi alfabeti. Tanto che le 55 tavole potrebbero benissimo essere utilizzate nelle scuole di comunicazione come spunti di partenza per una ricostruzione didattica di radici, correnti e tendenze.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Daniele Ravenna per Regione Friuli.

A Daniele Cima ho rivolto qualche domanda.

Per le tue upcycled words hai scelto 55 frasi pubblicitarie scartate dai committenti anziché proverbi, frasi fatte o citazioni verbali di altra natura. Perché?

Lo scopo del progetto è dimostrare la riciclabilità dell’immateriale. Ho lavorato sul concetto di spreco di risorse intellettuali, contesto in cui l’advertising (in particolare quello italiano) eccelle. Mi sono cimentato con il riciclo della più commerciale tra le arti applicate, perché nella pubblicità lo sperpero di idee ha determinato un giacimento creativo sterminato, pressoché inesauribile. Al pubblico arriva una percentuale minima della produzione di creatività sviluppata nelle agenzie, certamente non la parte migliore di questa enorme massa di parole e immagini e ancora più certamente non nella sua forma originaria. Credo che la pubblicità rappresenti la pattumiera più fertile per chi desidera ripescare parole intelligenti e inutilizzate. Per questo sono andato a grufolare lì.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Sergio Rodriguez per Fila.

Punto, linea, superficie, colori piatti, forme semplici, sintesi rigorose e assolute. Secondo te siamo biologicamente predisposti a questa “percezione geometrica” del mondo o abbiamo soltanto ereditato e assorbito un sistema di codici inventati dall’uomo?

Le linee elementari sono l’origine di ogni forma d’arte e di comunicazione, dunque credo rappresentino un codice visivo profondamente radicato in tutti noi e, come tutti i sistemi semplificati, estremamente efficace. La copertina che il New Yorker ha appena dedicato a Prince (pagina viola con gocce/lacrime di colore più chiaro) conferma la potenza e la funzionalità di questo codice espressivo. In più la sinteticità del graphic design è assolutamente contemporanea, in quanto di realizzazione molto economica e veloce: proprio ciò che il mercato domanda. Richiede però un indubbio talento individuale. Il graphic designer è un maverick: è solo, nel suo studio, con il foglio bianco che lo guarda, quasi lo sfida. Nella sua solitudine non ha nessuno a cui subappaltare l’ideazione e la realizzazione. Niente ridicoli brain storming (che liberazione!), momenti in cui di solito i cervelli paiono atrofizzarsi. Nessun fotografo, nessun regista, nessun illustratore, nessuno cui appoggiarsi, cui delegare. Spesso nemmeno un copywriter con cui confrontarsi, o almeno andare a pranzo. Così finisce che si mangia un toast, in solitudine, e la sua superfice quadrata evidentemente ispira il rigore e l’essenzialità formale, conduce a quella “percezione geometrica” cui fai riferimento. E se l’essere umano fosse biologicamente predisposto al toast?   

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Roberta Sollazzi per IKEA.

La grafica è solo comunicazione o aspira a valori più ambiziosi? Non alludo solo alle arti figurative ma anche all’etica e alla spiritualità.

La simbologia grafica più potente e magicamente seduttiva di sempre è stata – spiace e imbarazza dirlo – quella adottata dal nazismo, capace di evocare valori superiori, anche se per nulla condivisibili.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Aldo Tanchis per Aon Nikols.

Le tue elaborazioni possono essere lette anche come un campionario di citazioni colte: Saul Bass, Mondrian, costruttivismo, suprematismo, Jasper Johns, Josef Albers, pop art... Quali sono gli artisti o le correnti che hanno influenzato maggiormente la tua formazione?

Sono proprio quelli che citi: Mondrian, Rodčenko, Lissitzky, Malevič, Kurt Schwitters, Fortunato Depero, Saul Bass, Jasper Johns, Warhol, Frank Stella, Peter Blake, ma anche grafici puri, come Carlo Vivarelli, Giovanni Pintori, Aleksej Brodovič, Cipe Pineles, Mehemed Agha, Shigeo Fukuda, qualche formidabile art director inglese tipo Alan Waldie, Nigel Rose, Steve Dunn, Paul Arden, Neil Godfrey, un po’ di GGK anni 70/80, più lo Studio Hipgnosis e le sue immaginifiche record cover. A latere ho apprezzato la visione estesa che Gianni Sassi ha avuto del ruolo di art director, da lui interpretato come operatore culturale. Il mio orizzonte allargato, la mia curiosità e la mia memoria visiva sono gli strumenti che più hanno contribuito a determinare il mio percorso artistico.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Bruno Vohwinkel per Damiani.

Fino a qualche anno fa hai operato nel campo della pubblicità. A Milano, famosa nel mondo per il design e la moda. Eppure, nonostante il mito dell’Italian style, a me è parso sempre un po’ difficile trovare una committenza sensibile alla grafica essenziale. Come hai vissuto la tua esperienza di art director?

Ho sempre finto di non trovarmi in Italia. I miei riferimenti sono stati altrove e altrove – principalmente a Londra – da art director ho sempre prediletto realizzare le mie idee. Da quando non sono più in agenzia anche la maggioranza dei miei clienti è altrove, dunque sul piano personale il problema della committenza italiana e della sua insensibilità mi si pone relativamente. Ho comunque notato che i manager italiani curano puntigliosamente la propria immagine personale, sfoggiando sempre l’abbigliamento, gli accessori, le tecnologie, i gadget più sofisticati e trendy, mentre diventano inaspettatamente rozzi e grossolani quando si occupano dell’immagine delle aziende per cui lavorano. Per mia fortuna prediligo prestare la mia opera ad aziende che agiscono in mercati e scenari in cui la massima cura per l’immagine non è uno sfizio ma una necessità vitale. È l’habitat in cui mi trovo a mio agio, mi esprimo al meglio e da cui ricavo le maggiori soddisfazioni.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Ambrogio Borsani per Arte Cristiana.

Il fatto che le parole in sé – e non solo i concetti che esprimono – siano visivamente protagoniste della serie di cui stiamo parlando, mi fa pensare alla scarsa attenzione verso l’arte tipografica in Italia, che pure è stata la patria di Manuzio e Bodoni. Come e perché ci siamo ridotti a tutta la sciattezza che si vede in giro? Il cattivo gusto nasce a scuola? I libri di testo per bambini e adolescenti non dovrebbero essere i più curati del mondo, anche sotto il profilo grafico ed editoriale? Scusa, mi sto rispondendo da solo.

A Londra si organizzano type tour per far conoscere il lettering delle migliori targhe e insegne di strade e negozi. Noi siamo eredi di una grandissima cultura e tradizione tipografica, del tutto ignorata, che dolorosamente vedo stuprata mille volte ogni giorno. Eppure i negozi di arredamento espongono in vetrina grosse lettere in metallo scatolato, i ragazzi (e non solo) indossano T-shirt affollate di lettering, tutti citano disinvoltamente i nomi dei caratteri tipografici (orrendamente chiamati font) come fossero i bomber del campionato di calcio, tutto sembrerebbe significare la rinascita di una sensibilità tipografica. Errore: a cominciare dai giornali (non ho mai comperato il Fatto Quotidiano perché lo trovo graficamente repellente), tutto è sgrammaticato e nessuno pare accorgersene. Tutti si divertono a giocherellare con il lettering, ma nessuno sembra conoscere le regole del gioco. Le regole vanno conosciute e successivamente infrante. «I like rules. Without them, we don’t know what to break» (Helmut Krone). Le – praticamente illimitate – possibilità espressive regalate dalla tecnologia contemporanea si trasformano in una sciagura, se adoperate da mani ignoranti. È in atto un grande, fastidioso misunderstanding: si confonde chi possiede capacità tecniche relative all’utilizzo di una nuova tecnologia con chi ha talento espressivo di natura artistica. Al momento quasi nessuno possiede entrambi. Malauguratamente la «democratizzazione digitale» ha la capacità di illudere chiunque di essere un artista, un musicista, un fotografo, un film maker, un art director.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Sofia Ambrosini per Rum Pampero.

Considerata la tua allergia digitale, come hai realizzato i 55 artwork che compongono il tuo progetto?

Io lavoro sempre alla vecchia maniera, con il famoso “cocktail napkin” di Bernbach. Realizzo dei piccoli ma precisissimi schizzi su carta, che poi passo ai miei bravi e pazienti aiutanti, in questo caso Livia Albanese e Francesco Brocchieri. Loro trasformano i miei rough in artwork e da lì inizia un lavoro, spesso lunghissimo, di fine tuning. Il mac offre enormi possibilità, in più realizzabili in tempi brevissimi: questo lo rende piuttosto pericoloso. Non è facile sapere individuare la soluzione grafica migliore, il colore più adatto, il lettering più appropriato, la dimensione ideale. Per questo è importante interporre un intervallo temporale tra la fase di realizzazione e il momento della valutazione finale: l’eccitazione e l’entusiasmo del momento creativo spesso creano inganni e illusioni. È molto difficile mantenere una forte capacità autocritica, ma è una dote assolutamente imprescindibile, se si vuole ottenere un’alta qualità e un risultato che possa aspirare ad essere duraturo.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Enrico Chiarugi per Orologi Vetta.

Pazienza e passione – non a caso etimologicamente sorelle – sono ingredienti fondamentali per ottenere visual accurati e di qualità.

I creativi della mia generazione, come del resto quelli della tua, erano e ancora sono appassionati di advertising, studiosi di advertising, connoisseur di advertising, veri e propri advertising gourmet. Il mondo della pubblicità era eccitante e stimolante, oltre ad avere risorse economiche che rendevano ipotizzabile qualunque progetto. Ci si appassionava a parlare di advertising per ore, si lavorava per passione e con passione, di giorno e di notte. Ricordo Luigi Montaini – che a quei tempi insieme a Michele Goettsche era la superstar degli art director milanesi – impegnato a far scorrere a mano, una ad una, le righe di una body copy, per ottenere una bandiera armoniosa. Un’operazione non facile e non divertente, ma necessaria, se si ambisce a ottenere la massima qualità grafica. Si lavorava anche con grande ingenuità, senza avere per sé stessi un lucido progetto di carriera e di ritorno economico. Ho la sensazione che oggi nel mondo dell’advertising italiano ci sia molto cinismo, pochissima passione e che la componente artistica sia assolutamente secondaria. È anche per questo che mi sono progressivamente spostato verso il graphic design: non è ancora condizionato dalle logiche industriali di produzione che invece governano le agenzie di pubblicità e che sono l’antitesi di qualsiasi attività che richieda accuratezza artigianale. «Quality means doing it right when no one is looking»,parole di Henry Ford, che potrebbero essere state scritte da Giuseppe Maggiolini.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Alfredo Marcantonio per Aperitivo Restaurant.

Hai mai insegnato in una scuola di comunicazione?

L’ho fatto tantissimi anni fa, quando non avevo assolutamente la preparazione indispensabile per farlo. Successivamente nessuno me lo ha più chiesto: strano, no? In ogni caso non sarei un bravo insegnante, non formerei degli art director funzionali al meccanismo produttivo contemporaneo. Il mio modo di intendere il lavoro, così maniacalmente accurato, così autoriale, rappresenta un elemento di disturbo all’interno del sistema industriale delle agenzie, un inceppamento negli ingranaggi, un danno per la produttività.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Laura Elli per Amica Chips.

Intorno alla frase che ti ho dato io, Dixan lava così bianco che tutto il resto sembra scuro, hai stilizzato una lavatrice nera applicandoci un marchio misterioso (Millbrook). Devo confessarti che a distanza di 44 anni da quello slogan non sono più sicuro che si trattasse proprio di Dixan. Ma Millbrook che cos’è?

Millbrook è la proprietà in cui Timothy Leary, dopo essere stato cacciato da Harvard, si era rifugiato con i suoi adepti, per poter continuare a praticare la sua sperimentazione con l’LSD. Mi è parso appropriato riproporne il nome in abbinamento con il marketing dei detersivi, tradizionalmente allucinogeno.

© P. Barbella, D. Cima


Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Giovanni Salvaggio per Ras.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Renata Prevost per Divani Coim.


Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Eugenio Alberti Schatz per Ergon Energia.



Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Enrico Bonomini per il Comune di Brescia.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Stefania Siani per Beck’s.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Vicky Gitto per Salvini Gioielli.

Daniele Cima: Upcycled words. Parole di Pasquale Barbella per Dixan.




Il rap delle Langhe

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Galaverna


Il ritorno alla natura è uno dei massimi miti contemporanei, e si capisce perché: la natura è stata semplicemente abrogata, senza referendum. Un culto più sbandierato che coltivato: oggetto di promozione commerciale, quando non di permalosa propaganda politica e rumorosi moti di rivolta. Sul ritorno alla natura s’intrecciano voci talvolta stucchevoli, indipendentemente dalla sincerità delle intenzioni e dalla validità di tante iniziative legate al territorio e alla missione chilometro zero. Io non sono un cittadino modello. Fumo, odio la fitness e me ne infischio delle radici – persino delle mie. I nature boys mi annoiano: Rousseau e Thoreau non fanno eccezione. Da qualche parte devo essermi giocato l’anima rurale, quella che avrei dovuto custodire con cura avendone ereditato qualche strascico da avi, bisavoli e trisavoli. Non ne rimane niente, si è eclissata con i gelsi e i carrubi del tempo che fu. Ma poi, come in questi giorni, mi lascio commuovere dalla ricomparsa dei papaveri, non solo fra i binari della ferrovia di Arcore ma addirittura in pieno centro di Milano: festosi e incongrui lungo il viale che costeggia l’Arena, un tratto trafficato ma poeticamente intitolato a Lord Byron. E una luce intermittente si accende in me, uno sprazzo d’impressionismo che non viene da Monet ma da un’infanzia confusa e perduta.



La poesia, per l’appunto. Che anch’io assimilo al jazz della mente, della memoria e dei sogni, come le Narrazioni sincopate che fanno da sottotitolo a Galaverna: raccolta di versi (o forse poema, per la robusta unità concettuale che la governa) del mio amico delle Langhe, Silvio Saffirio. Il suo libro sa di terra bagnata, di funghi, di sudore, di cessi in comune e di osteria. Come opportunamente sottolinea Ernesto Ferrero nella prefazione, «è una poesia civile che si misura con il passato non per indulgere agli sterili piaceri della nostalgia ma per fare i conti con la contemporaneità.» Il jazz – anzi, in questo caso, il rap – ti prende alla gola fin dall’ouverture, una specie di list song intitolata Bambini degli anni ’40 ma dedicata ai bambini e agli adulti delle generazioni successive:

Tu che non ti sei mai seduto
Su un formicaio
Di formiche rosse
Oggi scomparse
Strano perché eran bastarde

(...)

Tu che non hai mai pescato
Avendo maestro protettivo Ilario
Viaggiato sul sellino
Della sua Lambretta
Tra le mani la mazza di ferro

(...)

Tu che non sei mai stato punto
Da cinque vespe insieme
Penetrate furtive nei pantaloni corti
Di cui sopra
Sul greto del Belbo

(...)


L’idea forte di Galaverna sta proprio in quella contrapposizione fra l’io (taciuto ma presente) e il tu: lo Ieri fa la ramanzina all’Oggi, due epoche e due scenari si ritrovano faccia a faccia in un giudizio universale mirabilmente scevro di enfasi, densissimo ma immune dai piagnistei così come dalle volgarità alle quali ci hanno abituato i guerrieri del social network e del talk-show. Saffirio riesce ad armonizzare nello stesso telaio, con fluidità razionale e musicale, gli odori, i suoni, gli umori terrestri (il fieno tagliato, le canottiere strappate, il mantice del fabbro ferraio, gli animali selvatici) con ciò che gli italiani sono diventati nell’era di un benessere più conclamato che reale. Senza tacere il menu dei moniti e delle disapprovazioni, ma stemperandoli in un linguaggio non privo di ironia, sempre molto attento a non scivolare nella predicazione saccente e naïf.

Ho accennato al rap non solo per la sua assonanza con rapidità (uno dei pregi di Galaverna), ma anche per l’originario significato del termine, che – prima di denotare una corrente ideologica e musicale – stava, nello slang afroamericano, per rimprovero, reprimenda, strigliata, rimostranza, rampogna, rabbuffo, lavata di capo: cazziatone o liscebusso, per dirla in gergo anche qui. Ce n’è per tutti: per l’euro, per l’europeismo di maniera, per i cliché della propaganda, persino per Facebook e i suoi devoti. Galavernaè un pamphlet in forma di poesia, un albero degli zoccoli piantato, come un totem puntuto e polemico, nel mezzo dell’asfalto contemporaneo:

Perso il senso delle semine e delle stagioni
Del lavoro e dell’insistenza
Dove la fabbrica forniva certezze
Stipendio straordinari mutua pensione
Indifferenti al meteo

La casa
La moglie a casa
La casa al mare
I figli laureati
In lauree fantasiose

Obiettivo raggiunto
E adesso?


Saffirio rilegge i tempi della campagna e dell’indigenza come la quintessenza delle esperienze formative: la conditio sine qua non per affrontare in modo consapevole, maturo e ricco d’immaginazione l’esistenza umana. La galaverna, ricamo di ghiaccio sui vetri delle finestre negli inverni rurali d’antan, diventa il simbolo di rimozioni e scomparse, di origini cancellate e tradite:

Non c’è più la galaverna
Cambio climatico
Prova inoppugnabile forse
Propendo per l’idea
che gli Dèi si eclissano

Il mondo non gli crede
Loro permalosi si esiliano
Fanno spazio a nuovi entranti
Alle nuove credenze


Sebbene i contenuti del libro siano schiettamente politici, – di una politica non “politichese” ma antropologica e a tratti filosofica, – il suo fascino sta nella libertà della lingua, della sintassi, del ritmo. Soppressa del tutto la punteggiatura, ingombro non necessario nella spaziosità solenne consentita dagli a capo:

Scrivere versi
È meglio che ragionare
Dover dimostrare
Argomentare

Con note
A pie’ di pagina
La bibliografia
E l’indice dei nomi

Poetare si perdona
Si comprende
S’interpreta
S’intuisce

Si compatisce
Poetare
Comporta licenze
Permette guazzi

Pensieri improbabili
Senza obbligo
Di condivisione
Frizzi e lazzi

Ragionare
Implica invece
Una logica ferrea
Implacabile

Razionalmente innaturale


Nelle molte pagine dedicate alla vita di ieri, il “poetare” è graziosamente ruvido, materico, sensuale: le cose e le azioni si rivelano “poetiche” di per sé, tanto reali e concrete da suggerire, per il solo fatto di esistere o di compiersi, un arcaico senso del sublime:

Non hai bevuto l’acqua del pozzo
Dal mestolo di rame

Dove avevano bevuto tutti
Prima di te

La povertà, la fatica del corpo, l’avventurosità dei giochi, degli apprendimenti e delle iniziazioni partecipano di una sinfonia più ampia: la natura sembra esigere, dai suoi piccoli abitanti, coraggio individuale e spirito solidale. La specie impone, per la propria sopravvivenza, una istintiva e tangibile religione morale, più antica e più tenace di qualsiasi credo fondato sulla trascendenza. La paura dell’ignoto si combatte insieme, prima ancora di sapere, o di inventare, come.

Sono un lettore indisciplinato e rapsodico. Quando mi capita in mano un libro di poesie, tendo per istinto a sfogliarlo e a leggerlo in ordine sparso, richiamato qua da un titolo, là dalla forma che grappoli di versi neri compongono nel bianco della pagina. Ho fatto così, inizialmente, anche per Galaverna, rendendomi presto conto di quanto fosse errato il mio errare. È un libro che preferisce farsi leggere in ordine lineare, come i romanzi e gli spartiti: protagonista è il tempo che scorre, la storia che dai suoi fianchi si genera. E poiché parla di generazioni, a partire da quella nata nei primi anni quaranta del Novecento, è inevitabile imbattersi nella tempesta della guerra – una guerra doppiamente lacerante, per noi italiani. Se la tragedia commuove, la quiete dopo la tempesta è tutto fuorché consolante.


Saffirio è uno di quei conservatori che talvolta avrei voglia di prendere a schiaffi – io che detesto la caccia, i diari di Drieu la Rochelle, i patriottismi territoriali e tante altre cose. Ma è un conservatore illuminato, per buttarla in frase fatta. Mi fa pensare a Rossini, antimoderno nelle viscere e modernissimo nelle opere. Sicché non provo alcun imbarazzo nel confessare che le mie due poesie preferite, lette e rilette con ammirazione crescente, sono proprio La rappresagliae Nero su nero, quelle in cui l’autore tratta con implicita pietasalcuni protagonisti, nazionali e locali, del fascismo e della Repubblica sociale. La prima racconta, con ritmo febbrile e cinematografico, un agguato partigiano («Quattro tedeschi stesi all’osteria») e le sue conseguenze: il terrore dei civili in attesa di rappresaglia («La gente / Trincerata nei tabarri / Ammutolita / Disanimata / Sparita nei vicoli / Annullata nei portoni»); l’irruzione degli occupanti tedeschi nelle case del podestà, del medico, del parroco e del segretario comunale («Di primo mattino / Ancora in camicia da notte / Quelle camicie da notte bianche / Molto ridicole / Che alcuni hanno visto soltanto / Nei film dei fratelli Marx»); l’ultimatum («scovare i responsabili / Entro le ore 16 / Del pomeriggio stesso»); il convulso dibattito sul da farsi; il rocambolesco viaggio del segretario comunale diretto a Cuneo, in un’autovettura rimediata a stento, per implorare prima l’aiuto del federale e poi la benevolenza di un temibile colonnello tedesco.


La seconda, Nero su nero, stilizza con lodevole economia di mezzi il ritratto psicologico di un ufficiale delle Brigate Nere fin troppo consapevole della fine imminente. Qualcosa del suo aspetto o del suo contegno ricorda Pavolini, anche se non si tratta necessariamente di lui. Merita di essere citata integralmente per la suggestiva metafora della sigaretta in attesa di rilasciare l’ultimo, persistente segmento di cenere; il flash sanguinario che scuote all’improvviso la cupa staticità della scena; il montaggio, sì, davvero sincopato nella rarefazione dei verbi e nelle brusche variazioni di tempo:

Nerobluastri i capelli
Tirati indietro
Stile Osvaldo Valenti
Lucida brillantina
Ma non telefoni bianchi

In contrasto con l’opaco
Panno scabro
Dell’uniforme nera
Sigaretta accesa in permanenza
La lunga bragia in bilico

La morte sul berretto
I baffi curati sottili
Nera la camicia
I pantaloni
La giubba ruvida ma di buon taglio

Gli occhi
Nera anche la faccia a pensarci
Nero l’umore
Accentuato
Da esibita indifferenza

Non avevano gradi le Brigate Nere
Ma se li davano lo stesso
Lui era Capitano
Professore di filosofia
Nella vita di prima

In un liceo di Firenze
«Siamo morti che camminano
Caro Segretario»
La cenere stava per smarrire l’equilibrio
Ma resisteva

Una detonazione forse pistola
Poi una raffica interminabile
I suoi Bravi avevano ammazzato
Il maestro
Sulla circonvallazione

La bragia cinereorossastra
Accennò a cadere
Ma resistette ancora
Incurvata
Contro natura

L’uomo che aveva insegnato
Il pensiero
Affascinando studenti
Divenuto un gelido
Perdente

Con la morte
Sul berretto e nei capelli
Indifferente
O così teneva a sembrare
La partita sta per chiudersi

Andiamocene con stile
Lei ha famiglia?
Cerchi una soluzione
Quale? Non saprei
Veda lei

La cenere cadde finalmente
Svelto con la mano la tolse dal foglio
Proprio nel momento in cui
Stava dicendo
Pochi mesi e poi

Saremo spazzati via

© Pasquale Barbella

Tutte le illustrazioni qui riprodotte, tratte da Galaverna, sono di Silver Veglia.

Silvio Saffirio
Galaverna. Narrazioni sincopate
Immagini di Silver Veglia
Yume, Torino 2016
€ 15



Il Relitto

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Il Relitto

Una sera di primavera insolitamente fredda, senza altra compagnia che la propria ombra schiacciata dalla luna, il Vecchio oltrepassò la darsena e s’incamminò sul lungo molo deserto. Era stata una giornata velenosa, di quelle che ti fanno cacciare le mani in tasca, alzare il bavero e spingere lumore alla deriva. Però una meta ce l’aveva, anche se incerta. Sperava che il bar notturno, isolato in fondo alla banchina e simile alla carcassa di una nave naufragata, fosse già aperto per la stagione turistica, ormai prossima. Voleva ubriacarsi fino a svenire, e non c’era in tutta la città un posto più romantico di quello per compiere l’epica impresa.

Muovendosi senza fretta vide, con sollievo, l’insegna rossa del Relitto luccicare in lontananza, seminascosta da un baraccone di legno montato su palafitte. Era ancora piuttosto presto, per quel tipo di ritrovo. Forse sarebbe stato il primo avventore e il primo avventore è sempre un sovrano: trova il personale in forma e di cera amichevole, riposato e fresco di energie, che ti regala un benvenuto aperto e quasi sincero, ti fa sentire che esisti. Più tardi, nelle ore di ressa, non sarai più nessuno, solo uno sbronzo miserabile e ingombrante, un sacco di cartapesta da estromettere con le buone o le cattive maniere. Non era un bevitore incallito. Si applicò a calcolare mentalmente, sulla base di esperienze sporadicamente vissute, quante birre gli sarebbero servite per ridursi nella peggiore (o migliore) delle condizioni, e quanto tempo sarebbe stato in grado di resistere prima di perdere i sensi o vomitare sotto le stelle.

Ma non era il primo arrivato, come aveva creduto. C’era già qualcuno a pochi passi dalle scale di legno che conducevano alla terrazza o tolda d’ingresso, incappucciato come un rapper. Affacciato al parapetto, fumava guardando il mare e i fari che, da tre diversi punti della baia, incrociavano le luci per sussurrarsi chissà quali pettegolezzi. Al Vecchio quella scena sembrò familiare. Anche lui, prima di inacidirsi e prima di smettere di fumare, era andato tante volte ad affacciarsi proprio in quel punto. Mezz’ora di rapimento immobile a inebriarsi degli effluvi e degli affanni dell’acqua, inquieta regina degli spiriti. Persone sconosciute gli rivolgevano, a volte, la parola, e si cianciava di pesca o di viaggi, di calcio o semplicemente del meteo, per l’oscuro impulso che provano gli umani a scambiarsi reciproci segnali di coesione, quando non sono impegnati ad azzannarsi.

Il Vecchio pensò che non era il caso di affrettare il passo. Madama birra avrebbe aspettato, e c’era una vaga possibilità di sbronzarsi in due, se l’ignoto fumatore si fosse dimostrato sufficientemente espansivo. Così, quando gli fu alle spalle, gli disse la prima cosa che gli venne in mente, senza preoccuparsi di quanto fosse stupida.

«Avevo una giacca col cappuccio uguale alla tua. Identica.»

L’altro continuò a mirare l’infinito, senza voltarsi. Tacque come tacciono le statue ma poi, sentendosi ancora sul collo quella presenza importuna, borbottò qualcosa.

«Che vuoi? Una sigaretta?»

«Ho smesso di fumare vent’anni fa», rispose il Vecchio. «I dottori mi avevano retrocesso i polmoni in serie B. Ma se mi offri una cicca, faccio volentieri un’eccezione. D’altra parte le cose vanno talmente storte che non sarà un po’ di fumo ad ammazzarmi.»

L’incappucciato allora si girò verso di lui, gli porse una sigaretta e gliela accese. I suoi gesti erano meccanici e sbrigativi, come se quell’intrusione gli pesasse. La fiamma dell’accendino illuminò per un istante i due volti. Quando si spense continuarono a fissarsi nella luce avara che la luna concedeva. Il Vecchio parlò per primo:

«Dicono che tutti abbiamo un sosia, in qualche angolo di mondo. Ma non avrei mai pensato di trovare il mio a un dito dal naso.»

«Sembra anche a me di percepire una certa somiglianza.»

«Alla faccia di una certa somiglianza! Sembri me, sputato! Certo sei più giovane, avrai sì e no cinquant’anni mentre io ti potrei essere padre, ma ti garantisco che alla tua età ero la fotocopia di quello che sei adesso.»

«E avevi lo stesso cappuccio», osservò il sosia con un ghigno di scherno.

«Sissignore, lo stesso cappuccio. Lo so che non mi credi, ma è la verità e non posso farci niente. E sai che ti dico? Anche la voce era uguale.»

«Be, ti prendo in parola. Io comunque alla tua età non ci arrivo.»

«E perché non dovresti? Ho mica cent’anni. Ne ho solo ottanta, appena compiuti.»

«Dal momento che sei il mio sosia, ti confiderò un segreto. Ma prima dimmi: hai un cellulare?»

«Proprio stamattina l’ho scaraventato in mare.»

«Perché?»

«Ero arrabbiato con una persona. Non volevo più contatti con lei. Così mi sono liberato dell’unica cosa che avrebbe potuto riavvicinarci.»

«Hai fatto bene.»

«Mah. Io, a ripensarci, penso di aver fatto una sciocchezza. Me ne era costato di soldi, quel telefono. E poi, ci ero affezionato.»

«Io avrei fatto la stessa cosa.»

«Allora è vero che ci somigliamo. Quale segreto volevi confidarmi?»

«Non so se faccio bene a dirtelo.»

«Non insisto. Del resto hai ragione: non mi conosci nemmeno. Perché mai dovresti confidare il tuo segreto a un estraneo?»

«L’hai detto: perché sei un estraneo. Mai mi sognerei di toccare un simile argomento con gente che conosco.»

«Allora è una cosa seria.»

«Giurami che non dirai niente a nessuno.»

«Nemmeno ad altri estranei?»

«Domani, forse. Sul tardi. Stanotte no.»

«Parla, se ti può essere d’aiuto.»

Il Vecchio vide con chiarezza, sul volto dell’altro, un concentrato di insostenibile dolore, e ne fu scosso nel profondo.

«Non parlare d’aiuto, Vecchio.»

«Strano, anche tu mi chiami così. Lo fanno tutti. Che storia è questa dell’aiuto? Mi pareva che potesse esserti utile sfogarti con qualcuno, ma non vuoi sentire la parola aiuto

«Sarò più chiaro: mi gioverebbe, fino a mezzanotte, condividere con te un piccolo segreto. Ma tu devi giurarmi che non dirai e, soprattutto, non farai niente per aggiustare il problema che sto per caricarti sulla coscienza.»

Anche la sigaretta del Vecchio si era spenta da un pezzo. Il sosia, vero o presunto che fosse, si affrettò ad accenderne due, una per l’estraneo e una per sé. Il Vecchio si sentiva a disagio. Anzi, il suo era più che disagio: un malessere acuto prendeva forma dentro di lui, un carbone acceso che sentiva salire dallo stomaco al petto. Pensò che giurare era sbagliato, ma era uno sbaglio che valeva la pena di fare, e subito, prima che quell’uomo disperato si richiudesse nel silenzio. Se non si fosse liberato del suo peso, allora sì che sarebbe stato impossibile soccorrerlo, o confortarlo.

«Giuro. Parola d’onore. Ascolto e basta.»

«Prima di mezzanotte mi butto a mare, come hai fatto tu con il telefono. Da quei lastroni», precisò indicando l’imponente barriera frangiflutti che li separava dal mare oscuro.

Il Vecchio ebbe come un giramento di testa. Dovette attaccarsi saldamente al parapetto per non perdere lequilibrio.

«Hai detto a mezzanotte. Adesso che ore sono?», domandò, sentendosi sciocco e impotente. L’altro guardò con freddezza il suo orologio da polso: «Sono le dieci.»

Il Vecchio non sapeva cosa dire. Era scosso, in preda a unangoscia insensata, come se fosse lui, e non l’altro, il protagonista della tragedia annunciata.

Tacquero entrambi, in attesa che una rumorosa brigata in arrivo sparisse nel Relitto con i suoi lazzi e le sue risate. Quando la quiete tornò a governare la loro solitudine, il Vecchio chiese ansioso:

«Perché a mezzanotte e non alle undici o addirittura adesso, se intendi tener fede al tuo proposito?»

«Perché devo trovare il coraggio che mi serve, e per trovarlo ho bisogno di ubriacarmi a dovere.»

«Anch’io sono qui per ubriacarmi», disse il Vecchio con un mezzo sospiro di speranza. «Facciamolo insieme.»

«Non dirmi che vuoi suicidarti anche tu.»

«Non ci penso nemmeno, è una stupidaggine. Nessuno dei due lo farà.»

«Io sì. E ricorda: hai giurato che non cercherai di impedirmelo. Voglio sperare che tu sia un uomo d’onore.»

«Dovremo varcare quella soglia, prima o poi», disse il vecchio accennando al Relitto, che si stagliava contro il cielo in tutta la sua maestosa rovina. «Tanto vale farlo subito.»

«Aspetta ancora un po’. Mi restano giusto due sigarette, le ultime. Inutile sprecarle. I morti non fumano, e le onde nemmeno.»

Il Vecchio accettò di buon grado quella parvenza di eredità. Gli sembrò che il fumo funzionasse da anestetico, nella gravità della situazione. Aspirò una boccata interminabile, tossì una raffica di mitragliatrice e venne al dunque: «Anch’io devo confessarti una cosa», annunciò con un timbro catarroso e solenne.

«Qualunque cosa sia, non può essere più pesante della mia», ribatté l’altro, che non rinunciava nemmeno in punto di morte alle battutine sarcastiche.

«Presuntuoso. Ciò che sto per dirti ti sorprenderà. Perciò ti prego di ascoltare con attenzione. Intanto dimmi quanti anni hai.»

«Cinquantadue. Perché?»

«Me lo sentivo! Beh, proprio a questa tua età, col cappuccio in testa e la sigaretta appesa a un angolo delle labbra come Belmondo, stavo qui ad aspettare mezzanotte per fare la cosa che vuoi fare tu. Rivedo la scena, è uguale a questa, salvo che il Relitto non era ancora il Relitto. O meglio lo era, ma abbandonato, vuoto, inutile e cadente. C’era invece, lì dove ora passa quella coppia, un furgone bar, che chiudeva presto, a mezzanotte, dopo aver servito bibite, piadine e fette d’anguria, in estate.»

«E come mai non ti buttasti? Chi o cosa ti fermò? Il furgone non serviva alcolici?»

«Adesso andiamo dentro, ci sediamo, ordiniamo una birra e ti spiego come andò.»

«Ti avviso: non cercare di tirarla in lungo. Se stai pensando di distrarmi con le chiacchiere, finiamola qui. Entriamo ma ciascuno si siede al posto suo, io di qua e tu di là, lontani come due sponde del Grand Canyon. Non siamo né amici né parenti. Devi farti i cazzi tuoi.»

«Vedrai che i cazzi miei sono anche cazzi tuoi. Comunque non c’è motivo di buttarla sul triviale. Se non puoi fare a meno di affogarti, fallo almeno con un po’ di stile e di rispetto nei miei confronti. Io non ti ho chiesto nulla.»

Si avviarono cupi verso la scaletta. «Ti chiedo scusa», mormorò il più giovane. «Non volevo offenderti. Se vuoi raccontarmi la tua storia fallo pure, tanto io di sicuro me la terrò per me.»

Dentro c’era atmosfera di festa. Luci fioche e musica ad alto volume. Non era una sorpresa: il basso si sentiva pulsare, attutito ma implacabile, anche di sotto. Decisero di stare in terrazza, anche se la temperatura faceva pensare a una coda dell’inverno. Fuori la musica era meno micidiale: alzando un po’ la voce, ci si poteva intendere. Ordinarono e, senza aspettare l’arrivo della birra, il Vecchio si alzò per andare in bagno. «Ho la vescica in fiamme», disse come se volesse giustificarsi. «Sono ore che sto in piedi.» L’altro s’insospettì e lo seguì borbottando «vengo anch’io», una frase che suonava buffa come la vecchia canzone, specialmente in una circostanza così inusuale. A dire il vero il Vecchio ci aveva pensato, a tradirlo. Ad avvisare qualcuno che c’era un pazzo sul punto di suicidarsi, e per favore telefonassero a un’ambulanza o alla polizia o ai pompieri o a Gesù Bambino per metterli in campana. Ma ci aveva rinunciato prima ancora che il tizio lo seguisse per marcarlo a vista, come si fa con gli ostaggi. Pensò che non aveva senso evitare qualcosa che si sarebbe avverato la sera dopo, o la settimana dopo, o il mese dopo. Se fatalisti non si nasce, lo si diventa quando il caso ti mette alle strette. No: era necessario fargli cambiare idea con convinzione, senza ricorrere a trucchi di bassa lega. Del resto, credeva di avere a disposizione un argomento più efficace di qualsiasi mezzuccio ispirato dall’istinto.

Quando tornarono al tavolo trovarono già pronte le birre. Così bionde e spumeggianti da sembrare inadatte al set di cronaca nera allestito nella mente dei due sconosciuti. Intorno, anche la scena era cambiata. Sulla terrazza, prima deserta, ballava una giovane coppia, stretta stretta. I corpi erano incollati come per un preludio di sesso imminente. Le loro movenze erano incongrue: lentissime e incerte, mentre la musica picchiava duro, sprigionando percussioni d’ascia e martello. Il Vecchio li osservò con tenerezza, e continuò a guardarli mentre s’inoltrava nel suo racconto.

«Stavo lì, ti dicevo, con gli occhi che passavano da un faro all’altro del porto. Occhi lacrimosi, per via dell’aria umida e fredda. Fumavo e attendevo pazientemente che il furgone si togliesse di torno, per attuare in pace il mio programma di morte. Quand’ecco che un tale mi si avvicina e mi chiede di accendergli la sigaretta.»

«Sì, e magari aveva in testa il cappuccio anche lui», ridacchiò il compagno, dopo aver ingollato mezzo boccale ed essersi passato sulle labbra una manica del giubbotto.

«Ce l’aveva, uguale al mio, ma se non ti sta bene pazienza. Stiamo mica parlando di moda.»

«Un altro sosia?», chiese l’aspirante suicida, divertito. «Non sei bravo a barare. Prima hai detto che tutti hanno un sosia, e io ero il primo che ti fosse capitato sotto il naso.»

«Non ho detto proprio così», replicò il Vecchio, infastidito. «E comunque, ciò che ho detto prima non ha importanza. Segui il mio discorso, per cortesia, e non interrompermi. Il ragazzo – sì, era un ragazzo, avrà avuto vent’anni o poco più – aveva il volto incorniciato dalla barba, ma mi somigliava a tal punto da lasciarmi imbambolato...»

«Le barbe ingannano.»

«Non in quel caso. Alla sua età portavo anch’io la barba, in tutto simile alla sua.»

«E la voce era uguale.»

«La stessa. Al momento pensai che tutto si fosse ormai compiuto, che avessi già spiccato il volo e che stessi sognando, nell’aldilà, di aver incontrato la mia reincarnazione. Ma quel ragazzo era maledettamente tangibile. Mi afferrò le braccia e, scuotendole, mi domandò se mi sentissi bene.»

«Tu vedi sosia dappertutto. Ma il ragazzo, se mai è esistito e non stai lavorando di fantasia, non ha visto in te nessun sosia.»

«Per forza. Ero cambiato, non solo fisicamente ma anche dentro. Avevo l’aspetto di un allucinato, scarno e sofferente. Sembravo più vecchio della mia età. Proprio in quell’epoca, mi pare di ricordare, cominciarono a chiamarmi il Vecchio, anche se all’anagrafe non lo ero ancora.»

«E che fece il ragazzo per farti cambiare idea? Tu glielo dicesti che volevi buttarti a mare?»

«Glielo dissi eccome, non so perché. Forse per gli stessi motivi per cui tu l’hai detto a me.»

«Ne racconti di balle.»

«Sai che ti dico? Che ti comporti da sbruffone, mentre forse stai solo recitando. Sei antipatico da morire. Fra noi due, è probabile che sia tu il vero contaballe. Non hai la minima intenzione di suicidarti per davvero, vuoi solo stupire il prossimo. Non fai altro che ridere, ghignare, pronunciare battute mediocri. Devo ammettere che hai un certo senso, molto singolare, della comicità. Quelli come te fanno di tutto, tranne che uccidersi. Trovano che la vita sia troppo divertente, fra una tragedia e l’altra, per rinunciarci gratis.»

«Come ti sbagli, Vecchio. Gli attaccati alla vita con la colla sono quelli come te, che l’umorismo non sanno nemmeno cosa sia. Ehi, cameriere! Vuoi lasciarci a secco? Portaci un altro paio di bionde, ti ripago con una mancia degna della mafia russa.»

«Pago io», disse il Vecchio. «Da te non voglio niente.»

«Scemo. Che vuoi che ne faccia degli spiccioli che mi rimangono?»

«Ma non ce l’hai una famiglia?», azzardò il Vecchio incupito. La sua disapprovazione era ormai evidente, corposa. La coppietta smise di ballicchiare e si accomodò su una sola sedia, lei sulle cosce di lui. Bevevano vino dalla stessa coppa, e si baciavano ad occhi chiusi.

«Non parlarmi di famiglia», ruggì il sosia con astio. «Bevi e sta’ zitto. Oppure divertimi con le storie dei tuoi facsimile. Ce ne sono altri nella tua vita?»

«Cosa c’è che non va con la tua famiglia?»

L’altro si alzò in piedi di scatto, buttò sul tavolo tutte le banconote che aveva nel portafoglio e fece per andarsene. Ma il Vecchio lo acchiappò per un braccio, implorandolo di sedersi.

«Sono appena le undici», lo supplicò con voce lamentosa, quasi in falsetto. «Che fretta hai? Se non vuoi parlare della tua vita, non parlarne. Tienimi compagnia, ancora per un po’.»

L’ira del disperato sembrò placarsi un poco. Si rimise a sedere, con lo sguardo arcigno e perso nel vuoto. «Se vuoi che passiamo ancora un’altra mezz’ora insieme, patti chiari. Niente confidenze private. Io non ti chiedo niente della tua biografia e tu non mi chiedi niente della mia. Teniamo da parte tutto, anche i nomi. “Vecchio” basta e avanza, e tu, se proprio non puoi farne a meno, chiamami “Sosia”.»

«Come ti pare, Sosia. A questo punto, però, ho un bel vantaggio su di te. Tu non sai e non saprai niente di me, io invece nel giro di un paio di giorni saprò tutto di te, il vero e il falso: mi basterà dare una scorsa alla cronaca locale dei giornali.»

«Ciò che avverrà doponon mi riguarda. Voglio farti un regalo, se lo accetti, così non mi odierai.»

«Che regalo?»

«Ti autorizzo a chiamare domani la redazione del giornale che vuoi. Anzi: te lo raccomando. Digli che hai passato insieme al suicida le ultime due ore della sua vita, su questo molo e in questo bar, e che sei disposto a rilasciare a pagamento – dietro lauto compenso, come si suol dire – un’intervista in esclusiva. Potrai spifferare qualsiasi cosa: come ci siamo incontrati, cosa ci siamo detti, le fantasie sui sosia. Di più: potrai abbellire l’intervista inventando dettagli di sana pianta, per esempio che ci siamo azzuffati, che mi hai dato una sberla, che abbiamo ballato il tango insieme dopo esserci ubriacati. Inventa le migliori ultime parole” che riesci a immaginare, e se non sei capace copiale da Shakespeare o dal Vangelo. Farai un figurone, diventerai famoso. Morirei più contento se lo facessi.»

«Sì, così mi arrestano per omissione di soccorso.»

«Fa’ come vuoi, io il consiglio te l’ho dato. Ho invece un grosso favore da chiederti, Vecchio. Non puoi dirmi di no.»

«Cos’è, una specie di ultimo desiderio?»

«Hai indovinato», disse l’altro, prendendosi una lunga pausa e distogliendo lo sguardo dall’interlocutore. La coppietta pagò il conto e se ne andò, mano nella mano e fianco contro fianco.

«Beh, parla. Devo portare un messaggio a qualcuno?»

Il sosia sorrise, e questa volta era un sorriso più amaro degli altri. «No. Ciò che ti chiedo è di assistere al mio ultimo atto. Di stare lì finché non sarai certo che sono annegato.»

«Per chi mi prendi? Per un sadico? Un guardone? Un criminale? Uno che se la gode un mondo a veder morire il prossimo? Oppure...»

«Oppure?»

«Adesso mi è tutto chiaro. Vuoi essere salvato in extremis. Sei distrutto, ma non vuoi morire veramente. Vuoi che ti afferri per le spalle, al momento giusto, come nei film, e che ti porti via dall’orlo dell’abisso, come farebbe un angelo custode professionista. Così potrai sempre dire a te stesso, o a chi vorresti colpevolizzare, che stavi per farlo quando un vecchio di passaggio, mandato dal cielo o dall’inferno, ti ha salvato la vita.»

Questa volta il sosia scoppiò in una risata da clown. «Ma senti, senti lo psicologo fai-da-te! Contorto, come nelle sue fandonie sui sosia! Non ti viene in mente una ragione più futile e concreta, per esempio che ho paura del momento finale, paura di morire solo e invisibile come una qualsiasi erba selvatica calpestata dai passanti? Tu dici che ti somiglio e che potresti essermi padre», concluse incrociando le braccia sul tavolo e avvicinando la testa a quella del Vecchio, a mo’ di sfida; «ti prendo in parola. Confortami con la tua presenza, padre, non farmi dire che mi hai abbandonato sulla croce...»

Non avevano contato le birre e l’effetto si stava già facendo sentire. Il sosia biascicava più del vecchio, e i suoi occhi erano rossi – rabbiosi e imploranti al tempo stesso. Il Vecchio cominciò a riporre le sue speranze nell’alcol. Forse quell’imbecille, a furia di bere, si sarebbe dimenticato dell’impegno che si era autoimposto.

«Beviamo ancora», lo incoraggiò. «L’alcol è una madre, e le madri sono più brave dei padri a consolare i mocciosi.»

«O sono i mocciosi a consolare i grandi? Che ti disse quel ragazzo, per farti recedere dalla serietà del tuo progetto?»

«Gli mostrai la patente che avevo con me, con la foto scattata a vent’anni, e gli venne un colpo. Si mise in testa che eravamo la stessa persona. Non doveva dir nulla per convincermi di essere nel giusto, perché era una cosa che avevo pensato prima di lui.»

«E allora?»

«E allora mi disse che non avevo il diritto di ammazzarmi, perché sarebbe stato come rubargli il futuro, uccidere anche lui. Proprio così disse, “non uccidermi, non ti ho fatto niente per meritarlo. Se muori adesso, morirò anch’io fra trent’anni, per una scelta tua e non mia. Sarebbe un delitto, non un suicidio. Io sono giovane, ho un sacco di piani a lungo termine. Ovviamente potrei perdere la vita prematuramente, per un incidente o una malattia, ma non sarebbe la stessa cosa. Se a mezzanotte scompari in quei flutti, sarai il mio assassino.”»

«Furbo il ragazzo. E tu ci cascasti come una pera, nel suo grazioso trabocchetto.»

«Forse fu come dici tu, forse era un bluff. Ma la sua logica era inoppugnabile. Chissà che fine ha fatto, quel ragazzo.»

«Sono io, naturalmente. È questo che vuoi dire? Ma c’è qualcosa che non quadra. Se fossi io me ne ricorderei.»

«Hai mai sofferto di amnesie?»

«Rieccoci alla vita privata. Non mi caverai un fiato. Fino a domani o dopodomani, non saprai niente di me. Accontentati delle panzane che scriveranno i cronisti.»

«Che ora è?»

«Venti minuti all’ora del destino.»

«Ascoltami. Se tu fossi quel ragazzo, e non dico che lo sia, il tuo suicidio non avrebbe senso. Perché io, cioè tu, come vedi sono vivo e vegeto. Se tu sei me, insomma, il suicidio non avrà luogo.»

«Ma io non sono te.»

«Lo vedremo. Quando sarà il momento.»

«Non sperare di salvarmi. Lo so che hai bisogno di sentirti Superman, e ti illudi di aver trovato la grande occasione che hai aspettato tutta la vita. Ma è troppo tardi per le medaglie al valore. Non hai il fisico per inseguirmi su quei blocchi di pietra, e tanto meno per fermare il salto che farò. Sei debole, vecchio, scarso. Anche per questo devo farla finita. Non voglio ridurmi come te.»

«Fa’ quello che credi: sarà un sollievo anche per me, a questo punto. Non per farti la morale, ma ragioni da stronzo. Cameriere!»

Era il terzo o quarto cameriere quello che si accostava al tavolo. Ma quanti ce n’erano, in quel posto?

«Ragazzo, ancora un paio di bottiglie. Non si potrebbe abbassare un po’, quella musica diabolica? Non serve, non c’è più quasi nessuno.»

«Faccio spegnere, signore. Tanto a mezzanotte si chiude. Ma se torna fra quindici giorni, ci troverà aperti fino alle tre di notte.» Chissà se la sua era una promessa, o una minaccia di musica perpetua. Si chinò per raccogliere le bottiglie vuote, e a quel punto i due avventori si guardarono in faccia, trasecolati.

Il cameriere era la copia perfetta della loro giovinezza perduta.


© Pasquale Barbella

La melodia sfuggente

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La melodia sfuggente

Lorenzo, il mio nonno paterno, non era un modello di sincerità. Aveva un innato talento per le bugie e ne sfoderava a getto continuo, specialmente con i bambini, che diceva di ingannare a scopo didattico. Mi aveva insegnato i giochi di carte più popolari (scopa, briscola, tressette) ma anche prodigiosi trucchi da baro: non perché sia importante vincere, sosteneva, ma perché c’è più gusto. Nelle sere d’estate, quando in campagna la sua masseria si popolava di parenti venuti a dare una mano dai paesi circostanti e soprattutto di ragazzini in vacanza scolastica, amava radunare intorno a sé una piccola folla di ascoltatori da intrattenere con le sue fantasie. Era bravo e incantava anche me, sebbene fossi l’unico a non prendere troppo sul serio ciò che diceva. Gli altri erano così ingenui da non far caso alle sue contraddizioni. Giurava di avere un occhio di vetro per aver perduto l’originale nella guerra d’Abissinia, un’imitazione perfetta costruita per lui da un artista di Murano; ma l’occhio era il destro o il sinistro, a seconda della serata. Dallo stesso artigiano si era fatto modellare un paio di scarpe di cristallo per la nonna: con quei gioielli ai piedi era stata deposta nella sua ultima dimora terrena. Si proclamava una volta cugino di Giuseppe Verdi e un’altra di Modigliani, «il pittore dei colli lunghi» secondo la sua definizione; spesso incorporava nella grande famiglia altre celebrità del momento o del passato, senza escludere da quell’immodesto albero genealogico nemmeno Garibaldi e i Savoia. Le imprese che lo avevano visto partecipe erano altrettanto vertiginose, e sollecitavano gridolini di meraviglia e ammirazione. Aveva, a suo dire, percorso il mondo intero prima di ritirarsi nella pace dei campi, stanco di peripezie degne di Sandokan. Riscuoteva sempre enorme successo la ripetizione del suo racconto parigino, quando aveva dato il suo contributo, da capomastro, alla costruzione di una torre di ferro alta un chilometro e aveva salvato dodici manovali da una caduta di trecento metri. Ero l’unico a sogghignare apertamente di quella e altre panzane, basandomi su conoscenze elementari e, spesso, sugli anacronismi di cui faceva uso disinvolto. La sua reazione era sempre la stessa: «Se ragioni così diventerai un burocrate come tanti. La verità è una cosuccia che riguarda i notai, gli avvocati, i contabili. La fantasia, invece, è la virtù degli artisti.»

Non di soli inganni si dilettava, ma anche di molteplici passioni: per esempio le arie d’opera, la gastronomia, l’osservazione delle stelle, i sigari di qualità. E doveva averne letti di libri, perché – anche se di breve curriculum scolastico – si esprimeva con ricercatezza e citava autori e teorie illustri. Spesso mi dava libri da leggere e su cui meditare, pescandoli da casse e bauli sparsi nei nascondigli più impensati, stalla compresa. Aveva un debole per me: «Sei l’unico a dubitare di ciò che dico, e questo farà di te un adulto speciale», mi disse una volta, in privato. Nella stessa occasione il discorso cadde su Pinocchio, e non esitò a rivendicare un ruolo nella creazione di quel capolavoro. Senza badare troppo alle date, disse di aver suggerito a Collodi alcuni degli episodi più spiritosi del romanzo. Gli chiesi come facesse a conoscere lo scrittore e rispose, con l’aria più naturale del mondo, di averlo avuto compagno di scuola. «Di tutti i libri», commentò poi, «quello è il più bugiardo. Vorrebbe insegnarci che mentire è una brutta cosa, mentre – a certe condizioni – l’inganno è il seme delle speranze più alte.» «E quali sarebbero queste condizioni?», domandai con il sorriso tipico degli adolescenti in vena di contestazione. La tesi che mi espose sull’aia, tra odori di stoppie bruciate e animali in libertà, mi diede da pensare. Disse che tutti, ma proprio tutti, mentono; i peggiori lo fanno per trarne profitto a scapito delle libertà e degli interessi altrui, mentre gli altri si limitano a usare l’immaginazione per trovarvi un rifugio.

Per la musica, l’opera soprattutto, nutriva una predilezione assoluta. Doveva aver messo piede davvero, qualche volta, in uno o due dei tanti teatri che si vantava di aver frequentato da habitué: a Milano, a Parma, a Venezia, a Parigi, a Vienna... Avevo sì e no tredici anni quando, soltanto a me, confidò la sua bugia preferita. «Ho inventato la melodia più bella del mondo, ma non dirlo a nessuno. È un segreto fra te e me.» Gli chiesi di canticchiarmela, per sentire se era davvero bella come diceva lui. «Ahimè, non posso», ammise desolato; «non me la ricordo.»

Un pomeriggio ce ne stavamo, tutti e due, a giocare svogliatamente a carte sotto il portico, mentre i grandi facevano la siesta nella freschezza di stanze ombrose e i piccoli giocavano, sudati e vocianti, nello spiazzo tra il casale e il frantoio. Mi accorsi, per la prima volta, di quanto fosse vecchio. Non si toglieva più la coppola, neanche a tavola, neanche quando si crepava di caldo. A briscola era diventato lento come un bue e ormai lo vincevo senza sforzo, anche se barava; barava in modo talmente plateale da strapparmi sorrisi di commiserazione. A un tratto rimase bloccato con la carta in mano per un tempo interminabile, come pensando ad altro. Attesi la sua mossa senza dar segno di impazienza o di stupore: capivo che qualcosa di notevole gli stava passando per la testa e temevo di turbarlo destandolo da quel torpore. Passarono due o tre lunghi minuti, mise giù la carta e mi domandò: «Sai suonare la fisarmonica?» Sapeva benissimo che non ero capace di suonare nulla. C’era una fisarmonica nella proprietà, ma l’unico a maneggiarla era il figlio del mezzadro, un ragazzone grande, grosso e rosso di capelli di cui s’innamoravano tutte le ragazze del circondario perché, dicevano sottovoce, nessuno era più bravo di lui a rubare i cavalli.

«Ti serve una suonata?», domandai. «Vuoi che vada a svegliare il ladro di cavalli?»

«No, no», obiettò allarmato. «Lascia quell’individuo lontano dai nostri segreti.»

Era stato visitato, all’improvviso, dalla melodia di cui si riteneva autore. Sembrava in ansia. Poi riemerse, a poco a poco, da quella subitanea e misteriosa afflizione. «Se n’è andata», sospirò, e ripetè la frase due o tre volte. Stupito, lo pregai di spiegarsi. E allora mi raccontò per l’ennesima volta, ma con maggiore dovizia di particolari, di aver creato quasi per caso, tanto tempo prima, un tema di insolita complessità: un «frammento melodico scuro e implacabile», lo definì, ma talmente «serpentino» da sfidare e sopraffare le sue capacità mnemoniche. Quella sequenza di suoni, mai udita da nessuno, riaffiorava ogni tanto nella sua mente, a intervalli irregolari. A volte si rifaceva viva dopo un letargo di anni, e lui la riconosceva al volo come si riconosce, in una vecchia fotografia ritrovata in soffitta, il volto di un antico compagno di giochi che credevamo di aver dimenticato per sempre. Lo ascoltai scettico e divertito come sempre, abituato alle sue stramberie iperboliche. «Sei sempre un gran bugiardo», gli dissi ridendo, «non ti ci vedo come compositore. Per la musica sei negato quanto me.» Ma non si arrese facilmente e trovò argomenti ragionevoli per convincermi che c’era qualcosa di autentico in quella fantasticheria da millantatore.

Sì, capitava anche a lui – come a me – di accennare motivetti spuntati senza preavviso dall’inconscio, nei momenti in cui non si ha altro da fare. Frasi arcinote, depositate nel dormiveglia della memoria: canzoni, romanze, brandelli sinfonici. Disse che la musica mentale gli faceva compagnia, specialmente quando camminava da solo e senza fretta. Fin da bambino aveva preso l’abitudine di passeggiare cantando impercettibilmente, fra sé e sé. Praticata a lungo, l’esperienza si era evoluta. «In che modo?», domandai: non capivo che cosa c’entrasse l’evoluzione con la banalità dei nostri mormorii segreti. «Non siamo noi a scegliere i motivi che ci va di cantare», rispose con una serietà che suonava esagerata. «Sono loro a imporsi, a tenderci agguati, a sbucare dall’ombra per usarci come grammofoni. Certe musiche sono così piene di sé da volersi rimirare in uno specchio, e si servono di noi per ascoltarsi e riascoltarsi, come se fossimo i loro stupidi altoparlanti. Se ci fai caso, ti accorgi che sono sempre le stesse a spingere, a farsi avanti: non necessariamente le tue favorite. Quando ti sorprendi a rievocarle per la milionesima volta, provi un senso di nausea e cominci a odiarle, perché ti tengono in pugno e ti ammorbano con un sentore dolciastro. Allora, per difenderti dal loro miele, ti imponi di umiliarle, di scardinare la loro arroganza e la loro prevedibilità alterandole a piacimento, avvelenandole con qualcosa di tuo, distruggendo la linearità a cui vorrebbero inchiodarti...»

«Ma che significa?», protestai, più incredulo che mai. «Vuoi dire che quando cammini all’aria aperta inventi degli arrangiamenti?»

«Deformazioni vere e proprie. Violazioni. E quando la lotta si fa aspra...»

«Che lotta? Ti senti bene?»

«La lotta fra la melodia spudorata che cerca d’impadronirsi di me e la mente che si oppone», spiegò come se stesse parlando di un mostro di marzapane che cerca di corrompere un diabetico.

«Insomma, nonno, è come se ti venisse da cantare ’O sole mio e tu per un po’ ci stai, ma poi dici a te stesso: che cacchio sto facendo, e cambi programma.»

«Bravo. E allora, contro ’O sole mio, ti sforzi di inventare un’altra cosa. Talmente diversa da appartenere soltanto a te.»

«E così che hai creato la melodia sfuggente?»

«Sì, ma senza alcun merito. Sai bene che non ho né il talento né la formazione per costruire una composizione che stia in piedi. Quella melodia si è fatta strada da sola...»

«Oddio, anche lei! Ma non succedeva solo con le musiche famose?»

«Ed è proprio qui il mistero. Ti giuro che si tratta di un motivo straordinario, sublime, roba da far accapponare la pelle non solo a Puccini ma anche a Wagner. E non è solo questione di sviluppo melodico. Dentro di me sento oscuramente, in secondo piano ma vive e pressanti, armonizzazioni inesplorate e un’intera orchestra in azione.»

«E tu riesci a mugugnare a bocca chiusa tutto questo? Gli accordi, i violini, i salti d’ottava?»

«Certo che no. Io accenno il motivo in modo miserevole, e tutto il resto è un magma di suoni muti, compressi nel cervello, che sembrano sul punto di esplodere e invece affondano inesorabilmente negli abissi della coscienza.»

«E lì si spegne tutto.»

«Finché, dopo una settimana o un mese o un anno, la creatura riemerge dalla sua laguna nera.»

«Lochness. Dovresti chiamarla così, la tua adorata.»

***

Mezz’ora prima di ricevere l’estrema unzione, il nonno mi guardò con occhi liquidi e sollevò debolmente le dita della mano destra, come per invitarmi ad accostarmi. Quando gli fui vicino, fissò il suo sguardo nel mio e cominciò a mormorare delle note a bocca chiusa. Solo io, tra i familiari assembrati nella penombra, sapevo di cosa si trattava. Gli altri assistevano alla scena con espressioni che non vedevo, silenziose e, immagino, sbigottite. Cercai di concentrarmi sul messaggio, prevedendo che lo avrei presto dimenticato nonostante la ferrea volontà di custodirlo. La sorte di quel motivo era di ammaliare e, subito dopo, di ritrarsi e scivolare lontano, come succede al soffio di vento che ci rinfresca all’improvviso, nella calura d’agosto, per restituirci un attimo dopo all’afa opprimente. Dell’incerta melodia, suggerita dal mugolio scabro e lunare del moribondo, s’indovinava la grazia altera e malinconica. Al funerale mi videro sorridere e forse giudicarono futile e inaffidabile non solo me, ma l’intera mia generazione. Agli occhi degli anziani, la gioventù somigliava alla melodia elusiva: fascinosa e inattendibile. Io opponevo al lutto un volto trionfante, investito dall’aura delle note che ora ricordavo una per una. E con quelle immaginavo accordi e orchestrazioni adeguate al suo inusitato, tormentoso temperamento. Un piccolo miracolo che – ne ero certo – non sarebbe durato a lungo. Era tipico di quella creatura apparire e scomparire a capriccio. Aveva perseguitato un uomo per tutta la vita e ora toccava a me, il nipote, soggiacere ai tranelli di un’eredità così impalpabile. Non meritavo la fiducia con cui mi era stata offerta, per di più in una circostanza terribilmente solenne. Avevo scarsa memoria e mediocre propensione per la musica. E anche a me, come a lui, mancava qualsiasi fondamento d’istruzione specifica: la competenza per catturare il fantasma, memorizzarne visivamente gli indizi ribelli, imbrigliarli e imprigionarli per sempre tra le barre del pentagramma.

Ora che ho l’età di Lorenzo – quella, di tutte le sue età, che mi è rimasta più impressa – non mi domando più le ragioni per cui la sua ossessione abbia finito col divorare anche me. Ho ceduto, negli anni, a un assurdo incantesimo, una specie di tic nervoso, accettandolo come si accettano senza discutere la sostanza e i colori della terra, dell’acqua, del fuoco. Ho smesso di dare importanza a un dettaglio che una volta mi sembrava importante: quando dicevo a me stesso che quell’idea, dopotutto, non apparteneva a me, non era mia; e che non avevo nessun dovere di trattenerla a forza, così come il nonno non aveva avuto nessun diritto di obbligarmi a custodirla con la stessa cura dovuta alle creature viventi. Ho smesso, insomma, di recriminare e di giustificarmi, di rimuginare su questioni che si presentavano come impulsi filosofici e morali mentre sono soltanto veli sottilissimi, garze ornamentali di cui ogni vita si fascia in modo diverso, e solo per piacere a sé stessa.

Non ho contato le occasioni in cui la melodia mi è ritornata in mente. Dodici? Venti? Non molte di più. Da un certo punto in poi mi sarebbe stato facile catturarla, acchiapparla per la coda come si fa col gatto che sta per cadere dalla finestra. Mi sarebbe bastato sussurrarla al microfono del telefono cellulare. Ma a che pro? Ho presto rinunciato a sotterfugi del genere, e forse ci avrebbe rinunciato anche Lorenzo, se avesse potuto disporre di strumenti moderni. Più dei suoni, mi incuriosisce ora la loro visualizzazione. Vengo spesso al mare, d’inverno, e passo ore in piedi sulla riva, incappottato e coperto come una tartaruga; non ricordo la melodia ma ho chiarissima la percezione – visiva – del suo andamento. La stessa, instabile inquietudine di queste onde. Se si potesse tracciarne l’elettrocardiogramma, vedreste una linea che va su e giù, agitata da escursioni clamorose; ma il disegno complessivo è stupefacente, di una bellezza uguale a quella sfoggiata dalla natura nei suoi momenti di gala.

Diceva Lorenzo che la musica muta prendeva corpo dentro di lui in concomitanza di eventi altrettanto enigmatici: lo scoppio di una damigiana in cantina, un salto di valvole nell’impianto elettrico, la sparizione inspiegabile di oggetti d’uso comune, la morte improvvisa di un tacchino. Accadimenti che non si verificavano necessariamente in sua presenza, ma in puntuale sincronia con il suono segreto della sua creazione. Conoscendo il nonno, è assai probabile che inventasse di sana pianta quelle coincidenze – anche se era immune da qualsiasi tipo di superstizione. Per quanto mi riguarda, posso dire che nel mio caso non è mai successo nulla di strano o ragguardevole quando mi sono trovato alla mercè del fenomeno. Anzi. La melodia ha preferito adescarmi in momenti di placidità, di sospensione, senza causare conseguenze traumatiche né al mio spirito né al mio habitat. Se per il mio predecessore (uno solo? o anche Lorenzo aveva ricevuto quel dono dai suoi avi?) la musica era il segnale di qualcos’altro, per me non è stato il segnale di nulla – o almeno, nulla di cui fossi in grado di avvedermi. E adesso, troppo tardi forse, temo di essermi perso in qualche tipo di cecità. Di certo non sono incline a registrare con qualche interesse il destino di una damigiana o di un tacchino. Ma sento che non si tratta solo di questo. E se la melodia improvvisa avesse voluto avvertirmi di un pericolo? E se avessi mancato il senso del suo allarme, lasciando che avvenimenti incomparabilmente più drammatici di quelli descritti dal nonno mi passassero inosservati sotto il naso? Se quelle note avessero avuto il solo scopo di rammentarmi che l’importanza delle cose non corrisponde quasi mai al valore che, in quanto individui, assegniamo loro? Ma poi dico a me stesso: che c’entra tutto questo con la musica, vera o inesistente, che talvolta ci incalza come un nugolo di insetti, siano essi luminosi come lucciole o importuni come mosche?

Capisci di non essere più la persona che eri quando cominciano a irritarti i cieli troppo grigi, il bagliore dei fulmini, i colpi di vento. Uno di questi mi ruba il basco mentre, con le mani in tasca, contemplo l’orizzonte. Lo vedo rotolare sulla sabbia bagnata e sento il freddo pungermi il cranio, ma non ho voglia di inseguire il copricapo, di affannarmi per contenderlo alla furia dispettosa degli elementi. Preferisco concentrarmi sulla mappa della melodia e dei suoi tradimenti. Eccola qui di nuovo, con la sua altalena di promesse e negazioni: va su, va giù, indecisa fra le vette della consolazione e le valli del rimpianto. Non si trattiene né in alto né in basso, mobilissima nei suoi intrighi, indifferente agli argini che cerco – vanamente – di imporle. Vive di vita propria, come il canto di sirene mai nate; il suo è un respiro di spugna, o di medusa. Quando la sua eco si affievolisce, quando muore portando via ogni traccia di sé, vado a riprendermi il cappello lambito e sospinto ritmicamente dall’andirivieni dei flutti. Questa volta l’adescatrice aveva voce di violoncello e un alone blu scuro, notturno. Bisogna che scriva queste impressioni. Ho urgenza di un bar e di un tavolino, meglio se accanto a una vecchia stufa di ghisa. So dove andare.

Mentre tossisco accanto alla stufa accesa, e prendo appunti sul mio taccuino, la padrona del piccolo bar – una donna robusta dalle gote incendiate di rosso – mi prepara il punch bollente e mi scruta con rapide occhiate, deviando lo sguardo ogni volta che incrocia il mio. Forse si chiede cosa spinga quel forestiero dall’aria malaticcia e patetica a sorridere ostinatamente nel vuoto.

© Pasquale Barbella





Abbott’s list

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Articolo comparso per la prima volta nel n. 13 di Bill magazine, giugno 2015.
David Abbott (1938-2014).

Abbott’s list

Non esiste struttura più fertile di quella elencativa per allenarsi
o allenare altri alla scrittura. La lezione di David Abbott.


Il testo pubblicitario più istruttivo e toccante che io ricordi non è stato scritto né per Amnesty International né per la Croce Rossa, né per la Chiesa Cattolica né per l’Unesco. È stato ricamato per una marca di scotch whisky, Chivas Regal, nel 1980. L’autore si chiamava David Abbott.


Temo che le leggi e i regolamenti vigenti non consentano ai maestri delle elementari e agli insegnanti delle medie la lettura e il commento in aula di A papà, il testo di cui sto parlando. Peccato. Perché, prima ancora di essere una lezione di copywriting, è un bell’esercizio di pensiero e scrittura, di intuitiva e immediata efficacia. Ed è anche un saggio di gratitudine filiale sincero e trasparente, depurato da ogni affettazione retorica e da ogni luogo comune.

Come tutti i pubblicitari adulti ricordano, era una doppia pagina concepita per la festa del papà, una di quelle periodiche occasioni commerciali che rendono felici i produttori di cravatte, borse, portafogli, acque di colonia e cinture. Che altro si può regalare a papà? Certo, va benissimo anche del vino o – perché no? – un superalcolico, se babbo non propende all’etilismo e alla cirrosi. Per la réclame è ordinaria amministrazione; sono in pochi a sperare che con una promozioncina da 19 marzo si possa diventare famosi. Ma Abbott era tutto fuorché un reclamista ordinario. Rileggiamo cosa ha scritto:



Vediamo. Dal punto di vista concettuale è un bel colpo. Abbott sposta lo sguardo dall’esterno (mercato, oggetto, prezzo) all’interno (l’autenticità dei sentimenti). Non guarda quella bottiglia né con gli occhi del produttore, né con quelli del venditore, né con quelli del pubblicitario, né con quelli del potenziale acquirente; ma con occhi da figlio. Non impartisce istruzioni d’acquisto o di consumo. Non spiega perché dovresti regalare al tuo vecchio quella marca di whisky; spiega perché avere un buon padre è un dono inestimabile, e perché – se ne hai uno che ti ha dedicato tanto – faresti bene a non dimenticartene. La particolare emozione evocata da tutti quei “perché” si chiama, in gergo professionale, insight.

Captato un insight di tale elementare potenza, la scrittura procede con la fluidità e la libertà proprie degli elenchi. Come nella poesia Se di Rudyard Kipling, o nella canzone Quelli che di Beppe Viola ed Enzo Jannacci. E credo che non esista struttura più fertile di quella elencativa per allenarsi o allenare altri alla scrittura. Una scolaresca di prima media potrebbe imitare e prolungare ad libitum lo schema suggerito da Abbott, facendo a gara nell’esposizione dei motivi per cui papà meriterebbe un regalo nel giorno di San Giuseppe.

Le scarne notizie biografiche riservate agli autori di avvisi pubblicitari ricordano, di sfuggita, che David non era riuscito a laurearsi: aveva dovuto abbandonare gli studi universitari per prendersi cura del padre malato di cancro. Il gossip non c’interessa, ma non si può fare a meno di collegare questo flash di vita privata all’annuncio Chivas. E qui si potrebbe aprire un lungo discorso sulle corrispondenze fra la dimensione personale di un professionista della comunicazione e il suo lavoro: il rifiuto degli stereotipi non può che partire dall’autenticità delle esperienze. Ma lasciamo che sia Abbott stesso a illustrare le sue intenzioni. Ai redattori di The Copy Book[1] dichiara:



Tutto qui. Sentimenti, elenchi e via dicendo. E, a proposito di mettere sé stessi nel proprio lavoro, qualche altro esempio. Abbott si fa fotografare supino sul pavimento, sotto una Volvo 740 che pende pericolosamente dal soffitto, con una porzione di carrozzeria appesa a un gancio. Titolo: «Se la saldatura non è abbastanza forte, l’auto cadrà sul copywriter.» Che le saldature delle Volvo siano resistenti è un fatto, ma a volte – spiega Abbott – drammatizzare i fatti fa più colpo che limitarsi a enumerarli.

“Se la carrozzeria non è abbastanza resistente, la macchina cadrà sul copywriter.”

In un annuncio di ricerca di personale della DDB, senza immagini, Abbott si rivolge al lettore scrivendo in prima persona: «Sono un copywriter della Doyle Dane Bernbach. Stiamo cercando due nuovi account executive. Questo è ciò che penso dovrebbero sapere sul job.» Seguono due alte colonne di testo. L’incipit è una di quelle confessioni che piacevano a Bernbach: «Quando mi hanno chiesto di scrivere un annuncio per la ricerca di personale, ho detto che non avevo tempo da perdere. “Basta dire che abbiamo bisogno di due account, non c’è bisogno d’altro.”» Ma poi ci ripensa: dopotutto potrebbe capitargli di lavorare con uno dei due ricercati. Forse è meglio fargli sapere in anticipo che cosa ci si aspetta da loro, a scanso di sorprese. E qui Abbott innesca uno dei suoi elenchi che non sembrano elenchi.



Da oltre mezzo secolo scorrono fiumi d’inchiostro sulla rivoluzione creativa innescata negli Stati Uniti da Bill Bernbach: questa rivista, guarda caso, non si chiama né Pippo né Dick, ma Bill. Pure è stato detto e stradetto che la bomba lanciata da Bernbach provocò reazioni a catena non solo nell’advertising americana, ma anche in quella europea. Del resto anche la creative revolution, inventata negli USA come tante altre pratiche della pubblicità moderna, era perfettamente esportabile. I paesi di lingua inglese partivano favoriti rispetto agli altri, e questo spiega la subitanea fioritura della creatività britannica dopo lo start lanciato da New York. In pochi anni la scena andò popolandosi di personalità di spicco, come Tony Brignull, Tim Delaney, Neil French, Alfredo Marcantonio, Barbara Nokes...

Tra questi e altri notevoli colleghi o rivali, David Abbott – copywriter tra i più acuti ed eleganti che l’Europa abbia avuto – occupa un ruolo simbolico, perché il suo curriculum è legato a Bernbach con un filo diretto. Il motivo è semplice: a ventisette anni David, dopo rapidi soggiorni prima nella house agency della Kodak e poi alla Mather & Crowther, trasvolò da Londra a New York per farsi assumere dal maestro dei maestri, alla Doyle Dane Bernbach.

Sei anni di quella scuola (1965-1971) gli servirono non solo per affinare le virtù di cui era dotato, ma anche per fare di lui uno degli imprenditori di punta della Brit wave. French Gold Abbott prima, Abbott Mead Vickers BBDO dopo, e una costellazione di case histories da capogiro: Volvo, Sainsbury’s, Ikea, Yellow Pages, The Economist... Tutta roba da studiare nelle accademie del marketing e della pubblicità.

“Chivas Regal ha sempre dodici anni di invecchiamento. Raramente tredici.”

Abbott è professionalmente cresciuto in un’epoca e un habitat in cui l’arte del copywriting aveva un peso indiscutibile e riconosciuto. Molti dei suoi lavori più famosi hanno a che fare con la carta stampata: quotidiani, riviste, manifesti. Gli art director e gli artisti del lettering che hanno operato con lui o per lui hanno condiviso, con il pensiero di Bernbach, il rifiuto del superfluo: trasponendo tuttavia quella lezione in un affascinante bagno di cultura britannica, tradizionalmente incline all’eleganza e allo humour.

La campagna di Abbott per i supermercati Sainsbury’s è probabilmente l’esito più memorabile di un format semplice e universale: fotografia, titolo, body-copy, base-line. Manca un solo elemento, il logo della ditta: scandalosa eresia per il 99,9% dei committenti, ma il pubblico neanche se ne accorge: Sainsbury’s è sempre presente nei titoli della serie. Di “classico” c’è la qualità appetitosa dell’immagine (preziosi still-life alimentari di piatti pronti, yogurt, formaggi, carni da hamburger, salsicce, pudding, frutta sciroppata, etc.); l’headline altrettanto invitante; la frase di chiusura di massimo ed eloquente pragmatismo («Good food costs less at Sainsbury’s»: le cose buone da mangiare costano meno da Sainsbury’s); e una perorazione scritta con suadente precisione informativa.


La forza di campagne come questa non sta soltanto nella capacità di dialogare, persuadere e convincere, ma anche nella loro serialità. Format che non vengono sparati e bruciati in un sol colpo, ma che si prolungano per anni con episodi sempre nuovi, assumendo quasi l’aspetto e il tono di una rubrica giornalistica. Gli annunci Sainsbury’s erano appuntamento e calamita per lettrici e lettori desiderosi di saperne di più su cosa portare in tavola, e perché.

“Indovina che sapore ha il nuovo pompelmo in scatola di Sainsbury’s.”

“Da Sainsbury’s se non vendiamo la carne trita in giornata, non la vendiamo.”

In Italia, si tende a sottovalutare il ruolo e l’ingegneria della scrittura applicata alla comunicazione d’impresa. Il che è come guidare un’auto con una o due ruote in meno. Persino i potenziali estimatori del testo scritto, siano essi inserzionisti o consulenti, pensano alla scrittura come a qualcosa di libresco, lento e demodé, inadeguato all’era – sempre meno cartacea – in cui stiamo vivendo. È un atteggiamento a dir poco paradossale: nemmeno negli anni di più accesa grafomania il copywriter ha avuto tanto da scrivere quanto ne avrebbe oggi, grazie ai siti web aziendali, ai social network, ai blog e a quant’altro offre la tecnologia. Di obsoleto, semmai, c’è il senso che si continua a dare, per tradizione, al termine “copywriter”: non più descrivibile, oggi, soltanto come artefice di titoli e slogan, sceneggiature di spot, inviti promozionali e cose del genere. Contemporanea sarebbe, invece, una definizione più estensiva: “scrittore su commissione”, per esempio, o “scrittore per conto terzi”; uno, insomma, che risolva per iscritto e a pagamento un problema altrui, o che ad altri crei, rispondendo a un briefing, opportunità commerciali e non. Di tal tipo sarebbe l’interlocutore ideale di qualsivoglia committente, si tratti d’impresa bisognevole d’un website di alto profilo o di celebrità da assistere con appropriato ghost writing, di mercato da mobilitare a favore d’un prodotto o di ente da graziare con una brochure degna di collezionismo. Anche l’art director si gioverebbe di un mix di competenze altrettanto allargato, nel ramo parallelo – quello del segno e dell’immagine – che gli è congeniale. E chi fosse in grado di muoversi abilmente in un orizzonte multidisciplinare di tale ampiezza, non temerebbe né di essere malpagato né di farsi travolgere dalla concorrenza a buon mercato del crowdsourcing.

Se per tuo figlio vuoi la massima sicurezza, o lo avvolgi nella bambagia “O ti compri una Volvo.”

“Se ci riesce lui, può farcela anche una Volkswagen.” Una VW è come Marty Feldman, il comico inglese. Non è granché carina ma ha molte qualità. 

Esistono scrittori e designer così? Ma certo: sono sempre esistiti. Anche quando il web era di là da venire. Anche quando potevi cavartela con un claim e un rough (chiedo scusa ai non addetti ai lavori per l’abuso di slang). Questa digressione, me ne rendo conto, squarcia e corrompe la linearità di un articolo che doveva essere tutto dedicato a David Abbott; ma la colpa è sua, è di David Abbott. Personalità come la sua istigano l’ammiratore a sconfinare dai limiti del campo e a meditare su cosa sarebbe la scrittura su commissione se potesse contare su cento Abbott su mille anziché uno solo. Quando un copywriter cessa di essere semplicemente un copywriter per mettere il proprio talento al servizio di obiettivi d’impegno superiore alla media, ogni aspirante allo stesso mestiere dovrebbe raccogliere la sfida e seguirne l’esempio.  Uno come lui avrebbe potuto concepire e organizzare con la penna qualsiasi cosa: non solo la comunicazione della Volkswagen ma anche un intero saggio sulla comunicazione della Volkswagen (l’ha fatto davvero, in team con Alfredo Marcantonio e John O’Driscoll); così come un altro David prima di lui, il signor Ogilvy, ha lasciato dietro di sé una bibliografia consultabile tuttora con profitto. Fine della digressione.[2]


Non si può parlare di Abbott senza magnificare il lavoro fatto da lui e dal suo team per The Economist. Alfredo Marcantonio ha ricostruito quella case history in un libro appassionante, Well-written and red.[3]La saga parte nel 1988 con il poster più citato, quello dell’aspirante manager in perpetua condizione di stagista perché trascura letture che potrebbero essergli utili. Il rilancio della testata si basa su un principio di fondo alquanto arrogante: The Economist è una rivista per lettori dotati, gente con un quoziente d’intelligenza superiore. Ogni messaggio diventa un test. Il cripticismo – da sempre nemico numero uno della comunicazione, che di default deve farsi capire – diventa, paradossalmente, il clou della festa. La pubblicità ti sfida a comprendere, se ne sei capace, cosa ti sta mettendo sul piatto.

È pur vero che The Economist non è né un detersivo per lavatrici né la Coca-Cola, e che le regole raccomandano in tal caso di restringere il target a un’élite di persone culturalmente compatibili con quanto viene offerto. Ma la pianificazione della campagna, scegliendo di tappezzare il paesaggio urbano anziché rifugiarsi entro i soliti mezzi di nicchia, è un guanto coraggiosamente lanciato in mezzo alla folla.

Prima di sparare i poster rossi, l’agenzia aveva sfornato una serie di annunci-stampa sovraccarichi di testo. Ottimi annunci, brillanti, non c’è che dire: destinati ad altre pubblicazioni – quotidiani, supplementi, testate specializzate – e, come si suol dire, “in target”. Ma c’erano almeno due problemi da affrontare: uno scientifico e l’altro, per così dire, emotivo. Il primo, più serio, stava nel fatto che i canali fin lì percorsi avevano già dato tutto quel che potevano dare, per cui la crescita della readership era a uno stallo. L’altro problema era, almeno per noi, più divertente. Quando scrivi pubblicità per un editore, l’editore mette in campo la propria legione di scriventi – direttori di testata e altri giornalisti – per fare le pulci a ogni pensiero, frase, parola e virgola di tuo pugno. E a riscrivere di sana pianta questo o quel passaggio. Uno stress insostenibile, specialmente per uno come Abbott. La disaffezione verso i copy adse la pianificazione classica dei media cresceva, per motivi diversi, sia nelle file del committente, sia in quelle dell’agenzia.

“Non ho mai letto The Economist. Stagista dirigenziale. Anni 42.”

A un certo punto si fa strada un’idea furba, quella di pescare ammiratori lanciando l’amo nel mucchio; e l’amo altro non è se non l’amplificazione del rettangolo rosso della testata, le cui misure, manco a farlo apposta, sono direttamente proporzionali a quelle di un poster da 48 fogli. Pubblicità esterna (manifesti, mezzi di trasporto, stazioni underground e altre postazioni pubbliche). Uno spreco? Apparentemente sì, a conti fatti no. Dispersione, forse, se si spera di moltiplicare in quel modo il numero dei lettori (anche se, su quel fronte, è andata assai meglio del previsto).[4]Raffinata astuzia se il pubblico considerato come primario non è più il potenziale lettore tout court, ma l’azienda da convincere a investire con la propria pubblicità sulle pagine di The Economist – il settimanale che passa tra le mani dei businessmen che contano, quelli che prendono le decisioni importanti.

Sia come sia, il caso è di quelli che soddisfano in pieno l’investitore e il reparto creativo dell’agenzia nel suo complesso. A contare sulle sole file creative partecipano alla saga, negli anni, non meno dei circa cinquanta autori identificati, a partire da David Abbott e Ron Brown.[5]

“Se più donne leggessero The Economist, ci sarebbero meno posti di lavoro per i maschi.”

La campagna ha un merito laterale: quello di aver decorato in modo amabile i centri storici del paese, svolgendo la funzione di arredo urbano e – in senso più lato – ambientale. Non solo: ha lanciato esche didattiche di contenuto sociale («Se più donne leggessero The Economist, ci sarebbero meno posti di lavoro per i maschi.»), professionale («Un poster dovrebbe contenere non più di otto parole, ovvero il massimo che il lettore medio riesce ad afferrare a colpo d’occhio. Questo, però, è un poster per i lettori di The Economist.»), provocatorio («Assicurati di non essere tu l’eccedenza di bagaglio.»).

“Segreti industriali in vendita.”

Ha senso studiare e analizzare la pubblicità del passato, sia pure recente? La pubblicità non è la quintessenza dell’effimero, del volatile, del mordi-e-fuggi? Sono domande comprensibili, se e quando si pensa alla comunicazione commerciale soltanto come a una rottura di scatole. Tuttavia, come altre espressioni del business, la pubblicità fa parte – una parte ingombrante, a pesarne il solo impatto quantitativo – della scena che ci avvolge, e subirla senza affondare ogni tanto il punteruolo sotto la crosta è come rinunciare a trarne qualche vantaggio, o a difendersene. Il fenomeno investe troppe facce dell’esistenza perché ci si possa permettere il lusso di ignorarne i meccanismi o liquidarlo con una fugace smorfia di disprezzo. L’evoluzione di modalità e linguaggi finalizzati agli affari ha ovviamente un’importanza indiscutibile per gli addetti ai lavori, ma è rilevante anche per chiunque sia vagamente interessato all’etica, al costume, alla didattica, alla semiologia, alla critica, all’estetica, ai media, all’economia, alla politica. A volte è la pubblicità stessa – quella dei Bernbach e degli Abbott – a suggerire gli strumenti critici più idonei alla disamina razionale del cosiddetto “sistema”.

© Pasquale Barbella

“Prima scava, poi scrivi.”







[1]The Copy Book, a cura di The Designers and Art Directors Association of the United Kingdom, ed. Rotovision, Mies (Svizzera), 1995.
[2]Abbott ha lasciato la pubblicità a sessant’anni, nel 1998, per dedicarsi alla letteratura. Nel 2010, quattro anni prima di morire, ha pubblicato un romanzo, The Upright Piano Player, accolto favorevolmente dalla critica.
[3]Dakini Books, Londra, 2002.
[4]La pubblicità per The Economist ha contribuito a un incremento del 2,4% delle vendite in edicola e del 5,7% negli abbonamenti. Nel 2001 la diffusione del magazine nel Regno Unito ha avuto un’impennata da 86.000 a 141.000 copie, con un incremento di circa il 65%. (Fonte: A. Marcantonio, op. cit.).
[5]Gli altri sono Matthew Abbott, Andy Argyhrou, Stuart Baker, Chris Bardsley, Nick Bell, Cam Blackley, Paul Brazier, Paul Briginshaw, Tony Brignull, Jeremy Carr, Martin Casson, Damon Collins, Mark Cooper, Daryl Corps, Sean Doyle, Malcolm Duffy, Mike Durban, Dave Dye, Tom Ewart, Richard Foster, Peter Gausis, John Gorse, Ken Grimshaw, Mike Harris, David Hieatt, John Horton, Ben Kay, Tony Malcolm, Alfredo Marcantonio, Kit Marr, Gary Martin, Greg Martin, David May, Guy Moore, David Newton, Mike Nicholson, Rob Oliver, Tim Riley, David Rossiter, Peter Russell, Peter Souter, Tony Strong, David Sullivan, Gideon Todes, Mary Wear, Nick Wray, Paul Young.


Sonetteria civica, 1

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Giorgio Vasari, Sei poeti toscani (da sinistra: Guittone d’Arezzo, Cino da Pistoia, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Dante Alighieri, Guido Cavalcanti), pittura a olio, 1544. Minneapolis Institute of Arts, Minneapolis.



Sonetteria civica, I.

Rime crude e indigeste in dolce stil rovo
salvate da’ roghi de la Santa Inquisizione.
















Equivoci della propaganda

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Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazionale che risiede a Copenhagen. Sulla rivista cura una rubrica di corrispondenza con i lettori intitolata Dear Daddy e centrata sui problemi delle relazioni fra adulti e minori. Mi hanno colpito, sul n. 1157 del 10/16 giugno 2016, la semplicità e la chiarezza con cui ha definito la buona politica: «...anche se nell’era dei Berlusconi o dei Donald Trump è diventata tutta una rincorsa dei sondaggi, la politica non dovrebbe semplicemente cercare il consenso dell’opinione pubblica, ma proporre una visione e convincere le persone del suo valore.»

La definizione può sembrare ovvia, ma non lo è affatto. O non lo è più. Non solo perché i politici, di qualunque schieramento, si esprimono ormai solo a colpi di propaganda e badano quasi esclusivamente al successo elettorale, come se si occupassero di un campionato di calcio anziché dello stato; ma anche e soprattutto perché questa distorsione viene ormai condivisa dai mass media e dall’opinione pubblica, come se fosse normale. Certo, gran parte dell’elettorato continua a criticare i suoi rappresentanti per ciò che fanno o non fanno; molti si discostano dalla politica in quanto tale, giudicandola un’orgia di potere, corruzione e parassitismo; la delusione attraversa tutti gli strati sociali. Ma le argomentazioni del dissenso sono non meno vaghe di quelle della propaganda, basate come sono sul rapporto tra le aspettative e i risultati ma prive di “visione” e di “valore”. Cioè di idee.

In televisione ho seguito per qualche ora i commenti sui risultati del primo turno delle amministrative (5 giugno): giornalisti, politici e ospiti si concentravano esclusivamente sull’andamento dei voti, e parlavano dei candidati come di atleti vincenti o perdenti ai giochi olimpici. Tizio ha sbagliato questo nella sua campagna e Caio ha azzeccato la sua strategia: cose del genere. Oppure: chissà come consiglieranno di votare i Sempronii al ballottaggio, visto che, a quanto pare, in quella città si stanno piazzando dal terzo posto in giù e saranno esclusi dal secondo turno. Non una sola parola sui programmi che quegli stessi candidati pensavano di affrontare in caso di vittoria. La politica viene trattata come un qualsiasi altro mercato, gli elettori sono trattati alla stregua di consumatori e le elezioni corrispondono ai rilievi quantitativi dell’istituto Nielsen. Questa multinazionale ha come obiettivo delle sue ricerche il monitoraggio di What people watch, listen to and buy: cosa guarda, cosa ascolta e cosa compra la gente. Si capisce che è il medesimo tipo di curiosità a ispirare partiti, governi e sindacati. Le differenze ci sono, ma sempre più sfumate. Ai due estremi dell’arco parlamentare prevalgono ancora le ideologie e si avanzano promesse, ma nessuno ti dice con chiarezza per quale via quelle promesse si possono realizzare. Con quali finanziamenti, per esempio, e dunque a scapito di quali categorie. La propaganda, da qualunque parte provenga, fa molto rumore sulla promessa ma è reticente sulla strategia. Perché? Perché la verità fa perdere voti.

Anche le fazioni più agguerrite della destra, quelle – per esempio – che si oppongono all’immigrazione, non specificano con quali strumenti intenderebbero limitarla, o prevenirla, o rifiutarla tout court. Erigere un muro in pieno Mediterraneo? Sparare sui barconi? Imbarcare (con quali spese non si dice) gli ospiti sgraditi su aerei e navi di ritorno? Dichiarare guerra alla Libia e occupare le coste per sorvegliarle in diretta? Negare l’asilo politico? Abolire la libertà di religione e abbattere le moschee? Bruciare in piazza gli chador? La campagna anti-immigrati raccoglie consensi e voti tra xenofobi e ansiosi d’ogni genere, ma credo che molti cittadini resterebbero perplessi se sapessero che la repressione può farsi violenta, e che ciò potrebbe comportare più insicurezza di quanta ne stiano già provando.

Le contraddizioni in cui sono precipitate le democrazie dipendono in larga misura dall’indifferenza ideologica – o “oscurità di visione” – alla quale siamo stati condotti dalle fazioni in campo. Il populismo, così caro alle propagande attuali, è il contrario della democrazia. Il populismo consiste nel riconoscimento di certe libertà (condivise ma non sempre limpide) a scapito di altre, mentre – per principio – le costituzioni democratiche dovrebbero rispettare le libertà di tutti, con la sola esclusione delle libertà di reato giuridico. Tutto il vociare che si è fatto contro i diritti delle coppie di fatto, l’aborto e altre questioni che riguardano la vita privata degli individui, è un assurdo controsenso che non ha nulla a che fare con la democrazia. In più, queste polemiche – alimentate non solo dai politici ma anche dai mezzi di comunicazione – vengono attizzate per deviare l’attenzione da altri problemi, come quelli dell’economia e del lavoro.

Oggetto di grande apprensione è ora la riforma costituzionale, soggetta a referendum. Gli elettori sono stressati da moti propagandistici di un segno o dell’altro, e in maggioranza sguarniti di competenze e nozioni giuridiche approfondite; finiranno pertanto col votare (se lo faranno) a favore o contro Renzi, anziché in nome di qualche superiore principio razionale.


P.B.

Dove l’ho già sentita?

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Ranbir Kapoor, star di Bollywood.

Plagi, citazioni e coincidenze

Nel film Besharam(2013) Ranbir Kapoor, star di Bollywood, canta una canzone, Love Ki Ghanti, che suona molto familiare alle orecchie italiane, anche se la composizione è accreditata a un certo Lalit Pandit. L’arrangiamento è divertente, ma la musica è inequivocabilmente quella di Bella ciao, il famoso inno della Resistenza italiana. Pandit può stare al sicuro: nessuno potrà mai intentargli causa per plagio, perché ha attinto alla fonte del folklore popolare, per natura anonimo, sfuggente e refrattario al copyright. La stessa Bella ciao, del resto, deriva da troppi corsi d’acqua per potersi dire un fiume specifico e facilmente localizzabile; le origini della melodia si confondono addirittura con le tradizioni yiddisch, come ho già raccontato qui.

Una delle mie canzoni preferite, Lullaby of the Leaves (parole di Joe Young e musica di Bernice Petkere, 1932, USA), mi ha dato filo da torcere per decenni. Dove l’ho già sentita?, continuavo a domandarmi. Per chissà quale oscura ragione mi ero messo in testa che la melodia fosse ripresa da una composizione classica; altrettanto irragionevolmente ho ascoltato e riascoltato l’opera integrale di Sibelius, a caccia di presunti plagi o coincidenze. Finché un lampo non mi ha rammentato che quella era la melodia preferita di mia madre. Poco prima che io nascessi era andata al cinema a vedere Una romantica avventura, film di Mario Camerini tratto da una novella di Thomas Hardy.[1] Ne era rimasta talmente colpita da raccontarmene la trama ripetutamente, quando ero un ragazzino. Di più: si era lasciata suggestionare dal leit-motiv di quel film al punto d’impararlo a memoria al primo ascolto, e di cantarlo a bocca chiusa fino all’età in cui smise di mormorare qualsiasi melodia. Il tema di Una romantica avventura, firmato da Alessandro Cicognini, era la fotocopia (1940) di Lullaby of the Leaves(1932): solo il ritmo cambiava, da quattro a tre quarti, e l’inciso, che adesso anche gli italiani chiamano bridge.


La questione dei furti, delle citazioni e delle somiglianze è antica quanto la musica. Prima che si facessero strada anche in campo musicale il principio e l’applicazione del diritto d’autore, era legittimo ispirarsi all’opera altrui e prelevarne di peso interi frammenti per conferirle una nuova veste: la musica che definiamo “classica” trabocca di rimandi tra un compositore e l’altro. Altrettanto comune fu l’uso di incorporare melodie folk in costruzioni più ampie e complesse, non solo per comporre variazioni sui temi più popolari ma anche, soprattutto a partire dall’Ottocento, per connotare le proprie ricerche di valenze nazionali, specifiche della propria terra e delle proprie radici. Ma la regolamentazione moderna del copyright non ha potuto impedire né confusioni né soprusi; tanto meno le coincidenze involontarie, giacché le note e le armonie, per quanto sufficienti a creare miliardi di combinazioni, sono la materia prima dell’invenzione musicale e possono ispirare, ad artefici diversi, analogie casuali.

In questo excursus raccontiamo le vicende ambigue di alcune canzoni famose. Tralasciamo i casi in cui l’attribuzione dei crediti è onesta e trasparente: per esempio The Lamp Is Low(1939), parole di Mitchell Parish, musica di Peter DeRose e Bert Shefter, non ha mai nascosto il suo tributo alla Pavane pour une infante défunte di Maurice Ravel; allo stesso modo si è regolato Sting quando, nel 1985, ha citato passaggi della suite Il tenente Kijé, op. 60 di Sergej Prokof’ev nella sua canzone sulla guerra fredda, Russians.

Adiós, pampa mía

Parole di Ivo Pelay, musica di Mariano Mores e Francisco Ca­naro, 1945, Argentina/Uruguay. Enrique Delfino, famoso pianista, di­ret­tore d’orchestra e composi­tore di tango, sosteneva che Adiós, pampa mía fosse il plagio occulto di una propria composi­zione, Araca la cana, incisa da Carlos Gardel nel 1933. «Prova a scrivere le note del mio tango raddoppiandone i valori e vedrai che salta fuori Adiós, pampa mía», disse a un critico musicale, Pompeyo Camps. Forse aveva ragione. Il problema è che l’addio alla pampa, originale o co­piato che fosse, è di­ventato un punto di riferi­mento universale della storia del tango, mentre sono in pochi a ricordarsi ancora di Araca la cana. Ma oltre alle conte­stazioni di terzi, il copyright del brano suscitò dia­tribe e dissapori anche in famiglia, fra i due artisti accreditati come autori della musica. Il pianista e arrangiatore Mores, che ai tempi militava nell’orchestra del violinista uruguayano Canaro, sosteneva che fosse solo farina del proprio sacco. Quel tango l’aveva già composto con un testo di Homero Manzi ed era sul punto di deposi­tarlo legalmente quando Canaro lo frenò: meglio lavorarci su ancora un poco, perché con adeguati ritocchi sarebbe stato perfetto in una scena dello spettacolo che stava pro­ducendo. Di fatto, secondo Mo­res, fu cam­biato solo il testo; ma il boss impose la sua firma sul risultato finale e Mores lasciò cor­rere, inconsapevole di aver partorito una bomba.

All by Myself

Parole e musica di Eric Carmen, 1975, USA. Lan­ciata dall’autore con un disco singolo e l’album Eric Carmen, arrangiato dall’artista e prodotto da Jimmy Ienner. Il refrain è preso da una precedente canzone di Carmen, Let’s Pretend (1973), scritta quando il can­tante militava nel gruppo dei Raspberries; ma il resto è un ricalco spudorato del se­condo movimento (Adagio sostenuto) del Concerto n. 2 in do minore per pia­noforte e orchestra, op. 18 di Sergej Rachmaninov, pubblicato nel 1901. Carmen pensava che i diritti d’autore dell’originale fossero sca­duti, ma si sbagliava; a disco uscito fu accusato di plagio e dovette ne­goziare con gli eredi del compositore russo-americano una congrua ri­partizione delle royalties. Non è la prima volta né l’ultima che l’industria della canzone rovi­sta nel carniere di Rachmaninov a caccia di melodie cala­mitanti da rici­clare: non a caso, negli Stati Uniti, il culto per la sua musica è sempre stato diffusissimo e persino popolare, come si arguisce anche dall’uso sarcastico che Billy Wilder fa del Concerto n. 2 in Quando la moglie in vacanza (Tom Ewell se ne serve per fare colpo su Marilyn Mon­roe). Ed è spesso lo stesso concerto a ispi­rare gli ispirati. I Think of You di Jack Elliott e Don Marcotte, popolarizzata nel 1941 da Frank Sinatra con l’orchestra di Tommy Dorsey, si rifà al primo movimento (Mode­rato). Dal terzo (Allegro scherzando) attin­gono invece, pochi anni dopo (1945), Buddy Kaye e Ted Mossman per Full Moon and Empty Arms: ancora Frank Sinatra, questa volta con l’orchestra di Axel Stordahl. Ma l’elenco delle Rach songs potrebbe conti­nuare fino al pop-rock contem­poraneo, pas­sando anche per Rod Stewart e i Muse. David Ewen dedica alla «gentile arte» della clonazione dai classici un intero capitolo del suo libro sulla storia della canzone ameri­cana: la pratica di questi pre­lievi, scrive, non era nuova nel 1941 (l’anno di I Think of You), ma da allora è diventata «una procedura standard»[2].



Ma, a parte facili considerazioni sul kitsch e sulla furberia pirate­sca di chi si esime dal dichiarare la fonte d’ispirazione e riconoscere il diritto altrui, non si può ne­gare che le canzoni tratte dal lavoro dei grandi compositori sono spesso dotate di un diabolico potere di seduzione. All by Myself continua a irritare i puristi – oltre che i detrat­tori dello stesso Rachmaninov, che non sono pochi: lo ac­cusano di aver compo­sto melodie troppo facili, come del resto confermano le sue for­tune nella pop culture. Ma procura brividi in gran parte degli ascolta­tori, ed è tuttora un’efficace piatta­forma esi­bitoria per interpreti vocal­mente superdotati come Céline Dion. Ina­spettata, elegante e intro­versa, sebbene meno nota, la versione semi-jazzistica di Carmen McRae (1976).

La rapida ascesa internazionale della canzone di Eric Carmen (e dell’inconsapevole Rachmaninov, morto nel 1943) s’incrociò con av­venimenti più grandi di qualsiasi record da hit parade, in un mo­mento critico della storia europea. Il can­tante céco Karel Gott incise nella sua lingua una versione di All by Myself intitolata Kam tenkrát šel můj bratr Jan (Dov’è andato a finire mio fratello Jan?). Il testo era dedi­cato a Jan Palach, lo studente che il 19 gen­naio 1969 si cosparse di benzina e si lasciò carbonizzare a Praga, in Piazza San Vence­slao, per protestare contro l’invasione delle truppe sovietiche intervenute a reprimere il processo di democratizzazione in atto nel paese (la Primavera di Praga). La Ceco­slovacchia era ancora sotto il tallone sovie­tico quando, nel 1977, uscì il disco di Gott. I guai non tardarono ad arrivare: anche perché il cantante godeva di vasta visibilità non solo in patria, ma an­che in molti paesi stra­nieri. Per continuare la carriera accettò di aggiun­gere la sua firma sotto una petizione organizzata dal governo comunista contro Charta 77, il movimento per la difesa delle libertà civili e reli­giose varato da Václav Havel e altri dissidenti.

Avalon

Parole di Al Jolson e Buddy DeSylva, musica di Vincent Rose, 1920, USA. Lanciata da Al Jolson, che la incise per la Columbia e la inserì fra le canzoni di Bombo, musical di Harold Atteridge in scena a Broadway dal febbraio 1921. Clamoroso caso giudiziario per plagio: la Ricordi trascinò in tribunale la Remick, casa editrice di Avalon, accusandola di aver pubblicato un motivo copiato di sana pianta da E lucean le stelle(la Tosca di Giacomo Puccini era stata rappresentata per la prima volta nel 1900). Puccini e il suo editore vinsero la causa e furono risarciti con 25.000 dollari; in più, il giudice stabilì che tutte le future royalties di Avalon spettassero di diritto alla Ricordi. Vincent Rose e il suo editore pagarono cara una sequenza sospetta di dieci note. Se fu vero plagio, Vincent Rose lo architettò con consumata sapienza; l’orchestrazione dixieland di Avalon ricorda E lucean le stelle molto alla lontana, e solo un esperto musicologo è in grado di ravvisare analogie fra due temi e due atmosfere in apparenza così distanti. Altri hanno saccheggiato con maggior sfrontatezza, e impunemente, l’intero repertorio classico, compresa l’opera di autori contemporanei come Fauré e Ravel.

Avventure legali a parte, Avalonè diventato un godibile standard del jazz, spesso eseguito nella sola versione strumentale. Un carnet discografico di alta classe continua a risarcire, da quasi un secolo, il brano dagli iniziali affronti di Al Jolson, l’interprete più implacabilmente sguaiato di tutta la storia del canto.

Basin Street Blues

Parole e musica di Spencer Williams, 1928, USA; strofa ag­giunta successivamente da Jack Teagarden e Glenn Miller. Probabilmente ese­guita per la prima volta in pubblico dallo stesso autore, pianista e showman nato a New Orleans nel 1889. La prima incisione fonografica (4 dicembre 1928) di questo superclassico del jazz è però un disco Okeh di Louis Armstrong (tromba) con Fred Ro­binson (trombone), Jimmy Strong (clari­netto), Earl Hines (piano), Mancy Carr (banjo) e Zutty Singleton (batteria). Armstrong tornerà sul pezzo per tutta la vita, e anche se pochi sono i jazzmen che non hanno mai dedicato il proprio tributo alla composizione, è lui l’artista che viene più spontaneamente associato al ricordo di Basin Street Blues. Dell’11 giugno 1929 è l’incisione Vocalion dei Louisiana Rhythm Kings di Red Nichols (tromba), con Jack Teagarden (trombone), Pee Wee Russell (clarinetto), Bud Freeman (sax tenore), Joe Sullivan (piano) e Dave Tough (batteria). La prima versione cantata è dei Rollickers, quartetto vocale al servizio di Ben Selvin e la sua band (1933).

Spencer Wil­liams.

Il pianista e compositore Spencer Wil­liams aveva lavorato a Parigi con Josephine Baker e doveva avere un debole per la mu­sica europea: Basin Street Bluesè infatti un curioso connubio fra il dixieland di New Orleans e il Sogno d’amore di Liszt. Basin Street era una strada di Storyville, il quar­tiere a luci rosse di New Orleans. L’autore c’era vissuto da piccolo insieme alla zia; la casa si chiamava Mahogany Hall ed era un casino di lusso; la zia era madame Lulu White, la tenutaria più famosa della città. In vena di nostalgie, Spencer Williams com­pose anche, nel 1929, Mahogany Hall stomp. All’epoca di queste composizioni il ghetto del piacere era ormai solo un ricordo, essendo stato smantellato e bonificato nel 1917 in seguito a un’ordinanza moralizza­trice.


Bitter Sweet Symphony

Parole e musica di Richard Ashcroft; firmata anche da Mick Jagger e Keith Richards per l’uso di una parte ripresa da The Last Time dei Rolling Stones, in particolare dalla versione orchestrale di Andrew Loog Oldham; 1997, Regno Unito. Dall’album Urban Hymns del gruppo The Verve, formato da Simon Jones (basso), Peter Salisbury (batteria), Richard Ashcroft (voce e chitarra), Nick McCabe (chitarra), Simon Tong (chitarra, tastiere).


Rock e musica d’archi al centro di una vicenda giudiziaria che ha visto i Rolling Stones vincitori di una causa per plagio, e che ha tolto ad Ashcroft il 100% delle royalties su un brano miliardario. Il caso è emblematico perché perfettamente legato ai tempi: negli anni novanta si è diffusa ad ampio raggio la tendenza a campionare elettronicamente e a riutilizzare schegge di musica precedente, spesso di altri autori, integrandole in nuove costruzioni, nell’ambito di una corrente estetica e produttiva squisitamente tecnologica e post-moderna. I Verve hanno pagato per tutti, e duramente, forse proprio perché Bitter Sweet Symphony, pur citando abbondantemente The Last Time, non sembra musica di laboratorio. È un pezzo piuttosto emozionante, ambiguamente sospeso fra passato e presente, con ondate di violini, viole e violoncelli (la sezione incriminata) che si rifanno a modelli settecenteschi.

La canzone dell’amore perduto

Dovrebbe ormai essere noto a tutti che questa struggente ballata di Fabrizio De André (1966) riprende l’adagio del Concerto in re maggiore per tromba, archi e basso continuo di Georg Philipp Telemann. Tutto a posto: Telemann è morto nel 1767, le sue composizioni sono di dominio pubblico. Ma un accenno all’illustre autore della melodia, sugli spartiti e sui dischi, sarebbe stato auspicabile.


Come Together

di John Lennon (accreditata anche a Paul McCartney per una convenzione tra i due), 1969, Regno Unito. Dall’album dei Beatles Abbey Road. Somiglia a un pezzo di Chuck Berry del 1955, You Can’t Catch Me, che comincia addirittura con le stesse parole (Here come old Flat-Top) e che costa a Lennon una causa per plagio. Lennon la perde ed è condannato a incidere l’originale di Berry, più altri due brani di proprietà della controparte, in un album del 1973, Rock’n’Roll.

Don’t Fence Me in

Parole e musica di Cole Porter con titolo e contributi al testo di Bob Fletcher, 1934, USA.Una delle sei canzoni che Porter aveva scritto per Adiós, Argentina, film pianificato dalla 20th Century Fox ma che non fu mai realizzato. Il produttore del film-fantasma, Lou Brock, aveva un amico nel Montana, Bob Fletcher, un ingegnere che si occupava di traffico e viabilità ma che a tempo perso componeva canzoni. Fletcher scrisse parole e musica di una canzone intitolata Don’t Fence Me in, e Brock usò tutte le sue arti diplomatiche per tentare una collaborazione fra Porter e Fletcher. Cole Porter era già un mito per il successo delle sue canzoni a Broadway, e per di più usava confezionarsi testi e musiche da solo, senza collaborazioni di nessun tipo. Tuttavia, forse per compiacere il produttore in vista di ulteriori incarichi a Hollywood, accettò di utilizzare il titolo e altri spunti del testo di Fletcher riconoscendogli un compenso forfettario di 250 dollari. L’ingegnere non mosse obiezioni, anche perché Porter gli aveva promesso di citarlo nei credits della canzone. In realtà il suo nome non fu mai pubblicamente menzionato, il che diede la stura a una sfilza di polemiche, equivoci, scuse, controscuse e interventi di terzi, i quali accusarono Porter di sistematici plagi. L’autore fu infine trascinato in tribunale da un tale che accampava diritti su diverse composizioni di successo, e per lui fu un bene, giacché ebbe l’occasione di uscirne pienamente scagionato e di mettere la parola fine alle accuse e ai sospetti.

Don’t Fence Me in fu ripescata dieci anni dopo, nel 1944, per Hollywood Canteen, un film di Delmer Daves destinato al conforto morale delle truppe americane in guerra. Roy Rogers la cantava a cavallo, con il coro delle Andrews Sisters e dei Sons of the Pioneers; e non solo il presidente Roosevelt, ma buona parte dell’America si commosse, specialmente quando la diva patriottica Kate Smith, l’8 ottobre 1944, cominciò a diffonderne una personale versione attraverso il suo popolare show radiofonico. Kate Smith incise un 78 giri per la Columbia, e verso la fine del 1944 uscì un disco Decca di Bing Crosby con le Andrews Sisters che ottenne un successo ancora più clamoroso. La fama di Don’t Fence Me in si estese a macchia d’olio fra il 1944 e il 1945, in piena guerra, tanto da attraversare le linee nemiche. I tedeschi tentarono di annettersela: pare che un generale del Reich, Karl von Rundstedt, fosse disposto a pagare una cifra altisonante per ottenere i diritti di traduzione. Il testo di Lebensraum, canzone molto diffusa fra i soldati tedeschi, era del resto molto simile a quello di Don’t Fence Me in.


La fortuna della canzone era evidentemente dovuta al testo, una specie di inno alla libertà preso da tutti molto sul serio a causa della guerra, nonostante le intenzioni ironiche di Porter. È la supplica che un cowboy, Wild Cat Kelly, probabilmente ladro di cavalli, rivolge allo sceriffo che minaccia di sbatterlo in prigione: «Oh, lasciatemi spazio, lasciatemi tanta terra sotto un cielo di stelle, / non chiudetemi in un recinto. / Lasciatemi cavalcare per questo sconfinato paese che amo, / non chiudetemi in un recinto. / Lasciatemi essere me stesso nella brezza della sera, / ascoltare il mormorio dei pioppi...» Nella seconda strofa, Wild Cat rivolge la stessa implorazione alla ragazza che vorrebbe imbrigliarlo.

Alcuni commentatori cercarono di spiegare il fascino della canzone tirando in ballo lo spirito indomito di Prometeo, di Icaro, di Ulisse e dei grandi americani. Altri presero i versi di Porter, scritti dieci anni prima, come un ispirato poema della democrazia contro il tentativo nazista di cancellare ogni libertà dal mondo intero. Il comico Bob Hope, più spiritosamente, dichiarò che Don’t Fence Me in sembrava scritta apposta per la first lady, Eleanor Roosevelt, notoriamente incline a conservare una certa libertà di movimento e di pensiero senza lasciarsi condizionare dal rigido protocollo ufficiale. Insomma, molto rumore per nulla: la canzone, riascoltata oggi, non sembra giustificare l’ondata di emozioni che allora suscitò. Di certo Cole Porter ha scritto di meglio, e lo sapeva anche lui.

Feelings

La storia di Feelingscomincia da una canzone francese, Pour toi, scritta nel 1956 da Marie-Hélène Bourquin (testo) e Louis Gasté (musica). La si ascoltò per la prima volta dal cantante turco-messicano Dario Moreno nel film Le feu aux poudres di Henri Decoin, con Lino Ventura e Raymond Pellegrin. Fu incisa lo stesso anno da Line Renaud, moglie di Gasté, che sarebbe diventata di lí a pochi anni una vedette del Casino di Parigi.

Dario Moreno.

Quasi vent’anni dopo (1975) un cantante brasiliano, Morris Albert, lancia con successo un motivo in inglese, Feelings, che è praticamente la trascrizione di Pour toi. Accreditata ad Albert e Kaisermann (cioè al cantante stesso: il suo nome intero è infatti Morris Albert Kaisermann), Feelings si tira addosso una causa per plagio che Gasté, giustamente, vince. Lo stesso anno la canzone ricompare in Francia con il titolo Dis-lui e un nuovo testo, questa volta di Michel Jourdan. La incide a Tolosa l’astro nascente Mike Brant, al secolo Moshe Brand, ebreo ventottenne di origine polacca nato a Cipro, educato in Israele e scoperto in un cabaret di Teheran da Sylvie Vartan. Qualche giorno più tardi, il 25 aprile 1975, dopo aver ascoltato il primo missaggio di Dis-lui, Mike Brant si getta dal sesto piano di un edificio parigino.

Pour toi, Dis-lui… ma è con l’identità di Feelings che questa canzone dalle molte vite, prima francese e poi apolide, viene tuttora ricordata nel mondo. Intessuta di un pathos leggero e dolciastro, fa ormai parte di quel circolo melodico internazionale e senza tempo che si usa definire easy listening: musica di sottofondo per alberghi, aeroporti e piano-bar. Si riscatta in una magistrale versione dal vivo di Nina Simone.

Hello, Dolly!

Parole e musica di Jerry Herman, 1963, USA. Numero di Carol Channing, David Hartman e coro in Hello, Dolly!, commedia musicale di Michael Stewart tratta da una pièce di Thornton Wilder, The Matchmaker (“La sensale di matrimoni”). Dopo disastrose anteprime di prova in altre città, il musical esordisce ufficialmente al St. James Theatre di New York il 16 gen­naio 1964 e diventa uno dei più clamorosi successi di tutta la storia di Broadway. Nel ruolo di Dolly, originariamente concepito per Ethel Merman, Carol Channing fa scin­tille; in seguito altre famose vedette si esibi­scono nella stessa parte, tra cui Phyllis Diller, Betty Grable e finalmente Mer­man. È del 1967 una versione all-black con Pearl Bailey e Cab Calloway; del 1969 la riduzione cinematografica con Barbra Strei­sand, Walter Matthau e Louis Armstrong.

Carol Channing sulla copertina del programma di Hello, Dolly!

Il motivo portante della commedia è que­sto insipido fox-trottone da palcoscenico e gita in pullman, gratificato da officianti au­torevoli (Fitzgerald, Sinatra e soprattutto Louis Armstrong, eletto a furor di popolo suo portavoce ufficiale) nonché oggetto di culto da parte di tutte le orchestre di easy listening del pianeta. Armstrong fu tra i primi a graziare il motivetto: col vo­cione ruggente, l’indomabile simpatia e l’aura – seppure un po’ sfocata – del grande papà del jazz ch’era stato e sem­pre sarà, riuscì a venderne milioni di copie e a farsi apprezzare persino dai fan di Papetti, Casadei e Claudio Villa. Elementare, ripetitiva e martellante com’è, Hello, Dolly! si presta a meraviglia non solo al ballo di balera, alla festa del do­polavoro e ai corsi di liscio per anziani, ma anche a rimaneggiamenti di testo da cantare in coro e a squarciagola nelle più varie occa­sioni di raduno. Non a caso diventò l’inno elettorale di Lyndon Johnson in corsa per la presidenza degli Stati Uniti (Hello, Lyndon!).

Mack David e le edizioni Paramount / Famous Music Company trascinarono in tribunale l’autore Jerry Herman accusandolo di aver copiato di sana pianta una composi­zione di David del 1948, Sunflower, divul­gata da una incisione di Russ Morgan e la sua orchestra nel 1949 (Decca) e adottata dal Kansas come jingle di stato. La somi­glianza è casuale e generica.

I Can’t Give You Anything But Love, Baby

Parole di Dorothy Fields, musica di Jimmy McHugh: ma voci non smentite attribuiscono la composizione ad Andy Razaf e Fats Waller. 1927, USA. La canzone è interessante per almeno tre motivi. Il primo è la sua qualità intrinseca: un esempio di alto artigianato musicale dell’epoca, perfetto incrocio di sentimento e ironia. Il secondo è il giallo sulle sue origini: davvero Fields e McHugh comprarono per pochi centesimi il brano a Fats Waller? E perché? Dopotutto non erano canzonettisti da strapazzo. E pare che la cosa si sia ripetuta con un altro classico, On the Sunny Side of the Street. Una possibile spiegazione sta nel fatto che Waller era capace di improvvisare canzoni fantastiche in mezz’ora o anche meno, persino nel corso di una telefonata; può essere che, vistisi alle strette per un impegno improvviso, Fields e McHugh siano ricorsi per disperazione a quella specie di macchina a gettone che era Waller. Oppure c’è una ragione più sordida, una questione di strisciante razzismo di cui si resero colpevoli, più che i parolieri e i compositori coinvolti nella questione, i produttori e i critici dello spettacolo: ma di questo parliamo più avanti.

New York. Fifth Avenue negli anni ruggenti.

Il terzo motivo di interesse è che all’inizio anche I Can’t Give You Anything But Love, come altre grandi canzoni scritte per Broadway, subì le conseguenze di quel marketing stupido e atroce che ha spesso governato l’industria statunitense dell’intrattenimento. Ecco come racconta la vicenda Roy Hemming, autore di un saggio sui grandi songwriter della prima metà del XX secolo: «Né ebbe successo una canzone che McHugh e Fields scrissero verso la fine del 1927 per una rivista di Broadway intitolata Delmar’s Revels. L’idea era nata una sera che i due autori passeggiavano sulla Fifth Avenue di New York. All’altezza di Tiffany colsero al volo le frasi che una giovane coppia, poveramente vestita, si stava scambiando mentre ammirava i gioielli esposti in vetrina. Il ragazzo diceva che non avrebbe mai potuto permettersi di regalarle un tale scintillio; ciò che poteva darle era amore e nient’altro, nothin’ but love. Un’ora dopo McHugh e Fields erano già al lavoro con I Can’t Give You Anything But Love, Baby. Il produttore Harry Delmar passò la canzone a Bert Lahr e Patsy Kelly perché la interpretassero in Revels, vestiti di stracci e seduti all’ingresso di una miserabile casa-scantinato. Forse il contrasto con l’eleganza e il glamour degli altri numeri della rivista fu troppo pesante, tant’è che la carriera della canzone si arenò sul nascere. Delmar la eliminò dallo spettacolo dopo poche serate di anteprima-test, dicendo a Dorothy Fields (secondo quanto da lei in seguito dichiarato a Max Wilk) che si trattava di una “canzone pidocchiosa”.»[3]

Per fortuna McHugh non si dà per vinto e piazza il motivo a Lew Leslie, che gli ha commissionato materiale nuovo per uno show al club Les Ambassadeurs (secondo altre fonti il club è Le Parroquet e sta sulla Cinquantasettesima Strada ovest). Lì la canzone piace subito. Leslie ha alle spalle una serie di successi europei, conseguiti a Londra e a Parigi con una rivista annuale intitolata Blackbirds. Quell’anno si mette in testa di esordire anche a Broadway, e infatti usa strategicamente Les Ambassadeurs (o Le Parroquet) per fare le prove generali dello sbarco a teatro. Vista l’accoglienza riservata alla canzone, arruola Fields e McHugh per tutte le altre canzoni di Blackbirds of 1928. Lo spettacolo debutta al Liberty Theatre della Quarantaduesima il 9 maggio 1928, con un cast di soli neri. I Can’t Give You Anything But Love è interpretata da Adelaide Hall (voce solista) con una ripresa di Aida Ward, Willard McLean e il leggendario ballerino di tip-tap Bill “Bojangles” Robinson. Fin qui Hemming.

La ricostruzione di Barry Singer, biografo di Andy Razaf, è di tutt’altra specie. Tanto per cominciare la prima sfortunata versione, la «canzone pidocchiosa» di Delmar, doveva avere un testo e un senso diversi da quelli successivi; sembra fosse intitolata I Can’t Give You Anything But Love, Lindy. (Quel “Lindy” potrebbe essere un’allusione al pioniere del volo Charles Lindbergh, la cui storica impresa — la solitaria trasvolata atlantica a bordo del monoposto Spirit of Saint Louis con un volo ininterrotto di trentatré ore e mezzo da New York a Parigi — si è compiuta all’aeroporto di Le Bourget il 21 maggio di quell’anno). Singer accredita, sia pure non del tutto esplicitamente, la paternità della versione definitiva a Razaf e Waller, motivandola col cinismo razzista in voga negli anni Venti nell’ambiente dello spettacolo. Le all-black revues, anche le più riuscite artisticamente, venivano costantemente liquidate con sprezzante snobismo dai giornali. Nel migliore dei casi erano bollate come «pretenziosa imitazione di spettacoli bianchi»; analogo il giudizio sulle interpretazioni, spesso eccellenti, di cantanti e attori. Per cercare di prevenire questo tipo di argomentazione, i produttori calcavano la mano sulle caratterizzazioni alla “bovero negro”, dando la stura al peggior repertorio di stereotipi. «Lew Leslie», scrive Singer, «aveva stabilito un altro precedente, persino più sinistro, dietro le quinte del teatro musicale negro con la sua produzione di Dixie to Broadway nel 1924: aveva cominciato a impiegare esclusivamente personale bianco per tutte le attività fuori scena, anche quando la commedia musicale era “di colore”: scenografi, costumisti, compositori. “[I bianchi] capiscono l’uomo di colore meglio di quanto egli capisca sé stesso”, sosteneva insistentemente Leslie all’epoca, con strabiliante insolenza; “I compositori di colore saranno bravissimi negli spiritual, ma le altre loro canzoni sono solo [bianche] con parole negre.”»[4]

Thomas “Fats” Waller.

Bianche sono ovviamente le grandi case di edizione di Tin Pan Alley, a cominciare dalla potente Mills Music Publishing Company. Anche i giovani Fields e McHugh pubblicano i loro lavori da Mills, così come Waller e Razaf. Solo che Waller, negro, mette piede in quegli uffici per smerciare un po’ di roba da accreditare a terzi. Sta al gioco. Tariffa media: 250 dollari al pezzo. Una volta allude a un best-seller che ha fruttato, in una sola stagione, 17.500 dollari; lui ne ha intascati solo 500 per cedere i diritti. Singer si chiede se il best-seller non sia proprio I Can’t Give You Anything But Love. E conclude la sua indagine con un episodio triste e surreale che riguarda Andy Razaf, il paroliere di Waller, ovviamente negro. Sono ormai gli anni settanta, Razaf è in ospedale, sta per morire. Un’amica, per tenerlo su di morale, gli chiede di cantarle una delle sue tante canzoni, la preferita. Andy, quasi rantolando, sussurra con un filo di voce qualche verso di I Can’t Give You Anything But Love.

Dorothy Fields, nata nel 1905 ad Allenhurst nel New Jersey e morta d’infarto a New York nel 1974, è stata una delle versificatrici più prolifiche nella storia della canzone americana; spesso in coppia con McHugh, ma anche con compositori del calibro di Jerome Kern, Arthur Schwartz, Sigmund Romberg, Max Steiner, è stata la prima lyricist di sesso femminile eletta nella Hall of Fame dei Songwriters statunitensi. Jimmy McHugh, bostoniano del 1894, morto a Beverly Hills nel 1969, compose con Fields canzoni per riviste del Cotton Club e film hollywoodiani. Quanto alle voci sul presunto acquisto di I Can’t Give You Anything But Love e On the Sunny Side of the Street da Fats Waller e dal suo paroliere di fiducia Andy Razaf, Donald Clarke osserva: «Si sente la mano di Waller, specialmente nella prima, e se la cosa fosse vera confermerebbe la sua prodigalità: sapeva scrivere canzoni quasi alla stessa velocità con cui sapeva spendere il denaro.»[5]Uno dei più efficaci propulsori di I Can’t Give You Anything But Loveè stato Louis Armstrong, al quale il motivo sembra cucito addosso, con il suo misto di tenerezza e swing.

It’s Only Make Believe

Enorme successo internazionale, nel 1958, del cantante country Conway Twitty, che si firma come autore insieme a Jack Nance. Ma la musica deriva – non si sa se con innocenza o malizia ­– da Ma mie, parole di Jam­blan (pseudonimo di Jean-Marie Blanvillain), musica di Laurent-Henri Herpin, 1941, Francia. Fu lanciata dallo stesso Jamblan, chansonnier attivo nella Parigi di quegli anni e apprezzato dai frequen­tatori di cabaret come La Lune Rousse e Aux Deux-Ânes.  

Ma mie (brano dalla curiosa costruzione musicale: la melodia va su e giù per scale ascendenti e discendenti) subì diverse trasformazioni – tutte legittime – prima di approdare all’ugola e al conto in banca di Conway Twitty. Nel 1943 capita fra le mani di Harold Rome, liricista e composi­tore statunitense, che dota la melodia di un testo inglese e ribattezza il motivo con il titolo (All of a Sudden) My Heart Sings. Nel 1945 il brano viene registrato da Duke Ellington e la sua orchestra, con la voce di Joya Sherrill e un pregevole assolo di violino di Ray Nance; Anita Ellis, accompa­gnata dall’orchestra di Mitchell Ayres; Johnny Johnston; Martha Ste­wart. Lo stesso anno, l’attrice-soprano Kathryn Grayson la canta in Due marinai e una ragazza, fortunato musical della Metro-Goldwyn-Mayer diretto da George Sidney. Il successo d’oltreoceano rimbalza in Francia, da dove la canzone “che va su e giù” era partita senza far troppo rumore, ed entra nel reper­torio di Lys Gauty e Charles Trenet. Quest’ultimo ne incide nel 1946 due versioni con l’orchestra di Albert Lasry, una in inglese, l’altra in francese. Al suo rientro in patria, Ma mieè però diventata En écoutant mon coeur chanter, con evidente riferimento al titolo inglese.

Conway Twitty nel 1974.

La metamorfosi più radicale arriverà anni dopo, quando Twitty e Jack Nance accorciano tutti i versi di due note, cambiano il testo di Harold Rome da cima a fondo e ottengono un incredibile successo con la rin­novata creatura. Nel 45 giri MGM, in cui Twitty è accompagnato dai Jor­danaires, il genere country volge al rock: rock lento, virile e melo­drammatico, fra sentimentalismo e sensualità, per cowboy inurbati e infelici. It’s Only Make Believeè uno spietato tormentone a terzine, che drammatizza ritmicamente l’ascensione scalare della melodia con­feren­dole un’aura di bruciante malinconia, un senso di perdita, di crollo delle illusioni. Twitty fa il verso a Elvis, aspirando la voce da tenebrosi abissi viscerali e facendola vibrare come l’elettrocardiogramma di un iper­teso: l’effetto è sottilmente nevrotico, inquietante, doloroso. La melodia — semplice e fin troppo prevedibile, ideale per i primi esercizi di pia­noforte — nel suo incalzare coglie efficacemente il sapore di un’epoca e le ossessioni di una generazione di adolescenti in viaggio verso note­voli mutamenti culturali. Ballabile da mezze luci, It’s Only Make Believe diventò una tappa obbligata delle festicciole in casa e dei juke-box d’America e d’Europa, capitando sempre nel momento in cui, stanchi di rock acrobatico e di schiamazzo collettivo, i ragazzi e le ra­gazze si con­centravano sul ballo del mattone e su sommesse effusioni a due. La brace che cova sotto ogni nota di questa canzone non si è mai spenta definitivamente: per tutti gli anni sessanta e parte dei settanta costituì una tentazione irresistibile per i cloni di Elvis, come l’inglese Billy Fury, e per le voci da urban cowboy come quella di Glen Campbell. Ma anche le donne, da Baby Gate (pseudonimo di Mina agli esordi) a Lynn Anderson, hanno subìto e trasmesso il fascino del suo inarrestabile cre­scendo. Strepitosa, per grinta e aggiornamento, la rivisitazione rock dei Misfits, nel 2003.

Jamaica Farewell

Parole di Lord Burgess (pseudonimo di Irving Burgie), adattamento di Lord Burgess e Harry Belafonte di un motivo del folklore giamaicano degli anni Quaranta; 1956, USA/Giamaica. Incisa da Belafonte – per l’album-bestseller Calypso della RCAVictor – accompagnato da Tony Scott e la sua orchestra; alla chitarra Millard Thomas. La melodia d’origine aveva già ispirato, in Giamaica, una canzone intitolata Iron Bar, incisa da Tony Johnson & The Caribbean Serenaders (Melodisc, 1951) e da Lord Fly (1953): circostanza che condusse Belafonte e Burgie in tribunale. La causa intentata dagli autori di Iron Barsi concluse tuttavia con un nulla di fatto, dal momento che entrambe le canzoni risultarono copiate dalla stessa fonte.

Il testo di Burgie non è gran cosa, infarcito com’è di cliché turistici:

Down the market you can hear
Ladies cry out while on their heads they bear:
“Akey’ rice, salt fish are nice
And the rum is fine any time of year”...

«Giù al mercato puoi sentire / donne con il carico sulla testa gridare: / Qui riso e pesce al sale sono una bontà / e il rum è buono tutto l’anno.» Non mancano il sole, il mare, le barche a vela e le notti di baldoria; e persino un po’ di nostalgia, giacché

I had to leave a little girl in Kingston town,

«Ho dovuto lasciare una ragazza a Kingston.» Ma più che le parole conta il ritmo contagioso che le scuote: ritmo che, proprio grazie a questa e alle altre canzoni dello stesso album belafontiano, esplose in Nordamerica e in Europa col nome di calypso. Per correttezza geografica e musicale, occorre precisare che il calypso proveniva da Trinidad e non dalla Giamaica: dove invece lo stile tradizionale era il mento, progenitore dello ska e del reggae. Burgess e Belafonte attinsero comunque buona parte dei motivi e dei ritmi dei loro album caraibici dal folklore di entrambe le isole, e il termine calypso fu applicato – senza troppi distinguo – a musiche di origine diversa.

The Lion Sleeps Tonight

Questa è una lunga storia. Partiamo dall’originale: Mbube, parole e musica di Solomon Linda, 1939, Sudafrica. Lanciata da Solomon Linda e gli Evening Birds.

La curiosa storia di Mbube (leone in lingua zulu), accompagnata da una sequela senza fine di controversie legali fra schiere di finti autori, è stata ricostruita con passione e dovizia di dettagli da Rian Malan per un servizio di ben 12 pagine su Rolling Stone (n. 841, 25 maggio 2000). «È uno dei più grandi misteri musicali di tutti i tempi», esordisce Malan, che si chiede «come siano riusciti certi leggendari personaggi americani a far soldi a palate con il lavoro di uno zulu morto in miseria. Dopo sessant’anni, ecco finalmente la verità.»

Solomon Linda (primo a sinistra) e gli Evening Birds.

Solomon Linda e gli Evening Birds erano un sestetto vocale a cappella di ex-pastori zulu, immigrati a Johannesburg, città dell’oro, da una missione sperduta nella valle di Msinga, circa 500 km a sud-est della capitale. Nella regione, il folklore zulu si mescola con tracce di gospel sincopato sopraggiunto alla fine dell’Ottocento grazie ai Virginia Jubilee Singers, gruppo afroamericano diretto da Orpheus McAdoo. I cantori americani avevano percorso in lungo e in largo, per cinque anni, i polverosi villaggi della regione mineraria, esaltando con i loro concerti le genti di quei luoghi; e avevano lasciato un’impronta indelebile nello stile di canto locale. Per Solomon e compagni, come per tanti altri nella loro condizione, la metropoli non si dimostrò troppo benigna. Dovettero arrangiarsi a fare gli sguatteri e i facchini, e a vivacchiare nello squallore negli slums. Di queste esperienze Solomon Linda seppe fare tesoro a modo suo, inventandosi canti di lavoro, di protesta (contro il potere delle banche e dei bianchi in generale) e di cronaca nera. Nei weekend il gruppo, guidato dal falsettista Solomon alto due metri e magro come uno stecco, indossava la tenuta della festa — una foto li ritrae in gessato, bombetta e scarpe a due colori — e andava a gareggiare con altri folksinger zulu, ovunque ci fosse da vincere una capra, una vacca da squartare nottetempo e arrostire a beneficio proprio e dei fan, o alla peggio qualche boccale di birra. Il canto a cappella era ritmato da un roboante scalpitare dei piedi, caratteristico delle danze tribali zulu, e a quello stile si rifacevano diversi gruppi dai nomi battaglieri, come i Naughty Boys o i Boiling Waters. Nel giro di due o tre anni gli Evening Birds — mal tollerati non solo dai boeri, ma anche dalla borghesia negra che trovava disdicevole e umiliante quel rumoreggiare così arcaico — riuscirono comunque a emergere fra i tanti e a conquistarsi un ampio parco di estimatori. Fino ad approdare, nel 1938, in uno studio d’incisione assai più primitivo di loro, tant’è che le matrici di ceralacca dovevano essere spedite fino a Londra per ritornare sotto forma di dischi a 78 giri.

Nel 1939 il gruppo incide, con quei mezzi di fortuna e la direzione del produttore Griffith Motsieloa, Mbube, una improvvisazione primitiva e vitale, ispirata da uno spaventoso ricordo d’infanzia dei pastori-cantanti: la caccia a un leone che si era messo a insidiare il bestiame loro affidato. Mbube sbarca anni dopo (è il 1951) negli Stati Uniti, dove un gruppo di folksinger politicamente impegnati, gli Weavers (Pete Seeger, Lee Hays, Fred Hellerman e Ronnie Gilbert), ne registra una propria versione, Wimoweh, arrangiata e orchestrata da Gordon Jenkins (45 giri Decca). La parola wimoweh è la trascrizione a orecchio del coro zulu Uyimbube, uyimbube. Il brano è firmato da Seeger, gli Weavers e un inesistente Paul Campbell, pseudonimo dietro il quale si celano tre specialisti dell’appropriazione indebita e sistematica di famose composizioni di pubblico dominio: gli editori Al Brackman e Howard S. Richmond .;più Pete Kameron — manager, quest’ultimo, del gruppo vocale. Richmond .;è uno che ha osato firmare, con altro nome posticcio (Jessie Cavanaugh), addirittura la mitica Greensleeves di elisabettiana memoria; mentre Brackman (con il nome di Albert Stanton) ha firmato la vecchia ballata popolare Frankie and Johnny.

Insieme, i sedicenti Cavanaugh e Stanton hanno fatto soldi con tutto quello che gli capitava fra le mani, da John Henry al gospel Michael Row the Boat Ashore, e il primo dei due ha preteso diritti persino su Battle Hymn of the Republic: che è come se il vostro vicino di casa inventasse l’inno di Mameli. Seeger, almeno, insiste per rintracciare lo sconosciuto zulu e anticipargli delle royalties. Un po’ di denaro va in Sudafrica ma finisce nelle mani sbagliate, quelle di un intermediario: l’editore e industriale discografico Eric Gallo, che pretende di aver acquisito i diritti di Mbube avendo effettivamente sborsato del denaro. Per l’esattezza, dieci scellini. Seeger non si fida. Con l’aiuto di attivisti anti-apartheid si mette in contatto con un avvocato di Johannesburg e lo incarica di rintracciare Solomon Linda, al quale fa finalmente pervenire un assegno di mille dollari a mo’ di anticipo sul 50% dei diritti totali generati dal brano. Strappa agli editori-affaristi, ufficialmente detentori del restante 50%, la promessa che a quel versamento sarebbero seguite ulteriori tranches; di fatto, gli eredi di Linda sostengono di aver ricevuto solo briciole, e con anni e anni di ritardo.

Pete Seeger.

Il disco degli Weavers comincia ad andar forte, ma la cosa muore sul nascere. Seeger e due altri membri del gruppo, denunciati da un delatore, spariscono dalla circolazione, braccati per le loro simpatie comuniste dalla commissione maccartista per le “attività antiamericane”. Radio, tv e gestori di club fanno terra bruciata intorno alle “star rosse”, costringendole a un lungo periodo di disoccupazione. Anche la Decca si sbarazza di loro, mettendoli alla porta senza tanti complimenti. Wimoweh, tuttavia, irrompe nel repertorio discografico degli artisti più disparati: la big band di Jimmy Dorsey, la cantante peruviana Yma Sumac detta Usignolo delle Ande per l’incredibile estensione vocale, il Kingston Trio.

Nel 1961 Hugo Peretti e Luigi Creatore, due produttori con uno spiccato senso degli affari — anch’essi “autori” di brani molto originali, tra cui una Grand March from Aida di origini schiettamente verdiane — incaricano George David Weiss di revisionare Wimoweh. Weiss, giovane arrangiatore e compositore in ascesa, reduce da collaborazioni con Doris Day, Peggy Lee ed Elvis Presley, apporta qualche modifica alla struttura, ripulisce l’arrangiamento, riscrive parte del testo. Ribattezzata The Lion Sleeps Tonight, la riciclatissima canzone finisce sulla facciata B di un 45 giri RCA dei Tokens, «four nice Jewish teenagers» di Brooklyn: la voce adolescente di Jay Siegel intona in falsetto la parte solista (In the jungle, the mighty jungle, the lion sleeps tonight...), il soprano Anita Darian provvede al controcanto, gli altri tre Tokens (Hank Medress, Mitchell Margo, Philip Margo) incalzano in coro con il tormentone ah-weem-oh-way, ah-weem-oh-way... Orchestra diretta da Sammy Lowe. Dai credits (Weiss-Creatore-Peretti) sparisce come per magia il nome del primo autore, Solomon Linda. Anche le firme di Seeger, Campbell ecc. vengono rimosse. The Lion Sleeps Tonight balza al vertice di tutte le classifiche occidentali, con un botto che coglie di sorpresa i nuovi businessmen che ci hanno messo le mani. Risultato: indignati, i presunti autori di Wimoweh fanno causa ai presunti autori di The Lion Sleeps Tonight, accusandoli di plagio!

Il successo dei Tokens arriva anche in Sudafrica, giusto in tempo per stampare un sorriso di felice sorpresa sulle labbra di Solomon Linda, artista analfabeta sul letto di morte: uno che non ha mai pensato di doversi aspettare qualcosa dallo sfruttamento altrui della sua idea, e la cui malattia i parenti ascrivono a stregonerie di concorrenti zulu regolarmente battuti nelle competizioni canore a premio del sabato sera. Dal 1962 in poi escono decine di cover: quelle di Henri Salvador (in Francia), Karl Denver (UK: altro record di mercato), gli Springfields, gli Spinners, i Tremeloes, Glen Campbell, Bert Kaempfert, Chet Atkins, i New Christy Minstrels. Miriam Makeba interpreta il motivo all’ultima festa di compleanno del presidente Kennedy. Gli astronauti dell’Apollo lo ascoltano sulla piattaforma di lancio di Cape Canaveral. E poi una serie infinita di revival a cura di Robert John, Brian Eno, i Tight Fit, i R.E.M., i Nylons, i They Might Be Giants, Manu Dibango, i Ladysmith Black Mambazo, Howard Stern. Con il testo in varie lingue e dialetti: Der Löwe schläft heut’ Nacht, adattamento tedesco di Kurt Feltz; Le lion est mort ce soir, adattamento francese di Henri Salvador; etc.

Chiusa la stagione di caccia alle streghe, Pete Seeger ritorna a Wimoweh in più d’una occasione, da solo o in coppia con Arlo Guthrie. La Walt Disney inserisce The Lion Sleeps Tonight nella colonna sonora de Il re leone (The Lion King, 1994), multimiliardario film d’animazione. Il soggetto del Re leone passa a Broadway sotto forma di musical, e la canzone del dimenticato Solomon Linda furoreggia anche lì. Da Broadway ritorna a Hollywood, nel soundtrack di Ace Ventura: l’acchiappanimali di Tom Shadyac (Ace Ventura: Pet detective, 1994). Nel 1996, con il titolo Imbube, il motivo viene registrato in Sudafrica dal Soweto String Quartet. Qualcuno azzarda un calcolo statistico e finanziario legato alle tre versioni di Mbube: 170 versioni discografiche, 14 film, una mezza dozzina di spot pubblicitari, emissioni radiofoniche non-stop in ogni angolo del pianeta. Totale: un giro d’affari stimabile intorno ai 15 milioni di dollari, finiti in varie tasche escluse quelle dell’autentico autore.

Nature Boy

La celebre canzone di Eden Ahbez, popolarizzata da Nat King Cole, deriva dal tema principale del secondo movimento (Dumka: andante con moto) del Quintetto per archi e pianoforte in la maggiore, op. 81 composto nel 1887 da Antonín Dvořák. La storia di Nature Boy e di Ahbez è ampiamente raccontata in questo post.

Passion Flower

Incisa nel 1957 dal gruppo vocale The Fraternity Brothers, la canzone è accreditata a Bunny Botkin, Gilbert A. Garfield e Pat Murtagh ma è un evidente arrangiamento pop di Per Elisa, la famosa bagatella per pianoforte di Beethoven.

Saint Louis Blues

Sono stati avanzati dei sospetti sull’originalità di questo classico del ragtime e del jazz: curiosamente, la parziale paternità viene attribuita a un dimenticato pianista di origine italiana, Antonio Maggio, attivo nell’area di New Orleans e forse a sua volta debitore d’un motivo udito da un bluesman di strada. Saint Louis Blues, parole e musica di William Christopher Handy, fu pubblicata nel 1914 e passa per “il primo blues ufficiale”, cioè firmato e pubblicato a stampa da un autore professionista; ma il primato in questo senso spetterebbe a una composizione di Maggio, I Got the Blues, stampata sei anni prima; poi c’è The Dallas Bluesdel 1912, del violini­sta Hart Wand, e quindi The Memphis Blues dello stesso Handy, uscito subito dopo.


Nell’articolo Il primo blues parlava italoamericano pubblicato sul mensile Musica Jazz (marzo 1999), Luca Bragalini scrive: «[...] si possono sollevare giustificati motivi di plagio tra I Got the Blues e il celeberrimo St. Louis Blues che, come sappiamo tutti, è datato 1914. Infatti il musicologo Peter van der Merwe, confrontando le partiture, ha ravvisato che il tema A di I Got the Bluesè praticamente identico al famoso ritornello di St. Louis Blues: stesse tonalità (Sol maggiore), melodia e armonizzazione; solo alle battute 9-10 si riscontra qualche differenza rilevante. Proseguendo la ricerca si giunge a un’altra sorprendente scoperta, se si confronta la partitura di Maggio con l’incisione di St. Louis Blueseffettuata dallo stesso Handy con il proprio gruppo nel 1922. Ciò che colpisce, nell’opera del compositore italoamericano, è la riesposizione, dopo il tema B, del chorus di blues A in tonalità minore, modulazione piuttosto bizzarra e insolita in un brano ragtime. Nella partitura di Handy questo passaggio manca, ma ascoltando il disco del ’22 non è difficile rilevare che la struttura registrata di St. Louis Bluesè diversa da quella dell’edizione a stampa: nel disco infatti si ascoltano due nuovi temi, uno finale in Si bemolle maggiore e il fatidico chorus di blues trasposto in Sol minore, esattamente come in I Got the Blues

Sia come sia, Saint Louis Bluesè diventato una specie di inno universale del jazz. La struttura melodica e ritmica è particolarmente composita: nel blues tradizionale si innestano inserti di habanera, ragtime e dixieland che fanno del brano un caleidoscopico patchwork di musica creola. Centinaia di interpreti, bianchi e neri, subiscono e reinventano il fascino di questa musica in cui convergono molteplici e disparate influenze. New Orleans si appresta a macinare, impastare e raffinare gli ingredienti di un nuovo vocabolario, quello del jazz.

Il brano fu probabilmente eseguito per le prime volte in pubblico da gruppi itineranti (minstrels) o dallo stesso Handy, cornettista e leader della Negro Knights of Pythias Band e, a partire dal 1917, della Memphis Blues Band. Il 18 dicembre 1915 la composizione viene registrata da Charles Prince e la sua orchestra; ma diventa popolare solo due o tre anni dopo, quando suscita l’inte­resse di vari artisti del vaudeville, dall’esor­diente Ethel Waters a Sophie Tucker. Un’altra vedette, Gilda Gray (citata da Francis Scott Fitzgerald in un passo de Il grande Gatsby), entra nella leggenda grazie alla sua interpretazione in versione shimmydel 1918. Del marzo 1919 è un’incisione di James Reese Europe (largamente citato nel romanzo Ragtime di E.L. Doctorow) con la sua 369th Infantry Band. La Original Dixieland Jazz Band di Nick LaRocca incide il motivo nel 1921, e la Memphis Blues Band di W.C. Handy nel 1922.

Gilda Gray.

Il testo, scritto nel dialetto afro del basso Mississippi, è il lamento ac­corato di una donna tradita dall’amante:

I hate to see de evening sun go down,
Hate to see de evenin’ sun go down,
Cause my baby, he done lef dis town.
[…] St. Louis woman, wid her diamon’ rings
Pulls dat man ’roun’ by her apron strings…

«Odio vedere il sole che tramonta, / odio vedere il sole che tramonta, / perché il mio uomo ha lasciato la città. / […] / Una di St. Louis, coi suoi anelli di brillanti, / se lo porta appresso legato al grembiule…» Ma, al di là del tema passionale, in più d’una circo­stanza Saint Louis Blues ha acquisito valenze simboli­che di am­pia portata, entrando nella storia del costume e, spesso, nella storia tout court. E non solo in America. Negli anni trenta, ad esempio, diventa per gli etiopi un inno di battaglia contro l’italico invasore; in Italia, per contro, i musicisti appassio­nati di jazz, musica «negroide» invisa al regime fa­scista, la spacciano con un titolo ridicolo ma poco compromettente, Le tristezze di San Luigi (incisione dello swinger italiano Natalino Otto con l’orchestra di Alberto Semprini, 1940). Durante la se­conda guerra mondiale, il capitano Glenn Miller fa sfilare i cadetti dell’Air Force Te­chni­cal Training Command a passo di marcia sulle note della canzone di Handy.

Lo scrittore Jo­sef Škvorecký, riferendosi agli anni dell’occupa­zione nazista in Ceco­slovac­chia, ricorda: «Dal momento che il dottor Goeb­bels aveva deciso che la lamentevole mu­sica giudeonegroide in­ven­tata dai capita­li­sti americani non doveva essere suonata sul suolo del Terzo Reich, noi ci precipitammo a in­ventare titoli posticci per pezzi ormai leggendari perché la gente sul suolo del Terzo Reich potesse ascoltarli.... E il massimo della nostra sfrontatezza, La canzone di Rese­tová Lhota, in realtà St. Louis Blues, risuonò in un giorno nebbioso del 1943 nella Boemia orientale eseguita da una cantante del luogo, con le pa­role ingegnosamente composte per adat­tarsi al nuovo ti­tolo del famoso pezzo di W.C. Handy: “Resetová Lhota... è la mia patria... Andrò laggiù... dalla mia gente ariana...” Per nostra fortuna i nazisti locali non ave­vano mai visto in vita loro Il grande dittatore di Cha­plin, non ave­vano mai sen­tito in vita loro i bulli delle S.A. cantare degli “Ari-ari-ari-ari-ariani”. Quella canzoncina, però, non la conoscevamo nean­che noi: La canzone di Resetová Lhota era una reazione del tutto spontanea al razzismo.»[6]

Saint Louis Blues ne ha viste di tutti i colori; ma il suo mag­gior merito è di aver promosso il blues dalla strada al palcoscenico, dai bor­delli e dai peni­tenziari del Sud al lustro interna­zionale, insomma dalla polvere agli al­tari. Nel 1930 è inserita fra le canzoni di una rivista di soli neri, Change Your Life. Anche al ci­nema ha avuto una lunga carriera, fin dai primi anni del sonoro, e ha dato il titolo a due film: uno del 1929 di Dudley Murphy, in cui Bessie Smith – oltre a cantare questa e altre canzoni – è anche protagonista; e uno del 1958 di Allen Reisner, film biografico (ma molto romanzato) di W.C. Handy impersonato da Nat King Cole, sop­portabile unicamente per le prestazioni musicali di Cole, Eartha Kitt, Pearl Bailey, Cab Calloway, Maha­lia Jackson e Ella Fitzgerald.


Whole Lotta Love

Plagio di You Need Love(1962), un blues che Willie Dixon aveva composto per Muddy Waters, a opera dei Led Zeppelin (Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones, John Bonham), 1969. Lanciata dai Led Zeppelin prima con un singolo incompleto (solo negli USA), poi — in versione integrale — con l’album Led Zeppelin II. Il motivo originale di Dixon era già stato copiato con la carta carbone dagli Small Faces nel 1965: You Need Lovin’, sfacciatamente firmata da Steve Marriott e Ronnie Lane, era infatti praticamente identica a You Need Love persino nel titolo. Ma Dixon non se n’era accorto. Coglie invece in flagrante gli Zeppelin, contro i quali intenta un’azione legale che si conclude solo nel 1987, quando Page e Plant si decidono a riconoscere la vera paternità del brano e a negoziare amichevolmente l’acquisto dei relativi diritti, sborsando 200.000 dollari. Si rifaranno a loro volta nel 1996, portando via le royalties a un nuovo gruppo, i Goldbug, balzati al terzo posto della hit parade britannica con una nuova versione di Whole Lotta Love.

Willie Dixon.

Questa sconcertante avventura giudiziaria la dice lunga sul saccheggio che spesso, nel mondo della musica, si usa perpetrare a danno di altri. Eppure l’originalità creativa degli Zeppelin è fuori discussione, almeno quanto lo è il loro cinismo. Ciò che conta, in Whole Lotta Love, è l’estremismo — quello sì, davvero nuovo — della loro interpretazione. Così hardche più hard non si può. Un capolavoro di sfrontatezza ritmica e pornofonica (ben oltre Muddy Waters, che pure non era un angioletto). Un tour de force talmente sudato ed eversivo da far sembrare acqua di rose tutto ciò che si era sentito prima. Un inno, spregiudicato e canagliesco, all’orgasmo («Giú, giú dentro fino in fondo, sto per darti il mio amore / sto per darti ogni centimetro del mio amore») e al rock and roll, qui alla svolta dell’heavy metal. «Il disco si apre nel segno del tuono», commenta Riccardo Bertoncelli. «Whole Lotta Loveè un inizio ancor più possente e feroce di Good Times Bad Times, con le sue onde vertiginose di voce e chitarra, il ritmo trafelato e la tempestosa massa sonora che agita la parte centrale — un rumoristico collage di “treni in frenata, donne in orgasmo, un attacco con il napalm sul delta del Mekong, un tornio d’acciaio registrato proprio mentre l’impianto veniva spento.”»[7]Il rock insomma rivendica a gran voce, e con dovizia di effetti speciali, la sua funzione socialmente provocatoria e alternativa, alla faccia del perbenismo beatlesiano. Con una carica di eccitazione, derivata dal blues, che è la somma di tutte le complicità e affinità di quegli anni, dagli Who ai Kinks, dai Them agli Yardbirds.

















[1]Thomas Hardy, The Romantic Adventures of a Milkmaid, 1883; ed. it. Una romantica avventura, trad. Simona Modica, Palermo: Sellerio, 1994.
[2]D. Ewen, All the Years of Ameri­can Popular Music, Englewood Cliffs, New Jersey: Prentice-Hall, 1977.
[3] Roy Hemming, The Melody Lingers On. The Great Songwriters and Their Movie Musicals, New York: Newmarket Press, 1986.
[4]Barry Singer, Black and Blue. The Life and Lyrics of Andy Razaf, New York: Schirmer Books, 1992.
[5]Donald Clarke, The Penguin Encyclopedia of Popular Music, Londra: Penguin Books, 1989.
[6] In Il sax basso/La leggenda Emöke, trad. it. Giuseppe Dierna; Milano: Adelphi, 1993.
[7]Riccardo Bertoncelli, Led Zeppelin: Rock & Roll Graffiti, Firenze: Giunti, 1995.

Una festa per gli occhi

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Milano, UniCredit Pavilion, 15 giugno 2016. Alcuni dei “tarocchi” illustrati da Pierluigi Longo per il cinquantesimo anniversario dell’Istituto dell’Audisciplina Pubblicitaria.

Milano, 15 giugno 2016. Sono andato all’UniCredit Pavilion, il visionario spazio progettato da Michele De Lucchi, per assistere a un miniconvegno organizzato dallo IAP (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria), celebrativo dei suoi primi cinquant’anni di storia. Ho ascoltato con vivo interesse gli interventi di Roberto Cotroneo, Mario Calderini, Vanni Codeluppi, Ariela Mortara e del mio vecchio amico Alessandro D’Alatri, regista, con cui tanto amabilmente ho lavorato in passato.

Altrettanto colpito sono stato dall’allestimento della sala, decorata su tre lati da pannelli allusivi alla libertà di espressione quando è in sintonia con la responsabilità sociale. Era questo il tema principale dell’incontro, e corrisponde – in modo sintetico – ai valori propugnati e difesi dallo IAP. Le illustrazioni dei pannelli, e dell’intera campagna istituzionale del cinquantenario progettata dallo studio Hasta Mañana, sono di Pierluigi Longo, una delle mani più felici del disegno contemporaneo. Festa per gli occhi, è il caso di dirlo. Longo ha un modo solare e festoso di rappresentare mondi simbolici. Il suo stile combina, in modo armonico e sognante, le citazioni rétro con il gusto di oggi, condensando in ogni singola tavola un secolo abbondante di suggestioni figurative.

P.B.

Immagine scelta da Pierluigi Longo per l’intestazione della sua pagina Facebook.

Pierluigi Longo è nato a Tripoli 46 anni fa e risiede da sempre a Milano. Dopo aver frequentato il liceo artistico e l’Istituto Europeo di Design inizia, nel 1993, a lavorare come illustratore freelance per l’editoria e la pubblicità. Nel 2001 entra a far parte dello Studio Air con l’illustratore Franco Brambilla e l’art director Giacomo Spazio. Sviluppa uno stile più personale e ottiene le sue prime committenze importanti: Il Sole 24 Ore, Eni, Abitare, e all’estero New Scientist e Courrier International, cui seguiranno il Wall Street Journal, Forbes e The Telegraph. Realizza copertine per Einaudi, Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli e il settimanale Internazionale. Dalla sua nascita (novembre 2011) e per i successivi tre anni è collaboratore fisso de La Lettura, l’inserto culturale domenicale del Corriere della Sera. Sue le illustrazioni animate dell’ultimo spot istituzionale per i Mondadori Store. Attualmente il suo lavoro è spesso visibile sulle pagine de la Repubblica.








Illustrazioni di Longo per (dall’alto in basso): la Repubblica, l’house organ di Einaudi, Internazionale, ancora Einaudi, pubblicazione non identificata, Corriere della Sera, Pizza & Pasta, Corriere della Sera.

Memorie di un pianista

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Per avvicinare la gente alla musica, bisogna avvicinare la musica alla gente.


Conversazione per soli e pianoforte.

Introduzione. Allegro ma non troppo.


Riccardo Caramella è un pianista torinese che vive in Francia, a Mandelieu-la-Napoule, da circa venticinque anni. In Italia e all’estero il suo nome gira soprattutto fra gli appassionati di rarità musicali: per esempio la misconosciuta produzione pianistica degli operisti nostrani (Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi, Ponchielli, Catalani, Leoncavallo, Puccini, Mascagni, Giordano, Cilea); o il fatto di aver inaugurato le relazioni musicali fra l’Europa e la Cina con una storica registrazione del Concerto del Fiume Giallo di Xian Xinghai. Questa chicca, realizzata nel 1988 con l’Orchestra sinfonica di Radio Pechino diretta da Yuan Fang, è stata ed è tuttora un best seller internazionale. Fu incisa per Nuova Era, intraprendente etichetta discografica di cui Caramella fu per qualche anno il direttore artistico.

Copertina del disco Nuova Era con musiche di compositori cinesi. A sinistra Caramella con il direttore Yuan Fang.

Ho conosciuto Caramella nel 1995 per una collaborazione pubblicitaria, ma il ricordo è tuttora vibrante sia per lui che per me. Con uno dei miei team dell’agenzia BGS e il regista svedese Johan Camitz avevamo appena terminato, a Parigi, le riprese di un grazioso spot per la Swatch. Un giovanissimo percussionista, stordito da un estenuante pomeriggio di sesso e ridestato alla dura realtà da un segnale del suo orologio, parte in allarmante ritardo per raggiungere in teatro il suo posto in orchestra. Dovrà solo eseguire un colpo di piatti che costituisce il climax della composizione in programma (un po’ come succedeva ne L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock), ma la sua assenza pesa dietro le quinte come una maledizione. Il concerto è iniziato da un pezzo e si sta già pensando di sostituirlo, alla meno peggio, con un lavorante del teatro ignaro di musica. Ma il ritardatario balza in scena proprio al momento giusto, dopo una rocambolesca corsa in motocicletta nell’ottavo arrondissementparigino. Per sonorizzare adeguatamente il breve filmato e sincronizzare la vicenda con quel colpo di piatti, ci voleva la consulenza d’un musicista esperto e fu per questo che chiedemmo aiuto a Caramella. Si trattenne nel laboratorio di postproduzione fino alle tre di notte, e solo molti anni più tardi ho scoperto che per lui quella non era una notte qualsiasi. Minacciato – a mia e altrui insaputa – da un cancro, era atteso alle otto del mattino in ospedale per subire un intervento tanto complicato quanto decisivo. E si era buttato a capofitto nel lavoro proprio per non pensare al domani. Probabilmente arrivò trafelato in sala operatoria come il giovane rompicollo del nostro spot sul suo palcoscenico. Passò la prova e guarì. Non è superstizioso, ma per lui sono una specie di messaggero di buona fortuna.

Dopo quella e altre sporadiche collaborazioni professionali ho sentito Riccardo al telefono o per e-mail, di tanto in tanto, ma non l’ho più incontrato di persona. Fino al 2 maggio 2016, quando – approfittando di un suo fugace passaggio a Milano ­­– vado a prelevarlo alla FonoVideo, dove sta combinando qualcosa per la pubblicità, con la precisa intenzione di offrirgli un pranzo all’Osteria della Cagnola, mitica trattoria milanese dove ancora potevi abbuffarti di nervetti in insalata e rognoncini trifolati. Una piccola nostalgia come un’altra, tradita dalla storia che avanza e che tutto travolge: perché al posto dell’Osteria vedo ora un Asian Fusion restaurant, per di più nel suo giorno di chiusura settimanale, sicché non posso nemmeno togliermi lo sfizio di domandare ai camerieri cinesi se conoscono il Concerto del Fiume Giallo.

Edo, il fonico che lavora col musicista da più di vent’anni (“insostituibili e ineguagliabili”, dice Caramella di lui e di Giorgio, tecnici della FonoVideo), deve importare un cd nel suo sofisticato sistema di editing. Dice che ci vorranno parecchi minuti, aggiungendo che i cd sono roba d’altri tempi, destinata a scomparire definitivamente da un momento all’altro. Volano a ruota libera ricordi e considerazioni sui supporti del passato e sul revival modaiolo del vinile. «Negli anni ho messo in piedi una collezione di diciottomila incisioni», rivela Riccardo, «dai cilindretti ai cd, passando per i 78 giri e i microsolchi. Adesso comincio a domandarmi cosa ne sarà di questo patrimonio, dal momento che nessuno dei miei eredi è interessato al collezionismo musicale.»

«Questo è niente al confronto col mio patema di oggi», ribatto amaramente. «L’Osteria della Cagnola, dove volevo portarti, ha fatto la stessa fine dei rulli di Edison e dei piattoni di gommalacca: non esiste più.»

Ma per Riccardo è quasi un sollievo. «A mezzogiorno mi bastano un panino e un bicchiere di vino. Il colesterolo impone delle regole.»


Andante orientale.


Mostra meno dei suoi anni (65). E l’aria da artista e showman ce l’ha, forse per via dei capelli mediolunghi, brizzolati. Tra poco uno sconosciuto interromperà la nostra conversazione tre volte, chiamandolo Maestro. Ci sediamo all’aperto vicino all’Arco della Pace, in un posto chiamato Living, e ordiniamo ravioli alla salvia senza burro e due bicchieri di Gavi.

Riccardo mi sta dicendo che Pollini e Muti hanno un brutto carattere. A malincuore lo avverto che questa è un’intervista. «Ho il dovere di dirtelo», sottolineo; «preferisco giocare a carte scoperte, perché una volta ho intervistato una cara persona che amava esprimersi in romanesco, e quando lesse l’intervista – tutta in dialetto, oltre che acidamente polemica su molte persone in vista – mi rimproverò di aver abusato della sua schiettezza.»

«Di torinese ho solo l’accento, dunque non corro rischi. Comunque cerca di non farmi domande troppo serie: non sono tagliato per l’accademismo.»

«Nemmeno io. Adesso ricominciamo dal principio. Stavi malignando su Pollini. Io lo adoro.»

«È freddo come il ghiaccio. Con Schönberg va bene, ma Chopin...»

«Io ho un debole per i musicisti algidi. L’emozione è nulla senza controllo», sostengo parafrasando una indimenticabile pubblicità della Pirelli. Ci tengo a farlo arrabbiare, così poi l’intervista viene meglio. «Prendi i tenori, per esempio. Se li lasci fare, sbracano. Hanno bisogno di direttori d’orchestra freddi e cattivissimi, capaci di metterli in riga e spegnere sul nascere il loro bollore.»

«Sui tenori sono d’accordo», ammette. «Sono l’anello mancante fra la scimmia e l’homo sapiens.»

«Battuta indecente. Se fossi Caruso ti sfiderei a duello.»

«Sui direttori d’orchestra ne ho una peggiore. Sai qual è la differenza tra un direttore d’orchestra e un preservativo?»

«No.»

«Nessuna. Con entrambi sei più sicuro, ma senza è molto più bello.»

«Mah. Da ascoltatore temo più i cantanti che i direttori. Il mondo è andato in brodo di giuggiole per i Tre Tenori. Enfasi a un tanto al chilo! Ancora non riesco a capacitarmi del fatto che ci sia capitato in mezzo Plácido Domingo, di solito rigoroso e scafato, una specie di De Niro per il melodramma.»

«Sì, i tenori tendono a strafare. I soprani e i baritoni sono più disciplinati. Comunque, dopo la Callas il belcanto è finito.»

«Che ci faceva un torinese come te con l’Orchestra di Radio Pechino?»

«Quella è una storia epica. Sai che, fra tante altre cose, ho sempre fatto anche il consulente musicale per le aziende. Ho lavorato per Barilla dopo Morricone e Vangelis, non so se ti ricordi quegli spot diretti da Tarsem. A un certo punto mi ritrovo da una parte l’Iveco (del Gruppo Fiat, ndr) e dall’altra la Lufthansa che vogliono fare relazioni pubbliche con la Cina. Iveco per aprire una fabbrica a Nanchino, Lufthansa per aprirsi un varco nei cieli proibiti: all’epoca la Repubblica popolare cinese concedeva alle compagnie straniere un diritto di sorvolo talmente striminzito da costringerle a giri disumani per evitare violazioni dello spazio aereo. Per avvicinare i popoli non c’è niente di meglio della musica: così gli italiani mi chiedono come si fa a portare l’Orchestra della Scala a Pechino, e i tedeschi sono disposti a mobilitare Karajan a qualunque prezzo. Ma io faccio notare che questo è un modo di pensare da colonizzatori. È il solito Occidente pronto a esportare i suoi valori, sordo alla cultura dei destinatari, sebbene possano vantare anch’essi una civiltà millenaria.»

«E allora?»

«E allora non c’è Scala o Karajan che tenga. I cinesi, insisto, toccherebbero il cielo con un dito se noialtri cominciassimo a riconoscere e a valorizzare il loro patrimonio musicale. Iveco e Lufthansa potrebbero coordinarsi per un’impresa che veda per la prima volta la Cina in condizione di parità con l’Occidente. La proposta viene accolta con entusiasmo. Alla fine dell’operazione, ho ricevuto complimenti e pacche sulla spalla da Gianni Agnelli in persona.»

Pechino, 1988. Caramella con l'Orchestra sinfonica di Radio Pechino durante l'esecuzione del Concerto del Fiume Giallo. Derivato da una cantata patriottica composta da Xian Xinghai nel 1939, durante la seconda guerra sino-giapponese, il concerto è il risultato di un arrangiamento a più mani successivo alla morte dell’autore (1905-1945), con contributi di musicisti come Yin Chengzong e Chu Wanghua. Popolarissimo in Cina, ha acquisito spiccate valenze politiche a partire dal suo esordio, nel 1969, durante la Rivoluzione culturale.

«Vuoi dire che è bastato un disco per raggiungere obiettivi di quella portata?»

«Certo che no. Il disco era solo una parte del progetto. Che cominciò con un concerto dal vivo e proseguì con una straordinaria tournée dei musicisti cinesi, accompagnati da me come solista. Quarantadue concerti in Europa e gran finale a Pechino, dov’erano presenti anche gli inviati di venti testate giornalistiche fra le più importanti d’Europa: Frankfurter Allgemeine, la Repubblica, El País, Le Figaro... Non ti dico la risonanza che ne risultò. 185 pagine sulla carta stampata e non so quante ore di televisione.»

«Ma fai tutto tu? Insomma: suoni il piano, sei il manager e il producer di te stesso, inventi campagne mondiali di PR... Non ce l’hai un agente?»

«Ne avevo uno tanti anni fa, ma rinunciai ai suoi servigi quando mi organizzò un tour massacrante negli Stati Uniti. 42 serate in 44 giorni! Alla fine ero talmente a pezzi che mi ribellai, deciso a muovermi da solo per il resto della vita.»

«Dove eravamo rimasti?»

«Il minibus con il quale giravamo per l’Europa con gli orchestrali di Pechino era già una campagna di per sé. Era un modello allestito ad hoc dall’Iveco, arredato con le poltrone di bordo di prima classe della flotta Lufthansa. Talmente chic che lo presentarono al Salone dell’Auto di Ginevra, per fare impressione sul pubblico e sulla stampa. Sulle fiancate erano esibite le identità dei patrocinatori e del nostro ospite d’onore, la musica cinese.»



Contrappunto, dissonanze e fuga.


Nel frattempo, al tavolino accanto al nostro, si è seduto un tipo di mezza età. Ha i capelli a spazzola, grigi e cortissimi; il volto scavato da una vita probabilmente spericolata; un maglione rosso fulgente. Sembra concentrato su un disegno che sta tracciando sul suo tovagliolo di carta. Mentre disegna, ascolta avidamente le nostre chiacchiere, ma nessuno di noi due se ne accorge. Quando il discorso scivola su Rossini (nome inevitabile, se con Riccardo Caramella si parla di musica a tavola), lo sconosciuto interloquisce. Ha inteso “Rossellini” e a bruciapelo mi domanda se ho visto Roma, città aperta, come se fosse l’ennesimo episodio di Star Wars appena uscito nelle sale. Annuisco distrattamente mentre, in simultanea, Riccardo mi domanda se conosco il motivo per cui l’Italia, dopo essere stata per secoli il faro mondiale della musica strumentale, nell’Ottocento si è fatta fregare dai tedeschi. Ma l’uomo dal maglione rosso non demorde, deciso a trasformare in trio il duetto che sta ascoltando. Adesso pretende di sapere da noi chi altri c’era nel film, oltre ad Anna Magnani. Ci scruta con occhi spiritati. Sussurro il nome di Aldo Fabrizi sottovoce e senza guardarlo, per non perdere il filo del discorso col mio interlocutore ufficiale. Riccardo Caramella ha in testa una tesi precisa a proposito del primato perduto degli italiani:

«I nostri erano talmente presi dall’opera lirica da trascurare quasi completamente la musica strumentale.»

Lo guardo affascinato. «Cazzo», dico, «non ci avevo pensato.»

«Sembra ovvio», conclude, «ma è una verità che non trovi nei libri di storia della musica. Neanche Massimo Mila – uno dei miei numi tutelari – ha messo a fuoco questo punto. E ti sto parlando di un maestro vero, uno dei pochi musicologi e critici seri che ho conosciuto durante tutta la mia vita. A proposito di Mila: pensa che, malgrado la nostra amicizia, non ha mai scritto, né bene né male, delle mie malefatte musicali.»

Adoro Mila e la sua Breve storia della musica.[1] A casa, vado a controllare. In realtà anche Mila accenna a questa specie di monomania italiana per il melodramma; in più esplora una serie di ragioni storiche che vanno dalla dispersione all’estero, nella seconda metà del Settecento, dei compositori italiani più influenti dell’epoca, alla diversa concezione del Romanticismo in Germania e in Italia.

«Maestro», dice l’intruso dai capelli a spazzola, rivolgendosi questa volta a Caramella e mettendogli sotto il naso la cosa che ha disegnato sul tovagliolo. «Ho schizzato le due cameriere. Che ne pensa dello stile? Non le pare un po’ leonardesco?»

«Senza dubbio», mormora il pianista con un filo di voce, visibilmente disorientato. Io penso a Bach che si lasciava ispirare da Vivaldi, ai viaggi formativi di Mozart in Italia, e poi a una specie di buco nero mediterraneo dal quale emerge impetuosamente una sola energia dominante e onnivora, quella del melodismo sentimentale.

Giacomo Puccini: lettera autografa da Vacallo (Svizzera) a Milano, indirizzata a Giulio Ricordi, 15 novembre 1890. Collezione privata Riccardo Caramella. Puccini scrive: «Gentilissimo Sig. Giulio, il Doge di Vacallo stà bene e lavora. I sudditi son calmi e in salute. Poco freddo poichè la sala è riscaldata dal patriarcale camino dogale. Il Kromprinz (in realtàKronprinz, “principe della corona”, scherzoso modo di riferirsi al figlioletto Antonio, ndr) è il più vegeto rampollo della repubblica. La czarina è un pò... secondo il solito. A giorni faremo ritorno alla capitale. La mia favorita Manon è cresciuta e mi pare in buona salute. Dal mio primo ministro Oliva (uno dei librettisti della Manon Lescaut, ndr) non ho più notizie, attendo il 4° atto e 2°. Di Madrid niente? A quando l’andata? Abbiamo una splendida stagione e a dir la verità mi rincresce tornare a Milano. Qui lavoro tanto bene!! Sempre all’oscuro di tutto, senza notizie e senza noje. Elvira mi incarica di salutarla e così ancora la Signora Giuditta (Giuditta Brivio, moglie di Giulio R., ndr) e la Ginetta. A presto dunque e discuteremo ancora perchè... è malattia cronica per me. Ossequi alla Signora e alla Rosina, Tito e Manoli (Tito ed Emanuele detto Manolo, figli di Giulio Ricordi, ndr). Tante cose aff. dal suo Giacomo Puccini.»

«Ma i nostri operisti hanno composto, oltre alle Norme e alle Traviate, ai Rigoletti e alle Butterfly, un sacco di altre cose: intime, per pianoforte. C’è voluto un film come Il Gattopardo per far scoprire quel valzer inedito di Verdi. Orchestrato da Nino Rota, ma in origine era una composizione per piano solo: come tale l’ho registrata per primo», ricorda con orgoglio Riccardo, che alle pagine “segrete” dei compositori italiani ha dedicato una mole impressionante di incisioni e scritti di corredo. «Ti ho già parlato, in una e-mail, del tango ante litteram di Puccini. Una delle tante prove di quanto i nostri operisti fossero curiosi di ciò che andava accadendo negli ambiti musicali di tutto il mondo.»

Ostento un po’ di snobismo, per punzecchiarlo. «Sì, ma si tratta sempre di musica, come dire?, marginale. Bisogna aspettare uno come Busoni per dire: ecco un italiano con le palle, che ha qualcosa di nuovo da dire.»

Mi guarda storto. Non ammette che si manchi di rispetto ai nostri eroi nazionali della musica, ai quali ha dedicato una vita di ricerche contribuendo non poco a farne conoscere gli aspetti più trascurati. «Lo sapevi, per esempio, che Una furtiva lagrima era la rielaborazione di una paginetta per pianoforte che Donizetti aveva scritto a undici anni per l’esame di ammissione al conservatorio di Bergamo? Più spesso di quanto non si creda i nostri operisti hanno tirato fuori arie immortali da precedenti composizioni da camera, scritte per puro sfizio personale. Insomma hanno fatto il cammino inverso di Liszt: invece di parafrasare arie d’opera trascrivendole per il pianoforte, sono partiti dai propri fogli d’album per dare nuova vita a intuizioni già pronte per l’uso.»

«Da qualche parte ho letto che il valzer di Musetta nella Bohème, la romanza Quando me n’ vo soletta, ha un’origine del genere...»

«Sì, era un adattamento del Piccolo valzer per pianoforte in mi maggiore che Puccini aveva già composto qualche tempo prima. Pensa un po’: per una cerimonia militare!»

«La musica è come il maiale. Non si butta via niente.»


«Neanche Mascagni buttava via niente. Per l’intermezzo sinfonico della Cavalleria riciclò qualcosa che aveva già scritto per una funzione ecclesiastica.»

Anche l’uomo dal maglione rosso comincia a sentirsi trascurato come il tango di Puccini, il capriccio di Bellini e il notturno di Catalani. Si alza, ci tende solennemente la mano per un congedo definitivo ma, invece di pronunciare un arrivederci o un addio, se ne esce con un’altra battuta dadà: «Vero che sembro la fotocopia di Pasolini?»

Gioachino Rossini: Un rien, documento autografo, Parigi 1860. Collezione privata Riccardo Caramella. Il frammento musicale, tuttora inedito, l’ho ascoltato in gran segreto da un’esecuzione di Caramella. Intimo, delicato, ha una partenza melanconica che diventa spiritosa nella lunga scala ascensionale che lo conclude.

Un rien. Tema e variazioni.


Siamo parchi. Faccio notare a Riccardo che stiamo consumando un rien laddove Rossini sarebbe stato felice di divorare almeno quattro hors d’oeuvre, prima delle portate più corpose. «A proposito», aggiungo, «guarda che sul tuo cd sui Péchés di Rossini oeuvreè stato scritto con la s finale. Per quel poco che so di francese...»

«È stato lui a scrivere così, e abbiamo rispettato il suo errore. Ma quello è niente. Ti manderò la copia di un menu dove scrive Bordò e Schiampagne

Rossini compositore di menu.

Un rien, un nonnulla, è anche il cimelio più idolatrato da Riccardo Caramella, che lo custodisce insieme ai molti feticci di una collezione comprensiva di spartiti originali e altri documenti autografi.

«Quel rien, scritto tra parentesi da Rossini in persona sopra un doppio pentagramma, lo vidi per la prima volta a quindici anni, in casa di Alberto e Marisa Bruni Tedeschi. Lui è stato un famoso industriale ma anche collezionista d’arte e soprattutto compositore di spicco: ho suonato una quarantina di volte in tutto il mondo la sua Fantasia-recitativo, quasi una danza per pianoforte e orchestra, uscita anche in cd. Lei è una donna affascinante, di rara simpatia e pianista di gran classe, amica fedele di, ormai, tutta una vita. E i figli – il compianto Virginio, Valeria, Carla: – a tutti sono da sempre molto affezionato. Il rien (“un nulla, un pensierino da poco”) stava su una parete, inquadrato in una preziosa cornice del Bonzanigo, il grande ebanista di casa Savoia. Rossini aveva regalato a qualcuno non solo la cornice ma anche il frammento musicale in essa contenuto, tuttora inedito: l’ho registrato, prima o poi lo pubblicherò.»

«E adesso quel rien ce l’hai tu. Che hai fatto, l’hai rubato?»

Ride.

Caramella con Marisa Borini (terza da sinistra) e le figlie Carla Bruni e Valeria Bruni Tedeschi, a Venezia per l'inaugurazione del Fondo Alberto Bruni Tedeschi alla Fondazione Cini (3 novembre 2009). Marisa, non solo pianista e concertista ma anche attrice, compare in vari film francesi e italiani di e con Valeria, tra cui il recentissimo La pazza gioia di Paolo Virzì. Col nome di Marisa Bruni Tedeschi ha appena pubblicato in Francia un’autobiografia, Mes chères filles, je vais vous raconter... (Éditions Robert Laffont, 2016), che sta ottenendo molto successo e sarà presto pubblicata anche in Italia. Nel libro l’autrice cita a più riprese Caramella.

«No. Nel novembre del 2009, mi occupai dell’apertura del Fondo Alberto Bruni Tedeschi alla Fondazione Cini di Venezia. La famiglia Bruni Tedeschi volle farmi un regalo speciale per esprimere la sua gratitudine e, a sorpresa, mi vidi recapitare quell’oggetto di lunga adorazione. Mi commossi. Sapevo benissimo quanto valesse, affettivamente, anche per loro.»

Per l’eccentrica ironia di Rossini, pronto a minimizzare, con le parole, persino il proprio talento – tanto da intitolare Quelques riens pour album il dodicesimo volume dei suoi Péchés de vieillesse – Caramella nutre una venerazione viscerale. «Da insanabile gourmet etichettava come Acciughe, Cetrioli e Fichi secchi certi suoi Péchés per pianoforte, senza curarsi minimamente di stabilire qualche corrispondenza concettuale fra quegli alimenti e i rispettivi contenuti musicali.»

«Forse l’uomo dal maglione rosso, sebbene così magro, è una sua reincarnazione. Rossini ci tiene d’occhio dall’aldilà, per sentire se spettegoliamo su di lui.»

«O per rimproverare il nostro disinteresse per il burro. Il suo umorismo era debordante, e non solo di natura gastronomica. Prendi l’introduzione della Petite messe solennelle: sembra un tributo ai battellieri del Volga. Altro che musica sacra.»

«Rossini si atteggiava a conservatore ma era avanti di mezzo secolo sulle convenzioni di allora. E così si tirò addosso critiche da tutti i fronti: dalle avanguardie del Romanticismo e dalle anime pie ancorate al passato.»

Sono un fanatico della Petite messe, a cominciare dal sound: due pianoforti e l’armonium, oltre alle voci. Cito con entusiasmo la registrazione di Sawallisch. Colgo un impercettibile lampo di risentimento nello sguardo di Riccardo, che si affretta a farmi notare, con nonchalance, di aver inciso anche lui quel capolavoro, con Mario Borciani all’altro piano e Istvan Ella all’armonium, sotto la guida di Gabor Mathauser. «E con i mitici Madrigalisti di Praga: dodici angeli, come voleva Rossini. Puoi trovare l’incisione su YouTube», aggiunge di sfuggita.

In effetti la discografia di Riccardo Caramella è sterminata, e spazia in un repertorio in gran parte alternativo rispetto a quello delle multinazionali del disco. Si va da Benedetto Marcello a Sgambati, da Chausson ad Addinsell, dalle trascrizioni pianistiche da Gluck a quelle dalle sinfonie di Beethoven. Un indirizzo da scopritore, che Caramella si è dato fin dagli inizi di carriera. «Che dovevo fare? Puntare sui notturni di Chopin, dopo Cortot, Rubinstein, Horowitz, Magaloff, Arrau, Bolet e altri duecento? Te l’immagini, una concorrenza simile? Ho preferito tendere l’orecchio alle pagine meno frequentate, fare spesso ricerche per conto mio, concentrarmi sugli inediti, promuovere iniziative di divulgazione musicale oltre a esibirmi dal vivo e incidere dischi.»

Durante i suoi recital e i suoi concerti di musica da camera, Riccardo usa intrattenere il pubblico raccontando storie e aneddoti sulle composizioni in programma. Dotato di notevole comunicativa, riesce a infondere calore e vivacità in occasioni solitamente austere e un po’ ingessate. Appartiene a una schiera di artisti poco visibili nell’olimpo divistico, ma indispensabili al recupero storico – e didattico – di un patrimonio che rischia di essere sopraffatto dai suoi capolavori più celebrati e risaputi.

La cultura della musica deve molto agli operatori piccoli e indipendenti. Sono coraggiosi e al tempo stesso vulnerabili: molte delle etichette per cui Caramella ha lavorato sono scomparse nel frattempo, e buona parte della sua discografia è finita fuori catalogo. Per questo Riccardo sta facendo caricare a poco a poco dall’amica Valérie, in un canale denominato Maison Vuillod, tutta la sua produzione su YouTube. La tecnologia ci aiuta sempre di più a colmare i buchi di memoria.

Riccardo e io ci conosciamo, lo ripeto, grazie alla pubblicità, materia che fa storcere il naso ai palati fini. Ma c’è da chiedersi che fine farebbe la musica, senza il sostegno del marketing e degli sponsor. Caramella si è sempre rimboccato le maniche, andando a cercarsi da solo i finanziamenti necessari alla produzione e alla distribuzione di dischi il cui contenuto è stato a lungo ignorato dai colossi come la Universal o la Sony. Certi suoi cofanetti antologici portano stampati, sulla custodia, marchi come AstraZeneca, Sofitel e Galbani, quest’ultimo presente, guarda caso, su un’edizione dei Quatre mendiants e dei Quatre hors d’oeuvres di Rossini.I quattro mendiants– alla lettera “mendicanti”, “accattoni” – sono le nocciole, i fichi secchi, le mandorle e le uvette, alimenti frugali per filosofi, atleti e monaci dell’antichità. Nella tradizione provenzale fanno parte dei tredici dessert della vigilia di Natale, e dal medioevo rappresentano altrettanti ordini religiosi perché di ciascuno ricordano il colore del saio: agostiniani (noci e nocciole), francescani (fichi secchi), carmelitani (mandorle) e domenicani (uva secca).

Copertina di Ugo Nespolo per il cd Rossini: Quatre mendiants, quatre hors d’oeuvres, con esecuzioni di Riccardo Caramella. Nuova Era, 1996. 

Allegro scherzando.


In un’ora di Living, confortati solo da una dozzina di ravioli dietetici e un quartino di Gavi a testa, non si può che galleggiare in superficie. La personalità degli artisti merita di più, e quella del mio interlocutore mi intriga in modo particolare: perché è un amico, ma un amico sconosciuto, del quale mi sono fatto un’idea vaga e incompleta sulla base di indizi e impressioni sparse. Non ho mai avuto, per esempio, neanche l’occasione di assistere a una delle sue esibizioni pubbliche. Per questo ci lasciamo ripromettendoci di continuare l’intervista in altra occasione.

Artisti in tournée per la Petite messe solennelle di Rossini, 1989. Da sinistra: Eun-Kan Song, basso; Paolo Barbacini, tenore; Riccardo Caramella, piano; Mario Borciani, piano; Giovanna De Liso Vaio, contralto; Júlia Pászthy, soprano; Jiří Kotouč (Madrigalisti di Praga). Al soprano ungherese Júlia Pászthy si alternava Laura Cherici (assente nella foto). In precedenza, il pulmino era stato allestito per la tournée europea dell’Orchestra di Radio Pechino.

Il 7 giugno ci risentiamo, questa volta al telefono.

«Nella foto che mi hai mandato vedo il minibus Iveco-Lufthansa e un gruppo di persone tra cui ci sei tu, ma neanche un cinese», esordisco. «Anche se leggo sulla carrozzeria “European Tour of the Beijing Radio Symphony Orchestra”.»

«Quella foto non c’entra con il tour cinese, è successiva. A un certo punto il minibus diventò mio....»

«Un petit rien su quattro ruote?»

«A impresa conclusa, il furgone mi fu regalato. In quel periodo collaboravo con un noleggiatore di autobus per le tournée che facevo con grandi orchestre. In varie occasioni mi chiese in prestito il pulmino per trasportare musicisti come Sting e altre celebrità on tour, mi pare anche i Rolling Stones. Dentro c’erano il frigo e a ogni sedile i ripiani con la luce. Una figata. Nella foto sono con il cast della Petite messe solennelle, nel 1989.»

«Qualcuno chiama “musica seria” quella dei compositori classici, ma tu hai sempre l’aria di spassartela.»

«Storici, musicologi e critici dall’anima triste hanno ingessato la musica classica facendola diventare un supplizio per orecchie elitarie. Che cazzata! Se inquadri quella musica nel suo contesto storico, scopri che era fatta per procurare felicità, mica per rompere i coglioni. E i geni non sono statue di marmo, sono esseri umani. Hai mai letto I grandi musicisti di Schoenberg? Non Arnold, l’altro Schoenberg, il critico americano.[2] Per me il più bel libro mai scritto sulla musica. Invece di menarla con le analisi tecniche e specialistiche ti racconta gli uomini, il loro modo di pensare e di vivere, e da quello capisci meglio le loro opere. Prendi Beethoven: era mica un busto di gesso. Era un maniaco del caffè. Certe mattine faceva il giro delle migliori botteghe di Vienna, sette-otto per volta. Si faceva spargere i chicchi sul bancone, li ispezionava come se fossero diamanti e ne sceglieva un po’ in un negozio e un po’ nell’altro, per mettere insieme la miscela ideale.»

«Ogni nota della Nona un grano di caffè. L’ho sempre pensato che per gli artisti il caffè è meglio della cocaina.»

«E il suo testamento, l’hai letto?»

«No.»

«Pazzo! Devi leggerlo assolutamente! Lo trovi in internet

«Finisco un libro di Stephen King e poi....»

«No, lo devi leggere subito. Prima di sera!»

«Obbedisco.»

«Giura.»

«Lo giuro.»

«Una delle più grandi pagine letterarie di ogni tempo. Non puoi capire Beethoven, non sai un cazzo su Beethoven se non hai letto il suo testamento. Hanno messo in un ghetto di rompicoglioni lui e altri giganti. Mozart. Van Gogh. Per tutti lo stesso destino: uccelli da impagliare. Uomini in carne e ossa ridotti a fantasmi, come se fossero già morti quando creavano i loro capolavori. Tu vai a un concerto ed è come se andassi in chiesa, al cimitero, al museo delle cere. E nessuno osa fiatare. Se ti scappa un colpo di tosse ti mettono alla gogna. Ma non era affatto così! Liszt, per dirne uno, suonava che era una festa per tutti, ed era lui per primo a non metterla giù dura! E mica si offendeva se qualcuno si stravaccava sul tappeto e un altro faceva merenda! Guardali i vecchi dipinti, le vecchie illustrazioni che ritraggono i concertisti e il loro pubblico. Ma in quale vangelo c’è scritto che a teatro è vietato sorridere, e che se batti le mani tra un movimento e l’altro del quartetto o della sinfonia sei uno stronzo troglodita? All’opera, grazie a Dio, si applaude anche a scena aperta, prima ancora che il tenore di Nessun dorma arrivi al Vincerò... Per non parlare dei concerti rock...»

«Ecco perché ce l’hai su con Pollini.»

«Nessuno l’ha mai visto sorridere. Nessuno può dire: ho visto i denti di Maurizio Pollini.»

«Non toccarmi Pollini, sono un suo fan.»

«Quando uno si rivolge alla platea con quell’aria di soave disprezzo, è come se pensasse: sto suonando per il popolo bue.»

«Magari è solo introverso.»

«Io il pubblico lo adoro come si adora un amante, voglio fare sesso con lui. Se fosse possibile vorrei che gli spettatori venissero a sedersi sulle mie ginocchia mentre suono. Mi rifiuto di capire quelli che si fanno venire il rigor mortis appena sentono scartare una caramella.»

«Io se mi strappano la barbella m’incazzo, invece.»

«Prendi questo tabù di non applaudire tra un movimento e l’altro. C’è sempre qualcuno che ci prova, e gli altri lo guardano in cagnesco. Dal palcoscenico, quando succede a me, li incoraggio: dàì, dài, dico, un applauso in più non ha mai ammazzato nessuno. La gente normale ha voglia di partecipare, di far sentire il clap clap delle sue mani, così come ha voglia di ballare ai concerti rock. La musica è una festa! Imbalsamarla è un delitto!»

«Ho visto su YouTube che, prima di attaccare il tema di Un uomo, una donna, istighi gli spettatori a cantare in coro da-ba-da-ba-dà...»

«Però fatelo a tempo, aggiungo. Poi li frego. Alla ripresa, sullo stesso ritmo e con le stesse note iniziali, suono un’altra cosa (in quel caso si trattava di una suite dedicata al cinema francese), mentre loro stanno ancora dabadabadando!»

«Fai l’istrione come Bollani... Il comédien, come dicono nella tua nuova patria.»

Torino, 1976. Prove a tavolino della trilogia teatrale L’eroe borghese di Carl Sternheim, nel foyer del Teatro Gobetti. Caramella (secondo da sinistra, accanto al regista Mario Missiroli) ricorda la supervisione, durante le prove, di Anna Maria Guarnieri: «Faceva la maglia e tentava (poverina) di insegnarmi a recitare.»

«Oh, Bollani è molto più bravo di me in queste cose. Anche perché il genere di musica che fa – in modo assolutamente geniale e sorprendente – offre ben più libertà della musica classica. Il fatto è che tutti sono stati indotti a credere che nel Settecento, nell’Ottocento, fosse indispensabile mantenere un contegno austero, inflessibile. Che errore! Persino con Chopin, così come con Liszt o Paganini – con loro in persona, intendo – era lecito avere un bicchiere in mano, masticare qualcosa. I Lieder di Schubert erano creati e giravano nelle taverne. Il concertismo “ufficiale” è noioso.»

«Glenn Gould era così stufo dei concerti che a un certo punto decise di non darne più. Ma a lui facevano schifo per un’altra ragione. Diceva che sono un’esibizione da circo, e che li si frequenta non per autentica passione musicale ma per godere sadicamente al minimo errore del solista. Se non lo colgono in fallo, rimangono delusi. Per questo detestava tutto il repertorio concepito apposta per il pianoforte, musica impura, fatta per consentire ai pianisti di mettere in mostra le proprie acrobazie... Preferiva Bach a Liszt e Chopin.»

«In effetti, quando c’è un pianista sulla scena, i posti che vengono prenotati prima di tutti gli altri sono quelli da cui si possono vedere le sue mani. A me non ha mai dato fastidio. Vuoi guardarmi le mani? Voilà! Che male c’è? La gente si deve divertire. Ne ha il diritto. A volte vai a teatro dopo esserti fatto il mazzo tutta la settimana, in ufficio o in fabbrica o dove ti pare: sei stanco, la vita non è tutta rose e fiori, non è giusto che diventi una rottura di palle anche alla Scala o nelle sale da concerto. Sai cosa ho fatto io durante un concerto di gala? Un mezzo striptease. Faceva un caldo boia, sudavo, e allora mi sono rivolto al pubblico chiedendo: trovate disdicevole se mi tolgo un po’ di roba, visto che i fari mi stanno cuocendo alla griglia? In quattro e quattr’otto mi sfilo la giacca del frac, il papillon, il gilet. E sai che ti dico? Non sono stato il solo a sentirmi meglio. È stato distensivo anche per il pubblico. Hanno visto che ero una persona vera, non un manichino da vetrina, e giù applausi. E non sai quante volte l’ho fatto, ad esempio a Salamanca. Quando anni dopo sono tornato nello stesso teatro, appena entrato in scena mi hanno gridato dalla galleria: “Sácate el frac!”, togliti il frac. Forse si ricordavano più di quel gesto che della mia prestazione.»

«Togliersi qualche vestito di troppo è simpatico. Io sono andato oltre: in una serata pubblica a Cannes, durante il festival internazionale della pubblicità, stavo facendo uno speech sui problemi del nostro tempo – che io chiamo “età nuda” – e mi sono tolto via tutto, tranne le mutande. Le mie quotazioni, in termini di simpatia, sono andate alle stelle. Ma a me piace il teatro anche quando incute timore reverenziale. Sono uno di quelli che trattengono la tosse fino alle lacrime, e che prima di farsi scappare uno sbadiglio si piegano giù fino al tappeto. Una volta alla Scala ho dormito quattro ore sul Parsifal. Ho mancato di rispetto a Wagner e alla Scala. Me ne vergogno ancora adesso.»

«Non avresti dormito se durante lo spettacolo ti avessero servito cioccolata e sorbetti, come nel Sette/Ottocento. Domenico Barbaja, prima di diventare uno dei più geniali e importanti impresari teatrali della storia, iniziò vendendo cioccolata calda oppure barbajada – il prodromo del cappuccino, inventato da lui – e organizzando il gioco d’azzardo. Dove, secondo te? Alla Scala, ovviamente. E nello stesso tempio della musica, nei palchi, i “signori” banchettavano serviti da orde di camerieri. Pensa che a un certo punto il governatore austriaco dovette emanare un’ordinanza per far chiudere delle finestrelle nei palchi, visto che venivano usate per buttare sulla pubblica via i resti dell’opulenta magnata! Al San Carlo di Napoli, invece, passava l’uomo col carretto dei gelati. Si fermava la rappresentazione per suonare l’Aria del Sorbetto e permettere ai gelatai di entrare e servire il pubblico.»

«Insomma ho capito che sei quel che si dice un animale da palcoscenico. Parli con la gente, la fai cantare, scherzi, rimpiangi i gelati di Napoli, te ne freghi dell’aura...»

«Di solito i miei spettacoli durano tre ore: non sto lì solo a suonare, racconto aneddoti, cerco di presentare gli autori soprattutto come uomini, evito in ogni modo di fare didattica visto che della musica non c’è niente da capire ma solo tutto da ascoltare facendosi più o meno trasportare, mostro filmati e immagini... Sono convinto che questo metta il pubblico a suo agio, cosa che mi fa sentire tra amici.»

«Una via di mezzo tra il sacro, il jazz club e il cabaret. Sì, penso che con la musica da camera si possa fare.»

Caramella attore. Nel 1976 interpreta un prete cattolico in 1913, terza parte della trilogia L’eroe borghese di Carl Sternheim. Lo spettacolo va in scena all’Alfieri di Torino dall’11 novembre all’8 dicembre 1976, poi al Manzoni di Milano fino all’Epifania e altri quattro mesi di tournée in Italia, con la regia di Mario Missiroli e musiche di Benedetto Ghiglia. Nel cast Paolo Bonacelli, Mimmo Craig, Giuliana Calandra, Anna Nogara, Gianfranco Barra, Teodoro Cassano, etc.

Études et Préludes.


«Quando sei sotto i riflettori, non provi mai un senso di paura? Hai mai sperimentato il panico?»

«Paura no. Emozione e preoccupazione, per default. Certe volte dico a mia moglie, che da 36 anni subisce i miei sbalzi d’umore: sono troppo tranquillo e la cosa mi preoccupa. Il panico una volta sola, ne parleremo dopo. Nel 1967 ho debuttato, con altri due allievi della Maestra Golia, al circolo San Paolo di Torino di piazza Bernini, una saletta da duecento posti. Alla fine gridavano bis, bis, ma io non mi ero preparato nessun bis, pensavo che sarebbe già stato un miracolo che mi lasciassero arrivare alla fine. Con la faccia più tosta del mondo mi sono risistemato sullo sgabello e ho azzardato un pezzo che stavo ancora studiando, il Valzer in la minore opera postuma di Chopin. La fortuna aiuta gli audaci, pensavo. Ho preso tanti applausi da far venire giù la sala. E da allora lo suono quasi sempre come bis.»

Ritratto dell’artista da giovane. Caramella nel 1976, durante le prove de L’eroe borghese.

«Bella prodezza. Eri pagato?»

«No, il primo concerto pagato sarebbe arrivato tre anni più tardi...»

«Immagino che se non ti pagano puoi permetterti di fare quello che vuoi.»

«Me lo ricordo bene il primo concerto pagato, ho ancora la marchetta sul libretto Enpals.[3] Fu alla Villa Olmo di Como.»

«Ecco, tentiamo un flashback un po’ più ardito. Dove hai studiato? Come è cominciata la tua vita da pianista?»

«Sono nato in una famiglia di melomani. Nessun professionista in casa, ma la musica era ben radicata nel nostro ceppo: un piacere sublime, al quale era difficile sfuggire. Specialmente l’opera: lo capivi anche dai nomi. La mia mamma si chiamava Gioconda, sua sorella era zia Carmen, e c’era un altro zio, di nome Amelio, che tutti chiamavano Otello. Ho rischiato di chiamarmi Nabucco o Tannhäuser, mi è andata di culo.»

«Anche mio nonno paterno era patito dell’opera. Chiamò Alfredo e Mario i figli maschi, in onore di Alfredo Germont e Mario Cavaradossi.»

«Ma quelli erano solo nomi di personaggi, peraltro così diffusi da rendere poco automatico il riferimento alla fonte d’ispirazione. Mentre a casa nostra erano titoli d’opera. Come se avessero chiamato Traviato il piccolo Alfredo e Tosco il piccolo Mario.»

«E poi?»

«Ho sempre studiato privatamente, presentandomi al conservatorio di Torino per gli esami; il diploma, invece, l’ho conseguito al Paganini di Genova. Ho cominciato ai tempi delle elementari, con un maestro che si chiamava Cavatorta e dava lezioni private. Pensa un po’ che abbinata: Cavatorta-Caramella. E non era ancora niente: poi ho studiato con la Maestra Golia. Caramella-Golia, non è buffo? E fosse finita lì! Ho suonato anche con Berthilde Dufour, primo violino solista dell’Orchestra di Cannes. Duo Caramella Dufour. Aspetto con ansia di esibirmi con qualche Rossana. Però ho registrato diverse composizioni di Lorenzo Ferrero, mio compagno delle elementari, tra cui il primo Concerto per pianoforte e orchestra[4]


Torino, 1958. Riccardo Caramella (terzo da sinistra nella fila più in alto) e il compositore Lorenzo Ferrero (quinto da sinistra nella fila più in basso) in una foto-ricordo scolastica.

«A Pollini queste combinazioni non succedono. Per questo con lui non si ride.»

«Ti dicevo di casa mia. Sapevamo le opere a memoria e le cantavamo. La domenica mattina, a casa si svolgeva questo rito un po’ assurdo. Grandi e bambini cantavamo, metti, l’Aida tutta intera (genitori, zii, cugini), e io li accompagnavo al pianoforte. Che palle, per un ragazzino. Te l’immagini? Invece di andare a giocare a biglie coi compagni... Ma oggi resta uno dei ricordi più belli della mia vita, altro che i concerti al Musikverein!»

«Fino a quando è durata?»

«Fino ai dodici, tredici anni. Nel frattempo e in seguito, ero passato dal maestro Cavatorta alla maestra Roggero e da questa a Maria Golia, pianista sublime, una che da giovane rivaleggiava costantemente, ai concorsi, con Benedetti Michelangeli.»

Circolo San Paolo, Torino. Caramella al piano con la maestra Maria Golia e il marito Ugo Barbaglia, insegnante di solfeggio e armonia.

«Non bruciamo le tappe. Vai con ordine. Cosa hai imparato dai tuoi maestri?»

«Il primo mi ha dato i rudimenti, poi ho avuto una crisi di rigetto – non per il pianoforte in sé, ma per il fatto che, nell’inconscio, non provavo piacere a studiare prevalentemente brani in origine quasi sempre non pianistici: trascrizioni di opere, sinfonie... Ho detto ai miei che non volevo più saperne. “Allora restituiamo il piano che abbiamo in affitto”, dice mamma; e io tiro un respiro di sollievo, visto che avevo preso la drastica e definitiva decisione di chiudere irrevocabilmente con la musica.»

«Come ne uscisti, da quella crisi?»

«Dopo sei mesi il maledetto strumento mi mancava. Vado dai miei e dico che magari potrei ricominciare a suonicchiare, ma che non se ne parla proprio di maestri: faccio da solo. Gioia assoluta di mamma e papà che non volevano certo fare di me un professionista, ma solo iniziarmi alla musica suonata. Ed ecco che, come per magia, il giorno dopo ricompare il “mio” pianoforte, l’ormai vecchio e malato, ma inseparabile, Hartmann verticale. Era stato comprato fin dall’inizio. Quando avevo deciso di smettere era solo stato parcheggiato e revisionato presso un accordatore. Passati altri sei mesi capii da me, anche se ero solo poco più che un bambino, che non puoi suonare il piano senza una preparazione tecnica come si deve. La mia nuova maestra, la signora Roggero, mi aiutò moltissimo. Era talmente umile da avere il coraggio, in capo a un anno, di dichiarare ai miei: non ho più nulla da insegnargli, non saprei dargli di più. Pensa che persona! Così onesta da rinunciare a un cliente e soprattutto a un possibile allievo da mostrare!»

«Sembra la storia di un enfant prodige.»

«Macché prodige. Ne avevo ancora di cose da masticare, e quante! Ebbi una fortuna sfacciata. La maestra uscente (Roggero) volle accompagnare di persona mamma e me al conservatorio per la ricerca di un nuovo insegnante. E l’usciere ci dice che proprio la signora che sta passando nel corridoio, Maria Golia,[5] dà anche lezioni private. Di meglio non poteva capitarmi!»

«Parlami di lei.»

«Una pianista immensa, davvero degna di competere con Michelangeli. Purtroppo decise di ritirarsi prematuramente. Smise di suonare da un giorno all’altro per dedicarsi in esclusiva alla famiglia, al figlio. Per me è stata una seconda madre. A cinquant’anni suonati andavo ancora da lei a chiedere consigli. Qualche volta la pregavo in ginocchio di ritornare in scena, una tantum, magari con me a quattro mani o due pianoforti: macché, aveva detto basta ed era un “basta” irremovibile. Fu a casa sua che conobbi Alexis Weissenberg, Emil Gilels, Georges Cziffra e, cinquant’anni fa, incrociai per la prima volta Marisa Borini, pianista e concertista anche lei. Quando Maria Golia morì, dieci anni fa, scrissi di getto un pezzo sul Giornale della Musica, sopraffatto dalla tristezza, dalla gratitudine e dai ricordi.»

Un ricordo di Caramella sul Giornale della Musica, dedicato alla maestra Maria Golia dopo la morte di lei. 

«Immagino che il passaggio più delicato, per un musicista, sia quello dagli studi all’attività professionale vera e propria. Conosco dei giovani musicisti, fanno una fatica del diavolo per affermarsi. Era così anche ai tuoi tempi?»

«Non è stata una passeggiata. Avevo diciotto anni e mezzo quando è morto il mio papà. Per cinque anni ho fatto la doppia vita: pianista e rappresentante di materiali elettrici, in particolare della ICEL (Industria Conduttori Elettrici Lugo), cosa che mi ha fatto diventare un concorrente “temibile” di Alberto Bruni Tedeschi, presidente della Ceat. Ufficialmente sono persino stato per qualche mese un agente della B Ticino.»

Torino, 1985. I figli di Caramella, Paola e Niccolò, all’assalto dell’Hartmann di papà.

«Ce l’hai ancora l’Hartmann della tua giovinezza?»

«Sì, non potrei disfarmene. Adesso si gode la meritata pensione nella nostra casa di Torino e lo uso molto raramente. Ogni tanto lo “visita” Roberto Grosso, il tecnico e accordatore che da decenni mi segue, quando può anche in tournée. Impareggiabile nella preparazione di un piano per un concerto o una registrazione: un vero artista! Ed è anche un bravo compositore: in varie occasioni ho suonato le sue musiche o i geniali arrangiamenti che ha fatto apposta per me.»

«Spesso ci si dimentica dell’apporto e del valore dei tecnici, quando si fa musica da professionisti.»

«Proprio un paio di settimane fa è venuto apposta da Torino per seguire le registrazioni dei miei prossimi due cd, con l’ormai abituale presenza dell’amica Valérie Vuillod. Ne sono successe di tutti i colori: allarmi che suonavano, usignoli che cantavano a squarciagola proprio davanti al mio studio, aerei ed elicotteri che temevo volessero atterrare in giardino e, la vera chicca, una corda che si rompe sull’ultimo accordo del Walzer n. 2 (quello che per anni si è pensato facesse parte della Suite n. 2 per jazz orchestra, mentre sembra ormai accertato che fosse uno dei movimenti della Suite for variety orchestra) di Dmitrij Šostakovič. Devi vedere sul filmatola mia espressione... E Roberto, tanto per mettermi di buon umore, dice di non avere la corda di ricambio... C’erano ancora diversi brani da registrare!»

«Così è la vita. Siamo tutti sospesi a una corda.»

Terrore in fa diesis.


«Hai accennato all’esperienza del panico. Sentiamola.»

«Panico e praticamente disperazione ma, ancora una volta, un gran colpo di fortuna. Accadde a Miami, nel 1978. Avevo da non molto compiuto i ventisei anni, era il mio debutto negli Stati Uniti, alla Florida International University. Mi presentavo con Skrjabin, uno dei miei autori preferiti. Avevo in programma, ultimo brano del concerto fino a quel momento andato alla grande, la Sonata n. 4 in fa diesis maggiore, mirabile quanto insidiosa. È una sonata in due movimenti: dall’Andante del primo si passa senza pausa al Prestissimo volando del secondo. Tonalità di Fa diesis terrificante, numero impressionante di note da suonare, velocità spaventosa. Parto benissimo, come un treno, e all’improvviso precipito in un buco nero: vuoto di memoria. Disperato, salto a pie’ pari, ovviamente senza fermarmi, due pagine di spartito e tiro fino alla fine, sudando come un condannato a morte. Il pubblico sembra non accorgersi della catastrofe. Scatta l’applauso, mi alzo e scappo in camerino mentre quelli applaudono in standing ovation. In camerino piango, stordito, per non so quanti minuti e non ritorno in scena malgrado le richieste fragorose e incessanti di bis. Toc toc. Bussano alla porta.»

«Il Commendatore venuto a regolare i conti con Don Giovanni...»

«No, tre angeli scesi dal cielo. Emil Gilels, Rudolf Serkin e Artur Rubinstein.»

«Non ci credo.»

«Ci devi credere, invece. Anche se è la cosa più magica che mi sia mai capitata. “Perché sei scappato?”, domanda Gilels. “Di là ti stanno ancora applaudendo.” E io: “Ho sbagliato tutto, la mia carriera è irrimediabilmente finita.”»

«Ma tu che ci facevi a Miami, tra quei mostri sacri?»

«Erano anche loro a Miami per un festival internazionale e credo che fossero nella stessa università per un simposio o qualcosa del genere. Ma stammi a sentire, adesso viene il bello.»

«Vai avanti, sono sulle corde.»

«Emil Gilels, il mio idolo assoluto, l’inarrivabile Gilels che avevo avuto l’immenso piacere di conoscere dalla Maestra Golia, mi mette una mano sulla spalla e mi regala la più grande lezione di sempre. Mi dice: “Il giorno che smetterai di fare questi sbagli, smetti di suonare perché non sarai più un artista.”»

«Ti fece capire che gli artisti non sono macchine, e le macchine non sono artisti.»

«Paradossalmente, quell’errore fu il mio colpo di culo. Mi insegnò che sbagliare è umano. Come ho sempre detto, per il pubblico può diventare una fortuna essere presente quando una ballerina cade, un tenore stecca, un pianista parte per la tangente. Se in scena c’è un artista di valore, lì scatta la reazione e la ricerca della riscossa e gli spettatori potranno ascoltare e vedere qualcosa di veramente eccezionale e irripetibile.»

«The show must go on.»

«Soprattutto must go on per l’artista. Se dovesse non riprendersi e mollare sarebbe la fine per lui, ben più che per il pubblico. In ogni caso ognuno di noi sa che l’errore è inevitabile, e deve imparare a conviverci. Il che non vuol dire che devi prenderla alla leggera, anzi.»

«Peccato che siamo al telefono. Vorrei stringere la mano che ha stretto quella di Gilels, Serkin e Rubinstein.»

«Te l’ho detto della stretta di mano con Karajan?»

«No.»

Maestoso.


«Credo sia successo quello stesso anno. Ero in tournée per l’Italia e mi trovavo a Palermo. Un recital nella discoteca universitaria. Non la discoteca con le cubiste, beninteso, ma l’archivio sonoro dell’ateneo, situato in una chiesa sconsacrata. C’erano migliaia di lp. Guarda caso, Karajan era a Palermo anche lui. Aveva diretto qualcosa al Teatro Massimo il giorno prima del mio recital e doveva tornare subito a Berlino; ma per uno dei soliti scioperi (la sola astensione dal lavoro del personale Alitalia che mi è rimasta nel cuore) era rimasto bloccato in città un giorno di più. La sera, furibondo e non sapendo che cazzo fare, va a spasso, arriva alla bella chiesa illuminata e entra per curiosare dove sto suonando io, che continuo tranquillo e sereno, non sapendo che in sala c’è Lui. Dunque figurati la sorpresa quando, finito lo spettacolo, me lo vedo apparire in camerino.»

«Non vale. La fortuna ha un debole per i tuoi camerini.»

«Puoi ben dirlo. E pensa che anche quella sera finivo il concerto, lo giuro, con la Quarta di Skrjabin. Bussa, apro, mi tende la mano e mi fa: “Buonasera, sono Herbert von Karajan”, come se mi potesse succedere di scambiarlo per qualcun altro.»

«Un rappresentante della B Ticino.»

«Si congratula con me e mi dice: “Penso che lei suonerebbe benissimo in duo con Leon Spierer; mi lasci il suo numero di telefono.”»

«Sarai svenuto per l’emozione. E poi?»

«Saluta e se ne va.»

«Tutto qui?»

«Aspetta. Il giorno dopo suono a Catania e poi parto per Bari, dove mi aspettano al Petruzzelli. Quando sono in tournée, la prima cosa che faccio è raccomandare al portiere dell’albergo di non passarmi telefonate per nessun motivo prima dello spettacolo. Prima del concerto il letto è la sola cosa che m’interessa. E invece, quel pomeriggio, drin drin.»

«Karajan?»

«No. Il centralinista si scusa. Dice che non si sarebbe permesso di disturbare se in linea non ci fosse stata mia madre. Per una comunicazione urgentissima. Mi metto in allarme. Mamma sapeva benissimo che prima di ogni concerto ero in uno stato comatoso. Dunque penso: deve essere successo qualcosa di grave.»

«Invece?»

«Mamma dice che mi ha cercato un certo Mattoni da Berlino, per conto di Karajan (i giovani si chiederanno perché chiamassero mia madre... non esistevano ovviamente i cellulari e avevo lasciato quindi il numero di casa di Torino). Sembra una cosa importante, dovrei richiamare. A quei tempi non era così facile districarsi alla svelta con le telefonate internazionali. Cincischio fra centralini, prefissi, linee occupate. Finalmente ce la faccio. Mattoni vuol sapere se sono libero in aprile per incontrare Spierer, primo Konzertmeister dei Berliner Philharmoniker. Per Karajan avrei disdetto anche un impegno in paradiso, ma da bravo sbruffone dico con nonchalance: “Guardo l’agenda.”»

«E ci andasti?»

«Di corsa. Feci una prima prova con Spierer e il mitico Maestro fece varie apparizioni nella sala dove ci avevano sistemato.»

«Non sapevo che Karajan sovrintendesse personalmente anche alle attività cameristiche dei membri dell’orchestra.»

«In quel caso si trattava del leader dei Berliner, non di uno qualsiasi. Spierer era una specie di braccio destro per il Maestro. O almeno così mi parve. E non credo sovrintendesse, ma che magari desse consigli.»

«E come andò a finire?»

«Nacque subito una magnifica intesa, musicale e personale con Leo (ormai potevo chiamarlo così, risparmiando la n). Dopo qualche tempo, Spierer ed io partimmo per una lunga tournée.»

Arezzo, 13 aprile 1980. Il violinista Leon Spierer, all’epoca primo Konzertmeister dei Berliner Philharmoniker, in duo con Riccardo Caramella.

«Com’era, Karajan?»

«Severo e di poche parole, ma gentile, per il poco che l’ho visto.»

«Il duro di Berlino. E cosa suonavi con Spierer?»

«Il programma cominciava con due sonate di Pergolesi: la n. 1 in sol maggiore e la n. 12 in mi maggiore. Proseguiva con la Suite italienne di Stravinskij, più nota nella versione originale per orchestra, quella in forma di musica di scena per il balletto Pulcinella. Il lavoro di Stravinskij prendeva le mosse proprio dai temi principali di quelle due sonate di Pergolesi, citate in modo esplicito nella suite del balletto e nelle conseguenti versioni da camera. Si finiva con la Sonata n. 2 in re minore, op. 121 di Schumann. Lidia Palomba pubblicò sulla Gazzetta del Popolo una recensione di cui ancora ricordo il titolo: Chiare, fresche e torbide acque. Pergolesi la chiarezza, Stravinskij la freschezza, Schumann il torbido.»

«Qual è stato il tuo primo disco?»

«Un long playing con il Pražák Quartet, nel 1984. Registrammo il Quintetto per pianoforte e archi in la maggiore,op. 81 di Dvořák.»


Caramella in due concerti con il Pražák Quartet, fondato a Praga nel 1972. In alto a Bergamo, il 28 gennaio 1982; in basso a Gorizia, nel 1985. All’epoca, il quartetto era formato da Václav Remeš, primo violino; Vlastimil Holek, secondo violino; Josef Klusoň, viola; Josef Pražák, violoncello.

Finale: presto.


Starei volentieri al telefono fino a domani con Caramella. Il suo serbatoio di memorie, di aneddoti, di divagazioni, è straripante. E la sua conversazione è un contagioso allegro con brio che ti fa scordare l’orologio. Puoi ascoltarlo per due ore filate senza perdere la sensazione di stare ancora all’ouverture. Se hai il vizio del fumo e hai finito le sigarette, capisci che è tempo di accelerare.

«Scusami Riccardo, sto prendendo appunti e ho finito la carta. Peggio: ho esaurito anche la mia riserva di memoria e non vorrei trovarmi anch’io, poi, in piena sindrome di Miami, anche se la mia tastiera è solo quella del computer. Perciò devo saltare non due ma duecento pagine, e volare di corsa alla fine. So che di recente hai dato l’addio ufficiale alle scene, ma non ti ci vedo a giocare a golf tutto il tempo...»

«Non parlarmi di golf. Era il mio sfizio. Ho dovuto mollarlo cinque anni fa a causa dell’ernia del disco.»

«Del disco. Ti pareva. La musica ti attacca pure alla schiena. Dimmi cosa fai. Non ce l’hai anche tu qualche onlus di cui occuparti? Io mi do da fare per un’associazione benefica che si occupa di tumori.»

«Odio la parola beneficenza, preferisco solidarietà. Ho collaborato spesso con diverse grandi istituzioni. Nel 1991, per esempio, ho fatto una quarantina di concerti in una decina di paesi a fianco dell’Unicef, più due long playing e due cd (allora si stampavano entrambi) per la diffusione della Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia. Ma poi mi sono convertito alle organizzazioni microscopiche: mi piace vedere con i miei occhi dove vanno a finire i soldi che il pubblico, la gente, gli sponsor mi affidano. Risultati modesti ma tangibili, visibili come il pulmino che ho procurato al comune di Mandelieu per il trasporto di disabili e anziani. Un’associazione che mi sta molto a cuore è Rêves, che provvede a realizzare i sogni dei bambini seriamente malati. Per esempio nuotare a cavallo di un delfino.»

«Insegni?»

«Assolutamente no, anche se qualche volta ho partecipato da docente a delle master class. Ma ho smesso. Non ho mai creduto ai corsi di perfezionamento tenuti da insegnanti che vanno e vengono. L’unico che può aiutarti a migliorare è il tuo maestro abituale, perché conosce tutto di te.»

«Passiamo all’Album fur die Jügend. Che consiglio daresti ai giovani in uscita dai conservatori? Ne conosco alcuni di talento notevole – pianisti, violinisti, persino un sassofonista – che hanno già all’attivo premi internazionali, e che se fossero cinesi avrebbero già le agende in ebollizione e un contratto a vita con la Deutsche Grammophon. Ma quanto alla carriera, sono ancora alla fase uno.»

«Sai cosa facevo nelle master class? Dopo un po’ di musica dicevo: basta. Adesso vi insegno come si fa a scrivere una lettera, un programma, un curriculum. Non so se sono migliorati nel frattempo, ma i conservatori sfornavano ragazzi in grado di suonare ma incapaci di muoversi sul pianeta Terra. Alieni sprovvisti di nozioni elementari come le regole dell’autopromozione e, spesso, persino del bagaglio culturale indispensabile per contestualizzare la musica e afferrarne il senso profondo. Come fai a capire l’Ottocento tedesco se non sai niente dello Sturm und Drang, o Debussy se non conosci l’impressionismo? Che ne sai di Chopin se non hai mai letto né I dolori del giovane Werther Le ultime lettere di Jacopo Ortis? Le lingue, poi: zero. Come pensi di affrontare una cena col direttore spagnolo di un teatro, o col direttore francese di una società di concerti? E anche se quel direttore fossi io, italiano, perché mai dovrebbe affascinarmi un curriculum uguale a mille altri? Perché mi fai sapere che sei capace di suonare il Chiaro di luna di Beethoven o il Concerto in la minore di Schumann? È ovvio che devi conoscerli!Ce ne sono mille altri che propongono le stesse pagine, quelle di sempre. Se invece scrivi al responsabile di un’orchestra per dirgli che hai in repertorio il Concerto in sidi Domenico Puccini, il nonno di Giacomo, o il Concerto in la minore per pianoforte e archi di Mendelssohn, desti curiosità e attenzione, perché è roba che non suona nessuno.»

«Immagino che oltre a registrare musiche poco frequentate, come il Fiume Giallo, ti sia capitata anche qualche prima mondiale.»

«Proprio il concerto di Mendelssohn che ho appena menzionato, per esempio. E altre cose ancora, tra cui la Fantaisie pastorale di Milhaud. Ecco, a proposito di Milhaud: 1992, era il suo centenario e avevo scoperto che la Fantaisie pastorale non era mai stata incisa. Ne parlai subito con Philippe Bender, per tanti anni direttore dell’Orchestra di Cannes con la quale avevo fatto molte tournée. Aggiungemmo il Carnaval d’Aixe un altro inedito, il Concertino per trombone, ed ecco che il disco era fatto. Sponsorizzato da Lavazza e Continente: avevano intuito entrambi che ne sarebbe nato un po’ di rumore. Grazie ai due inediti, infatti, tutti i giornali e le riviste specializzate ne parlarono a profusione e, per fortuna, entusiasticamente.»

Cannes, Noga Hilton, 29 maggio 1992. Registrazione di un album con musiche di Milhaud nel centenario della nascita del compositore. Riccardo Caramella con l’Orchestre régional de Cannes-Provence-Alpes-Côte d’Azur diretta da Philippe Bender.

«Dicevi che agli studenti insegnavi a scrivere lettere...»

«Questo io facevo: scrivevo lettere, lettere, lettere e – quando lo hanno inventato – spedivo fax, fax, fax (adesso c’è anche l’e-mail, dovrebbe essere più facile). E avanzavo proposte insolite di programmi. Tormentavo i destinatari della mia corrispondenza fino al punto che uno di loro mi rispose: “Le mando il contratto e poi venga a suonare, così finalmente la smetterà di scrivermi e telefonarmi.” E a quei tempi non c’era nemmeno il conforto della fotocopiatrice e del computer, con i suoi meravigliosi copia-incolla: olio di gomito, Lettera 22 e bianchetto sempre a portata di mano.»

«Non so se lo sai, ma ho fatto per quattro anni il corrispondente epistolare in un ufficio della Mondadori, negli anni sessanta. Penso di aver sfornato non meno di settantamila lettere. L’uso del bianchetto era assolutamente proibito.»

«Io ce l’avevo ma lo usavo di rado, solo nei momenti di disperazione. A ogni errore di battitura, il foglio finiva accartocciato nel cestino e si ricominciava da capo.»

«Con un’imprecazione per contrappunto. Chissà se i nostri giovani lettori hanno mai sentito parlare del bianchetto.»

«Il telefono poi. Quante notti mi è toccato di star sveglio a torcermi le mani, in attesa che il 15 o il 170 mi passassero la chiamata che avevo richiesto per un paese estero. E quando finalmente il centralinista mi metteva in contatto col numero, la persona non c’era più!»

«Dal bianchetto alle notti in bianco. Altri tempi.»

«Questo è il mio consiglio ai ragazzi: studiate lo strumento per qualche ora in meno e investite il tempo risparmiato in autopromozione. Dovete imparare a sedurre chi ha il potere di darvi del lavoro.»

«Leccare il culo?»

«No, quello mai e poi mai! Io ho sgomitato tantissimo, ma sono orgoglioso di avere la lingua ancora pulita. E di essere stato alla larga dai politici. Ciò che voglio dire è questo: il talento artistico comincia a rendere qualcosa solo a condizione di farlo conoscere. Suonare benissimo è inutile se il solo a saperlo sei tu. E per farti conoscere, devi applicare qualche regola di marketing e comunicazione. Non vendere le cose che vendono tutti, vendi qualcosa che tieni in pugno solo tu. Fai delle ricerche, appropriati di un repertorio alternativo, esplora tutti i modi possibili per far sapere al prossimo che al mondo non ci sono solo i notturni di Chopin, e che hai in tasca cognizioni e pagine di musica che potrebbero rinfrescare i soliti programmi e aiutare chi li organizza a fare cultura.»

«Detto così, sembra un po’ cinico.»

«No, è solo pratico. E sincero. Col mercato della musica devi farci i conti, se vuoi entrarci e restarci; l’idealismo del sognatore serve, ma non basta. Sai quanto guadagna un agente? Il 15% del compenso dell’artista. Se un agente si sbatte per un semi-esordiente, sa già a priori che porterà a casa qualche briciola, talvolta persino insufficiente a coprire le spese. Molto più facile e redditizio occuparsi di artisti affermati con cachet importanti. Qualche volta scommette su qualcuno, più per passione che per calcolo. Succede molto di rado. Sono stato agente anch’io, in passato, perché pur di stare nel mondo della musica ho fatto di tutto. Quando nel 1980, sul lago Balaton, mi sono imbattuto negli allora sconosciuti ragazzi del Pražák Quartet, coi quali ho poi fatto più di 25 anni di concerti, mi son detto: questi sono dei giganti, prima o poi li porto alla Scala,li devo assolutamente piazzare. E tanto mi sono sbattuto che ci sono riuscito! Dove sta il calcolo? Dove sta la passione? Non sono due facce della stessa medaglia?»

«Doveva essere un finale-presto, ma sta diventando un lentissimo. Colpa mia: non voglio saltare nessuna delle cose che dici. Ma adesso dobbiamo proprio tirar giù il sipario, è ora di cena, Rossini ci aspetta. Dai, passami una bella frase di chiusura.»

«Non sono né Rubinstein né Kempff, ma suonando tutto ciò che loro non suonavano sono riuscito a crearmi un mio cantuccio nel mondo della musica. E questo ha fatto di me un uomo artisticamente fortunato e felice.»

© Pasquale Barbella







[1] Pubblicata per la prima volta nel 1946, è stata ristampata da Einaudi nel 1963, in una nuova edizione revisionata e arricchita da aggiunte e aggiornamenti.
[2] Harold C. Schoenberg, The Lives of the Great Composers, ed. it. I grandi musicisti, trad. Vittorio Di Giuro, consulenza musicale di Guido Salvetti; Milano: Mondadori, 1972.
[3] L’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo (Enpals), le cui funzioni sono state assorbite dall’Inps del 2011.
[4] Con l’Orchestra da Camera di Praga, Nuova Era, 1991 e con la Slovenian RTV Symphony Orchestra, BMG Ricordi, 1997.
[5] Maria Golia (Napoli 1916-Torino 2006) aveva studiato con Luigi Finizio ed è stata una delle più importanti pianiste del dopoguerra. Docente per oltre trent’anni al conservatorio Verdi di Torino, è stata presidente onoraria dell’Epta (European Piano Teachers Association). Fra i suoi allievi anche Antonio Bacchelli, Annamaria Cigoli, Marisa Borini, Francesco Cipolletta, Luca Rasca.

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Panna e cioccolata alla Scala
di Riccardo Caramella

Oggi si assiste a uno spettacolo come a un rito. Si sta in silenzio, si protesta contro il vicino che scarta rumorosamente una caramella, ci si alza solo negli intervalli.

Tutt’altro atteggiamento vigeva nel Settecento. L’opera era il pretesto per ritrovarsi. Era uno dei motivi di attrazione, certamente non il principale come ha giustamente rilevato Francesco Milizia:

«Chi discorre, chi gira il capo in qua e in là, chi legge, chi sbadiglia, e v’è anche chi dorme. Il contorno è in gran parte da fondo a cima tutto bucato di cellette e in ciascuna è annicchiata almeno una donna circondata da un ronzio d’uomini armati tutti di telescopi che servono loro come di bussola per saltare da cella in cella, cicalando, mangiando sorbendo, giuocando... E l’Opera, la grande Opera dov’è? Colà in fondo e di là da quella doppia batteria di strumenti veggonsi muovere e andar avanti e a dietro alcune figure in abiti straordinari non mai usati da alcun popolo e ciascuna così ingioiellata che tutti insieme i sovrani del mondo non posseggono tante gemme. Da quelle strane figure si sente talvolta trapelare qualche esilissima voce, non si odono giammai parole, si veggono dei moti, ma mai gesti. L’Opera va alle stelle se nelle quattro o cinque ore della sua durata la maggior parte degli spettatori (giammai tutti) dà segno di voler ascoltare quel che per un quarto d’ora canta un solo, o un paio degli attori. Questo silenzio è seguito da un solenne sbattimento di mani e da qualche urlo della civilissima udienza, inventrice di questo antisonnifero.»[1]

Pompeo Mariani, Palco alla Scala, 1900 circa, olio su cartone. 

A teatro, dunque, si chiacchierava, si rideva, si amoreggiava, si beveva e si mangiava. Nel suo divertente Teatro alla moda Benedetto Marcello, a proposito del «Conduttore del botteghino», propone il seguente elenco di generi alimentari in vendita: «Caffè meschiato con orzo, fava e pan brustolato ecc.; rosolini di varie sorti e con varj i nomi, formati tutti però d’acqua vita ordinaria e miele solamente; sorbetti con spirito di vetriolo per limoni impetriti con salnitro o cenere invece di sale; cioccolata composta di zuccaro, canella matta, mandorle, ghiande e caccao selvatico ecc.»[2]

Nella tipologia delle arie esisteva la cosiddetta «aria del sorbetto»: si trattava di un brano affidato in genere a un personaggio di secondo piano, durante la cui esecuzione il pubblico, evidentemente non interessato ad ascoltare, approfittava per dissetarsi, gustando, magari, un sorbetto.

A Napoli, nella sera del ballo, nel palco reale e in quelli circostanti veniva servita una cena completa; gli spettatori discorrevano con gli attori e per applaudire gettavano confetti. A Firenze se qualcuno dalla platea protestava per il chiasso rischiava di vedersi arrivare addosso gli avanzi della cena.

Qualcosa di analogo poteva accadere a Venezia, secondo una testimonianza di Riccoboni: «Gli uomini e le donne che vogliano prendere posto sulle sedie della platea badino bene a non indossare bei vestiti: l’abitudine che vige di sputare dai palchi sulla platea e di gettarvi i resti di ciò che si è mangiato rende questi posti molto sgradevoli.»[3]

Sempre a Venezia, alcuni palchi potevano addirittura essere chiusi con imposte dal lato della sala, in modo da salvaguardare l’intimità degli occupanti senza disturbare orecchie troppo sensibili. Là come altrove il palco era una sorta di seconda casa delle famiglie aristocratiche. A Milano ciascuno poteva sistemarlo, decorarlo, tappezzarlo e arredarlo secondo il proprio gusto. Un andirivieni continuo di domestici animava i corridoi retrostanti i palchi, dove erano allestiti buffet colmi di vettovaglie; in appositi sgabuzzini venivano scaldate vivande raffinate. Il risotto, in certe serate, non poteva mancare. Si cucinava, si scaldava su fornelletti sistemati nei retropalchi e si buttavano i rifiuti dalle finestrelle che si affacciavano direttamente nelle straduzze adiacenti.

«Alla Scala si giocava, e molto. Alessandro Manzoni andava nel ridotto per giocare d’azzardo (durante l’occupazione napoleonica il bilancio era aiutato dai tavoli della roulette). Nei saloni del ridotto la bassetta e il biribissi erano i più gettonati: la posta in gioco sempre molto alta, l’azzardo funzionale agli impresari scaligeri per il raggiungimento del pareggio in bilanci troppo spesso fallimentari. A nulla valsero grida e decreti che tentarono di porre termine a questa pratica.» (Giorgio Dell’Arti sul sito Cinquantamila giorni del Corriere della Sera). Nell’immagine: Francesco Hayez, Ritratto di Alessandro Manzoni, 1841. Milano, Pinacoteca di Brera.

«Ogni palchettista che aveva acquistato gli angusti muri di un palco e un retropalco poteva predisporre gli arredi che preferiva e fregiare l’architrave che dava sulla sala con il proprio stemma», ha scritto Giampiero Tintori. «Ancor oggi nei retropalchi della Scala esiste uno specchio applicato ad uno sportello che cela un finestrino. Attraverso questo finestrino che un tempo dava su una via, passava il tubo della stufa allestita per cuocere le vivande (il mitico risotto) ma potevano anche venir scaricati gli avanzi che piovevano in testa allo sprovveduto passante escluso dai fasti scaligeri.»[4]Tale usanza provocò subito qualche protesta tanto che il 15 settembre 1778, poco più di un mese dopo l’inaugurazione del teatro, apparve il seguente avviso: «Per maggiore pulizia del teatro ed anche per impedire che possa gettarsi dalle finestre dei camerini acqua ed immondizie per cui non solo restano imbrattati i muri esterni e venga tramandato cattivo odore; come per evitare altri inconvenienti che potrebbero accadere alli passeggeri e carrozze che si appostano al di sotto, sarebbe desiderabile che si facesse apporre una piccola grata di ferro alle finestre di ciascun camerino».

Ancora alla Scala, il 22 dicembre 1789 veniva pubblicato un avviso nel quale erano contenuti quattordici articoli relativi al regolamento teatrale. Il settimo recitava: «Si richiama pure alla piena osservanza il paragrafo 9 del predetto Editto 22 dicembre 1773, con cui viene proibito l’introdurre in teatro per commercio rinfreschi, bevande, comestibili o altri articoli sotto le multe in esso comminate.»[5]E il tredicesimo ribadiva: «Siccome poi l’esperienza ha dimostrato che non ostanti gli ordini già emanati per la nitidezza e salubrità dei teatri si fanno lecito alcuni di gettar acqua ed altre immondezze fuori de’ luoghi a ciò destinati, come pure di vuotar vasi producenti pessime esalazioni, e di pulire i palchi e camerini nelle ore prossime all’aprimento della scena con incomodo dei concorrenti, così si avverte ciascuno di astenersi di dar causa a siffatti inconvenienti, e si previene che restano destinate persone a vegliare contro simili trasgressioni, onde scoprirne gli autori; quali saranno immediatamente castigati o col discacciarli dal teatro, o altrimenti a misura delle circostanze.»[6]

Domenico Barbaja in un ritratto di autore ignoto.

Proprio alla Scala (come nei salotti e nei caffè cittadini), negli anni successivi, avrebbe fatto furore la barbajada, inventata da Domenico Barbaja, il più potente impresario del primo Ottocento che nel teatro milanese aveva esordito, dopo aver fatto per anni il garzone di caffè, come gestore dei giochi d’azzardo durante la dominazione francese. La barbajada era una gustosa miscela di panna, caffè e cioccolata.

R.C.

Barbajada. Dal sito Giallo Zafferano.
_____________

Riccardo Caramella è un pianista torinese che vive in Francia, a Mandelieu-la-Napoule. A Dixit Café ha rilasciato un’intervista che nessun curioso della musica dovrebbe lasciarsi scappare. Leggila qui.




[1]Francesco Milizia, Del teatro, Roma, 1771.
[2]Benedetto Marcello, Il teatro alla moda, Venezia, 1720.
[3]Louis (Luigi) Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe, Parigi, 1738.
[4]Tintori (1921-1998), musicologo e compositore, è stato direttore del Museo teatrale alla Scala e ha pubblicato numerosi saggi, tra cui alcuni dedicati al tempio milanese della musica.
[5]In: John Rosselli, L’impresario d’opera, Torino: EDT, 1985.
[6]In: J. Rosselli, ibidem.

Diario di spettatore

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Hossein Abedini in Baran.
Facce indimenticabili.

Hossein Abedini è il giovane protagonista di Baran (2000), capolavoro del regista iraniano Majid Majidi premiato a suo tempo al Festival di Montréal. L’adolescente Latif (Abedini) fa il manovale in un cantiere di Teheran, ai comandi di un capo (Mohammad Amir Naji) che paga i suoi uomini quando può e quando vuole. Estroverso e intraprendente com’è, il ragazzo è riuscito a ottenere qualche privilegio da mascotte: provvede agli acquisti e alla cucina del cantiere, mansioni che gli consentono di sgobbare un po’ meno. Ma quando uno degli operai afghani, reclutati clandestinamente e sottocosto, si rompe una gamba per un incidente sul lavoro e rischia di attirare sul cantiere l’attenzione delle autorità, le fortune di Latif cessano di colpo. Il capocantiere è costretto ad assumere il figlio del muratore ferito, un minorenne inadatto ai lavori faticosi al quale, per calcolo o pietà, viene concesso il ruolo che apparteneva a Latif. Il piccolo intruso conquista la simpatia e la gratitudine di tutti, grazie alla qualità del suo tè e dei suoi servizi, così suscitando l’ira feroce dello spodestato Latif. Ma i sentimenti di quest’ultimo virano all’improvviso dal rancore alla passione, quando – lui solo – scopre che il rivale è una ragazza travestita da maschio, Baran (Zahra Bahrami). Di qui parte una delle più belle storie di amore impossibile mai viste al cinema. Latif non può avvicinare direttamente Baran, a causa dei divieti imposti dal rigore islamico; ma rinuncia per lei al denaro guadagnato in un anno di lavoro, e persino alla propria identità, vendendo i propri documenti ai falsari che speculano sui rifugiati afghani. Strepitoso e poetico neorealismo mediorientale, vivace e commovente come nei migliori film di De Sica. Dietro la romantica e silenziosa love story tutti gli spettri della contemporaneità: la guerra in Afghanistan, la condizione dei migranti, lo sfruttamento degli indifesi, i tabù dell’integralismo islamico. Majidi maneggia questa materia incandescente con grazia e leggerezza, strappando allo spettatore più sorrisi che lacrime. Un film autentico e creativo, da recuperare. Io me l’ero perso, e ho avuto la fortuna di ripescarlo su Sky.

Abbas Kiarostami.
Una camicia al vento.

Il 4 luglio è morto di cancro a Parigi, a settantasei anni, Abbas Kiarostami, gloria del cinema iraniano e di molti festival occidentali. Era un artista poliedrico: regista, sceneggiatore, montatore, poeta, fotografo, pittore, scultore, grafico, illustratore, pubblicitario. Tra i suoi film più acclamati Il viaggiatore (1974), Close up (1990), Il sapore della ciliegia (1997). Si ispirava anche lui, come altri cineasti del suo paese, al neorealismo italiano. Nel 2003 Einaudi ha pubblicato una sua raccolta di versi, Un lupo in agguato, nella traduzione di Riccardo Zipoli. Sembrano poesie giapponesi. Eccone una:

Il vento porterà con sé
i fiori del ciliegio
sino al biancore delle nubi.

È una bandiera di libertà
la mia camicia
sul filo della biancheria,
leggera e libera
dai legami del corpo.

Christian Bale in I fiori della guerra.
Fiori di guerra.

In soli dieci anni, dal 2005 al 2015, Christian Bale si è visto in una ventina di film. Ha lavorato con Christopher Nolan (Batman Begins, The Prestige, Il cavaliere oscuro, Il cavaliere oscuro – Il ritorno), David Ayer (Harsh Times – I giorni dell’odio), Terrence Malick (The New World – Il nuovo mondo, Knight of Cups, Weightless), Werner Herzog (L’alba della libertà), James Mangold (Quel treno per Yuma), Todd Haynes (Io non sono qui), McG (Terminator Salvation), Michael Mann (Nemico pubblico – Public Enemies), David O. Russell (The Fighter, American Hustle – L’apparenza inganna), Zhang Yimou (I fiori della guerra), Scott Cooper (Il fuoco della vendetta – Out of the Furnace), Ridley Scott (Exodus – Dei e re), Adam McKay (La grande scommessa), Terry George (The Promise), Andy Serkis (Jungle Book). Nel film cinese I fiori della guerra (vedi foto sopra) è un avventuriero che sbarca il lunario a Nanchino truccando i cadaveri per l’inumazione. Nel 1937 si trova nel bel mezzo della guerra sino-giapponese, quando la città soccombe al nemico; rifugiato nel convento di una missione, rinuncia al suo egoismo e tenta – travestito da prete cattolico – di salvare le educande dallo stupro e dall’assassinio dell’invasore. Ci riuscirà grazie a un manipolo di prostitute coraggiose. Anche il primo film importante di Bale, L’impero del sole, si svolgeva in Cina durante l’invasione giapponese. Nel film di Steven Spielberg (1987) l’attore aveva tredici anni.



Cate Blanchett in tre momenti di Manifesto.
Blanchett da museo.

Cate Blanchett non sta un minuto ferma, ed è sempre un piacere rivederla. Negli ultimi dieci anni ha lavorato con Rowan Woods (Little Fish), Alejandro González Iñárritu (Babel), Steven Soderbergh (Intrigo a Berlino), Richard Eyre (Diario di uno scandalo), Todd Haynes (Io non sono qui, Carol), Shekhar Kapur (Elizabeth: The Golden Age), Steven Spielberg (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo), David Fincher (Il curioso caso di Benjamin Button), Ridley Scott (Robin Hood), Joe Wright (Hanna), Peter Jackson (Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, Lo Hobbit – La desolazione di Smaug, Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate), Woody Allen (Blue Jasmine), George Clooney (Monuments Men), Terrence Malick (Knight of Cups, Weightless), Kenneth Branagh (Cenerentola), James Vanderbilt (Truth: Il prezzo della verità), Julian Rosefeldt (Manifesto), Andy Serkis (Jungle Book). Nelle foto sopra: Manifesto di Rosefeldt (2015) è un film-installazione multischermo, prodotto da Australia e Germania, in cui Blanchett interpreta tredici diversi personaggi di manifesti. Rosefeldt è un artista tedesco e il suo Manifesto non gira nelle sale cinematografiche, ma nei musei e nelle accademie di arte contemporanea.


Bud Spencer con e senza Terence Hill.
Tra la birra e Spencer Tracy.

Carlo Pedersoli, morto il 27 giugno 2016, sarà ricordato più come Bud Spencer, Bambino e Piedone lo Sbirro che come campione di nuoto, sebbene in gioventù sia stato primatista italiano di stile libero. Eccolo in due ritratti che riassumono la sua biografia pubblica: nuotatore a farfalla nel 1950 (irriconoscibile senza la barba e i chili di poi) e al fianco di Terence Hill, compagno di spacconate per grandi e piccini. Per il nome d’arte si ispirò a una famosa birra americana (Budweiser) e a uno dei suoi attori preferiti, Spencer Tracy. Al cinema ha fatto la felicità di un paio di generazioni, diventando un’icona dello spaghetti western nella sua versione più goliardica. Era una comparsa in Quo vadis? di Mervyn LeRoy (1951) e sfondò con Lo chiamavano Trinità di Enzo Barboni (1970), in coppia con Terence Hill (Mario Girotti). Non ha mai lavorato con Sergio Leone.

P.B.



Colla, bisturi e Cow Boys

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Un artwork ai tempi della Cow Gum.

Tributo a un leggendario studio milanese specializzato nella preparazione 
dei materiali pubblicitari destinati alla stampa

La colla, il bisturi e l’arte dei Cow Boys
di Daniele Cima


1972. Beppe Mazzetti ha sedici anni e trascorre le sue giornate bighellonando e giocando a carte e a calcio-balilla al bar che è sull’angolo tra viale Montenero e via Spartaco, a Milano.

A suo modo è un professionista, gioca e scommette su se stesso con l’obiettivo di mettersi in tasca i soldi per fumare Marlboro e frequentare esclusivamente cinema di prima visione, in centro-città.

Ha il pallino della qualità, dell’eccellenza, ama il bello ed è anche un po’ sbruffone, da buon interista.

Non è l’inizio della biografia di un delinquente pluri-pregiudicato, ma di colui che avrebbe dato vita al più blasonato studio di artwork d’Italia, i leggendari Cow Boys.

Beppe viene strappato al vizio da Aldo Vendrame, titolare dello Studio Executive, situato nell’elegante Foro Bonaparte, al numero 53.

È uno studio grafico in cui si realizzano gli esecutivi per la stampa degli annunci pubblicitari, dei poster, dei folder, dei cataloghi, delle locandine eccetera eccetera.

Si lavora con strumenti molto diversi da quelli attuali: copie fotografiche su carta, patinate con caratteri tipografici, cartoni Schoeller, righe, squadre, bisturi, Cow Gum, paletta e “caccola”.

Quest’ultima è una palla ottenuta amalgamando le eccedenze di colla Cow Gum: più è grande, più è elevata l’anzianità e il prestigio professionale del suo fortunato possessore. La sua funzione è di ripulire i cartoni Schoeller dalla colla che vi era stata spalmata (con la paletta) in eccesso. Più si pulisce, più cresce la dimensione della caccola. Ogni designer è gelosissimo della sua caccola, talvolta più di quanto lo sia della fidanzata.

Beppe piomba in questo ambiente a lui totalmente sconosciuto e ovviamente vi entra dal gradino più basso, dalla camera oscura. È un pianeta senza luce in cui si è rinchiusi dalle nove del mattino fino a molte ore dopo che l’oscurità è arrivata oltre la sua porta.

1975. Beppe Mazzetti.

Non ci sono regole, non ci sono orari, non c’è pausa pranzo, non ci sono ridicole norme sindacali: non c’è niente, c’è solo il lavoro, che deve essere fatto in fretta, ma bene, possibilmente meglio.

Dentro la camera oscura ci sono quattro lampade da 500 watt l’una, che servono a effettuare le riprese fotografiche di marchi, scritte, caratteri. Quando vengono accese il caldo è tremendo: Beppe lavora a torso nudo, come certi giovani eroi immortalati dalla Riefenstahl negli anni del nazismo.

Per fortuna allora il nostro campione non aveva ancora la panza di cui il successivo benessere gli ha fatto dono.

Dopo sei mesi di questa vita, passa tra i designer e comincia a maneggiare il bisturi e le squadre, che nel tempo diventeranno le armi destinate a renderlo imbattibile.

Quattro anni dopo – siamo nel 1976 – arriva allo Studio Executive un altro sedicenne, Filippo Danisi, che ripercorre il medesimo cammino di Beppe, partendo ovviamente dalla cayenna della camera oscura. Anche Filippo proviene dal mondo del gioco, ma di ben altro tipo: lavora da Noè, il più prestigioso negozio di giocattoli della città. È magazziniere e il suo compito – invidiabilissimo – è di testare tutti i giocattoli perché funzionino correttamente, prima di essere consegnati all’acquirente. Anche lui è completamente digiuno di qualsiasi cosa abbia relazione con la grafica e con la pubblicità, e anche lui viene rinchiuso in camera oscura, dove rimane qualche anno a crescere e maturare.

1979. Studio Executive: Antonio Russo, Gianpaolo Ripamonti, Filippo Danisi.

Nel frattempo là fuori gli affari prosperano, la pubblicità “tira”, le agenzie per cui lavorano (principalmente la Pubblimarket e la CCP di Dario Mezzano) crescono e così anche i clienti diretti (Beecham, Stanley). Lo studio si trasferisce in via Cosimo del Fante, al numero 2, dove le camere oscure raddoppiano, per cui viene ingaggiato un amico di Filippo, Gianpaolo Ripamonti, detto “il Rosso” (per via dei capelli, non del suo orientamento politico). Il suo lavoro precedente è quello di meccanico, ma è un’attività che male si concilia con la sua temperatura corporea: in officina soffre il freddo e trascorre tutto l’inverno senza mai togliersi il loden. È ben contento di trasferirsi in uno studio grafico: si sente molto più a suo agio nell’accogliente calduccio della camera oscura, che inoltre presenta qualche affinità con l’hobby che da anni condivide con Filippo e con il gruppo degli amici più stretti, tra cui le due ragazze che diventeranno le loro mogli.

1979. Gianpaolo Ripamonti ai tempi dello Studio Executive, in Foro Bonaparte.

Nel tempo libero si dedicano alla scrittura di sceneggiature cinematografiche e alla realizzazione di film veri e propri, di cui sono allo stesso tempo produttori, sceneggiatori, registi, montatori, direttori della fotografia, cameraman, elettricisti e interpreti. Utilizzano camera, proiettore e moviola Super8, materiale comperato a caro prezzo e pagato risparmiando anche dove a prima vista sembrerebbe assurdo risparmiare.

Per qualche anno Filippo e Gianpaolo si sono limitati a mangiare a pranzo solo economicissime patate lesse con il prezzemolo, pensando ai metri di pellicola che, grazie a questo sacrificio, avrebbero potuto acquistare e immaginando come avrebbero potuto utilizzarli.

Beppe ha sogni decisamente meno astratti: acquista casa e per riuscire a pagare il mutuo comincia ad avere dei clienti propri. Li gestisce di notte e nei weekend, con l’aiuto di Filippo e Gianpaolo, che si prestano a lavorare gratis per aiutare l’amico. Vengono ricompensati con un’ottima cena da Giannino: a Beppe piace ciò che è bello, ciò che è buono, ciò che è caro (e Filippo e Gianpaolo gradiscono molto: non ne possono più delle patate con il prezzemolo).

Nel frattempo anche loro due hanno abbandonato la camera oscura e sono diventati dei formidabili designer.

1979. Filippo Danisi.

I tre lavorano incessantemente, con energia, passione ed entusiasmo, hanno fame di crescere, di imparare, di migliorarsi e hanno la possibilità di farlo anche grazie agli art director con cui lavorano in quei primi anni: Pierluigi Bachi, Gigi Barbieri, Daniele Cima, Alfonso Costantini, Roberto Fiamenghi, Maria Frediani, Felix Humm, Marco Moschini, Eugenio Patrini.

Sono tutti dei grandi rompiballe, estremamente esigenti, super-pignoli, ma questo rappresenta uno stimolo per i ragazzi dello Studio Executive. Comprendono che proprio il perfezionismo maniacale di questi art director offre loro la fantastica possibilità di affrontare e vincere sempre nuove sfide, di salire sempre più in alto.

Felix Humm chiede spostamenti che sono calcolati in cazzini di mosca,una nuova unità di misura inventata dal bravo graphic designer svizzero per indicare una frazione infinitesimale di un millimetro.

Anni dopo, per la creazione di tutta l’immagine e la comunicazione delle calzature prodotte da DiVarese (Benetton), da lui stesso battezzate Superleggere, Daniele Ravenna scrive dei testi in stile pseudo-futurista. Un linguaggio che Daniele Cima pensa bene di sottolineare adottando dei lettering ispirati a quelli che, agli inizi del Novecento, venivano utilizzati dai vari Depero, Marinetti, Tzara, caratteri tipografici che non esistono più nei cataloghi di compositori e fotocompositori della fine del secolo.

Si presenta quindi tranquillamente nell’atelier dei maghi dell’artwork con la pubblicazione El llibre dels anuncis (1931-1939) e con la pretesa che tutti i testi (body copy comprese) siano realizzati con caratteri derivati da quelli che ha selezionato tra le pagine di quel preziosissimo volume, che rappresenta una delle sue bibbie tipografiche.[1]Come non bastasse, alcune lettere devono provenire dal carattere A, altre dal carattere B, altre ancora dal carattere C, e naturalmente devono essere uniformate armonicamente tra loro. Il tutto eseguito a mano, visto che siamo in un’epoca in cui il Mac non è ancora comparso all’orizzonte e la parola font non ha alcun significato.

Vengono disegnati (a mano, occorre sottolineare) tre alfabeti completi, utilizzati per comporre – sempre a mano, lettera dopo lettera – tutti i testi scritti da Daniele Ravenna, che sono pure lunghetti.

Siamo in un tempo in cui i clienti (non tutti, ma Vittorio Ravà della Benetton sì, per fortuna), comprendono e condividono l’esigenza di distinguere la loro comunicazione anche attraverso la qualità estetica e sono dunque disponibili a investire nella forma. Il risultato è eccellente e di grande soddisfazione; ciononostante Beppe ritiene, probabilmente non a torto, che è in quei giorni che gli spuntano i primi capelli bianchi.

Altri, molti altri, avrebbero sacramentato e maledetto tanta pignoleria, di cui non avrebbero capito il motivo, né percepito – e tantomeno apprezzato – la raffinatezza. Per i futuri Cow Boys è una soddisfazione, un motivo di orgoglio, invero più che legittimo.

Mai un lamento, mai una protesta, mai un vaffanculo e, soprattutto, mai un no. Si può fare qualunque cosa, se lo si vuole.

Si accorgono di essere quello che sono, degli assi. A Gianpaolo viene regalato il suo leggendario bisturi d’oro, l’equivalente di un oro olimpico.

Il bisturi d’oro di Gianpaolo Ripamonti.

Hanno in mano i maggiori clienti dello Studio Executive e chiedono di avere più spazio, più responsabilità, più coinvolgimento. E anche più soldi, of course.

Sono ambiziosi, soprattutto Beppe, che ha sempre in testa idee e obiettivi che chiunque altro probabilmente considererebbe irraggiungibili.

In un primo momento Vendrame sembra volerli accontentare. Una sera vanno tutti insieme al ristorante, fidanzate comprese, a festeggiare l’accordo che pare soddisfare le loro richieste. Sembra fatta, ma ahimè il giorno successivo il boss ci ripensa. A quel punto Beppe e Filippo decidono che è venuto il momento di lasciare e di iniziare una nuova avventura tutta loro, che iniziano a ipotizzare.

Vendrame intuisce l’imminente addio e, per parare il colpo e stabilizzare lo studio, punta su Gianpaolo e gli offre ciò che pochi giorni prima aveva rifiutato a Beppe e Filippo, chiedendogli in cambio una sorta di giuramento di eterna fedeltà allo Studio Executive. Il Rosso è un campione anche di onestà, non se la sente di impegnarsi, visto che in realtà la sua ambizione è di riunirsi a Beppe e Filippo, non appena la loro costituenda società avesse spiccato il volo (e le prime fatture).

Deluso e offeso, Vendrame lo licenzia in tronco. Beppe e Filippo intervengono in difesa del loro amico, ottenendo di essere licenziati anch’essi lì, così, su due piedi.

Il 7 febbraio 1984, alle 18.15, i tre sono sul marciapiede di fronte al civico 2 di via Cosimo del Fante, con alcuni sacchetti neri abitualmente destinati alla raccolta dell’immondizia, in cui hanno deposto le poche cose personali da portare via.

Inutile dire che il progetto di creare un loro studio subisce una velocissima accelerazione. Chiamano Luciana Gobbi (che successivamente diventerà la prima cowgirl) alla Pubblimarket per proporre di continuare la collaborazione con l’agenzia, lo stesso fanno con la neonata RSCG (oggi Havas) di Dario Mezzano, che già lavorava con Filippo ai tempi della CCP.

Beppe invita a pranzo Daniele Cima al Porto: ha le tasche vuote, ma non lo considera un buon motivo per rinunciare alla sua istintiva grandeur.

Il nuovo direttore creativo della Troost, dove si è appena trasferito portando con sé dalla Pubblimarket gli art director Pierluigi Bachi, Gigi Barbieri e Felix Humm, oltre alla copywriter Sandra Dal Borgo e ad altri copy di diversa provenienza (Silvia Erzegovesi, Alberta Schiatti, Enzo Sterpi), non esita ad affidargli il lavoro della sua nuova agenzia.

Siamo già nell’epoca in cui la corruzione comincia a serpeggiare per Milano, ma quelli che dì lì a poco saranno i Cow Boys non hanno bisogno (né intenzione) di versare mazzette e regalare orologi d’oro: è (e sempre sarà) esclusivamente la qualità loro e del loro lavoro a generare il business.

In ogni caso, non ci sono le risorse per acquistare le attrezzature grafiche di base, figuriamoci se ci sarebbero soldi per convincere qualche eventuale mariuolo di craxiana memoria.

Beppe ha 27 anni, Filippo ne ha 22, come il Rosso: sono i loro genitori – certamente non milionari – a vuotare i salvadanai e anticipare i soldi necessari per le prime spese. Per poter avviare la loro attività, Beppe e Filippo rinunciano a qualunque guadagno personale, ma garantiscono a Gianpaolo lo stesso stipendio che percepiva allo Studio Executive.

Dopo un lungo tira e molla con la proprietaria, che non si fida mica tanto di quei tre giovani spiantati, viene affittato un ufficio in via Marcora 6, a cento metri dalla Pubblimarket. La nuova società viene chiamata Well Done, su suggerimento di Renata Prevost. Il marchio e l’immagine sono creati da Felix. Sempre prima classe, come vuole Beppe.

La fattura n. 1 di Well Done sdf e di Cow Boys srl.

Si inizia a lavorare come matti. Un ricordo descrive appropriatamente la situazione.

Si stanno realizzando dei finished layout per una presentazione Gucci che la Troost sta preparando. È una gara, importantissima per segnalare al mercato la svolta creativa in atto in agenzia.

Tutti gli art director dell’agenzia (Bachi, Barbieri, Cima e Humm) hanno studiato delle proposte che, visto il cliente, presentano soluzioni grafiche particolarmente raffinate, quindi anche particolarmente complicate da realizzare. È sera, è tardi, tutti hanno fame. Cima va a comperare delle pizze take away alla pizzeria di via Parini (il cui cameriere è il protagonista del celebre spot del pennello Cinghiale), ma al suo ritorno ci si rende conto che lo studio è sprovvisto di qualunque strumento utile a mangiare civilmente. A questo punto le pizze vengono tagliate con i bisturi e mangiate selvaggiamente nei cartoni in cui sono state confezionate. Ora si può andare avanti per tutta la notte: che importa?

Quattro mesi più tardi lo studio Well Done ha come clienti tutta la Pubblimarket, tutta la RSCG, tutta la Troost e deve già ingrandirsi: arrivano Guido Manzotti e Antonio Russo, due bravi designer con cui Beppe, Filippo e Gianpaolo hanno già lavorato allo Studio Executive. Mirella Scimone, fidanzata (e in seguito moglie) di Filippo, dà una mano con l’amministrazione, che l’anno successivo viene affidata alle solide mani di Luciana Gobbi, dove da allora risiede.

Il cocktail di alta qualità, disponibilità, efficienza e rapidità funziona a meraviglia: gli art director sono felici di lavorare con gente così competente e appassionata, con designer dotati di un occhio e di una sensibilità fuori dal comune, persone che conoscono a memoria centinaia di caratteri, che sanno come usarli, quando usarli e quando non usarli, persone che conoscono tutti i trucchi e tutte le insidie dell’arte grafica. Anche i responsabili della produzione sono contenti di avere per interlocutori dei problem solver, della gente che in vita sua non ha mai pronunciato la frase non si può. E pure i copywriter se ne compiacciono, perché i loro testi risultano impaginati bene, ben leggibili, con gli a-capo giusti, privi di errori.

Per quelli che di lì a poco si chiameranno Cow Boys i testi sono un’altra fonte di crescita e miglioramento: sanno di essere fortunati a poter maneggiare parole scritte da alcuni dei migliori copywriter dell’epoca, tra cui Borsani, Casiraghi, Costa, Del Bravo, Mignani, Neuburg, Prevost, Ravenna, Rumi…

I Cow Boys a cavallo delle lattine di Cow Gum.

Beppe e Filippo hanno l’abitudine di leggere tutti i testi prima di passarli alla composizione, e dedicano a questa attività molta attenzione, tanto da essere in grado di riconoscere subito lo stile di questo o di quel copywriter, arrivando anche a scommettere sull’identità dell’autore di questa o quella body copy. Sanno che le parole sono una componente fondamentale della pubblicità (soprattutto in quegli anni) e le assecondano componendole e impaginandole con la massima cura. Non sono ancora i tempi in cui una macchina elabora graficamente (molto male, in genere) un testo.

Le patinate con le body copy vengono incollate sugli Schoeller e poi affettate con il bisturi e spaziate/interlineate a mano, per ottenere sul lato destro – a “righe libere” – un andamento armonico, senza “buchi”.

Sono tempi in cui, per ottenere un risultato graficamente equilibrato, i copywriter sono spesso chiamati a modificare qualche parola, ad aggiungere o togliere un aggettivo. Inoltre la composizione di un testo può variare con il variare del formato della testata, in modo da occupare lo spazio nel modo più funzionale.

Alla ricerca dell’equilibrio perfetto, gli art director trascorrono giornate intere nello studio di via Marcora: con infinita pazienza gli elementi dell’esecutivo vengono millimetricamente spostati a destra, a sinistra, alzati, abbassati, rimpiccioliti, ingranditi, riproporzionati; le spaziature e l’interlineatura dei caratteri vengono ridotte, aumentate, le immagini vengono stampate in una misura maggiore, minore, ancora uno zic più piccola… È una lunga, complessa e incessante sperimentazione quotidiana per cercare di raggiungere un’utopica perfezione grafica.

Raffinatezze che oggi si sono completamente perse, nell’imbarbarimento grafico che si è improvvisamente diffuso grazie alla “democratizzazione digitale” da tanti tanto amata. La verità è che le sofisticate tecnologie di oggi in realtà sono strumenti primitivi che – quando non sono gestiti da mani più che esperte (cioè quasi sempre) – producono risultati grossolani, ignoranti, rozzi: inguardabili, per chi ha un occhio educato alla raffinatezza compositiva della migliore grafica.

Il 16 ottobre 1985 lo studio diventa una srl e assume il nome Cow Boys, ovviamente riferito alla colla che è l’elemento imprescindibile nella realizzazione dei paste-up e che rappresenta simbolicamente anche la coesione e il legame profondo che esiste tra i membri dello studio, una compattezza che, a dare retta all’iconografia cinematografica, appartiene di solito ai commando dei Navy Seals. Il nuovo nome nasce dalla penna di Daniele Cima, è entusiasticamente condiviso da Marco Mignani ed è realizzato graficamente da Gigi Barbieri.

1987. Zany Cow Boys.

I Cow Boys sono lanciatissimi, il mercato è in forte espansione e la RSCG è in una fase di espansione ancora più forte. L’agenzia di Dario Mezzano, Marco Mignani e Alfonso Costantini vola e tutto ciò che entra inevitabilmente finisce sui tavoli dei Cow Boys. Ed è tanta roba: Air France, B&B Italia, Braun, Burghy, Citroën, Club Med, Ferrarelle, Foxy, Honeywell Bull, Illy Caffè, Lindt, Moulinex, Palmera, Peugeot, Philips, Piaggio, Saiwa, TDK, Telecom, Vichy, Voiello, Zucchetti.

Una lunga lista di art director della RSCG frequenta il nuovo e grande atelier dei Cow Boys di via Sacchi, proprio sul confine di Brera, la zona degli artisti: Jamie Ambler, Silvia Boretti, Max Fortuna, Mauro Galbiati, Lucio Losi, Tiziana Mariani, Maurizio Matarazzo, Dario Mondonico, Primarosa Pisoni, Francesca Pratesi, Paolo Tonelli, Gianpietro Vigorelli. Filippo fa la spola con l’ufficio di Alberto Civati, capo della produzione dell’agenzia, portando con sé tonnellate di cartoni Schoeller trasformati in esecutivi.

1989. Luciana Gobbi nello studio di via Sacchi.

È di quel periodo un episodio significativo dell’attenzione che viene posta in ogni dettaglio del lavoro. Siamo in via Carducci 26, prima sede della RSCG. Sul pavimento del cortile Filippo sta montando 24 fogli A3 per comporre in dimensione naturale la headline di un’affissione 6x3 per i succhi di frutta Derby, mentre alla finestra del terzo piano Mignani, Mezzano e Costantini sono intenti a bisticciare con Gianpietro Vigorelli a proposito della leggibilità del carattere e del corpo da lui scelti. (Per la cronaca fu ritenuto poco leggibile, Filippo dovette ingrandirlo e Vigorelli si incazzò da bestia).

Molti altri art director di altre agenzie cominciano ad avvalersi della collaborazione dei Cow Boys, la cui fama è ormai conosciuta in tutta Milano: tra questi Stefano Colombo, Carla Della Beffa, Michele Goettsche, Loris Losi, Lorenzo Marini, Bruno Milano, Lele Panzeri.


Nel frattempo Daniele Cima cambia agenzia più volte, ma non cambia mai lo studio che realizza i suoi sofisticati artwork. Lasciata la Troost apre la sua Milano (Italy), dove viene raggiunto da Daniele Ravenna e Stefano Longoni. Successivamente l’hot shop viene ceduto alla Verba DDB, che va ad allargare ulteriormente il parco di agenzie nel portafogli di Beppe, Filippo & C.

La crescita dei loro clienti avviene per contagio. Quando un art director lascia un’agenzia servita dai Cow Boys se li porta appresso nella nuova agenzia in cui si trasferisce, considerandoli una propria indispensabile appendice.

Avviene così che Agostino Toscana, quando segue Pasquale Barbella dalla Bozell alla BGS, porta con sé i campioni del paste-up, replicando anni dopo, quando dalla BGS si trasferisce alla Saatchi & Saatchi.

È così che Jonathan Padfield introduce i Cow Boys alla Universal e lo stesso meccanismo si attiva con Marco Ravanetti e la Canard, con Giovanni Porro e la Roberto Gorla & Associati, via via fino ai giorni nostri, con Roberto Pizzigoni che, tra i tanti, sceglie proprio i Cow Boys quando nasce la sua Cernuto Pizzigoni & Partners.

L’atelier grafico dei Cow Boys continua a crescere. In quegli anni arrivano Roberto Arsuffi, Daniele Bertoletti, Franco Boschin, Barbara Bucciante, Umberto Galli, Giuliana Guffanti, Michele Jannone, Roberto Pirovano. Nel frattempo i ragazzi che anni prima erano stati lasciati per strada dallo Studio Executive si sono sposati, hanno fatto figli, comperato casa (e anche la Harley Davidson) e compiuto tutti quegli atti che fanno parte della vita delle persone a cui le cose vanno bene.

E in effetti le cose vanno davvero molto bene. Giustamente, perché questa è una storia di persone concentrate sul lavoro, che attraverso il lavoro, il lavoro e ancora il lavoro, sono riuscite ad ottenere tutto ciò che la vita in partenza aveva loro negato. Attraverso un lavoro che non ha mai – neppure per un attimo – rappresentato un peso, una scocciatura, un fastidio. Un lavoro da autentici artigiani, silenzioso, sotto traccia, svolto con passione e dedizione, quasi affettuosamente. Potrebbero adottare uno dei più riusciti motti ideati da Henry Ford: Quality means doing it right when no one is looking.

Nel 1990 arriva la svolta che cambierà la loro vita, così come quella di tutti coloro che hanno a che vedere con la comunicazione, cioè praticamente tutti gli abitanti della parte industrializzata (ma non necessariamente civilizzata) del pianeta. Marco Ravanetti della Canard, art director da tempo convertitosi alla religione digitale, stuzzica la curiosità di Gianpaolo, che comincia ad annusare il computer. Organizza una prima lezione pratica per lunedì 10 dicembre 1990, ma all’ultimo momento la diserta. Un ripensamento? No, quel giorno nasce suo figlio Luca.

Gianpaolo assume il ruolo di avanguardia tecnologica dei Cow Boys, che cominciano a introdurre gradualmente l’uso del Mac, realizzando degli esecutivi con tecnica mista: testi autoprodotti con il computer ma stampati tradizionalmente su carta patinata e incollati sugli Schoeller con riga, squadra, Cow Gum, paletta e, naturalmente, caccola. In questa fase il vantaggio di utilizzare il computer si traduce nel poter realizzare in house tutte le componenti di un esecutivo, non dovendo più dipendere da servizi esterni. Nasce allora il loro catalogo di typeface, che con il tempo si andrà arricchendo di sempre nuove golosità tipografiche.

I computer vengono acquistati – nessuno si ricorda perché – presso una società di Napoli. Quando gli scatoloni arrivano a Milano, in studio si diffonde il sospetto che si tratti di una classica sòla napoletana, che le scatole siano piene di vecchi mattoni, non di nuove e sofisticate tecnologie. Per fortuna non è così: ora i Cow Boys hanno i loro primi Mac FX.

È il principio della visione strategica che si concretizzerà negli anni a seguire: ampliare il servizio per proporsi al mercato come un unico interlocutore in grado di offrire il massimo della qualità in tutte le fasi produttive dei materiali stampati destinati alla pubblicità.

Michele comincia a sbirciare quello che fa Gianpaolo al computer e di lì a poco diventerà il secondo cowboy digitale. Tempo dopo, sarà Beppe a mettersi a sbirciare, ma impiegherà anni e anni per capirci qualcosa…

Tra il 1991 e il 1994 lo studio si evolve completamente, abbandonando progressivamente gli strumenti tradizionali a favore della nuova tecnologia. Viene però mantenuto lo stesso spirito artigianale: il Mac non è visto come strumento per ottenere maggiore efficienza, ma maggiore qualità. Potendo realizzare internamente le varie componenti dell’artwork si riesce a trasferire in ognuna di esse quell’attenzione e quella conoscenza che sono la caratteristica dello studio.

Indubbiamente la rivoluzione digitale porta anche dei benefici in termini di compressione dei tempi e dei costi, ma allo stesso tempo produce un generale abbassamento qualitativo: gli artwork, come del resto le giacche, i pantaloni e le camicie, sono più raffinati se realizzati artigianalmente piuttosto che industrialmente. A questo scadimento Beppe, Filippo & Co. si oppongono fermamente, riuscendo a miscelare in giuste dosi la tecnologia contemporanea con la loro antica conoscenza dell’arte grafica. Per riuscire in questo intento, nel triennio 1991/1992/1993 lo studio di via Sacchi rimane praticamente sempre aperto, giorno e notte.

1989. Lo studio di via Sacchi.

Di giorno si realizzano – con il rassicurante e ben conosciuto vecchio sistema manuale – gli esecutivi urgenti, in modo che procedano senza le sorprese che una nuova tecnica potrebbe riservare. Terminato questo lavoro, si scende tutti quanti a cena da Emilia e Carlo, il ristorante (niente male) proprio sotto lo studio, per poi risalire e tirare mezzanotte impostando sui computer i lavori del giorno successivo, con tranquillizzanti margini di tempo, sufficienti per rimediare ad eventuali errori, o per risolvere problemi nati dall’inesperienza.

Come l’acquisto di un superscanner da 18 milioni di lire, praticamente mai utilizzato, o come l’incubo chiamato in codice “Errore 70”, che comporta la immediata, irrecuperabile, cancellazione del file cui si sta lavorando, magari da una settimana, come nel caso di un disgraziato catalogo Swatch.

Alla fine del 1994 termina l’era della Cow Gum, vengono smontate le tre camere oscure e pensionate righe, squadre e tutti gli amati strumenti che per vent’anni hanno accompagnato la vita di questi ragazzi diventati adulti respirando il buon (ma non tanto salubre) odore della celebre colla spalmabile. Anche in questo scenario completamente nuovo, i Cow Boys mantengono la leadership qualitativa: il lavoro risulta perfetto solo se nasce in un ambiente perfetto. Dunque nuove attrezzature, nuove modalità operative e la consueta, ostinata vocazione per l’eccellenza.

1998. I Cow Boys al completo.

Nel 1999 si inizia a parlare con i titolari della ABC per costituire quell’unica centrale poli-funzionale che da qualche anno Beppe e Filippo hanno in mente. Basta con l’appaltare all’esterno alcuni processi della produzione grafica, tutto deve essere realizzato internamente, à la Cow Boys.

La ABC è l’azienda numero uno nella realizzazione degli impianti per la stampa, i Cow Boys sono lo studio numero uno per la produzione di esecutivi grafici: difficile ipotizzare un matrimonio migliore. Che viene celebrato nel gennaio 2000. I nostri si trasferiscono nella palazzina di via Alamanni (traversa di via Ripamonti) dove ha sede la ABC, dove si sta costituendo un vero polo per la produzione di tutto ciò che attiene alla stampa e dove, uno dopo l’altro, arrivano nuovi cowboys, che non si chiamano John Wayne, ma Michele Dabrescia, Cristina Di Mauro, Claudia Filippi, Laura Galliena, Francesco Marinetti, Barbara Vaiani, Edoardo Vaini.

Oltre ad ABC e Cow Boys, nella nuova palazzina troviamo l’agenzia Joblines, la web agency BBJ, lo studio fotografico di Jacopo Cima, il fotoritoccatore e illustratore Graziano Ros.

La strategia è perfetta, il rapporto con il partner mica tanto. Beppe è insofferente, non è abituato a confrontarsi con opinioni diverse dalle sue; oltretutto quelle dei suoi soci della ABC sono davvero diverse e lui non è il tipo capace di deglutire qualcosa che non lo convince. Da trent’anni lui e Filippo indossano lo stesso paio di occhiali e vedono lo stesso orizzonte. Mai una discussione: del resto di cosa dovrebbero mai discutere, se negli occhi hanno lo stesso sogno? Evidentemente anche negli affari non di cuore la crisi si manifesta al settimo anno: il 1° aprile 2007 l’unione tra ABC e Cow Boys ha fine.

Si ricomincia.

Pronti, via, sempre con la solita determinazione, sempre con le idee chiare sul progetto che si ha in mente, sempre con la solita grandeur che risiede nel dna di Beppe. Vagamente si replica quanto avvenuto trentatré anni prima, ai tempi del divorzio dallo Studio Executive, anche se meno traumaticamente, meno bruscamente, meno avventurosamente.

Per un breve momento il Rosso teme di essere licenziato, per la seconda volta, per la stessa ragione. Ora ne ride, allora un piccolo brivido lo ha percepito.

Nuovamente Dario Mezzano affida a occhi chiusi a Beppe e Filippo il lavoro della sua agenzia, per la gioia di Giovanni Porro, suo direttore creativo.

Viene acquistato (senza bisogno dei risparmi dei genitori, questa volta) un bellissimo spazio all’interno dello storico complesso dell’ex-Richard Ginori, appena riqualificato. 350 metri quadri lungo il Naviglio Grande, che è possibile reinterpretare secondo il gusto e le esigenze dell’acquirente. I vicini di casa si chiamano Adidas, Amadeus, Boggi, Geox, G-Star Raw, Hugo Boss, Mason’s, Rondinella. Michele per qualche settimana torna al suo antico lavoro di installatore di serramenti e appronta velocemente il nuovo studio, che diventa operativo nell’ottobre di quello stesso anno.

2007. La nuova sede dei Cow Boys di via Morimondo.

Tutto ciò che è contenuto nella fiammante sede di via Morimondo è nuovo di zecca: un investimento colossale per uno studio grafico, parliamo di una cifra terribilmente vicina ai 300.000 euro, ottenuti anche grazie alla garanzia sottoscritta da Stefano Righetti della Hyphen, la società che ha fornito al nuovo studio il miglior supporto tecnologico esistente sul mercato e che crede (e investe) nella ripartenza di questi ragazzi con i capelli diradati e imbiancati. Il meglio: una costante della storia dei Cow Boys, una scelta obbligata per chi ha le ambizioni che abitano nelle teste di Beppe e Filippo. Ambiziosi ma rigorosi, molto rigorosi: la società Cow Boys srl non ha pagato in ritardo un solo stipendio, anche di un solo giorno, nemmeno una sola volta. Precisissimi nel realizzare il loro lavoro, precisissimi nel rispettare i loro impegni.

2007. Ambiente design per i designer.

Alla nuova avventura di Beppe e Filippo partecipano i soliti fedelissimi:Roberto Arsuffi, Daniele Bertoletti, Lodovico Bossi, Cristina Di Mauro, Luciana Gobbi, Michele Jannone, Mattia Mazzetti, Gianpaolo Ripamonti, Edoardo Vaini. È un team che esprime differenti e molteplici capacità, con il quale i Cow Boys possono proporre quel servizio di produzione a 360° allineato alle esigenze del mercato, ma abbinato alla loro caratteristica abilità artigianale che, attraverso l’esperienza maturata in ABC, si è ormai estesa anche alla realizzazione degli impianti per la stampa.

Nel 2011la società Cow Boys srl compie venticinque anni. Con l’aiuto dell’art direction di Daniele Cima la ricorrenza viene celebrata realizzando venticinque opere grafiche che utilizzano un solo elemento visivo, il numero 25. Venticinque opere grafiche per dimostrare quante possibilità espressive possono nascere da un tema così circoscritto e così poco eccitante, venticinque acrobazie grafiche realizzate utilizzando esclusivamente i pochi strumenti di cui dispone la grafica d’autore: caratteri, linee, colori.

2011. L’opera grafica progettata con Daniele Cima per celebrare i 25 anni dei Cow Boys.

Less is more, una filosofia cui può permettersi di aderire solo chi da quel poco è capace di ricavare il massimo e forse anche qualcosa in più. Campioni, affermati, indipendenti e felici: i Cow Boys oggi sono esattamente quello che quarant’anni prima Beppe e Filippo sognavano di essere, con la quasi certezza che però si trattasse solo di un sogno.

© D.C.

2007. Al lavoro nel nuovissimo studio.







[1] Enric Satué, El llibre dels anuncis II: anys d’aprenentatge (1931-1939), Barcellona: Alta Fulla Editorial, 1988. Uno dei quattro volumi, in catalano, dedicati da Satué alla pubblicità su quotidiani e periodici. L’analisi completa abbraccia un periodo che va dal 1830 al 1992.

Un Nobel per Stephen King

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«Una storia deve essere eccezionale abbastanza da giustificare che la si racconti. [...] Tutto il segreto del romanzo e del dramma, nella loro struttura, sta nell’armonizzare le cose inconsuete con le cose eterne e universali. Lo scrittore che sa in quale misura i suoi eventi devono essere eccezionali, oppure non eccezionali, possiede la chiave dell’arte.» (Thomas Hardy)[1]

Perché dovrebbero dare il Nobel a Stephen King.

L’idea, o l’illusione, di vedere Stephen King aureolato dal premio Nobel per la letteratura può suonare bizzarra ma non è affatto nuova. Paolo Di Stefano, per esempio, ne ha scritto sull’edizione digitale del Corriere della Sera, riportando una provocazione di un certo peso: «Antonio Franchini [...], scrittore e lettore professionale di lunghissimo corso, vorrebbe tanto sapere perché il nome di Stephen King non ha diritto di cittadinanza nell’albo dei Nobel: “È lo scrittore che più di tutti ha condizionato l’immaginario narrativo, è un grande produttore di archetipi che ha influenzato non solo tanti generi letterari ma anche il cinema. Uno scrittore spesso grandioso: certe sue pagine avrebbe potuto scriverle Dostoevskij se avesse avuto accesso alla sua libertà. Come si fa a tenerlo fuori? Premiarlo sarebbe buttar giù le barriere tra letteratura alta e letteratura bassa.”»[2]Più cauto, Wired si domanda: «Stephen King è un grande autore?», ma propende per il no: «Kafka ed altri grandi autori hanno provato disagi e angosce che King è stato in grado di rielaborare e rilanciare con romanzi di successo, ma la sua prosa non ha illuminato nuovi scorci sull’oscura anima dell’uomo.King sa raccontare tutto. È un luna park, una visione d’insieme fantastica e affascinante ma che si ferma in superficie.Kafka è la tenda dietro cui si nasconde un freak pauroso.Kafka ha detto poco ma lasciato molto. King ha detto tutto. Tra trent’anni cosa rimarrà?»[3]

La domanda «Saresti favorevole o contrario al Nobel a Stephen King?» gira ogni tanto sui social, suscitando fremiti tra i fan ma anche flutti di scetticismo. In realtà sono in pochi, o nessuno, a considerare realistica la prospettiva di un’onorificenza così alta a uno scrittore di best-seller considerato specialista di gialli e di horror, per di più già ampiamente gratificato dal cinema e dal mercato. Di certo King non corrisponde a nessuno dei modelli letterari ammessi nel “canone occidentale” di Harold Bloom, uno dei critici più influenti del nostro tempo, peraltro assai polemico sulle attribuzioni del Nobel a Dario Fo, Toni Morrison, Doris Lessing e Jean-Marie Gustave Le Clézio.[4]

Io stesso, fino a poco tempo fa, non mi ero mai sognato di perorare la causa Nobel-King, trovando incompatibili i due termini del binomio. Mentre non ho mai avuto dubbi su nomi come quelli di Cormac McCarthy e Amos Oz, tanto per citarne due a caso tra i viventi più meritevoli. Finché non mi ha incuriosito un appassionato tributo di Nicola Lagioia su Internazionale, che prende le mosse da It per difendere King da tutti i pregiudizi che lo stringono in un angolo. «Non commettete l’errore di sottovalutare Stephen King», conclude Lagioia al termine di un’arringa piuttosto convincente.[5]

Piper Laurie in Carrie (Carrie – Lo sguardo di Satana) di Brian De Palma, 1976. 
Il primo film tratto da un romanzo di Stephen King.

Perché no? Perché sì?

Intendiamoci: Stephen King non ha nessun bisogno del Nobel. Credo che non se lo aspetti e forse neanche se lo merita, dal momento che la sua firma è diventata un’industria. In coda a uno dei suoi romanzi più recenti, Chi perde paga, ringrazia uno staff imponente di editor, ricercatori e altri consulenti, cosa che stride con l’ideale dello scrittore solitario, pensoso e affaticato, interamente dipendente dalle proprie risorse individuali. Il King di oggi fa pensare a un’azienda, anzi a una holding, se si tiene conto della sua velocità produttiva e della sua onnipresenza nei mondi paralleli del cinema e della tv. Potrei elencare non meno di cinquanta autori degni di maggiore venerazione, e mi rammarica il fatto che alcuni siano morti prima che il loro talento fosse riconosciuto a Stoccolma. 

King dunque può starsene beato nella gloria del suo eden popolato di eroi senza Nobel, accanto a Salinger ma anche, guarda un po’, a Proust, Joyce, Tolstoj, Conrad e simili. Kafka compreso.

Brad Renfro e Ian McKellen in Apt Pupil (L’allievo) di Bryan Singer, 1998.

Allora perché bisognerebbe dare il Nobel a Stephen King? Perché farebbe bene al Nobel, credo. Perché è l’unico tipo di trasgressione che il Nobel non si è ancora concesso. Non sono d’accordo con Paolo Di Stefano quando definisce i giurati del Nobel un’«Accademia di parrucconi svedesi».[6]Se c’è qualcosa che mi ha sempre (favorevolmente) impressionato di quell’accademia è la sua continua capacità di stupire. Non sono affatto dei parrucconi e se ne fregano delle aspettative più condivise, o più austere. I giurati del Nobel ti spiazzano con un’allegria che somiglia all’irriverenza. Basta consultare la lista storica dei vincitori per farsi un’idea di quanto sia eccentrico – e ampio – il loro schema di valori e orientamenti. Chi si aspettava, per esempio, il Nobel a Patrick Modiano, nel 2014? Fuori dalla Francia non se lo filava nessuno. E, aggiungo, era un peccato. Forse non vale quanto un Philip Roth – ma chi può dirlo con sicurezza? Modiano è uno scrittore non meno affascinante di altri più famosi e celebrati di lui, ed è un bene che da Stoccolma sia partito un tappo di champagne in suo favore. Del resto, Dora Bruderè estremamente più sottile e sorprendente de La macchia umana.

Né Harold Bloom né il premio Nobel per la letteratura devono essere presi come oracoli. Non esistono e non esisteranno mai criteri scientifici e inoppugnabili per determinare la superiorità di un Salman Rushdie su un David Grossman, o viceversa. O di un Haruki Murakami su Stephen King. Ho accostato questi ultimi due nomi non casualmente: mi sembrano entrambi, sebbene distanti anni luce l’uno dall’altro, specialisti di letteratura pop; ma per il primo, e solo per il primo, milioni di lettori si lagnano ogni volta che non vince il Nobel, come se gli spettasse di diritto.

Maria Bello nel film-tv Big Driver di Mikael Salomon, 2014, 
da un soggetto di Stephen King.

Metà dell’albo d’oro del Nobel sembra riflettere una gran voglia di andare controcorrente. Nel bene e nel male. L’elenco dei vincitori italiani è già di per sé sufficientemente incongruo. Che ci fanno, insieme, Giosuè Carducci (1906), Grazia Deledda (1926), Luigi Pirandello (1934), Salvatore Quasimodo (1959), Eugenio Montale (1975) e Dario Fo (1997)? Come lettore e come italiano sono felice di questo assortimento, anche se preferisco Dino Campana a Carducci e Pasolini (morto ahinoi precocemente) a Dario Fo. La forza del Nobel non sta nell’infallibilità, ma nella sua capacità – tuttora assai autorevole – di mescolare le carte in tavola, movimentare la conoscenza, le idee, il dibattito sulla letteratura e sull’instabilità delle fortune critiche. Gli errori di Stoccolma sono più eccitanti di qualsiasi attribuzione “corretta”, o prevedibile.

In tal senso mi sembra giunto il momento che venga riconosciuto, fra i tanti valori soppesati dalle eminenti giurie del Nobel, anche l’impatto della scrittura popolare tra gli elementi fondanti della cultura contemporanea.

Kathy Bates in Miserydi Rob Reiner, 1990.

Le distorsioni del paratesto.

Mi chiedo come cambierebbe in Italia la percezione generale dell’opera di King se a pubblicarlo non fosse Sperling & Kupfer ma Adelphi o Einaudi. (E se in Francia lo pubblicasse Gallimard, nella sua Collection Blanche). Niente copertine orribili e fantasiose, ma rigorose immagini allusive – fotografiche o pittoriche – inquadrate nel bianco o su delicati sfondi pastello. Con prefazioni accademiche, o anche senza. Se, insomma, la veste editoriale non fosse così tipica della trippa più mercantile, ma educata, immune da squilli plateali, sobria, minimale. Non sarebbe come uscire dal reparto libri dell’autogrill o del megastore ed entrare in una boutique per buongustai del libro? Quanto siamo condizionati dal paratesto, nel giudicare il valore di scrittori e poeti?


Si dirà che non ci sono storie: un giallazzo rimane un giallazzo, il best-seller è sempre geneticamente sospetto. Si nutre di emozioni facili. Odora più di soldi che di letteratura. Senonché, per colmo di strafottenza, Stephen King usa spesso la letteratura come oggetto d’indagine (e di spasso). Fin troppo consapevole di avere da una parte l’osanna di milioni di idolatri e dall’altra lo sprezzo dei critici accreditati, si diverte a confondere le idee del prossimo con diabolico umorismo. In Misery, uno scrittore del suo stesso stampo suscita l’ira sanguinaria di una lettrice delusa dal suo proposito di abbandonare il romanzo di genere per inseguire ambizioni più elevate. In Chi perde paga un romanziere poliedrico di nome Rothstein (allusivo ad almeno tre Roth della letteratura) viene ucciso nelle primissime pagine da un ammiratore fanatico come l’infermiera di Misery. Questo Rothstein è un concentrato di sarcasmo, perché assomma nella sua genialità i pregi della letteratura “canonica” e quelli della letteratura pop – un misto di Roth e di King, per intenderci. Rothstein scrive best-seller seriali applauditi dalla critica anche se i titoli sono pura serie B come Il fuggiasco, Il fuggiasco entra in azione, Il fuggiasco tira il fiato... Protagonista della trilogia è un idealista inquieto che nel terzo libro rinuncia alle aspirazioni intellettuali e si vende a un’agenzia di pubblicità – altro colpo magistrale di King all’eterna inimicizia fra cultura alta e bassa e a tutti i cliché di contorno. Rothstein viene massacrato per aver fatto del suo eroe un banalissimo “persuasore occulto”, e di aver così tradito la fascia integralista dei suoi lettori. Anche il protagonista di Shiningè un autore “serio”, prima di perdere il lume della ragione e mettersi a rincorrere con l’accetta la propria famiglia: quello delle dolci famiglie esemplari e soddisfatte, ma sempre sull’orlo di crisi e incubi spaventosi, è un altro motivo ricorrente nell’opera di King. Uno dei suoi lavori migliori, Il corpo (all’origine del film Stand by Me), è un pregevole romanzo di formazione: uno dei quattro protagonisti adolescenti, scolpiti con ineccepibile acume psicologico, è a sua volta un aspirante scrittore, e non a caso funge da io narrante. La capacità di King di penetrare nell’animo dei teenager è tra le virtù più apprezzabili e apprezzate del suo talento.

Tim Robbins e Morgan Freeman in The Shawshank Redemption (Le ali della libertà) di Frank Darabont, 1994.

Il Nobel e l’orientamento sociale.

Il testamento di Alfred Nobel (1895) prescrive che il premio letterario vada attribuito all’autore che «si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale». Nobel aveva inventato la dinamite e, per farsi perdonare, diventò uno dei maggiori filantropi del suo tempo. Non c’è dubbio che vi sia un orientamento socialisteggiante (seppur moderato) nelle scelte letterarie da lui ispirate, così come – in modo nettamente più esplicito – nel premio Nobel per la Pace. La letteratura premiabile a Stoccolma deve avere, insomma, una funzione etica e socialmente costruttiva. Nel 1901, il poeta francese Sully Prudhomme – che inaugura la galleria degli scrittori nobelizzati – «dà prova di un alto idealismo» e prende facilmente il sopravvento sull’occhio clinico di Émile Zola, troppo preso dall’osservazione delle impurità e delle tare che corrompono il corpo sociale. Prudhomme sconfisse anche Tolstoj, che i giornali davano per sicuro. Nonostante quella specie di autogol, il premio voluto dall’imprenditore dinamitardo non ha mai ceduto un’oncia del suo prestigio e della sua credibilità.

La vocazione edificante – e in parte ideologica – del Nobel ha fatto sì che ne fossero esclusi, nel corso del tempo, autori geniali come Borges, Pessoa, Nabokov. Ma di questi e altri esclusi illustri si potrebbe dire la stessa cosa che ora diciamo di Stephen King: si può giganteggiare nella storia del libro anche senza vincere premi, e alla lunga non c’è Prudhomme che possa scalzare Tolstoj o Zola o Proust o Joyce dal piedistallo che si sono guadagnati. Ma se proprio vogliamo salvare Prudhomme dall’oblio, sia benedetto il Nobel che ci consente una simile opportunità.

Tim Curry in It (It – Il pagliaccio assassino), miniserie tv, regia di Tommy Lee Wallace, 1990. 
Dal romanzo It di Stephen King.

Stephen King è uno scrittore edificante? Boh. Idealista no di certo, ma edificante – forse. Senza saperlo, magari. Senza farsene un problema, o proclamarlo ai quattro venti. Signori del Nobel, non vi sarà sfuggito che l’opera di King (l’opera più che il suo autore) sia quella che sul piano sociale ha edificato di più. Cosa c’è di più “sociale” che avvicinare o convertire alla lettura, avvincere con la lettura, qualche milione di ragazzi potenzialmente refrattari al libro? O di adulti altrettanto recalcitranti? Il best-seller (non qualsiasi best-seller, ma quello di King) arriva dove l’idealismo, da solo, non arriva. Caro Harold Bloom, un qualche peso all’efficacia dobbiamo pur assegnarlo, se non altro per capire qualcosa del pentolone in cui bolliamo. King, a volte, è più efficace di un trattato – non solo in termini di copie vendute (chi se ne frega, dopotutto), ma anche in termini di contenuti.

Prendiamo uno dei grandi tormentoni del secolo, la condizione della donna e il suo riscatto. Ho detto “del secolo” ma dovrei dire “dei secoli”, se cominciamo da Ipazia di Alessandria o rileggiamo Jane Austen. Sul tema si scrive a getto continuo: si può dire che oggi buona parte della narrativa, della poesia e della saggistica firmata da donne verte sulla questione femminile. Poi arriva uno Stephen King qualsiasi – maschio, addirittura – e dedica cinquecento pagine a una storia di violenza domestica sulle donne (Rose Madder) e altre trecento a una bambina di nove anni che si perde in un bosco pieno di insidie e, col solo aiuto di un walkman e della sua intelligenza, riesce a cavarsela per un’intera, orrenda, settimana. Virginia Woolf sarà stata più profonda (non tanto da scuotere gli animi degli accademici svedesi, comunque), ma La bambina che amava Tom Gordon ha l’irresistibile pregio di spazzare via, dalla mente del lettore, ogni residuo di sessismo. A King sarebbe stato infinitamente più facile “gestire” la psicologia e i comportamenti di un piccolo Robinson Crusoe di sesso maschile, ma ha preferito gettare nell’avventura una bambina verosimile, più saggia dei genitori ed equamente appassionata di bambole e di baseball. La bambina che amava Tom Gordon non ha la potenza metaforica ed esistenziale di Moby Dick, ma il grizzly sta alla piccola Trisha come la balena bianca sta al capitano Achab.

Sam Witwer in una scena di The Mist di Frank Darabont, 2007.

Naturalmente la prosa di Stephen King è troppo furba e, soprattutto, ridondante per i palati fini. Non sempre, ma spesso, King esagera nel descrivere i suoi personaggi e le loro emozioni. Tende a dire tutto, ma proprio tutto, ciò che passa per la mente delle sue creature, senza lasciare al lettore nessun margine di collaborazione autonoma. Ma il suo artigianato, pur eccessivo, confina con l’arte, checché se ne dica. La sua immaginazione è sfrenata, inarrestabile. Una macchina da plot, un generatore elettrico di incubi. Ignorare King è come negare la statura di Hitchcock nella storia del cinema, dei Beatles nella storia della musica, di Warhol nella storia dell’arte.

© Pasquale Barbella

Prossimamente su questo blog una ricerca sulla storia e i meccanismi del premio Nobel alla letteratura.






[1]Citazione dagli scritti autobiografici di T. Hardy ripresa da Tullio Kezich nella sua introduzione a Una romantica avventura dello scrittore inglese, Palermo: Sellerio, 1994.
[2]http://goo.gl/tJoA44
[3]http://goo.gl/C3DZn6
[4]L’opera più nota di Bloom è The Western Canon: The Books and Schools of the Ages, New York: Harcourt Brace, 1994; ed. it. Il Canone Occidentale. I libri e le scuole delle età, trad. Francesco Saba Sardi, Milano: Bompiani, 1996.
[5]http://goo.gl/IMOScN
[6]http://goo.gl/tJoA44

Oziando sul Garda

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A Sirmione, il posto migliore per leggere Stephen King è una panchina solitaria seminascosta tra il parco Callas, l’Hotel Villa Cortine e una scalinatella che scende alle spiagge del lago. Dalla sorgente Boiola e dagli impianti termali sale odore di zolfo, perfetto per le diavolerie immaginate dallo scrittore di Misery– anche se qui lo zolfo è benefico. Lo zolfo è il pretesto per il quale mia moglie ed io siamo diventati habitué di Sirmione. Lei viene alle Terme di Catullo a fare le inalazioni caldo-umide per dare una sistematina alle vie respiratorie; io ci vengo per bighellonare, leggere e spassarmela. Su quella panchina, così come nel giardino dell’Hotel Catullo, ho letto in questi anni anche Kapuściński, Tolstoj, Mo Yan e tanti altri, ricavandone istruzione e diletto; e ho lasciato a metà L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, ripromettendomi di finirlo in caso di prolungata detenzione in un penitenziario.

Con il borgo storico di Sirmione, estrema propaggine della penisoletta compresa tra il castello scaligero e le “grotte” di Catullo (qui onnipresente come Maria Callas, il che conferisce aura sublime a un luogo già graziato dalla posizione e dal paesaggio), ho ormai acquisito una certa familiarità. L’anno scorso ho vinto il premio locale di poesia, “Sirmione in love”, dopo essermi piazzato, in anni precedenti, al terzo e al secondo posto; così per una sera mi sono sentito ubriaco, non di Lugana ma di catullaggine, due esperienze che danno sensazioni ugualmente inebrianti.

A Sirmione non si respira solo zolfo, ma anche gelato artigianale, musica, fotografia. E letteratura, per via di tutti i grandi che ci sono passati, da Catullo a James Joyce. Così può capitare, se sei qui in vacanza, di accomodarti nel giardino dell’albergo Pace ad ascoltare la lettura di un epistolario fra Gabriele D’Annunzio, Eleonora Duse e Angelica Pasolini dall’Onda, in occasione della presentazione del libro Eleonora Duse e le donne di cultura fiorentine di Filippo Sallusto.

Sirmione, piazza Porto Valentino.

Certo che neanche il Garda può assicurarti che dormirai senza incubi, se alle ventitrè accendi il televisore e ti ritrovi sbattuto sulla promenade des Anglais, a Nizza, proprio mentre un pirla aggredisce la folla con un tir. Oppure a Istanbul, nel pieno di un golpe farlocco che speri sia vero, mentre il giorno dopo apprendi che Erdoğan non solo è al suo posto, ma si sta dando da fare come Adolf, Benito e Francisco in un’epoca che credevamo archiviata. E allora, con le occhiaie viola e lo stomaco blu, ringrazi Sirmione due volte per le consolazioni che ti dà. Nei giorni in cui mi rinfresco all’ombra degli oleandri con l’inseparabile libro, i conforti si chiamano Viktor Tret’jakov, Carlo Verri e Corimè. Tret’jakov, il grande violinista siberiano elogiato in gioventù da David Oistrakh in persona, presiede qui una master class internazionale cui si sono iscritte novanta giovani promesse dell’archetto. La sua presenza è nell’aria: lo vedi rilassarsi proprio nel mio albergo, il Catullo, e gli puoi stringere la mano strappando un mezzo sorriso alla sua austera riservatezza. Se sei fortunato come me, puoi vederlo anche in azione: io l’ho ascoltato nella chiesa di Santa Maria della Neve, impegnato nel Quintetto op. 34 di Brahms con la moglie Natalja Likhopoj (secondo violino), Luca Ranieri (viola), Enrico Dindo (violoncello) e Andrea Dindo (piano).

Il violinista russo Viktor Tret'jakov.

L’aura del maestro illumina allievi, spesso superdotati, che la pace del lago incoraggia all’esibizione. Nella hall del Catullo una bionda adolescente tedesca ti regala un mattiniero buongiorno mozartiano, così azzurro da indurti a perdonare il ronzio della lucidatrice in arrivo dalla sala da pranzo; mentre un esile ragazzo canadese dai lineamenti asiatici, impavido nell’affrontare il Concerto per violino op. 47 di Sibelius, ti strappa una lacrima che non sai come nascondere, una lacrima che viene dalle crudeltà e dai turbamenti del mondo in cui cerchiamo di vivere. Accompagna i ragazzi la pianista Stefania Redaelli, docente di musica da camera al Conservatorio di Vicenza.

Altri giovani violinisti si esercitano nelle sale del Palazzo Callas, dove vai a vedere una mostra di Carlo Verri, Marry the night. Verri, collaboratore di riviste come Musica Jazz, espone fotografie di musicisti leggendari, da Miles Davis ad Anthony Braxton, da Chet Baker a Carla Bley. Fa un certo effetto muoversi fra questi ritratti in bianco e nero ascoltando una partita per violino di Bach: ne godo, perché sono un fanatico della musica senza frontiere tra questo o quel genere. E mentre indugio lì penso a come il jazz sia riuscito a dare una specie di identità agli Stati Uniti d’America, mentre l’Europa si disunisce sempre di più fottendosene di Bach, di Beethoven, di Giuseppe Verdi e di tutti i geni che in ogni campo le hanno dato lustro. Per farmene una ragione, e ingoiare la Brexit e le Padanie, dico a me stesso che è stato relativamente facile incollare l’America con la musica, perché quello era un mondo in via di formazione, senza antenati comuni; mentre l’Europa era e rimane un patchwork di culture sovrane e concorrenti.




Sirmione, luglio 2016. Esterno e interno del Palazzo Callas durante la mostra fotografica di Carlo Verri Marry the night.

Guardo le facce dei grandi sognatori del jazz e tremo al pensiero che un qualsiasi Donald Trump arrivi a trombare il mondo nuovo, in maniera persino peggiore di come abbiano fatto i tanti McCarthy e Bush di quel paese. La sera m’imbevo di altra musica per allontanare questi pensieri molesti. Fuori dall’Hotel Catullo, in piazza Flaminia, sono di scena i Corimè, ovvero i fratelli Maurizio e Roberto Giannone, con la partecipazione della violoncellista Daniela Savoldi. I fratelli, cantanti e compositori, suonano l’uno le percussioni e l’altro le chitarre, e dal vivo sono dei veri mostri; in tre producono una mistura inedita e fascinosa di suoni, un folk di bruciante energia mediterranea.

Un pomeriggio, sentendomi colpevole per l’estrema pigrizia che Sirmione infonde nei suoi adepti, sfido la calura per imbarcarmi: due ore di motonave fino a Salò con ritorno rapido (un’ora) in catamarano. Al MuSa (Museo di Salò) c’è la mostra Da Giotto a De Chirico. I tesori nascosti, curata da Vittorio Sgarbi. Poco meno di duecento opere provenienti da collezioni e fondazioni private: sette secoli d’arte italiana fra dipinti e sculture che non capita spesso di osservare dal vero. Al di sopra della biglietteria fa impressione un’altra biglietteria, quella di un cinema dove danno un classico di Frank Capra, L’eterna illusione; la sorridente cassiera ricorda le matrone di Fellini e gli spettatori che popolano l’atrio sembrano anch’essi figure evase dal grande schermo. Fra di essi spicca l’autoritratto del pittore, Gregorio Sciltian, con un dito in su per metterci in guardia dalla confusione tra rappresentazione e realtà; e il monito sembra rivolto proprio a me, a me che da quella confusione traggo molti dei massimi piaceri della vita.

Gregorio Sciltian, L’eterna illusione, 1968.

Andrea Sacchi (1599-1661), Ebbrezza di Noè. Ariccia, Palazzo Chigi, in deposito da collezione privata inglese. Al MuSa di Salò per la mostra Da Giotto a De Chirico. I tesori nascosti, a cura di Vittorio Sgarbi.

Percorro le silenziose sale del MuSa con l’audioguida incollata all’orecchio. La voce di Sgarbi – molto più amabile di come la usava per sbraitare di politica in tv – commenta le opere ad una ad una in modo sintetico ed efficace, facendoti capire molte delle cose che di solito sfuggono allo sguardo dei visitatori di mostre e musei. Come critico d’arte Sgarbi è davvero bravo: sa combinare la competenza con la semplicità di linguaggio, tenendosi alla larga dai contorsionismi artificiosi di un certo slang accademico.

P.B.

Quattro poesie dedicate a Sirmione.

2015. Primo premio “Sirmione in love”.

Un olivo

Non abito a Sirmione, ma Sirmione
abita dentro me, come una vena.
Perciò sono tornato anche quest’anno
come torna alla luce la falena.
Con me ho portato non una valigia,
ma due: dentro la prima gli indumenti,
i libri, gli accessori della Canon.
Nella seconda, molto più pesante,
d’altri pensieri il carico opprimente:
l’Afghanistan, la Grecia, il Medio Oriente,
le cose che leggiamo sui giornali
e tutti gli altri mali
che vorresti abissati in fondo al lago.

Mi sono soffermato presso l’ombra
d’un olivo da secoli appostato
in guardia su un pendio
quale immortale e vigile antenato.
Più sotto, dalla spiaggia fino a dove
s’intanano gli svassi nel canneto,
un mormorante e lieto
passeggio innamorato sulla sponda
del Garda. E mi è sembrato
che il vecchio olivo sorvegliasse l’onda
del lago e degli affanni che covavo.

Si è preso tutti gli anni
che dentro il mio bagaglio trascinavo.
«Ci penso io», diceva con un filo
di vento tra le foglie; «ho già abbastanza
rughe, e non ti conto
le cicatrici,
i buchi, i bachi, il male alle radici.
Guardalo, il tramonto:
non triste ma dolcissimo a quest’ora;
lo serbo in ogni ramo
come Sirmione serba il suo ricamo
di memorie e oleandri
baciati dalle labbra dell’aurora.
E tu, tu che mi sembri più spossato
di me, lasciati andare:
solo per qualche giorno
dimentica il presente ed il passato.

Ti presto un po’ di pace, se la vuoi;
mi prendo l’inquietudine, il peccato,
le ossa doloranti, le paure,
le ombre oscure,
in cambio di un sorriso provvisorio.
E se dopo i tuoi giorni di vacanza
il mondo ti riprende prigioniero
del suo impero
fatto di caos più che di speranza,
vieni a trovarmi ancora.
Finché vivrò, io ti sarò amico:
sarò il tuo specchio
e ti farò scordare che sei vecchio.»

P.B.


2014. Nessun premio.

Al telefono

«Pronto, Sirmione? Parlo con Catullo?»
«Spiacente, è tardi. L’immortale è morto.
Ma se recarle può qualche conforto,
lasci un messaggio al bip.» Mi sento un grullo,

ma già che sono al bip, come un fanciullo,
«Poeta esimio!», dico con trasporto,
«di tanto in tanto, e solo per diporto,
scribacchio qualche verso un po’ fasullo.

Mi chiedo se ti offende se a Sirmione
oso annualmente dedicar sonetti.
Ma credimi, lo faccio senza boria:

è solo per rubare un po’ di gloria
sperando un premio a questi benedetti
concorsi di poetica tenzone.»

P.B.

Sirmione di notte.

2013. Secondo premio “Sirmione in love”.

Callas di notte

Quando a Sirmione l’ultimo turista,
sazio di passeggiate e di Lugana,
sorpreso da due tocchi di campana
s’affretta alla sua camera con vista,

la luna gioca a far l’illusionista:
accende il Garda d’una luce strana,
dispone cento cigni in fila indiana,
ogni onda poi trasforma in violinista.

E dal fondo del lago sale in alto,
nel punto più lontano dalla riva,
un canto di sirena ammaliatrice:

le grotte di Catullo benedice,
la rocca e gli oleandri. Casta diva,
la luna versa lacrime di smalto.

P.B.

Sirmione. Boban, mascotte dell’Hotel Catullo.

2012. Terzo premio “Sirmione in love”.

Un gatto

Per indolenza o distrazione, un gatto
dimenticò la coda lungo il lago.
La coda si gonfiò come se un mago
l’avesse accarezzata di soppiatto.

E qui sorse una rocca, lì un anfratto
all’ombra degli ulivi. Poi con l’ago
e i fili d’erba un dio cucì per svago
giardini cari all’occhio ed all’olfatto.

Così nacque Sirmione: paradiso
del cigno, dello svasso, del gabbiano,
di chi nasce poeta o lo diventa.

Persino l’acqua mostra ch’è contenta:
come solleticata da una mano
invisibile, freme dal gran riso.

P.B.

Leggi anche Sweet Home Sirmione.










L’altra faccia di Mary Poppins

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Vivian Maier faceva la tata come Mary Poppins, e come quella indossava abiti severi e cappelli buffi. Il suo hobby era andarsene a spasso con la Rolleiflex o la Leica appesa al collo: appesa per poco, perché nelle strade di New York e Chicago la vita si svolge come una pièce sul palcoscenico, se la sai guardare da voyeur e sei pronto a beccare il momento giusto. Maier aveva un occhio implacabile: per le persone, per i gesti, per la luce, per l’ombra, per il taglio dell’inquadratura. Ha fatto anche formidabili foto a colori, ma il suo regno d’elezione era il bianco e nero, un bianco e nero nitidissimo e preferibilmente quadrato.


Le sue street scenes compongono un delizioso catalogo antropologico degli anni cinquanta e sessanta: un saggio sui sentimenti, le forme, i costumi, le mode e le manie del periodo, evocati da uno guardo indagatore e quasi da cecchino; perché Mary Poppins è abilissima nella cattura del dettaglio, del gesto fugace, della composizione irripetibile e perfetta nella sua armonia e nella sua massima intensità di rivelazione. Maier è stata un talento straordinario nella comprensione del body language, dei piccoli gesti e delle espressioni dei suoi improvvisati modelli; che immaginiamo dovesse pedinare e sorvegliare senza impazienza, nell’attesa che qualcosa accadesse, un’inezia magari, ma unica e viva.


Sfilano nella sua inesauribile galleria pedoni che si allacciano le scarpe e vecchi ubriachi col cappello e i calzoncini corti, negozianti in relax e dormienti d’ogni età, mani e piedi e altri dettagli anatomici colti in situazioni comiche o imbarazzanti, commessi al lavoro e passanti dall’acconciatura bizzarra. E bambini a volontà, come c’è da aspettarsi da una brava babysitter: bambini che piangono, ridono, giocano, saltano, si arrampicano, mangiano lecca-lecca, vanno a curiosare dappertutto e talvolta guardano verso l’obiettivo con aria strafottente. E poi i riflessi: Maier non se ne lascia sfuggire uno, prende di mira vetrine e vetrate, pozzanghere e specchi, un po’ per divertimento da selfie ante litteram (i suoi autoritratti sono di un’ironia impagabile) e un po’ per mischiare, con arguzia, immagini di incongrua provenienza e natura.


Maier ha una bonarietà di sguardo che ricorda Elliott Erwitt e certe cose del supremo Cartier-Bresson, ma dà quasi l’impressione di una maggiore spontaneità; non si è mai colti dal dubbio di un’eventuale costruzione della situazione o della posa; i suoi sono (o sembrano essere) attimi di trasparente verità, non preordinati, di una sincerità evidente, beffarda e assoluta. Solo quando non ci sono umani a portata di clic Maier si concentra su oggetti ed edifici, affascinata da geometrie, ombre graficamente espressive, mucchi di giornali, insegne e altre scritte, prodotti d’uso comune esposti su scaffali o in vetrine. Il suo è un fotoracconto senza principio e senza fine, creato con solidissima unità di pensiero e d’azione: un lavoro da cui emerge un punto di vista preciso, una visione critica ma spiritosa e benevola della metropoli e dei suoi abitanti. La varia umanità che si affaccia in queste inquadrature non può fare del male a nessuno, nemmeno quando appare accigliata e maligna (a impersonare questo aspetto sono soprattutto donne anziane, ricche e altezzose).

P.B.




Nota

Vivian Maier, bambinaia appassionata di fotografia, è nata a New York nel 1926 ed è morta a Chicago nel 2009. La sua ingente produzione è stata scoperta nel 2007 da John Maloof, un giovane studioso che, nel corso delle sue ricerche su Chicago, acquistò per 380 dollari, a un’asta, gli scatoloni sequestrati all’artista sconosciuta, colpevole di non aver pagato l’affitto di casa. Maloof è diventato il curatore delle opere di Maier e ha realizzato, con Charlie Siskel, un documentario su di lei intitolato Alla ricerca di Vivian Maier (2013). La monografia Vivian Maier. Una fotografa ritrovataè pubblicata in Italia dall’agenzia Contrasto.














Scacchi e letteratura

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Questo studio è apparso per la prima volta, in tre puntate, su paginaclub.blogspot.it
Per non infarcire il testo di note a pie’ di pagina, rimandiamo le molte citazioni alla bibliografia riportata in coda.


Attraverso gli specchi.
Gli scacchi nell’immaginazione degli scrittori e degli artisti

di Pasquale Barbella



«In un romanzo si possono affermare cose che in altri contesti sarebbero proibite.» Lo dice uno dei personaggi di Teoria delle ombre di Paolo Maurensig: anche questo, come La variante di Lüneburg, ambientato nel mondo degli scacchi. Le cose che si affermano in Teoria delle ombre, e che sarebbe disdicevole sostenere in altri contesti, sono materia scottante: hanno a che fare con la storia, la politica, la coscienza. Il protagonista, Alexandre Alekhine, è realmente esistito, com’è noto a chi ha dimestichezza con gli scacchi. Russo, è stato campione del mondo dal 1927 al 1935 e dal 1937 fino alla morte, avvenuta nel 1946 a Estoril in circostanze che Maurensig ritiene sospette. I tornei internazionali, che videro Alekhine tra i prìncipi più gloriosi della scacchiera, s’incrociarono drammaticamente con la rivoluzione d’ottobre prima e la seconda guerra mondiale poi. In fuga dall’Unione Sovietica, trovò altre patrie pronte ad accoglierlo: la Germania di Hitler, i paesi occupati, il Portogallo di Salazar. Strinse amicizie imbarazzanti con esponenti di spicco del nazismo e si macchiò di compromessi gravissimi, fino a vergare di suo pugno (spontaneamente o sotto pressione) articoli sulla presunta superiorità concettuale degli ariani sugli ebrei nell’arte degli scacchi.

Scacchi e rieducazione. Giovani detenuti in un penitenziario dell’Unione Sovietica, 1966 (Eve Arnold/Magnum Photos).

Maurensig indaga sulla morte misteriosa del campione e si rivela a sua volta scacchista magistrale nell’allestimento d’una partita narrativa in difesa di Alekhine. Del quale non tace né colpe né debolezze: l’asservimento al terzo Reich per poter continuare a giocare, l’antisemitismo, i matrimoni d’interesse a catena (quattro), l’abbandono di un figlio, la dipendenza dall’alcol. E di cui mette in luce la fragilità e la solitudine, due tratti in netta antitesi con la potenza e l’arroganza manifestate nel suo ambito professionale.

Sono le ultime settimane di vita di Alekhine. La guerra è appena finita. Si ritrova confinato, senza soldi e senza amici, in un albergo di Estoril, inviso ai governi democratici così come alla madre Russia, in attesa di misurarsi – non si sa dove né quando – con il prossimo sfidante: russo anche lui, ma incoraggiato dal sostegno ufficiale dell’impero comunista. Sul piano esistenziale è un perdente crepuscolare come l’ambiguo paese che lo ospita, della cui polizia segreta non si fida affatto. Assillato da paranoie e ricordi sgradevoli, trova appoggio e comprensione in un altro ospite dell’albergo: un violinista – guarda caso – ebreo. E mentre a Norimberga vanno sotto processo, per crimini di guerra, i suoi amici e protettori d’un tempo, Alekhine cade nelle spire d’un severo tribunale morale, quasi fosse un personaggio di Dürrenmatt. A incalzarlo con gli interrogatori provvede dapprima un’intervistatrice del Diário de Lisboa, poi – a più riprese – uno spietato stalker portoghese, che si è installato nel suo albergo per marcarlo a vista. Il re degli scacchi si arrocca in un’appassionata arringa autodifensiva, assistito dai pochi pezzi che gli sono rimasti: un alfiere (Maurensig) e un pedone né bianco né nero, il violinista ebreo. La cui compassione, per quanto paradossale possa sembrare, non è mossa da semplice buonismo ma dalla consapevolezza di appartenere, come artista, alla stessa casta dell’accusato.

Teoria delle ombre è un romanzo magnifico e sconvolgente. Non tanto per il suo andamento da thriller (come è morto Alekhine, e perché?), quanto per la sapiente architettura logica e il sistematico rifiuto di versioni ufficiali e giudizi precostituiti. Maurensig concede al suo eroe – o antieroe – molte attenuanti: si può essere visionari e artisti senza essere attrezzati del talento necessario per sopravvivere dignitosamente nel mondo reale.

Mosca, 1967. Appassionati di scacchi durante un torneo popolare al parco Gorkij (Bruno Barbey/Magnum Photos).

Vincitori e vinti

Affascinato da Teoria delle ombre, sono ritornato dopo ventidue anni sulle pagine de La variante di Lüneburg, che adesso fa parte del mio ristretto comparto dei libri letti due volte. I due romanzi hanno in comune l’argomento: gli scacchi come ossessione e lente deformante, un “gioco” carico di valenze esoteriche e, nelle narrazioni di Maurensig e altri scrittori, di allusioni a drammi privati e pubbliche tragedie. Il nazismo e la persecuzione degli ebrei gravano sulle scacchiere di Maurensig e le mosse dei suoi protagonisti come ombre fatali: fanno pensare a Vincitori e vinti, titolo italiano d’un film di Stanley Kramer dedicato nel 1961 al processo di Norimberga. La variante di Lüneburg mette in scena un duello scacchistico tra vittima e carnefice di bruciante potenza emotiva, e Teoria delle ombre conferma le doti di uno scrittore capace di ordire, aggiornandole, le tessiture più nobili e inquietanti della letteratura mitteleuropea del Novecento.

Una tavola di Veronika Nasamoto da Phantasmagoria, graphic novel pubblicata nel 2010 sul blog dell’autrice. Le illustrazioni citano quelle di John Tenniel per l’edizione originale di Attraverso lo specchio di Lewis Carroll, 1871 (Through the Looking-Glass, and What Alice Found There).

Non sono pochi gli scrittori e gli artisti che, in ogni epoca, si sono lasciati ispirare dalle sessantaquattro case bianche e nere e dall’andirivieni dei trentadue occupanti per raccontare qualcos’altro. Forse perché nessun gioco si presta, meglio degli scacchi, a rappresentare simbolicamente le nostre battaglie esistenziali. Non gli sport, pur sempre condizionati da qualche elemento “impuro”, estraneo alla competenza e al talento dei soli contendenti; né i giochi di carte, dove il caso si comporta come un concorrente in più, un intruso amorale e sarcastico. La scacchiera si presenta come un campo neutro e rigoroso, assoluto: le risorse che offre, così come le sue minacce, sono esattamente quelle che si vedono, mossa dopo mossa. «Conoscevo per esperienza personale la misteriosa forza di attrazione del “nobil gioco”, l’unico fra tutti quelli ideati dall’uomo che sovranamente si sottrae alla tirannia del caso e consegna la palma della vittoria esclusivamente all’intelletto o, meglio, a una certa forma di talento intellettuale.» Così pensa l’io narrante della Novella degli scacchi di Stefan Zweig. Ma, secondo Borges, i giocatori non sono poi così diversi dalle milizie che credono di dirigere. Che sono, sì, alla mercè del nostro intelletto e delle nostre dita, ma non si può escludere che un potere dispotico, superiore al nostro, decida della nostra sorte come se le miniature fossimo noi:

Ma il giocatore è anch’esso prigioniero
(Omar lo dice) d’una sua scacchiera
fatta di nere notti e bianchi giorni.

Dio muove il giocatore, e questi il pezzo.
Che dio dietro di Dio la trama inizia
di tempo e sogno e polvere e agonie?

Scacchi, una poesia di Jorge Luis Borges dalla raccolta L’artefice, tradotta da Tommaso Scarano.

Neanche Dio, insomma, è onnipotente. L’onnipotenza, come l’infinito, è sempre più grande, irraggiungibile più di quanto ci è dato immaginare. Omar è Omar Khayyām, e citandolo Borges ci trascina indietro nel tempo e nello spazio: nel medio Oriente, a cavallo tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo. Nelle sue quartine, il poeta persiano si esprimeva quasi con le stesse parole:

Null’altro siamo che non parte del gioco,
muoviamo su una scacchiera di giorni e notti;
ad ogni mossa un pezzo cade preso,
la partita continua mentre noi siamo riposti.

Omar Khayyām non era solo poeta ma anche matematico, astronomo, filosofo. Gli scacchi evocano da sempre implicazioni altrettanto molteplici. Sono il dispositivo ideale per entrare, come Alice attraverso lo specchio, in un mondo parallelo, polivalente, enigmatico. E come Alice intraprendiamo anche noi una gita nel paese degli scacchi. Un viaggio nella letteratura e nelle arti non sempre lineare come il movimento della torre, ma scomposto, obliquo, saltuario, come si conviene a una compagine di fantasmi di legno o d’avorio.

Honoré Daumier, Giocatori di scacchi, 1863. 

Il gioco non è un gioco

Il concetto di “gioco” è ambiguo per definizione. Lo si indica come attività non produttiva, «liberamente scelta [...] senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago», secondo l’enciclopedia Treccani; ma subito dopo lo stesso compilatore aggiunge: «esercitando nello stesso tempo capacità fisiche, manuali e intellettive». Esercitazione che nei bambini ha uno scopo preciso e concreto, l’apprendimento: «Per il bambino, una vita protetta, limitata, inattiva è un vero disastro», scriveva il sociobiologo Desmond Morris in un suo best-seller sui comportamenti umani; «Affinché possa poi essere un adulto “riuscito”, nell’infanzia deve essere super-attivo, ed è la sua “giocosità” innata a incoraggiare questa vitalità e a permettere che, in condizioni normali, questa trovi degli sbocchi.» Ma si continua a giocare anche da adulti e, ancor più, da adulti esperti in un gioco specifico: perché in ballo non ci sono soltanto l’apprendimento e l’affinamento dell’esperienza, ma anche l’agonismo, la determinazione a raggiungere un traguardo, la volontà di prevalere e di primeggiare, il desiderio di aggiudicarsi un premio (denaro, gloria o semplicemente l’intima soddisfazione di aver annientato un avversario, vero o immaginario che sia). Il gioco non è dunque, in nessun caso, attività improduttiva: produce risultati, veri o simbolici, che modificano ad ogni match, anzi ad ogni mossa, la nostra relazione con tutto ciò che si trova all’esterno della nostra coscienza.

Anni settanta. Xilografia dell’artista tedesca Elke Rehder ispirata alla Schachnovelle di Stefan Zweig.

Scrive Zweig: «Definendo gli scacchi un gioco, non ci si rende però già colpevoli di un’offensiva limitazione? Non sono anche una scienza, un’arte, categorie tra cui rimangono sospesi come la bara di Maometto fra cielo e terra, un vincolo straordinario fra tutte le coppie di opposti? Antichissimo eppure eternamente nuovo, meccanico nell’impostazione ma dipendente dalla fantasia, confinato in uno spazio rigidamente geometrico e ciò nonostante sconfinato nelle sue combinazioni, in continua evoluzione eppure sterile, un pensiero che non porta a nulla, una matematica che non calcola nulla, un’arte senza opere, un’architettura senza sostanza e nondimeno nella sua esistenza e nella sua essenza notoriamente più duraturo di tutti i libri e di tutte le opere, l’unico gioco che appartiene a tutti i popoli e a tutte le epoche, e di cui nessuno sa dire quale dio lo abbia portato sulla terra per ammazzare la noia, acuire i sensi, sollecitare la mente.»

Scacchi millenari ed esoterici nella basilica di San Savino, a Piacenza. Il mosaico, presso l’altare, è di incerta interpretazione. Virtù? Prudenza? E chi è il giocatore fuori campo?

L’idea del gioco come puro svago è bella, solare, confortante. Nessuno si mette a giocare con il proposito dichiarato di combattere e vincere una guerra. Eppure basta entrare in un bar o un circolo ricreativo per raccogliere le velenose esternazioni dei giocatori di biliardo, di carte, di scacchi, persino di flipper – anche se il nemico è solo una macchina. L’imprecazione, l’insolenza, l’insulto, il rimbrotto, la bestemmia fanno da corredo automatico allo “svago”, specialmente nelle persone semplici e un po’ rozze, non allenate a un saldo autocontrollo. L’istinto rivela che, sotto le apparenze pacifiche, il gioco è lotta, agguato, aggressione, rappresaglia. Di rovente umiliazione si soffre pure nel caso in cui a batterci non sia un rivale in carne e ossa ma il più artificiale degli avversari, il computer – creatura acefala eppure impermeabile agli errori, alle distrazioni, alle dimenticanze. 

Non esiste svago allo stato puro se non nelle circostanze che richiedono da parte nostra l’impegno mentale ridotto al minimo, l’assenza di ogni tensione. Osservare i colori del tramonto, respirare l’aria di montagna, tuffarsi nel blu del mare o nel turchese della piscina – meglio se senza testimoni. In pubblico questa condizione è però più astratta che reale, perché anche quando ci sembra di godere, da semplici lettori o spettatori o ascoltatori, l’opera creata da altri (libro, film, dipinto, concerto), il nostro io è in azione, sta architettando qualcosa, si esprime pro o contro l’oggetto di fruizione come a voler prevalere segretamente sull’autore o mettersi alla pari con lui. E allora può accadere che l’ammirazione si tinga d’invidia, che il demone della competizione ci spinga a giudicare, a pensare, a dire la nostra, come se l’opinione che stiamo maturando fosse non meno autorevole del testo o del film o del dipinto catturati dal nostro tribunale interiore. La critica letteraria, la critica d’arte, qualsiasi tipo di critica dispone sullo stesso piano, lo stesso ring, la stessa scacchiera, il giudice e il giudicato. E questa lotta per l’autoaffermazione, che coinvolge l’artista e il più umile dei suoi fruitori (“mi piace”, “non mi piace”), si estende fino ad abbracciare qualsiasi evento – politico, storico, legato alla cronaca ­– e qualsiasi osservatore: lo si vede in quelle permalose e illusorie scacchiere che sono i social network, i cui adepti si adescano e sopprimono a vicenda a colpi di post, pollici alzati o abbassati, tweet e commenti perentori, non di rado ingiuriosi.

Mosca, 1994. Scacchisti sulla Piazza Rossa. (Foto P.B.)

Gioco di dei, gioco di donne

Ma non si può negare del tutto un versante ludico nelle simulazioni di guerra: anche gli dei, dopotutto, si divertono (o si arrabbiano) giocando a scacchi, e non l’hanno detto solo Omar e Borges. Gli scacchi hanno ispirato virtuosismi narrativi e poetici non meno complicati del “gioco” in sé. Giovan Battista Marino, il poeta più acrobatico e spericolato del Seicento italiano, dedica agli scacchi degli dei buona parte del canto XV del suo Adone: Venere sfida Adone, Adone vince barando con l’aiuto di Mercurio, questi narra la favola della ninfa Galania che aveva anch’essa barato con Venere ricavandone, per punizione, la metamorfosi in tartaruga. Anche dalle parti dell’Olimpo, dunque, il gioco degli scacchi produce, oltre al diletto, sciagure e castighi. A spassarsela davvero è invece il cavalier Marino, che ci ricama sopra uno dei suoi garbugli più sensuali e barocchi, sfidando a scacchi la lingua italiana. Piega la meccanica della versificazione al gusto dell’artificio elaborato e prezioso, giacché, com’egli stesso ebbe a teorizzare,


È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente, non del goffo):
chi non sa far stupir, vada a la striglia»

e introduce la sua scacchiera di delizie nel bel mezzo d’un gioco erotico fra gli amanti più sexy della mitologia greca, Venere e Adone.

Giulio Campi, Il gioco degli scacchi, 1532 circa. Roma, Palazzo Madama. Venere contro Marte? Allegoria matrimoniale?

Può sorprendere che la dea dell’amore e molte altre donne siano state spesso associate, nelle arti figurative, al gioco degli scacchi. Le tenzoni alla scacchiera a tutto farebbero pensare fuorché all’erotismo. O al genere femminile. Nell’immaginario comune gli scacchi sono – o sono diventati – una pratica essenzialmente virile, come il rugby e il sollevamento pesi. Eppure, a pensarci bene, le donne dovrebbero nutrire una predilezione per gli scacchi, gioco che al loro sesso riconosce di default un ruolo superiore: il pezzo più audace e potente non è il re, ma la regina. Il re è costantemente in pericolo, e se non c’è nessuno a fargli da scudo si barcamena incerto, un passetto per volta, come se fosse stato colpito da un ictus o dall’alzheimer. Mentre è la donna e gettarsi eroicamente nella mischia, a fendere l’intero campo di battaglia con volate animose e furenti, a rischiare la pelle come Giovanna d’Arco, ad attaccare e a travolgere chiunque le capiti a tiro:

Ma la donna real, vie più superba,
ne’ suoi liberi error legge non serba.
Per tutto erra costei, lunge e da presso
e può di tutti sostener la vice
[...] 
(G.B. Marino)

Frans Pourbus il Giovane, Ritratto di Giovan Battista Marino, olio su tela, 1621 circa. Detroit Institute of Arts, Detroit. Montaggio con frammento della partita a scacchi nel canto XV dell’Adone.

A volte si lascia prendere, sacrificandosi nel preciso intento di salvare, in un modo o nell’altro, l’imbelle sovrano a cui fa da badante, come una Lady Macbeth, una Madre Coraggio, un ministro della guerra, un condottiero. Svolgendo il suo ruolo di bodyguard iperprotettiva, materna ma veemente, e manifestando in campo un estremo senso di abnegazione, la regina sembra giustificare il successo “morale” che gli scacchi conquistarono nel Rinascimento, nell’aristocrazia e tra le fanciulle di buona famiglia: «Non c’era praticamente corte italiana che non avesse fra i suoi protetti qualche abile giocatore. In questo contesto gli scacchi fecero parte dell’educazione delle giovani anche come metafora di virtù, intima e familiare. Questo aspetto si esplicitò inevitabilmente anche nell’arte.» (Mario Leoncini).

Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi, 1555. Muzeum Narodowe, Poznan.

Per una di quelle complicazioni che s’intrecciano nella mitologia non meno che sulla scacchiera, Venere-Afrodite cedeva idealmente il campo a rivali celesti più interessate al culto della verginità e della riflessione che alla sessualità. Diana-Artemide e Minerva-Atena, l’una in assetto di guerra e l’altra in austero raccoglimento strategico, avrebbero rappresentato in modo più diretto e verosimile quelle virtù da corte rinascimentale. La tavola a quadretti, con il traffico coreografico che vi si svolge in superficie, ha poco da spartire con l’eros: solo un’idea generica di armonia, di bellezza; ma una bellezza sublimata e purificata, asessuata come nel più ironico ed elegante dei romanzi sugli scacchi, La difesa di Lužin di Vladimir Nabokov. Il manager del giovane protagonista, Valentinov, aveva «una bizzarra teoria circa lo sviluppo del talento scacchistico di Lužin collegato, a suo dire, a quello dell’istinto sessuale di cui gli scacchi costituivano la sublimazione, e temendo che Lužin desse sfogo naturale alle benefiche tensioni interiori, scialacquando così le sue preziose energie, lo teneva lontano dalle donne e si rallegrava della sua casta tetraggine.»

Montreux, 1966. Vladimir Nabokov gioca a scacchi con Anna, sua moglie (Philippe Halsman/Magnum Photos). Lo scrittore era un buon giocatore di scacchi, ma era interessato soprattutto ai problemi, che considerava, se ben costruiti, delle vere e proprie opere d’arte. Ne compose e pubblicò una ventina.

Gioco surreale

Una delle leggende sull’origine degli scacchi – la più diffusa, forse risalente al Medioevo ­– trabocca di vivace surrealismo, e ancora desta stupore per la sua ironia matematica. Re Shirham (indiano? persiano?) si annoia e chiede al visir Sissa Ben Dahir di proporgli un gioco nuovo. Quello inventa gli scacchi e il re impazzisce di gioia e gratitudine: «Chiedi ciò che vuoi e lo avrai.» Il marpione si accontenta di poco: un grano di riso sul primo quadretto, due sul secondo, quattro sul terzo e via di seguito, di raddoppio in raddoppio, fino alla sessantaquattresima casella. A prima vista sembra una miseria. Ma il risultato è strabiliante: 18.446.774.073.709.551.615 chicchi. Un’overdose di riso di gran lunga superiore all’intera produzione del globo. 

Duchamp e Man Ray in Entr’acte di René Clair, 1924.

Pure stupefacente è l’antichità di un’invenzione così complessa. Sentite cosa fa dire Massimo Bontempelli, surrealista nostrano, al Re Bianco: «...i pezzi degli scacchi sono molto, molto più antichi degli uomini, che sono all’ingrosso una specie di pedoni, con i loro alfieri, Re e Regine; e anche i cavalli, a imitazione dei nostri. Allora gli uomini hanno fabbricato delle torri per fare come noi. Hanno poi fatto anche molte altre cose, ma quelle sono tutte superflue. E tutto quello che accade tra gli uomini, specialmente le cose più importanti che si studiano poi nella storia, non sono altro che imitazioni confuse e variazioni impasticciate di grandi partite a scacchi giocate da noi. Noi siamo gli esemplari e i governatori dell’umanità.»

Sarà per questo, e per la passione devastante che divora i suoi eletti, che gli scacchi hanno spesso ispirato agli artisti fantasie metafisiche, allegoriche, gotiche, oscure. Un ritrattista di Hitler, Karl Truppe, dipinse nel 1942 una partita a scacchi con la morte; più nota, e più bella, è la partita contro la morte giocata dal cavaliere Antonius Block nel film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957), mentre intorno infuria la peste.

Bengt Ekerot (la Morte) e Max von Sydow (Antonius Block) ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957).

Gioco esistenziale, gioco proibito, gioco patologico, gioco mortale – comunque e sempre gioco allusivo, enigmatico, surreale per vocazione. Sebbene io sia analfabeta di scacchi, fallimentare fino all’idiozia nei miei sporadici tentativi di accesso alle sublimi tempeste cerebrali innescate dal gioco, sceglierei una scacchiera per illustrare la sintesi dei miei ricordi d’infanzia. Pavimento a riquadri bianchi e neri, in una cucina perennemente affumicata: con i neri funzionali ai primi esercizi di scrittura, compiuti col gesso, consistenti nell’imitazione di titoli di giornali – titoli di cui mi era ignoto il contenuto. Quei pavimenti, poi ammirati in tanti dipinti fiamminghi, erano tornati in auge negli anni venti e trenta del mio secolo: di nuovo, rispetto a una tradizione plurisecolare, c’era il loro sconfinamento dalle dimore dei ricchi agli appartamenti più modesti. Era come se la geometria degli scacchi avesse pervaso tutto il Novecento, diventandone il logo, il pattern, il motivo ornamentale più comune. Su quei pavimenti a scacchi ho camminato, giocato, saltato, scritto, ballato, sognato. E ho anche, una volta, ucciso un cavallo bianco di cartapesta, salendoci sopra, prima che potesse azzardare una fuga a forma di L.

Happening all’Art Museum di Pasadena, California, 1963. Marcel Duchamp gioca a scacchi con Eve Babitz in una celebre foto di Julian Wasser.

La prima metà del XX secolo è come la cucina della mia infanzia, dominata però da quadrati bianchi e neri su cui si muovono figure e simboli di un audace progresso: Freud, Picasso, Einstein, Schönberg, Duchamp... Fisica, psicanalisi, filosofia, medicina... Strano che un secolo tanto sensibile alle sfumature si sia concentrato così a fondo sul bianco e nero, dunque sulla precisione bipolare degli opposti. Meno strano se pensiamo a quanta implicita follia si annidi nelle contrapposizioni troppo nette – ariani e non ariani, Germania e resto del mondo, fascismo e comunismo... Lo “scacchiere internazionale”, nuova metafora della geopolitica. E se le arti figurative – dal cubismo al surrealismo – tendono a privilegiare, degli scacchi, gli aspetti estetici, simbolici, ludici, tocca agli scrittori concentrarsi sul loro potenziale drammatico, talvolta lugubre fino alla tragedia.


Sopra: Man Ray, Endgame, 1946. Olio su tela. © Man Ray Trust / Artists Rights Society, New York / ADAGP, Parigi. Sotto: Man Ray, Scacchiera surrealista, 1934. Da sinistra a destra e dall’alto verso il basso: André Breton, Max Ernst, Salvador Dalí, Hans Arp, Yves Tanguy, René Char, René Crevel, Paul  Éluard, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti, Tristan Tzara, Pablo Picasso, René Magritte, Victor Brauner, Benjamin Péret, Gui Rosey, Joan Miró, E.L.T. Mesens, Georges Hugnet, Man Ray.

Nabokov prima, e Zweig dopo, consegnano alla storia della letteratura le imprese scacchistiche di personaggi malati e disperati. Il giocatore Lužin, nel romanzo di Nabokov, confonde il sogno e la realtà, ma ritiene reale il mondo degli scacchi e sogno – anzi incubo – tutto il resto della vita vissuta. «L’unica cosa che sapesse per certo era che giocava a scacchi da tempo immemorabile, e nel buio della sua memoria, come in due specchi che riflettano una candela, c’era solo una prospettiva di luci convergenti con Lužin seduto a una scacchiera, e di nuovo Lužin alla scacchiera, soltanto più piccolo, e poi ancora più piccolo, e così via, un’infinità di volte.» Lužin è un caso clinico senza speranza: sembra affetto dalla sindrome di Asperger, disturbo che all’epoca del romanzo (1929) ancora non si chiamava così. La sua unica capacità consiste nel gioco degli scacchi; in tutto il resto è inabile, totalmente dipendente dagli altri, e gli scacchi sono per lui, al tempo stesso, libertà e condanna, autonomia e schiavitù, vita e morte. Vladimir Nabokov ci ricama sopra un capolavoro di analisi e ironia, facendo ruotare intorno al suo Lužin la comicità di ambienti “normali” quanto inaffidabili: la Russia pre- e post-rivoluzionaria, la cui ingenuità si traduce in ipocrisie di forza uguale e contraria; gli émigré russi scampati a Berlino e altrove, ancorati al tempo perduto e quasi infantili nello sforzo di sublimare l’esilio nella riproduzione posticcia del passato (gli arredi, le tradizioni, le piccole manie...) Su questo sfondo inconcludente, la patologia di Lužin assume una grandezza emblematica: «...era nel sonno che non si dava più pace, perché vi si protendevano dentro sessantaquattro caselle, una gigantesca scacchiera al centro della quale, completamente nudo e tremolante, c’era Lužin, grande quanto una pedina, a sbirciare le oscure posizioni di enormi pezzi macrocefali, quali con corona, quali con criniera.»

Nabokov riesce nell’intento di farci soffrire e sorridere, ed è abbastanza visionario da ricordarci, attraverso la descrizione degli incubi di Lužin, le bizzarre fantasie di un Magritte, di un Dalí, di un’immaginazione pronta a sovvertire certezze e valori tipici del “mondo reale” e del suo conformismo più placido e tenace.

René Magritte, Scacco matto, 1926.

Ma se Nabokov è beffardo nell’allestimento della tragedia di Lužin, Stefan Zweig non scherza affatto. Nella Novella degli scacchi, scritta durante la seconda guerra mondiale, i casi clinici sono due: c’è il contadino autistico e campione del mondo Czentovič, la cui sindrome è affine a quella di Lužin anche se gli effetti sono meno rovinosi; e c’è il misterioso dottor B., reduce da un’atroce esperienza che lo ha condotto alla schizofrenia. A lungo prigioniero della Gestapo, che lo ha isolato in una stanza senza libri o altri oggetti ai quali ancorare qualche forma di attenzione, B. si mette a inventare partite a scacchi di cui impersona entrambi i giocatori; e nello sforzo di superare lo scoglio della reciproca prevedibilità (ciascuno dei “due” contendenti sa con esattezza come si comporterà l’altro), il suo io arriva alla scissione totale. Zweig, ebreo, era in fuga dal nazismo quando, nel 1941, si dedicò a questo racconto nel suo esilio di Petrópolis, in Brasile; e si suicidò con la seconda moglie subito dopo, nel febbraio 1942. La scacchiera era stata anche per lui una distrazione, nel segmento terminale della vita.

Dalla Novella degli scacchi di Stefan Zweig è stato tratto un film nel 1960, Schachnovelle, distribuito in Italia come Scacco alla follia. Regia di Gerd Oswald. Con Curd Jürgens nel ruolo di un uomo “intossicato” dagli scacchi mentre è detenuto dalla Gestapo, e Mario Adorf in quello di un campione del mondo con il quale sarà costretto a confrontarsi a bordo di un piroscafo, in un fosco duello alla scacchiera che metterà a dura prova la sua incolumità mentale.

Scacchi e delirio

Non potevano mancare gli scacchi in Tutto il ferro della torre Eiffel, singolare romanzo – tra il fantasy e il pastiche sperimentale – di Michele Mari. Se in La vita, istruzioni per l’uso Georges Perec immaginava di osservare ciò che accadeva nelle stanze d’un palazzo privo di facciata (che a nostra volta possiamo interpretare, volendo, come una scacchiera tridimensionale), Mari spia l’Europa del Novecento; il suo “palazzo” è l’anno 1936, uno spazio-tempo in cui ne convergono altri, precedenti e successivi, per consentire ai personaggi di vivere, soffrire e morire. Quali personaggi? Il gotha intellettuale di centro-secolo: filosofi, storici, letterati, artisti, cineasti, editori, scacchisti, ma anche le loro creature di fantasia: i mostri, i fantasmi, le ossessioni. Nonché le loro idee, opinioni, posizioni sulla scacchiera della storia e della guerra, i loro destini. Su questo cast illustre quanto incongruo – da Walter Benjamin a Lola-Lola, da Joseph Roth a Otto Dix, dal nano scacchista di Auto da fé (Elias Canetti) alla pornobambola ricalcata sulle fattezze di Alma Mahler – soffia il vento nero del nazismo e della morte. Nazismo spesso “visualizzato” in forma di nanismo: fisico e morale, attingendo a una vasta letteratura e cinematografia del grottesco, incline a miniaturizzare la statura umana per rivelarne il lato stregonesco e circense. (Poveri short people: quanto dovranno ancora aspettare per conquistare la qualifica di “diversamente alti”?)


Walter Benjamin (1892-1940), filosofo, scrittore, traduttore e critico letterario tedesco. Tra i suoi scritti più citati: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936); I “passages” di Parigi (incompiuto e postumo); saggi su Baudelaire, Karl Kraus, Kafka. Ebreo, suicida durante un tentativo di fuga dalla Francia occupata dai nazisti.

Nel romanzo di Mari è come se i trentadue nani della scacchiera (a cominciare da Adolf, il re nero) avessero preso il sopravvento sui giocatori, assumendo sembianze inaudite: quelle dei vampiri, dei demoni, delle mummie, dei maghi, dei golem, dei freak, degli zombi, dei fantocci, degli automi, dei Caligari, dei Mabuse, dei mister Hyde, delle creature di Frankenstein, degli spettri, dei Mackie Messer e dei mostri di Düsseldorf che tanto folleggiarono negli incubi dell’epoca. E dell’inquietante, inafferrabile, demoniaco Céline, onnipresente ma sempre in ombra. Mari ha allestito un gioco tra il tragico e l’umoristico, assemblando una congerie di vicende reali e fantastiche come questa: «Nella sua cabina sul piroscafo Normandie che lo riportava in Francia dopo una lunga tournée scacchistica negli Stati Uniti, Marcel Duchamp sedeva a notte fonda davanti a un tavolino sul quale erano posati un libro aperto e una scacchiera. Il libro era Locus solus del suo grande amico e compagno di scacchi Raymond Roussel, l’unico francese che fosse riuscito a tenergli testa. Dal 14 agosto 1933, giorno in cui Roussel si era suicidato a Palermo, Duchamp stava impazzendo nel tentativo di ricostruire la partita a scacchi che secondo lui era criptata in quel libro. In quella partita, ne era sicuro, si celava a sua volta il segreto della morte di Roussel: e forse, osava sperare, anche l’arte di riportarlo in vita... Il protagonista di Locus solus, Martial Canterel, non aveva inventato la “Resurrectina”, una sostanza in grado di ridare ai cadaveri almeno una parvenza di vita?» Michele Mari applica a tutto il romanzo questo meccanismo fatto di coincidenze, rimandi, citazioni, come se tutte le biografie, gli eventi, le narrazioni del XX secolo s’intrecciassero continuamente in un ordito allusivo e raccapricciante. Impressiona anche i meglio informati, per esempio, la ricorrenza del suicidio come estrema manovra di sblocco dell’intellettuale (ebreo o altrimenti dissenziente) perseguitato dalla storia, dalla malattia, dalla scalogna (bisognerebbe toccare tutto il ferro della torre Eiffel per sottrarsi alla iella), quando non addirittura da sé stesso.

Bobby Fischer (1943-2008), statunitense naturalizzato islandese, gran maestro di scacchi e campione del mondo dal 1972 al 1975, in un ritratto del 1967 (Philippe Halsman/Magnum Photos). I suoi modi di fare stravaganti e la sua vita privata caratterizzata da solitudine, scarse abilità sociali e ossessione per lo studio degli scacchi portano molti psicologi a ritenere che Fischer fosse affetto dalla sindrome di Asperger.

Il lato comico di Tutto il ferro della torre Eiffel non sta solo nei risvolti pirandelliani del rapporto fra autori e personaggi immaginari (Beckett accoltellato da Godot!), o nei calchi parodistici di autori dallo stile inventivo (Céline, Gadda); ma anche nell’evocazione di una smisurata ed eclettica Wunderkammer modello e-Bay, stracolma di feticci insediatisi in pianta stabile nell’immaginario mid-cult: la pipa di Magritte e lo scarafaggio di Kafka, la punteggiatura di Céline e le bottiglie di Morandi, i cavalli di Guernica e l’orinatoio di Duchamp, le vocali di Rimbaud e l’albatro di Baudelaire... Allo stesso esorbitante catalogo evocativo ritornano più volte le scacchiere dei Grandi Maestri (Alekhine, Euwe, Capablanca...), che dall’alto del loro divino talento suggeriscono mosse che consentano agli inermi Walter Benjamin, Marc Bloch ed Erich Auerbach di sopravvivere alla propria fine. Enciclopedico come un database, il romanzo è talmente esuberante e polivalente che lo si può leggere anche come un divertissement sui detriti della cultura alta nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte: non a caso è proprio Benjamin, a caccia di oggetti da collezione nei passages parigini, il principale soggetto del libro. Né, a maggior ragione, è un caso se lo stesso Mari, nel corsivo introduttivo, irride alla pseudoproustiana madeleine di plastica nel museo di Combray.

Il campione del mondo (1921-1927) cubano José Raúl Capablanca fotografato nel 1915 per l’American Chess Bulletin.

Non mancano, nell’inarrestabile flusso citatorio, momenti di commovente intensità drammatica, come nello scontro fra un disperato Klaus Mann e suo padre Thomas; o come nel visionario e tenebroso gran finale, dove Benjamin e Bloch sono costretti ad affrontare il loro personale “viaggio al termine della notte”.

© Pasquale Barbella


Una natura morta con scacchiera di Juan Gris, 1917. Philadelphia Museum of Art.


Opere citate nel testo

Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936; ed. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. Enrico Filippini, Torino: Einaudi, 1966. 

Massimo Bontempelli, La scacchiera davanti allo specchio, Firenze: Bemporad, 1922; ed. a cura di Luigi Baldacci in Opere scelte, Milano: Mondadori, 1978 (collana I Meridiani). 

Jorge Luis Borges, El hacedor, 1934-1959; ed. it. L’artefice, trad. Tommaso Scarano, Milano: Adelphi, 1999. 

Elias Canetti, Die Blendung, 1935; ed. it. Auto da fé, trad. Luciano e Bianca Zagari, Milano: Adelphi, 1981. 

Louis-Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit, 1932; ed. it. Viaggio al termine della notte, trad. Ernesto Ferrero, Milano: Corbaccio, 1933. 

Omar Khayyām, Robā’iyyāt, Persia, XII secolo. Ed. it. Quartine, trad. Alessandro Bausani, Torino: Einaudi, 1979. 

Mario Leoncini, Natura simbolica del gioco degli scacchi, Grafimage, 2010. 

Paul Klee, Angelus novus, 1920. Non si tratta di una creatura benigna ma di Hitler, per Klee, e dell’“Angelo della Storia”, per Benjamin, che lo comprò nel 1921 e lo affidò, poco prima di suicidarsi nel 1940 durante un malriuscito tentativo di fuga dall’Europa, all’amico Georges Bataille. In seguito appartenne anche a Theodor Adorno e Gershom Scholem, prima di approdare a Gerusalemme, al Museo d’Israele.

Michele Mari, Tutto il ferro della torre Eiffel, Torino: Einaudi, 2002. 

Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg, Milano: Adelphi, 1993. 

Paolo Maurensig, Teoria delle ombre, Milano: Adelphi, 2015. 

Desmond Morris, Manwatching. A Field Guide to Human Behaviour, 1977; ed. it. L’uomo e i suoi gesti. La comunicazione non verbale nella specie umana, Milano: Mondadori, 1977. 

Vladimir Nabokov, Zaščita Lužina, 1930; ed. it. La difesa di Lužin, trad. Gianroberto Scarcia, Ugo Tessitore, Milano: Adelphi, 2001. 

Georges Perec, La Vie mode d’emploi, 1978; ed. it. La vita, istruzioni per l’uso, trad. Dianella Selvatico Estense, Milano: Rizzoli, 1984. 

Raymond Roussel, Locus solus, 1914; ed. it. Locus solus, trad. Valerio Riva, Paola Décina Lombardi, Milano: Einaudi, 1975. 

Stefan Zweig, Schachnovelle, 1941; ed. it. Novella degli scacchi, trad. Enrico Ganni, Torino: Einaudi, 2013.

Ludwig Deutsch, Il gioco degli scacchi, 1896.
 
Auguste Rodin, Il pensatore, 1880-1904. Musée Rodin, Parigi. (Fotomontaggio).















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