Da Sully-Prudhomme a Bob Dylan, 2
Canzoni da Nobel
Qualche milione di persone si sta chiedendo se sia legittimo considerare poesia i versi delle canzoni: poesia, talvolta, talmente di prim’ordine da giustificare un premio Nobel per la letteratura. Peccato non sapere cosa ne penserebbe Dylan Thomas, il poeta gallese al quale Robert Zimmerman si ispirò per la scelta del proprio nome d’arte, Bob Dylan. Purtroppo il primo Dylan, essendo deceduto nel 1953, non sa nulla del secondo, ed è all’oscuro del Nobel attribuito a questo suo fan di Duluth, Minnesota, di professione songwriter. Adoro gli accademici di Stoccolma: a volte prendono cantonate indimenticabili, come quando i loro predecessori ignorarono Tolstoj per un tale Sully-Prudhomme; ma non è detto che il premio a Bob Dylan debba considerarsi una birichinata, o che Philip Roth (in attesa da anni del suo Nobel, come lo fu DiCaprio per il suo Oscar) debba ritenersi offeso per essere stato scavalcato da una rockstar. Bisognerebbe essere grati, anzi, alla Svenska Akademien per aver sollevato una questione elettrizzante sulla natura della letteratura e sui parametri tradizionali della critica ufficiale.
Pesano sulla reputazione degli autori di canzoni le orrende vaccate scritte dalla maggior parte della categoria (il canzoniere italiano trabocca persino di insulti alla grammatica e alla sintassi), ma anche la tirannia della metrica musicale. I testi da cantare difficilmente possono aspirare a una nobiltà autonoma, finalizzati come sono a un altro linguaggio. Provate a leggere (senza musica) i libretti d’opera: gridano vendetta al cielo. Nemmeno quelli di Lorenzo Da Ponte, raffinato librettista di Mozart per le opere italiane, stanno bene in un’antologia poetica destinata alle medie superiori. A maggior ragione è difficile considerare poesia il lavoro di Mogol. Ciò non toglie che, ciascuno nel proprio ambito, Mozart e Lucio Battisti se la siano cavata piuttosto bene, serviti da versi perfetti per la funzione che dovevano svolgere.
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Dylan nella sua casa di Byrdcliff, NY, 1968. © Elliott Landy/Magnum Photos. |
Eppure succede, talvolta, il miracolo. C’è un verso di Jacques Brel che ho sempre considerato all’altezza della grande poesia francese:
Avec un ciel si bas qu’un canal s’est perdu,
«Con un cielo così basso che un canale si è perduto.»
Il verso è in una canzone, La plat pays, bella (e letteraria) fin dal titolo: Il paese piatto, riferito al Belgio, con doppio riferimento alla sua modesta altitudine – in buona parte sotto il livello del mare – e l’umida malinconia che lo affligge: una tetraggine che Brel considera quasi metafisica. Il «paese piatto» è un Belgio geografico e mentale. Come in Ne me quitte pas, Jacques Brel è insuperabile nell’illustrazione del vuoto esistenziale e della desolazione. Gli spazi del plat payssembrano immensi, cupi e grigiastri come lastre addolorate sferzate dal vento. E le parole affondano come sassi al rallentatore nel più gelido dei mari, in balia dei loro mille significati: vague, per esempio, si ripete quattro volte nei primi tre versi, denotando quattro significati differenti fino a perderli tutti e a diventare suono “vagante”, astratto, ipnotico, irriconoscibile:
Avec la mer du Nord pour dernier terrain vague
Et des vagues de dunes pour arrêter les vagues
Et de vagues rochers que les marées dépassent
Et qui ont à jamais le cœur à marée basse
Avec infiniment de brumes à venir
Avec le vent de l’est écoutez-le tenir
Le plat pays qui est le mien…
Con il mare del Nord estremo spiazzo incolto
e onde di dune come argine alle onde
e scogli solitari che in balia di maree
hanno sempre bassa la marea del cuore
con foschie in arrivo all’infinito
con il vento dell’est sentitelo come resiste
il piatto paese che è il mio...
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Jacques Brel nel 1967. |
E si prosegue con il nordico, immobile gigantismo delle cattedrali gotiche, uniche montagne plausibili in quel depresso paesaggio; i campanili anneriti; i diavoli di pietra che
squarciano le nubi
con il filo dei giorni per unico viaggio
e sentieri di pioggia per sola buonasera.
Ma stavamo parlando di Bob Dylan. Del suo modo di scrivere e dell’enorme influenza che ha avuto sulla cultura popolare americana, musicale e non. In realtà, il profilo poetico di Dylan corrisponde in modo più che trasparente ai modelli statutari del Nobel, tant’è che il suo nome girava da un pezzo da quelle parti: conflitto interiore tra idealismo e nichilismo, anelito libertario, furore sociale e politico... Vero è che Bob ha sempre negato di voler trasmettere messaggi attraverso le sue canzoni, ma è vero fino a un certo punto: Blowin’ in the Windè fin troppo esplicita in quel senso, e ancora di più lo è Hurricane, tanto per citare qualche titolo a caso.
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Bob Dylan fotografato da Elliott Landy per la copertina dell’album Nashville Skyline, 1968. © Elliott Landy/Magnum Photos. |
18 carichi di dylanite.
Blowin’ in the Wind, 1962.
Dylan non ha mai amato parlare delle sue canzoni: ciò che hanno da dire lo dicono da sole, ha sempre sostenuto. Vero. Ma investigare un poco sui primi passi di Blowin’ in the Windaiuta a percepire il clima che doveva respirarsi, in quegli anni, nei ritrovi del Greenwich Village newyorkese, diventato il quartier generale dei folksinger d’America. Diverse fonti concordano sulla data di nascita della canzone: 16 aprile 1962. L’ispirazione arriva al Commons, un caffè di MacDougal Street a due passi dal Gaslight, folk club tra i più vivaci del quartiere. Secondo Anthony Scaduto, uno dei biografi di Dylan, è in corso una discussione sui diritti civili e sulle promesse non mantenute fatte dall’America. Poi la discussione si arena, «e tutti rimasero a contemplare i loro boccali di birra. A Dylan venne un’idea: “il tuo silenzio ti tradisce.” Prese degli appunti e, finito di bere, corse a casa a scrivere.»
Altri sostengono che Dylan scrisse il testo seduta stante, senza muoversi dal Commons, alla presenza di un solo amico. Poco importa. Più interessante invece la genesi della melodia, ripresa più o meno di sana pianta (com’era uso comune tra i folksinger) da materiale preesistente. In particolare da No More Auction Block, canzone libertaria incisa da Odetta nel 1960 (dal vivo alla Carnegie Hall), a sua volta derivata da uno spiritual del 1833, Many Thousands Gone, originario del Canada. No More Auction Block sta per «mai più piedistallo per l’asta» e si riferisce ai blocchi di cemento sui quali i mercanti di schiavi esponevano i negri in vendita. Forse Dylan conosceva il disco di Odetta; certo ebbe modo di ascoltare quella canzone nello stesso Village, da Delores Dixon e i New World Singers.
Chi erano i New World Singers? Gli stessi che avrebbero non solo presentato in pubblico per la prima volta, ma anche inciso per primi, Blowin’ in the Wind: Gil Turner, Bob Cohen, Delores Dixon e Happy Traum. Turner era più che un cantante. Era uno dei leader in quell’ambiente. Aveva avuto l’idea di fondare una rivistina, Broadside, per raccogliere testi folk di nuovi autori. Con i compagni del quartetto si esibiva abitualmente al Gerde’s Folk City, e da quei microfoni aveva esortato il popolo del Village a scriversi da sé le proprie canzoni. Bob Dylan andò al Gerde’s la sera stessa del 16 aprile, poche ore dopo aver scritto di getto (pare in dieci minuti) Blowin’ in the Wind. Durante una pausa dello show, la fece ascoltare a Gil Turner. Questi non solo apprezzò il motivo, ma invitò Dylan a unire la propria voce a quelle dei New World Singers per una esecuzione istantanea. La canzone fu battezzata al microfono subito dopo, con le parole – non ancora memorizzate – lette in diretta su un foglietto di carta.
Gil Turner e compagni incisero quell’anno, per la Smithsonian Folkways, diverse ballate pubblicate sul Broadside, tra cui Blowin’ in the Wind. Precedettero così Peter, Paul & Mary (1963), artefici di un clamoroso successo commerciale, e lo stesso Dylan, la cui interpretazione – voce, chitarra, armonica a bocca – si ascolta in The Freewheelin’ Bob Dylan, l’album prodotto da John Hammond. Nel 1963 escono anche la versione del Chad Miller Trio e quella, insolita e meravigliosa, di Marlene Dietrich in tedesco per la EMI Electrola, con testo di Hans Bradtke (Die Antwort weiss ganz allein der Wind) e arrangiamento di Burt Bacharach.
Che si potesse scrivere un inno così epocale in un caffè, chiacchierando con gli amici in un’ora morta del pomeriggio, per poi andarsela subito a giocare in un altro caffè dove si fa musica ogni sera, la dice lunga sull’America dei primi anni sessanta. E su New York. E su Dylan, uno dei tanti ragazzi spettinati che se ne vanno in giro con la chitarra in spalla e i calzoni sdruciti da un posto all’altro del Village.
Il folk era ovunque. Ci avevano impegnato una vita i due Lomax, padre e figlio, a battere le campagne e le prigioni a caccia di motivi popolari da collezionare e rimettere in circolo. Dove battevi, trovavi. Spiritual, gospel, blues, inni sacri e ballate profane provenienti dall’Inghilterra, dalla Scozia, dall’Irlanda, più volte riciclati da oscuri montanari, da contadini delle colline, da cowboys. Inni della guerra civile. Canti di lavoro di ferrovieri e minatori. E altri inventati di sana pianta da vagabondi, fuorilegge, o da nomadi solitari e dissenzienti come Woody Guthrie. Negli anni cinquanta c’erano stati gli Almanac Singers e gli Weavers – Pete Seeger e compagni – e tipi come loro, ragazzacci che non piacevano al senatore McCarthy e che ebbero il loro bravo filo da torcere. Gli Weavers, un po’ come i Lomax, amavano rovistare dappertutto, anche nel folklore esotico (furono loro a importare dal Sudafrica Mbube, ovvero Wimoweh, ovvero The Lion Sleeps Tonight). E poi c’era Harry Belafonte, gran detective e divulgatore della musica delle Antille.
Il boom del folk, negli anni cinquanta e sessanta, era inscindibile dalla protesta. Le canzoni erano frecce puntate contro l’establishment. Contro i padroni, i colonizzatori, i razzisti, i guerrafondai. Lo sfascio nel Vietnam produsse, oltre che un numero spaventoso di vittime, anche una notevole effervescenza musicale. Canzoni come Blowin’ in the Wind portavano già, tra le righe, il germe del Sessantotto. Ma erano talvolta permeate anche da un’aura di religiosità – se non altro per l’origine melodica. Come We Shall Overcome, rielaborata da un vecchio canto liturgico.
Chi può dire di non aver cantato Blowin’ in the Wind, da solo o in coro, almeno una volta? Questa è stata ed è davvero una canzone di tutti: persino di Papa Wojtyla, nel 1997, quando un Dylan precocemente invecchiato e visibilmente stanco delle many roads attraversate nella sua vita si esibisce in un concerto per il Pontefice.
How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
Yes, ’n how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, ’n how many times must the cannonballs fly
Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind,
The answer is blowin’ in the wind.
Quante strade deve girare un uomo
prima di potersi dire uomo?
Già, e quanti mari deve sorvolare una colomba
prima di riposare sulla sabbia?
Sì, e quante volte devono volare le palle dei mortai
prima di essere bandite una volta per tutte?
La risposta, amico, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.
Il 27 settembre 1997, trentacinque anni dopo la nascita di Blowin’ in the Wind, Dylan ricanta il suo inno a Bologna, al megaconcerto rock in mondovisione organizzato per il 23° Congresso Eucaristico. In Piazza Maggiore, sotto il palco eretto davanti alla basilica di San Petronio, ci sono trecentomila ragazzi. Si avvicendano le star: Adriano Celentano con Pregherò, cover italiana di Stand by Me, e Lucio Dalla, Gianni Morandi, Andrea Bocelli. Dylan appare sul tardi con un cappello bianco da cowboy e quel genere di stanchezza che fa invecchiare anzitempo tutti quelli che nel vento non trovano mai risposte soddisfacenti alla propria inquietudine. Giovanni Paolo II dichiara: «Un vostro rappresentante ha detto che la risposta alle domande della vostra vita sta soffiando nel vento. È vero. Però non nel vento che tutto disperde nei vortici del nulla, ma nel vento che è soffio e voce dello Spirito, voce che chiama e dice vieni. Mi avete chiesto quante strade deve percorrere un uomo per potersi riconoscere uomo. Vi rispondo: una. Una sola è la strada dell’uomo, e questa strada è Cristo, che ha detto “Io sono la via.” Egli è la strada della verità, la via della vita.»
Per chi non si aspettava questo tête-à-tête fra la chiesa cattolica e la grinta trasgressiva del rock, non poteva esserci incontro più emblematico. Dylan, ebreo errante e vecchio ribelle radicale, passato attraverso tante disillusioni e tante svolte, da anni cerca le sue risposte anche nella religione.
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28 agosto 1963. Bob Dylan (al centro) e Peter Yarrow (a destra), attivista e cantante del trio Peter, Paul and Mary, alla grande marcia su Washington per i diritti civili degli afroamericani. All’apice della manifestazione Martin Luther King pronunciò il famoso discorso I have a dream. © Danny Lyon/Magnum Photos. |
Don’t Think Twice, It’s All Right, 1963.
(Non pensarci due volte, va bene così). La melodia deriva da quella di una folk song dei monti Appalachi, Scarlet Ribbons for Her Hair, da cui Paul Clayton, un amico di Dylan, aveva già tratto una canzone, Who’ll Buy You Ribbons When I’m Gone (Chi ti comprerà i nastri quando me ne sarò andato). Di Clayton, Howard Sounes scrive (a proposito di un viaggio di Bob Dylan, Clayton e altri due compagni in California per una tournée del 1964): «[...] gli amici ritenevano che Paul fosse innamorato di Bob. Clayton faceva uso smodato di droga, e aveva una preferenza per le amfetamine. Parte del suo bagaglio era composto da una valigetta che una volta aperta rivelava un vasto spiegamento di pasticche. “Era una farmacia ambulante” dice scherzando Karman (Pete Karman, un altro dei compagni di viaggio, ndr).»
Ispirata, come Tomorrow Is a Long Time, dal tramonto di una lunga relazione con Suze Rotolo, Don’t Think Twice è imperniata su uno dei temi più frequenti nella storia della canzone popolare: la separazione. Due amanti si lasciano, uno dei due canta la sua pena: niente di nuovo sotto il sole. Eppure Dylan riesce a essere nuovo e bruciante, come se il suo fosse il primo addio che l’uomo abbia mai osato rivestire con i versi e le note di una canzone. Usa parole di ogni giorno, semplici e strazianti, un po’ come in Italia Luigi Tenco, per abolire ogni sentore di retorica: i tempi stanno cambiando, come lo stesso Dylan presto prometterà e minaccerà in una canzone-manifesto, ed è giunto il momento di cambiare anche il modo di affrontare i propri e gli altrui sentimenti. Non più trucchi e bugie: solo la verità, per quanto scomoda o spietata possa suonare.
Non serve a niente startene seduta
a chiederti perché
se non l’hai capito finora;
non serve a niente startene seduta
a chiederti perché
tanto non servirà a niente lo stesso.
Quando canterà il gallo
e ricomincerà il giorno
guarda dalla finestra:
io non ci sarò più
e sei tu il motivo
per cui devo andarmene.
Ma smettila di pensarci,
va bene così.
(...)
Non serve a niente
accendere la luce,
quella luce
non ho mai saputo cosa fosse.
Non serve a niente
accendere la luce,
sono sul lato oscuro
della strada...
In realtà il testo sembra reggersi su un’inversione di soggetto: è Suze (Susan Rotolo, la ragazza con cui l’artista appare sulla copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan) che se n’è andata per sempre, in Italia; mentre chi sta seduto a chiedersi perché è lui, un Dylan disperato più che mai. Si potrebbe forse con gli ultimi due versi, I’m on the dark side / of the road, riassumere l’intera biografia interiore di un ricercatore complesso, mutevole, pronto a ferire ma al tempo stesso vulnerabile; un uomo che ha saputo cantare il proprio malcontento e le proprie lacerazioni come se appartenessero non solo a lui, ma al mondo intero.
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New York, febbraio 1963. La foto di copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan fu scattata da Don Hunstein all’angolo tra Jones Street e la West 4th Street nel Greenwich Village. Dylan, 22 anni, è con la sua compagna di allora, Suze Rotolo. |
A Hard Rain’s a-Gonna Fall, 1963.
(Sta per cadere una pioggia dura. Dall’album The Freewheelin’ Bob Dylan. Incisa lo stesso anno anche da Pete Seeger. Il testo contiene riferimenti (più stilistici che sostanziali) al poemetto Howl di Allen Ginsberg e a una vecchia canzone per bambini, Lord Randal.
Da più parti si sostiene che A Hard Rain’s a-Gonna Fall sia stata ispirata dal momento più teso delle relazioni USA-URSS, allorché la guerra fredda rischia di diventare bollente. Nel 1961, il presidente John Fitzgerald Kennedy tenta di rovesciare a Cuba il governo comunista di Fidel Castro. Autorizza i servizi segreti a organizzare una spedizione militare di 1400 esuli cubani opportunamente addestrati ed equipaggiati; il 17 aprile gli assalitori vengono annientati mentre tentano lo sbarco sulla Playa Girón, nella baia dei Porci. Nell’autunno del 1962 si apre la “crisi dei missili”. Gli Stati Uniti denunciano la presenza nell’isola di missili strategici e aerei da bombardamento sovietici e presidiano le acque cubane per bloccarne la fornitura e imporne il ritiro. L’allarme è altissimo; il braccio di ferro tra le due potenze tiene il mondo col fiato sospeso. L’Unione Sovietica si rassegna infine a ritirare i missili per evitare una terza guerra mondiale.
Dylan, sempre piuttosto restio a svelare i meccanismi che originano le sue creazioni, non conferma né smentisce: «Tutto ciò che ricordo di quella crisi è che ogni giorno la radio diffondeva comunicati, e la gente, nei bar e nei locali, la stava ad ascoltare, e la cosa più spaventosa era che intere città, come Houston e Atlanta, avrebbero dovuto essere evacuate. Era piuttosto pesante. In realtà non è importante da dove viene una canzone. L’unica cosa importante è dove ti porta.»
Ho inciampato sul fianco
di dodici montagne nebbiose,
ho camminato
e strisciato su sei strade tortuose,
ho camminato
nel mezzo di sette tristi foreste,
sono stato di fronte
a dodici oceani morti...
E una pioggia dura cadrà.
Si può leggere come profezia apocalittica: una pioggia di bombe all’idrogeno, l’America (o il mondo intero) trasformati in un gigantesco fungo di Hiroshima, il risultato finale dell’insensatezza umana, il castigo che si preannuncia – biblicamente, cabalisticamente – nel diabolico esoterismo dei numeri. O un tributo a quella poesia visionaria, rombante e messianica che ricollega Walt Whitman (1819-1892) alla beat generation di un secolo dopo, soprattutto ad Allen Ginsberg (1926-1997).
Masters of War, 1963.
(I padroni della guerra). Incisa dall’autore (e prodotta da John Hammond) con l’album The Freewheelin’ Bob Dylan. Melodia ripresa da una vecchia ballata scozzese, a sua volta ispiratrice – negli anni cinquanta – di Fair Nottamun Town di Jean Ritchie.
Una delle più veementi invettive mai scritte dai tempi di Cecco Angiolieri («S’i’ fosse foco, ardereï ’l mondo; / s’i’ fosse vento, lo tempesterei; / s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; / s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo...»). Niente a che fare, naturalmente, con la comica truculenza di Cecco: qui siamo alla lacerazione ulcerante, alla bile, al j’accuse guerrigliero e definitivo:
Come you masters of war
You that build all the guns
You that build the death planes
You that build the big bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks.
(...)
And I hope that you die
And your death’ll come soon
I will follow your casket
In the pale afternoon
And I’ll watch while you’re lowered
Down to your deathbed
And I’ll stand over your grave
’Til I’m sure that you’re dead.
Fatevi sotto, padroni della guerra
voi che fabbricate cannoni
voi che fabbricate aeroplani di morte
voi che costruite grosse bombe
voi che vi nascondete dietro i muri
voi che vi nascondete dietro le scrivanie
voglio solo farvi sapere
che vedo chi siete anche attraverso le maschere.
(...)
E spero di vedervi morire
e che la morte venga presto
verrò appresso alle vostre bare
nel pallore pomeridiano
e starò a guardarvi mentre vi calano
giù nella fossa
e veglierò sulla vostra tomba
finché sarò certo che siete morti.
Talkin’ John Birch Paranoid Blues, 1963.
(Blues parlato sulle paranoie della John Birch Society). Probabilmente la canzone di Dylan più boicottata di tutte. Registrata nel 1963 per The Freewheelin’ Bob Dylan, fu eliminata dall’album quando si era già in fase di stampa. Invitato a partecipare all’Ed Sullivan Show, passaggio televisivo ambitissimo ed estremamente proficuo, dal punto di vista promozionale, per le star in carriera, il giovane folksinger vi rinunciò orgogliosamente quando i responsabili del programma gli impedirono di eseguire Talkin’ John Birch Paranoid Blues. Tranne che nei concerti dal vivo, il brano continuò a essere oscurato fino al 1991, quando un’esecuzione del 26 ottobre alla Carnegie Hall comparve nel primo volume dei bootleg dedicati a Bob Dylan dalla sua casa discografica, la Columbia. Nel sesto volume della serie, uscito solo nel 2004, se ne può ascoltare una versione del 1964, registrata durante uno straordinario concerto alla Philharmonic Hall di New York.
Fondata nel 1958, la John Birch Society (JBS) è un’associazione politica statunitense ultraconservatrice, che propugna ideali discriminatori e spesso di estrema destra quali il razzismo, l’antisemitismo, l’omofobia e l’anticomunismo. Nella canzone, Dylan finge di essere un anticomunista paranoico e viscerale come il De Niro Taxi Driver di tredici anni dopo. Si iscrive alla JBS perché:
Now we all agree with Hitlers’ views
Although he killed six million Jews...
«Adesso condividiamo tutti le idee di Hitler / anche se ha ammazzato sei milioni di ebrei».
The Times They Are a-Changin’, 1963.
(I tempi stanno cambiando). Lanciata dall’autore nel 1964 con l’album dallo stesso titolo. La canzone si ispira alla ballata The 51st (Highland) Division’s Farewell to Sicilydel poeta e folksinger scozzese Hamish Henderson, dedicata ai soldati che tornavano dall’Italia alla fine della seconda guerra mondiale.
«I tempi stanno cambiando»: il Dylan libertario lancia il suo monito e la sua maledizione ai potenti e ai reazionari di ogni ordine e grado. Scaglia i suoi versi come sassi per colpire non solo il potere ufficiale — senators e congressmen— ma anche chi lo asseconda servilmente, a cominciare da certi intellettuali:
Come writers and critics
Who prophecie with your pen
And keep your eyes wide
The chance won’t come again
And don’t speak too soon
for the wheel’s still in spin
And there’s no telling who
That it’s naming
for the loser now
Will be later to win
for the times they are a-changin’…
Fatevi avanti scrittori e critici
che usate la penna per sentenziare
e aprite bene gli occhi
non ci sarà nessun’altra occasione
e aspettate prima di aprire bocca
perché la ruota sta ancora girando
e non si può ancora dire
a chi toccherà
perché chi perde adesso
domani vincerà
perché i tempi stanno cambiando.
L’America dei perdenti e degli incompresi è in ebollizione, i giovani e gli emarginati alzano la testa. Dylan annuncia al nemico che le acque intorno a lui sono salite, non c’è più via di scampo, presto chi se ne stava comodamente in poltrona a dettar legge sarà inzuppato fino all’osso:
Se il tempo per voi
ha qualche valore
allora è meglio che cominciate già a nuotare
altrimenti andrete a fondo come pietre
perché i tempi stanno cambiando.
Ce n’è per tutti: dopo l’anatema agli odiati oppressori, Dylan si rivolge agli adulti in generale, ai padri e alle madri che non sanno capire i figli e i nuovi fermenti: si facciano da parte, lascino spazio alla nuova generazione, il loro modo di vedere la vita sta rapidamente tramontando. Nessun altro musicista prima di Dylan, neanche il suo maestro Woody Guthrie, era riuscito a mobilitare con una voce e una chitarra tanto dissenso e tante speranze. Nessun altro — né i Beatles né i Rolling Stones — ha saputo interagire in modo altrettanto diretto con le mozioni e le emozioni più intense del momento.
Intanto il 22 novembre 1963, a Dallas, un cecchino appostato a una finestra del quarto piano di un vecchio deposito spara tre colpi di fucile sul corteo presidenziale. Uno colpisce alla testa il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy: muore nel giro di mezz’ora. Un altro ferisce il governatore del Texas, Connally, che viaggiava nella stessa auto. Uccisi anche due uomini della scorta. I tempi stanno cambiando, ma non si capisce quale direzione abbiano preso.
All I Really Want to Do, 1964.
(Tutto ciò che davvero voglio fare). Dall’album Another Side of Bob Dylan (voce, chitarra acustica e armonica a bocca, senza accompagnatori), prodotto da Tom Wilson per la Columbia. Ripresa nel 1965 in decine di cover, tra cui primeggiano subito quelle dei Byrds e di Cher.
Un Dylan giovanissimo ma già con le idee chiare, determinato a seminare massicce dosi di sensibilità contemporanea – e talvolta intellettuale – nel solco di una tradizione folk spontanea e ruspante. La musica non pretende nient’altro che adeguarsi alle cantilene e filastrocche più fanciullesche, ma quella voce nasale e sgraziata è già ironia, e i versi la dicono lunga su come dovrebbero essere i rapporti umani; un inno alla tolleranza di coppia e universale, non si sa quanto sincera o sfottente. «Non ho nessuna voglia di mettermi in competizione con te, né di maltrattarti, giudicarti, etichettarti, crocifiggerti, impormi su di te, frustrarti, analizzarti, sfruttarti, darti addosso, controllarti, sottometterti, fregarti; tutto quello che voglio è esserti amico»: questo il senso della tiritera, nella quale alcuni hanno voluto cogliere un punto di vista – tra l’accondiscendente e il polemico – sul movimento di liberazione femminile. L’armonica a bocca contribuisce non poco al sapore della canzone, conferendole quel tanto di crepuscolare e campestre proprio della semplicità dei canti popolari; ma allo stesso tempo, con i suoi interventi di raccordo tra una stanza e l’altra, sembra commentare i versi in modo irriverente e beffardo.
Nella loro versione, un po’ country e un po’ Beatles, i Byrds rockeggiano come Dylan ancora non fa, privilegiando la parte musicale rispetto alle parole.
Mr. Tambourine Man, 1964.
(Signor Tamburino). Dylan la eseguì dal vivo per sette mesi, da solo e in coppia con Ramblin’ Jack Elliott, prima di inciderla. La prima registrazione – dei Brothers Four (Columbia), ovvero Bob Flick, Dick Foley, Mike Kirkland e John Paine, quartetto vocale e strumentale folk – rimase a lungo inedita per questioni legali. Dal 1965 esplode una discografia sterminata, a partire dalle incisioni leggendarie dello stesso Dylan e dei Byrds.
Mr. Tambourinemobilita gli adepti del folk che girano fra un covo e l’altro del Village, ma anche jazzisti come Mulligan e soul singers come Stevie Wonder. Ed è il biglietto d’ingresso nell’olimpo della fama per i Byrds, il cui 45 giri d’esordio (Columbia) incrocia il folk e il rock in modo così esemplare da diventare un punto di riferimento nella storia dei due generi («The first folk-rock song», secondo la definizione comune). Una fusione inedita fra il linguaggio di Woody Guthrie ripreso e aggiornato da Dylan, il vocalismo degli Everly Brothers e le sonorità di gruppi di tendenza come i Beach Boys e i Beatles. Per ironia della sorte, l’unico Byrd che suoni effettivamente nello storico disco è Roger McGuinn con la sua chitarra a dodici corde (una Rickenbacker), mentre i compagni Gene Clark e David Crosby – quest’ultimo quasi inudibile – si limitano a cantare le armonie.
Hey Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I’m not sleepy and there is no place I’m going to.
Hey Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I’ll come followin’ you.
(...) Then take me disappearin’
Through the smoke rings of my mind.
Down the foggy ruins of time, far past the frozen leaves,
The haunted, frightened trees, out to the windy beach,
Far from the twisted reach of crazy sorrow.
Yes, to dance beneath the diamond sky with one hand waving free,
Silhouetted by the sea, circled by the circus sands,
With all memory and fate driven deep beneath the waves,
Let me forget about today until tomorrow…
Ehi, Mr. Tambourine, suonami una canzone,
non ho voglia di dormire né un posto dove andare.
Ehi, Mr. Tambourine, suonami una canzone,
nello sberluccichìo del mattino ti seguirò.
(...)
E poi fammi sparire
tra gli anelli di fumo della mente.
Giù tra le rovine annebbiate del tempo, lontano dalle foglie ghiacciate,
via dagli alberi atterriti e stregati, verso una spiaggia al vento,
lontano dalle contorsioni e dall’insensatezza del rimpianto,
sì, danzare sotto un cielo di diamanti con una mano che fluttua libera nell’aria,
in controluce al mare, nel cerchio di sabbia di un circo,
con tutti i ricordi e il destino annegati fra le onde,
fammi dimenticare questo giorno fino a domani.
Uno dei testi più visionari di Dylan, che fa pensare al mondo poetico di Fellini con quelle stravaganze tristi di un circo sulla spiaggia solitaria. È opinione comune che questo viaggio immaginario sia il trip d’uno sballato, e che il signor Tamburino sia l’illustrazione di una marca di caramelle le cui cartine venivano occasionalmente riciclate per avvolgervi sostanze stupefacenti. Secondo Dylan a ispirare il personaggio di Mr. Tambourine sarebbe stato invece il chitarrista Bruce Langhorne, presentatosi una volta in uno studio di registrazione con un grosso tamburo. Per inciso, è proprio Langhorne a fornire l’accompagnamento di chitarra elettrica in Mr. Tambourine Man; fra gli altri collaboratori, il bassista John Sebastian e il batterista Bobby Gregg.
Quali che siano i retroscena, Mr. Tambourine Man rimane fra le espressioni più creative ed emozionanti non solo di Dylan ma di un’epoca intera. La melodia si fa strada fra i resti malinconici e straziati di un’allegria effimera, clownesca; è una canzone fatta di stracci colorati, spiagge deserte e ventose, cieli plumbei, gelidi crepuscoli e, soprattutto, di disperato vitalismo giovanile. Notevole la versione giamaicana di Gregory Isaacs a tempo di reggae (2004), permeata di spiritualismo rasta.
Desolation Row, 1965.
(Vicolo della Desolazione), da Highway 61 Revisited, album fra i più memorabili di Dylan, prodotto da Bob Johnston. Ospite, da Nashville, il chitarrista Charlie McCoy. Versione italiana: Via della Povertà, testo di Francesco De Gregori per Fabrizio De André (1974).
Il Vicolo della Desolazione, agghiacciante allegoria d’un mondo in disfacimento, fa pensare — più che a Fellini, come è stato talora indicato — alle visioni affollate e infernali di uno Hyeronimus Bosch resuscitato, quattro secoli dopo, in un’America metropolitana e teatrale, vista attraverso uno specchio deformante. Spira aria da giudizio universale fin dai primi versi:
They’re selling postcards of the hanging
They’re painting the passports brown
The beauty parlour is filled with sailors
The circus is in town...
Vendono cartoline illustrate dell’impiccagione
dipingono i passaporti di marrone
il salone di bellezza è pieno di marinai
il circo è arrivato in città...
Mercanti di morte, burocrati kafkiani, marinai alla Jean Genet aprono una interminabile e delirante sfilata di clown, una umanità caricaturale che si muove su un pianeta grottesco. Poliziotti ciechi, funamboli ubriachi, Romeo portato via da un’autoambulanza, donne che passano la vita a ripassare i pavimenti come la Cenerentola dei cartoon, incursioni nella Bibbia con Caino, Abele e il buon samaritano, il gobbo di Notre-Dame che fa l’amore e aspetta la pioggia, l’Ofelia shakespeariana ridotta a una vecchia zitella che scruta la vita nel vicolo, Einstein travestito da Robin Hood che scrocca sigarette e va annusando scoli di acqua fetida accompagnato da un monaco geloso. E poi c’è Doctor Filth, «dottor Schifezza», che «tiene il suo mondo in una tazza di cuoio» ed è probabilmente la caricatura di uno strizzacervelli. E il fantasma dell’opera travestito da prete che si prepara ad «avvelenare Casanova di parole». E ci sono anche Ezra Pound e T.S. Eliot che «lottano nella torre di comando mentre cantanti di calypso ridono di loro».
È difficile districarsi in questa ermetica foresta di personaggi e allusioni; ma forse una mezza soluzione del rompicapo la fornisce Dylan stesso nell’ultima strofa, quando dice:
Tutta questa gente di cui parli
la conosco, è gente abbastanza comune.
Ho dovuto alterarne le facce
e cambiargli nome...
Come Cecco Angiolieri, Dylan se la prende con tutti quelli che disapprova, e sono tanti, usando spesso le canzoni come armi da fuoco. Non a caso il suo grande maestro, Woody Guthrie, portava scritto sulla chitarra il motto: «Questa è una macchina ammazzafascisti».
It’s All Over Now, Baby Blue, 1965.
(Adesso è tutto finito, Baby Blue), dall’album Bringing It All Back Home. Testo fra i più struggenti e sconsolati di un autore che non ha mai scherzato. Chi è Baby Blue? Dylan dice di essersi ispirato a una vecchia Baby Blue di Gene Vincent, il famoso rocker degli anni cinquanta. Ma è solo la superficie. I dylanologi sostengono che Baby Blue sia in realtà Joan Baez, che molto contribuì a far conoscere l’artista e che intrattenne con lui una intensa relazione sentimentale.
Adesso devi andare,
prendi quello che ti serve e che pensi durerà;
ma se c’è qualcosa che vuoi tenerti
è meglio che l’afferri subito.
Fuori c’è il tuo orfano con il suo fucile
che piange come una fiamma al sole.
Guarda, stanno arrivando i santi
e adesso è tutto finito, Baby Blue.
La strada è degli avventurieri,
cerca di usare prudenza.
Porta con te ciò che hai messo insieme per caso;
il pittore squattrinato che ti fa compagnia
riempie le tue pagine di strambi disegni;
persino il cielo si va piegando sotto di te
ed è tutto finito adesso, Baby Blue.
(...)
Il vagabondo che bussa alla tua porta
indossa gli abiti che una volta portavi tu.
Accendi un altro fiammifero, riparti da zero,
è tutto finito adesso, Baby Blue.
Dietro queste e altre visioni ci sono i poeti della beat generation, a cominciare da Allen Ginsberg con cui Dylan allacciò rapporti di amicizia e che cercò di fargli condividere il pensiero zen.
Fra le cover più interessanti di It’s All OverNow si segnalano quelle della stessa Baez e dei Byrds. La più stravagante è del francese Pascal Comelade, inventore di una surreale Bel Canto Orquestra a base di strumenti-giocattolo. Il motivo di Dylan è trattato a tempo di valzer e ricorda atmosfere da circo. In un disco precedente, Comelade aveva già “revisionato” Like a Rolling Stone. Nel 1993 ha minacciato di registrare l’integrale di Dylan a tempo di valzer.
Like a Rolling Stone, 1965.
(Come pietra che rotola), uscita con un 45 giri prodotto da Tom Wilson e quindi con l’album Highway 61 Revisited. Inondazione di cover: nel solo 1965 Billy Strange, Glen Campbell, The Gene Norman Group, The Jerry Murad’s Harmonicats, The Surfaris, The Turtles, Billy Lee Riley, The Four Seasons e tanti altri.
Una svolta nella carriera di Dylan (dal folk al rock elettrico) e nell’evoluzione dello stesso rock and roll, che si apre ai grandi temi sociali ed esistenziali. In Like a Rolling Stone tutto è amaro e al tempo stesso travolgente: dai versi di Dylan alla chitarra di Mike Bloomfield, dall’organo Hammond di Al Kooper alla batteria di Bobby Gregg, dal pianoforte di Paul Griffin al basso di Russ Savakus. Scrive Anthony Scaduto: «Quanto [Dylan] fosse cambiato si vide la sera della domenica 25 luglio [1965], al Newport Folk Festival. [...] Quando lo si vide arrivare correndo sul palcoscenico non ci fu più alcun dubbio che si trattava di un nuovo Bob Dylan. Via gli stivali, i jeans e le camicie da lavoro. Ogni volta che Dylan assumeva una nuova identità, cambiava dentro e fuori; il fuori, adesso, era l’espressione delle cose viste in Inghilterra: ragazzi che esprimevano il loro odio per l’autorità e la loro gioia di vivere vestendo abiti folli, assurdi. Dylan era tornato da Londra con un guardaroba completo da mod; sul palcoscenico di Newport apparve con una giacca di cuoio nero, pantaloni neri, camicia bianca e stivali neri a punta con dei tacchi altissimi alla Chelsea. Impugnava una chitarra elettrica a struttura compatta. La platea rimase stupefatta, immobile, mentre qualcuno collegava con un cavo elettrico la sua chitarra agli amplificatori...».
Su quel concerto sono fiorite leggende a non finire: imprecazioni e fischi del pubblico su Like a Rolling Stone, una voce che gli urla «Tornatene all’Ed Sullivan Show!», Alan Lomax che minaccia di troncare con l’ascia i cavi elettrici, Dylan che abbandona lo stage a testa bassa fra risate di scherno, Pete Seeger in lacrime per l’affronto traditore alla sacra purezza del folk. Molte cronache giornalistiche del tempo, esageratamente colorite, sono state successivamente ridimensionate dalle testimonianze di chi c’era; ma un po’ di choc quella performance dovette provocarlo, dato che per i fedeli del folk il fragore delle chitarre elettriche era sintomo inequivocabile di cedimento al registratore di cassa, e quindi politicamente reazionario. E si riferisce di una analoga contestazione il 17 maggio 1966 alla Free Trade Hall di Manchester, in Inghilterra: un integralista del folk gli urla «Giuda!» quando Dylan si presenta sul palco con The Band, il gruppo di Robbie Robertson, e lui gli risponde con una dura versione di Like a Rolling Stone dopo aver incitato i musicisti a «suonare fortissimo, cazzo.»
La «pietra che rotola» è insomma la pietra dello scandalo per i cultori del Dylan prima maniera, artista alternativo ma solidamente ancorato alla tradizione folk, e in particolare — come egli stesso ha più volte pubblicamente riconosciuto — alla poetica di Woody Guthrie. Lo scandalo è nella forma (il look esteriore, la conversione al rock elettrico) e nella sostanza: il nichilismo di Like a Rolling Stoneè in effetti talmente feroce da non lasciare spazio alcuno ai sentimenti edificanti, né borghesi né di sinistra:
Once upon a time you dressed so fine
You threw the bums a dime in your prime, didn’t you?
People’d call, say, “Beware doll, you’re bound to fall”
You thought they were all kiddin’ you
You used to laugh about
Everybody that was hangin’ out
Now you don’t talk so loud
Now you don’t seem so proud
About having to be scrounging for your next meal.
How does it feel
How does it feel
To be on your own
With no direction home
Like a complete unknown
Like a rolling stone?...
Una volta andavi vestita di fino,
eri ancora una ragazzina e gettavi monetine ai barboni, eh?
E la gente si voltava come per dirti “Bambola, occhio a non cadere”.
Tu pensavi che scherzassero
e guardavi dall’alto in basso
chiunque non avesse un punto d’appoggio.
Adesso non la meni più come allora,
adesso non sembri tanto fiera
di doverti sbattere per trovare da mangiare.
Che effetto fa,
che effetto fa
arrangiarti da sola
senza una casa dove andare,
come una perfetta nullità,
come una pietra che rotola?
L’oggetto delle rime vendicative è probabilmente una donna che lo ha deluso; ma la voce strascicata di Dylan e la valanga desolata dei suoni che l’accompagnano — l’organo, in particolare, con solennità ecclesiale da memento mori— sembrano “rotolare” come macigni per una scarpata senza fine; e nella frana non vediamo precipitare solo la complete unknown, la perfetta sconosciuta, la Miss Nessuno di cui poco ci preme, ma tutte le convinzioni e illusioni dell’universo, come se a lagnarsi e ad autoflagellarsi fosse la nostra coscienza.
La grandezza di Dylan è pari alla dimensione del suo furore e alla profondità dell’invettiva; le sue ballate più riuscite, e sono tante, scavano come lame roventi nella pelle di chi le raccoglie. Rotolano a fondovalle le convenzioni, le apparenze, le ipocrisie: la musica di consumo sembra rinunciare alla sua funzione consolatoria. Il rock si fa ansiogeno, suggerisce rifondazioni etiche, ci chiama in causa. Like a Rolling Stone va ben oltre Blowin’ in the Wind: non propone messaggi, non è un inno di pace né di speranza; è il ruggito solitario di chi osserva, con rancore e disgusto, un mondo che si sgretola. Al racconto e alle implicazioni storiche e culturali di questa sola canzone, descritta da Dylan come «un pezzo di vomito lungo circa venti pagine, dal quale uscì fuori un singolo», è dedicato un intero libro di Greil Marcus, intitolato ovviamente Like a Rolling Stone e pubblicato anche in Italia (Donzelli).
Nel novembre 2004, un sondaggio promosso dalla rivista americana Rolling Stone indica in Like a Rolling Stone la canzone più grande di tutti i tempi. Seguono – nell’ordine — Satisfaction (The Rolling Stones), Imagine (John Lennon), What’s Going on (Marvin Gaye), Respect (nella versione di Aretha Franklin), Good Vibrations(The Beach Boys), Johnny B. Goode(Chuck Berry), Hey Jude (The Beatles), Smells Like Teen Spirit(Nirvana), What’d I Say (Ray Charles).
I Want You, 1966.
(Ti voglio), lanciata prima con un 45 giri, poi con Blonde on Blonde, doppio album di canzoni indelebili prodotto da Bob Johnston per la Columbia. La formazione strumentale comprende il gruppo che accompagna abitualmente Dylan in quel periodo, gli Hawks, più alcuni membri di The Band a cominciare dal leader, il chitarrista Robbie Robertson.
Reduce da un brutto incidente stradale, sempre più aspro e nevrotico, polemico con la stampa e talvolta col suo stesso entourage, immerso nella elaborazione di un romanzo (Tarantula) e di riflessioni filosofiche di stampo orientaleggiante ma arditamente egocentriche, circondato da moltitudini che non riescono a sradicarlo dal suo isolamento intellettuale, l’artista dalle mille contraddizioni scarica le sue tensioni in un crescendo di visionaria creatività. Anche canzoni d’amore come I Want You sono permeate di una visione del mondo che va ben oltre il semplice rapporto a due: ed è una visione dai toni drammaticamente desolati, dove già la musica e la voce, ancor prima delle parole, segnalano l’incombere di una realtà malsana e irrimediabile.
I Want You ti avvolge come un morbo, e nel mezzo dell’ascolto ti senti rapito e a disagio: riaffiorano alla mente i nodi irrisolti dell’esistenza. Il testo è goticheggiante, sopra le righe, da film cimiteriale; un ribollire di post-espressionismo non infrequente nella poetica del rock d’autore (da Dylan ai Doors, fino ai Nirvana):
Il becchino colpevole sospira,
lo spremiaranci solitario grida,
il sassofono d’argento ripete
che dovrei rifiutarti;
le campane incrinate, i corni sbiaditi
mi soffiano in faccia il disprezzo,
ma non sarà così,
non sono nato per perderti:
ti voglio, ti voglio,
ti voglio così tanto,
amore, ti voglio...
Just Like a Woman, 1966.
(Proprio come una donna), dall’album Blonde on Blonde. Con Dylan suonano Wayne Moss, Charlie McCoy, Kenneth Buttrey, Hargus Robbins, Jerry Kennedy, Joe South, Al Kooper, Bill Aikins, Henry Strzelecki e Jaime Robertson.
Spiacque al movimento di liberazione femminile questo ritratto di donna ornata di ribbons e bows, fiocchi e nastrini caduti dai suoi riccioli, che sa fare l’amore e fingere «proprio come una donna» ma scoppia a piangere come una ragazzina. Una donna «come tutte le altre / con il suo profumo, la sua amfetamina e le sue perle.» Una donna incontrata in un bar dove lui è entrato per ripararsi dalla pioggia, e sembra che una pioggia persistente accompagni dall’inizio alla fine questa inquieta storia d’amore.
L’ispiratrice è Edie Sedgwick, modella del giro della Factory di Andy Warhol; il bar è il Kettle of Fish del Greenwich Village; la sua storia con Dylan dura meno di un anno, ed è già finita quando lui, reduce da un matrimonio segreto con un’altra, si mette a scrivere Just Like a Woman in un albergo di Kansas City. Edie (che forse ha ispirato anche il titolo dell’intero album, Blonde on Blonde) morirà nel 1971 per abuso di barbiturici. Come sempre nelle canzoni di Dylan, anche una vicenda privata come questa si trasfigura in lacerante evento universale, toccando da vicino le emozioni di milioni di ascoltatori. Col suo andamento lento e vagamente rockambulo, Just Like a Woman trasmette un senso di inesorabile smarrimento, di desolazione esistenziale: fa balenare lampi di felicità precaria, condannata a estinguersi nel momento stesso in cui si manifesta:
Nessuno sente alcun dolore
stanotte, mentre sto in piedi
sotto la pioggia.
Lo sanno tutti
che la piccola ha un vestito nuovo.
Ma ho appena visto i nastri
e i fiocchi
cadere giù dai suoi capelli...
Superba la coverdi Nina Simone (1987), ricca di vibrazioni oscure: dai meandri della sua gola affiorano suoni oracolari, come se non fossero canzoni quelle che interpreta, ma misteriose profezie per l’aldilà. E tra i mille tributi a Dylan, non si può dimenticare Is It Rolling Bob?, strepitosa antologia in chiave rasta-reggae (2004, Ras Records). Quattordici capolavori dylaniani che sembrano ripensati nella tomba da un altro Bob ugualmente leggendario, Bob Marley, senza perdere i valori originali ma assumendone di nuovi. Just Like a Womanè cantata da Beres Hammond.
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Dylan con il figlio Jesse nella sua casa di Byrdcliff, NY, 1968. © Elliott Landy/Magnum Photos. |
Rainy Day Women # 12 & 35, 1966.
(Donne n. 12 e n. 35 per giorni di pioggia), 45 giri Columbia prodotto da Bob Johnston; con Dylan suonano il trombonista Wayne Butler, reclutato per l’occasione, mentre Wayne Moss, Charlie McCoy, Kenneth Buttrey, Hargus Robbins, Jerry Kennedy, Joe South, Al Kooper, Bill Aikins, Henry Strzelecki e Jaime Robertson si scambiano i rispettivi strumenti per “fare caciara”, tutti rigorosamente imbottiti di alcool e di erba. Ne risulta una marcetta sgangherata ma geniale, con un titolo senza senso improvvisato da Dylan – subito dopo la registrazione – per rispondere a uno dei compagni curioso di sapere «cosa abbiamo suonato». Il tutto finisce qualche mese più tardi anche in Blonde on Blonde, forse l’album più grande di Dylan.
Everybody must get stoned, il verso che conclude ogni strofa della tiritera (un elenco di tutte le cose che puoi fare o non fare, con l’unico fatale risultato di trovare sempre qualcuno pronto a lapidarti), è la frase da cui parte l’intera ispirazione. Guarda caso, si tratta di una frase a doppio senso; letteralmente vuol dire «ognuno dev’essere preso a pietre», ma in gergo sta per «tutti devono farsi.»
Copiata di sana pianta da Rainy Day Womenè Pietre, canzone di Ricky Gianco e Gian Pieretti spacciata come inedita al Festival di Sanremo del 1967 nella doppia interpretazione di Gian Pieretti e del francese Antoine.
Absolutely Sweet Marie, 1966.
(Infinitamente dolce Marie). Nostalgie notturne di un detenuto ogni volta che dalla cella sente sferragliare il treno. Da Blonde on Blonde, album talmente ricco di immaginazione – poetica e musicale – da rendere arbitraria qualsiasi graduatoria di qualità fra i vari momenti che lo compongono. Certo è difficile scrollarsi dalla mente il pathos lirico di brani come Just Like a Woman o Visions of Johanna o One of Us Must Know – le parole, l’armonica, l’organo, quella voce sarcastica e sgraziata che trascina e commuove proprio attraverso l’esagerazione delle imperfezioni; difficile sorvolare sul blues di Pledging My Time, sul rock melanconico di I Want You, sulla bizzarra esaltazione alcolica di Rainy Day Women. Non esistono pezzi minori in quella raccolta; non sono minori nemmeno i brani che costringono la memoria a fare, suo malgrado, una selezione. Absolutely Sweet Marie, per esempio, rimane un po’ in ombra rispetto ai capolavori appena citati; fosse stata, però, una creatura altrui anziché di Dylan, sarebbe entrata nella storia del rock come una vertigine, un soffio di grandezza, una pietra miliare. Così è di molte canzoni di Bob Dylan, un inesauribile campionario di colpi di genio spostati un po’ più in là dall’irruenza di altri colpi di genio: frecce che colpiscono tutte il centro del bersaglio, accalcandosi sullo stesso punto e scavalcandosi a vicenda.
«Dove sei stanotte, Marie?», ripete il menestrello allupato e sconfitto, il poeta-fuorilegge in disgrazia, sognatore più che viaggiatore da carro merci, che proietta il suo desiderio inappagato, la sua insostenibile nostalgia sessuale sui binari, i passaggi a livello, le trombe solitarie del paesaggio acustico che oltrepassa le sbarre della prigione. Marie è sparita dalla circolazione, ma almeno i «sei cavalli bianchi» che aveva promesso sono finalmente arrivati al penitenziario. Droga? Il quiz suona così alato che sarebbe un peccato farselo spiegare (è stupido spiegare le canzoni: Dylan lo ha sempre sostenuto). E poi: «Per vivere fuori dalla legge ci vuole onestà», paradosso da ribelle romantico ignaro di mafie e camorre, quelle vere. La ballata va avanti rockeggiando tra metafore freudiane e fatalismo, falsa allegria e risentimento, libidine e solitudine: la febbre in fondo alla tasca dei calzoni, il «persiano ubriaco» che ti perseguita, la porta chiusa, la chiave indisponibile, la ferrovia ingiallita come una fotografia d’altri tempi, virata in seppia e consumata ai bordi. E infine un balcone in rovina – ultima immagine di una love story sgretolata e irrecuperabile. Addio Marie, «dolce» fino allo sfinimento, alla consunzione.
Il blues non sarebbe blues in un mondo senza treni né carceri, senza piogge torrenziali né amori avariati. In Absolutely Sweet Marie non piove, ma l’umidità penetra ugualmente dentro le ossa.
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Dylan nella sua casa di Byrdcliff, NY, 1968. © Elliott Landy/Magnum Photos. |
All Along the Watchtower, 1967.
(Lungo la torre di guardia), dall’album John Wesley Harding (Columbia), prodotto da Bob Johnston. Con Dylan (voce, chitarra, armonica e pianoforte) suonano Charles McCoy (contrabbasso) e Kenneth Buttrey (batteria). Versione italiana: Lungo i merli di vedetta di Tito Schipa Jr. (1988).
Dylan nel suo versante allegorico, criptico e surreale. Se Mr. Tambourine Man sembrava un’inquadratura di Fellini, All along the watchtowerpropende al gotico come Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Popolato di prìncipi e buffoni di corte, paggi scalzi e gentildonne, il testo schizza rapide sequenze di un Medioevo senza tempo né luogo. Un castello nel mezzo del nulla, i potenti alla finestra, mentre due individui di basso rango – il ladruncolo e il jolly – marciano a cavallo verso (o contro) la fortezza. Ulula il vento e brontola, in lontananza, una lince. Si avverte – ma molto più sintetica e sfumata che in Like a Rolling Stone, Masters of War o Desolation Row– l’insofferenza dell’artista (jolly, buffone, trovatore, saltimbanco, Dylan) nei confronti di un establishment saldamente in mano ad affaristi e guerrafondai.
Se Dylan annuncia l’apocalisse con un affresco dai toni inquietanti ma trattenuti, Jimi Hendrix ci salta dentro per cavarne furore allo stato puro. La sua chitarra ruggisce e fiammeggia come un’intera schiera di angeli caduti in un inferno elettrico. Tra strappi, distorsioni e impennate imprevedibili, un grande episodio di rock devastante e dantesco.
Sette testi di Dylan, tra cui All Along the Watchtower, hanno avuto la singolare ventura di essere rimessi in musica da un altro compositore. Nel 2000 John Corigliano ha scelto sette poesie di Dylan (le altre sono Mr. Tambourine Man, Clothes Line, Blowin’ in the Wind, Masters of War, Chimes of Freedom e Forever Young) e ne ha ricavato un ciclo di Lieder per soprano e orchestra. La sua musica non ha nulla a che vedere con quella degli originali né con l’alfabeto del pop o del rock in generale: Corigliano ha dichiarato di non aver mai ascoltato queste o altre canzoni di Dylan (non prima, almeno, di aver concluso il proprio lavoro), ma di averne letto i versi e di esserne stato impressionato. Il ciclo, intitolato Mr. Tambourine Man: Seven Poems of Bob Dylan, ha avuto il suo battesimo in pubblico alla Carnegie Hall di New York nel 2000; il soprano era Sylvia McNair, che proprio in vista di questo suo recital aveva chiesto a Corigliano di comporre qualcosa di nuovo su versi di un poeta americano. Per la sua collana American Classics, la Naxos ha pubblicato nel 2008 una versione di Hila Plitmann con la Buffalo Philharmonic Orchestra diretta da JoAnn Falletta.
I Shall Be Released, 1967.
(Sarò rilasciato), demo dell’autore con The Band pubblicata in un bootleg negli anni novanta; prima incisione ufficiale: The Band (Robbie Robertson, Richard Manuel, Rick Danko, Garth Hudson, Levon Helm) nel 1968, seguita da dischi di Hamilton Camp, Joan Baez, Peter, Paul & Mary, The Tremeloes, The Box Tops, Joe Cocker, Big Mama Thornton, The Hollies, Nina Simone, Miriam Makeba, Pearls Before Swine, Ricky Nelson; versione ufficiale di Dylan solo nel 1971.
Struggente ballata sui pensieri di un detenuto a pochi giorni dalla liberazione:
I see my light come shining
From the west unto the east.
Any day now, any day now,
I shall be released...
Vedo la mia luce arrivare splendendo
dall’ovest verso l’est.
Uno di questi giorni, uno di questi giorni,
sarò rilasciato...
Come in molte canzoni di Dylan, il testo si può leggere in più d’un modo. La prigione può essere vera o simbolica, fatta di pareti e di gabbie reali o invisibili. Tutti prima o poi devono cadere, ma tra una moltitudine di uomini soli qualcuno protesta la sua innocenza: vera o ingannevole? I Shall Be Releasedè un piccolo capolavoro sui temi della colpa e del riscatto, della pena e della libertà, e dell’ambiguità che questi concetti si portano dietro. Una meditazione e uno sfogo di poche parole, su una melodia che da sola esprime sentimenti forti: il diritto alla dignità, il superamento delle umiliazioni. La voce irregolare di Dylan comunica questo e altro, pure a chi non sa l’inglese. E se si vuole scavare ancora più a fondo nel pathos di questa ballata, nelle sue pieghe più riposte, nel suo nucleo più dolente ma anche pervaso di speranza e determinazione, non bisogna lasciarsi sfuggire, oltre a quella di Dylan, la versione di Nina Simone: non una semplice cover ma, come per Just Like a Woman, una rilettura ispirata e personalissima.
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Hurricane, 1975.
(Uragano), formata da Bob Dylan e Jacques Levy; singolo del 1975, poi nell’album Desire del 1976, prodotto da Don DeVito. Con Dylan (voce, chitarra ritmica, armonica) collaborano Rob Stoner (basso e cori), Scarlet Rivera (violino), Howard Wyeth (batteria), Vincent Bell (bouzouki), Dom Cortese (mandolino), Emmylou Harris, Ronee Blakley e Steve Soles (cori), Luther (conga).
Hurricaneè il soprannome del pugile nero Rubin Carter, detenuto per nove anni con l’accusa di un triplice omicidio che non aveva commesso. Il caso, che lo stesso Carter aveva fatto conoscere attraverso l’autobiografia scritta in prigione (The 16th Round), commosse e mobilitò prima un gruppo di volontari molto tenaci, poi diverse celebrità e buona parte dell’opinione pubblica. Dylan contribuì con questa ballata, di sincero e impressionante spessore emotivo, a moltiplicare l’attenzione nei confronti di Rubin Carter. Nel 1976, dopo un nuovo processo, il condannato fu finalmente assolto. Ventiquattro anni dopo, Norman Jewison dedicò a Hurricane un buon film; intensa l’interpretazione, premiata con un Golden Globe, di Denzel Washington.
© Pasquale Barbella
(Da Sully-Prudhomme a Bob Dylan – Continua)