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Oggi si fa troppa pubblicità

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Samuel Johnson in un ritratto di Joshua Reynolds, 1772.

Profezie

Nel 1759, trent’anni prima che cominciasse la Rivoluzione francese e centoventisette prima che John Pemberton inventasse la Coca-Cola, il grande Samuel Johnson – critico letterario, poeta, saggista, biografo e lessicografo britannico – dedicò un articolo polemico alla pubblicità sui giornali. Lo scritto apparve sul n. 40 del settimanale londinese The Universal Chronicle, il 20 gennaio di quell’anno, con il titolo The art of advertising exemplified, e fa parte di The Idler, una raccolta di 103 saggi sugli argomenti più disparati. Dopo oltre due secoli e mezzo, non si può che provare stupore per la modernità delle sue considerazioni. Johnson affronta, con precocità da profeta, problemi tecnici ed etici della comunicazione commerciale come l’affollamento pubblicitario sui media, la pubblicità comparativa, la concorrenza sleale, l’overclaiming, la necessità di affidare le inserzioni a professionisti competenti. Il tutto con vivace e divertita arguzia satirica. Da notare che il dottor Johnson non condanna la pubblicità in quanto tale, come hanno fatto e continuano a fare tanti intellettuali veri e presunti dei nostri tempi, ma solo quella iperbolica, ingannevole o ridicola. Il reperto, che qui ripeschiamo, fu pubblicato nel febbraio 1982 sul primo numero di Nuovo, rivista italiana di pubblicità. La traduzione è del compianto Marco Vecchia, copywriter, planner strategico e autore di saggi e manuali sull’advertising.

Pagina di inserzioni pubblicitarie uscita il 13 settembre 1740 sul quotidiano The London Daily Post, che ospitava «avvisi di lunghezza contenuta al prezzo di 2 scellini ciascuno». Il quinto annuncio dall’alto, nella prima colonna, vende piccoli schiavi «a chiunque sia interessato all’acquisto di un negro». In vendita un ragazzino quattordicenne e una bimba di circa otto anni, «entrambi ben proporzionati». Lui è già in grado di servire a tavola un gentiluomo, lei si occupa delle faccende di casa e sa anche cucire. «Per ulteriori informazioni rivolgersi al signor Samuel Downes, distillatore di Deptford.» © Gale.

Oggi si fa troppa pubblicità

La pratica di affiancare alla cronaca dei pubblici eventi delle informazioni più minute e quotidiane e di riempire i giornali con annunci pubblicitari è andata crescendo a lenti passi fino a raggiungere l’attuale dimensione. Il genio è messo in mostra solo dalla inventiva.

Chi pensò per primo di sfruttare la curiosità generale, eccitata da un assedio o da una battaglia, per trascinare a tradimento i lettori verso la scoperta del negozio in cui si dice che si vendano i migliori piumini e le migliori ciprie, fu certamente un uomo di grande sagacia e profondo conoscitore della natura dell’uomo.

Ma, mostrato ch’egli ebbe la strada, fu facile seguirlo; e chiunque, oggi, conosce un metodo bell’e pronto di informare il pubblico su ciò che desidera acquistare o vendere, sia che si tratti di cose materiali o spirituali: confezioni egli vestiti o insegni matematica, sia egli un insegnante in cerca di allievi o un allievo in cerca di insegnante.

Annuncio apparso nel maggio 1752 sul General Advertiser di Londra. Prodotti reclamizzati: cinghie per affilare i rasoi e polvere da barba della ditta Daniel Cudworth. Titolo: «A tutti i gentiluomini o altri che si fanno la barba da soli.» Chi erano i misteriosi altri?

Tutto ciò che è comune è disprezzato. Gli annunci oggi sono così numerosi che vengono esaminati con molta superficialità: è perciò diventato necessario conquistare l’attenzione con la grandiosità delle promesse e con un linguaggio a volte sublime, a volte pratico.

Promesse, grandi promesse: questa è l’anima della pubblicità. Ricordo un sapone che aveva una particolarità veramente meravigliosa: dava «uno squisito filo al rasoio». E adesso sono in vendita, «solo per contanti», dei «piumini da letto di un pelo superiore, senza possibilità di paragone, a quello che viene chiamato pelo di lontra», e naturalmente così buoni che «le loro eccellenze non possono essere dimostrate su queste pagine». Di una di queste eccellenze siamo però messi al corrente – «essi sono più caldi di quattro o cinque coperte e più leggeri di una.»

1775: culatte maschili in morbida pelle per viaggiare, pescare, cacciare. Il creatore, Samuel Penistone, offre anche un giro di prova. 

Vi sono alcuni inserzionisti, tuttavia, che conoscono la predisposizione favorevole del pubblico nei riguardi della modesta sincerità.

Il venditore del «fluido cosmetico» propone una lozione che elimina i foruncoli, lava via le lentiggini, ammorbidisce la pelle e rassoda[1] il corpo; e tuttavia con un coraggioso rifiuto di ogni ostentazione, ammette che «non resituirà la freschezza dei quindici anni a una signora di cinquanta.»

L’autentico pathos della pubblicità non può non aver profondamente colpito il cuore di chiunqui ricordi lo zelo mostrato dal venditore della «collana anodina», per il conforto e la incolumità dei «poveri bimbi che mettono i denti», e la premura con cui egli avvertiva ogni mamma che «essa non si sarebbe mai perdonata» se il suo bambino fosse morto senza aver avuto la collana.

E non posso non citare il celebre autore che già ha raggiunto tante volte il sublime nella sua descrizione di cammelli e dromedari e che ha recentemente trovato un soggetto ancor più degno della sua penna. «Un famoso guerriero indiano mohawk, colui che fece prigioniero il generale francese Dieskaw, vestito alla maniera in cui gli autentici indiani vanno a combattere, con faccia e corpo dipinti, con il coltello da scalpo, l’ascia di guerra e tutte le altre armi! Una visione degna della curiosità di ogni genuino britanno!»

Annuncio pubblicitario della seconda metà del XVIII secolo per Willdey, negozio londinese di oggettistica varia. © National Maritime Museum.

Questa sì che è una potente descrizione; ma un critico dal gusto sofisticato potrebbe dire che più che terribile è orribile.

Un indiano, vestito da combattimento, può anche radunare una folla: ma se ha con sé il coltello da scalpo e l’ascia di guerra, molti genuini britanni non si lasceranno mai convincere a vederlo se non dietro a delle sbarre. È stato detto dai giudici più severi che la salutare commozione suscitata dalle scene tragiche è ben presto cancellata dalla scherzosità dell’epilogo; lo stesso inconveniente nasce dall’infelice costruzione di alcuni annunci. Gli oggetti più nobili possono essere accostati in modo da suscitare il ridicolo. Il cammello e il dromedario stessi hanno perso molta della loro dignità fra «il vero fior di senape» e «l’autentico elisir di Daffy»; e non ho potuto far a meno di indignarmi quando ho visto l’illustre guerriero indiano appiccicato a un «pacchetto di burro fresco di Dublino».

Il mestiere della pubblicità è ormai così vicino alla perfezione, che non è facile suggerire dei miglioramenti.

Ma, poiché ogni professione dovrebbe essere esercitata solo in vista del pubblico benessere, non posso fare a meno di proporre un quesito morale a questi padroni del pubblico orecchio: non giocano forse essi in maniera un po’ troppo deliberata con le nostre passioni, come quando i venditori di biglietti delle lotterie ci allettano con il resoconto del premio vinto l’anno precedente? Le lotte pubblicitarie non arrivano forse a delle asprezze verbali senza che vi sia una adeguata provocazione, come nella disputa sui rasoi[2], ora per fortuna sedata e nella controversia ancora in corso sull’eau de luce?

In pubblicità è permesso a tutti di parlar bene di sé stessi, ma non vedo perché ci si dovrebbe permettere di parlar male dei vicini.

Si possono proclamare le proprie virtù e le proprie qualità, ma non si possono negare agli altri gli stessi diritti.

Due pagine di Gallery of Fashion, una delle prime riviste di moda femminile. Fu pubblicato dal 1794 al 1803 con periodicità mensile.

Chiunque pubblicizzi la propria eccellenza dovrebbe scrivere con la coscienza di chi ha il coraggio di attirare l’attenzione del pubblico. Deve ricordare che il suo nome apparirà sullo stesso giornale accanto a quelli del re di Prussia o dell’imperatore di Germania e cercare quindi di rendersi degno di un simile accostamento.

E qualche riguardo va anche prestato ai posteri.

Ci sono uomini diligenti e curiosi che collezionano i giornali perché sanno che gli altri li trascurano e che quindi, col tempo, diventeranno introvabili. Quando queste raccolte verranno lette in un secolo futuro, le innumerevoli contraddizioni verranno risanate? E come la fama potrà essere divisa fra i sarti e i corsettai di oggigiorno?

A me basta avere accennato al mio desiderio che questi abusi siano corretti; ma l’umana natura è tale che quello che tutti hanno il diritto di fare, molti cercheranno di farlo senza sufficiente attenzione e senza la debita qualificazione.

Samuel Johnson
(Traduzione di Marco Vecchia)

Samuel Johnson in una stampa dellepoca.




[1]Veramente Samuel Johnson dice «rende paffuta la carne», ma eravamo in altri tempi e con altri canoni di bellezza femminile.
[2]Nell’originale si tratta di «cinghie per affilare i rasoi», ma mi sono permesso questa libertà per evidenti motivi di accostamento all’attualità.

Lettera a Clint Eastwood

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Caro zio Clint,

non vedo l’ora di andare al cinema a vedere Sully. Aspetto ogni tuo nuovo film come se fosse una festa, e mi dispiace di non essere lì a godermi in anteprima il pilota Tom Hanks che porta in salvo i 155 passeggeri del volo US Airways 1549 ammarando nell’Hudson.

Ti chiedo scusa per aver dimenticato di farti gli auguri per il tuo 86° compleanno, il 31 maggio. Perdonami. Il fatto è che, quando si entra nel club dei seniores, la testa delle persone normali va un po’ a farsi fottere. Non certo la tua, ovviamente, nonostante quello che si legge in questi giorni sui giornali. Dio ci preservi dagli slittamenti di intelletto e di vescica. Cerca di riguardarti e di restare in gamba: sei il mio zio americano preferito, il mio Garibaldi di almeno tre mondi (Far West, Alcatraz, Iwo Jima), il mio dirty dirty Harry, e se il tuo epico libertarismo patisse un cedimento mi sentirei peggio di come si sentiva Tim Robbins in Mystic River.

Lo sai che ti voglio bene, anche se ogni tanto mi metti in imbarazzo con le tue stravaganze politiche. Con la franchezza che ho imparato da te, devo dirti chiaro e tondo che non mi piacque quello sketch che facesti a Tampa, alla convention repubblicana di quattro anni fa. La platea si sbellicò dalle risate, e tu andasti avanti per quindici minuti a prendere Barack per il culo, fingendo che fosse seduto accanto a te, su una sedia vuota.

Ma chi se ne frega, in fondo, della politica e del politically correct. A me basta che ti piaccia il jazz, e che difenda gli immigrati cinesi come hai fatto in Gran Torino. Sei stato tu, con Invictus, a erigere un monumento a Mandela, mica quel comunista di Redford: non dimentichiamolo. E non parliamo di Million Dollar Baby, più potente di tanti film dichiaratamente femministi, dove hai messo Hilary Swank sul ring facendola diventare un asso della boxe.

Ma adesso, zio, mi devi spiegare cos’è questa storia che ti sei messo a giocare a briscola con Donald. Se è vera non la capisco. Che ci fai tu con quello zotico? Guarda che non è mica Eisenhower. Essere repubblicani, come tu sei, non ti obbliga automaticamente a stendere il tappeto rosso sotto i piedi di un trumpaccio qualsiasi. Me l’hai insegnato tu stesso, quando hai disapprovato il Watergate di quell’altro tuo amico sbagliato, Richard. E quando hai sostenuto diritti civili come l’eutanasia, le nozze gay, l’aborto – temi che ai conservatori più tenaci fanno venire il morbillo e la scarlattina. Zio Donald si presenta come candidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America, mica della palestra di body building dietro l’angolo. La sua figura, le sue idee, il suo modo di parlare sono quanto di più lontano si possa immaginare dagli ideali di un americano verace, anche se pieno di contraddizioni come te e buona parte dei tuoi connazionali.

Ha ragione Lewis Beale, quando dice che non sei un «hardcore racist». L’hai letto l’articolo che ha pubblicato sul sito della CNN? Ti ha difeso alla grande, enumerando tutti i film in cui hai dato lavoro a colleghi afroamericani come Forest Whitaker e Morgan Freeman, hai esaltato artisti come Charlie Parker e Dizzy Gillespie, hai stigmatizzato l’apartheid in Sudafrica e i pregiudizi sugli immigrati e sulle donne. Donald non c’entra niente con tutto questo, cazzo. E lo sai benissimo. Devi esserti tappato il naso per non sentire la puzza quando hai ammesso che il candidato repubblicano alla presidenza «dice un sacco di stupidaggini», aggiungendo però che questo non è un motivo sufficiente per non schierarsi dalla sua parte.

Qui da noi, in Italia, abbiamo un modo di dire per chi esagera: il troppo stroppia. E tu stai esagerando, temo. Non deluderci, zio. Hai un sacco di fan anche qui. Fino a ieri abbiamo sempre minimizzato i tuoi svarioni, in nome dell’ammirazione e della simpatia che proviamo per te. Sottoscrivo appieno ciò che ha scritto un giornalista del mio paese, Piero Zardo, in una recensione ad American Sniperdi due anni fa: «Eastwood, si sa, è un repubblicano, ma non certo un fanatico di estrema destra. E il suo film è un’ode a un soldato e non ci nasconde le atrocità della guerra, i suoi postumi traumatici (mentali e soprattutto fisici, di cui ci vengono mostrati diversi esempi). Non ci si esalta per azioni e missioni impossibili. Il suo è un onesto e commosso tributo a un eroe americano.»

È così che ti vogliamo: un eroe americano che racconta storie di altri eroi, americani e non, uomini e donne. Facci sognare. Ma tienici lontani da quello Scorpio, non promette nulla di buono. Ne spara di assurdità. Non credo ti sia piaciuto il suo progetto anti-immigrazione, quello del muro e della rete elettrificata lungo il confine col Messico. Che cosa può avere Donald in comune con te? Cosa ti piace del suo programma? Contenere le spese di welfare? Abbassare le tasse? Dai, non ti ci vedo a dar via il posteriore per un pugno di dollari. O per qualche dollaro in più.

Ziuccio mio, lo sai come fanno questi repubblicani ultrà quando il coyote li morde e li prende la rabbia. Cominciano con qualche stronzata per mettere il popolo di buon umore e poi fanno le porcate sul serio. Come Bush junior che ci ha messo nei guai con l’Iraq e con tutta quella regione. E non venirmi a dire che i dem fanno più danni dei rep. Lo so anch’io che la tua è una grande nazione e che le grandi nazioni preferiscono fare qualche sbaglio, preferibilmente madornale, invece di tirare a campare. So pure che le lobby finanziarie non le butti giù nemmeno se ti chiami Barack, che i costruttori di armi fanno e faranno sempre i padroni anche se i cittadini mettessero Bob Dylan alla Casa Bianca, che il Pentagono e la Cia hanno sollevato più golpe all’estero di quanti se ne siano visti in tutti gli action movie di Hollywood. Insomma l’ho capito anch’io, nel mio piccolo, che il colore politico e la buonafede di un presidente non cambiano granché il corso delle cose. Ma perché cominciare subito col peggio? Immagino che quello strampalato di Donald ti abbia sedotto con le sue salvinate fino a farti credere di essere un supereroe della Marvel. Lui, non tu.

Lasciami dire, senza volerti mancare di rispetto, che Donald lo avresti preso a calci nel sedere se, invece di avere 86 anni suonati, fossi ancora il Biondo senza nome o l’ispettore Callaghan. Allora nessuno avrebbe potuto prendersi gioco di te come adesso sta facendo zio Don. Quello non capisce una sega né di cinema, né di musica, né di politica. Fa lo sbruffone e rovinerà quel poco di buonsenso che è rimasto sul pianeta, trascinandoci in avventure da cui usciremo tutti perdenti, te compreso.

Caro Clint, sto soffrendo per te. Soffro soprattutto perché ti stai mettendo in ridicolo come quel patetico di Charlton, pace all’anima sua. E non voglio che ridano di te come risero di lui, quando Michael Moore andò a intervistarlo per Bowling a Columbine e mister Heston era presidente della National Rifle Association, la congrega delle armi. Te lo ricordi come andò a finire? Michael lo incalzava con le domande e quel Ben-Hur in pensione non sapeva cosa rispondere. Balbettava come un pollo, ed era talmente a corto di argomenti che a un certo punto perse completamente le rotelle e fece cacciare Michael dalla sua villa di Beverly Hills. Vedi, zio, quando si è artisti – come sei tu e come, a modo suo, era Charlton, sebbene solo attore e non anche un super filmmaker del tuo rango – bisogna farsi paladini di qualcosa che vale, mica mettersi in testa il cappello da pistolero e schierarsi dalla parte del brutto e del cattivo.

Beh, non volevo farti la morale ma te l’ho fatta lo stesso. Non ho niente da insegnarti, sei adulto, sbrigatela da solo. Sappi però che tu e Donald non state bene insieme; in comune avete soltanto la tempra da uomini duri, ma la somiglianza finisce lì. Lui è un aspirante dittatore vintage, tu sei un artista. Tu fai dei film che divertono e fanno pensare, lui minaccia boiate che non divertono e fanno morire. Donald non è tuo amico, non è amico di nessuno: è solo un furbacchione che ti vuole sfruttare, approfittando della tua arte e della tua popolarità. Tu sei un idolo delle folle, lui è un folle idolo di sé stesso.

Il fatto che mezza America gli sta andando appresso è un segno brutto, anzi bruttissimo. Non solo per l’America, ma per il mondo intero. Gente come quella l’abbiamo avuta anche noi, qui in Europa, e non è stata una cosa gradevole. Vorrei tanto poterti dire che siamo poi diventati più saggi di voi americani, ma non è vero. Certi europei hanno smesso di imparare qualcosa dalle peggiori nefandezze dei nonni, e molti sono pronti a farne un bel remake. Ma tu, tu sei Clint. Sei un simbolo. Di libertà: a modo tuo, cioè nel modo più libero possibile. Hai delle responsabilità. Non puoi avallare né i trumponi del tuo paese né, indirettamente, i trumpini d’Europa. Come John Wayne, sei un indefesso angelo custode della grandezza americana. Ma attento al coyote. Se ti lasci, e ci lasci, mordere da Donald, gli Stati Uniti d’America diventeranno il paese più turco del mondo. You know what I mean.

Sempre tuo,


P.B.


Citati nel post:

Articoli

Piero Zardo, Un eroe americano, Internazionale, 29 dicembre 2014.

Film

American Sniper. Regia di Clint Eastwood, 2014. Con Bradley Cooper, Sienna Miller.
Ben-Hur. Regia di William Wyler, 1959. Con Charlton Heston, Jack Hawkins, Haya Harareet, Stephen Boyd. 
Bird. Regia di Clint Eastwood, 1988. Con Forest Whitaker, Diane Venora.
Bowling for Columbine (Bowling a Columbine). Regia di Michael Moore, 2002. Documentario.
Dirty Harry (Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo). Regia di Don Siegel, 1971. Con Clint Eastwood, Harry Guardino.
Escape from Alcatraz (Fuga da Alcatraz). Regia di Don Siegel, 1979. Con Clint Eastwood, Larry Hankin, Fred Ward.
Gran Torino. Regia di Clint Eastwood, 2008. Con Clint Eastwood, Bee Vang.
Il buono, il brutto, il cattivo. Regia di Sergio Leone, 1966. Con Clint Eastwood, Eli Wallach, Lee Van Cleef, Aldo Giuffré.
Invictus (Invictus – L’invincibile). Regia di Clint Eastwood, 2009. Con Morgan Freeman, Matt Damon.
Letters from Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima). Regia di Clint Eastwood, 2006. Con Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya.
Million Dollar Baby. Regia di Clint Eastwood, 2004. Con Clint Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman.
Mystic River. Regia di Clint Eastwood, 2003. Con Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon.
Per qualche dollaro in più. Regia di Sergio Leone, 1965. Con Clint Eastwood, Lee Van Cleef, Gian Maria Volonté.
Per un pugno di dollari. Regia di Sergio Leone, 1964. Con Clint Eastwood, Gian Maria Volonté, Marianne Koch. 
Sully. Regia di Clint Eastwood, 2016. Con Tom Hanks, Aaron Eckhart, Laura Linney.

Quando lo spot rompe

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Verso la metà degli anni ottanta, l’interruzione pubblicitaria dei film trasmessi in tv suscitò disturbi e polemiche. Non ricordo più per quale rivista scrissi una mia opinione sull’argomento. Ne ho ripescato il dattiloscritto in garage e ne pubblico qui il testo, a distanza di più di trent’anni, per rievocare il clima dell’epoca. Nel frattempo la qualità tecnica dei televisori è molto migliorata, così come si è arricchita l’offerta dei contenuti: basta abbonarsi a Sky Cinema, ad esempio, per vedere i film non solo senza pubblicità ma anche con tutti i titoli di coda, nel formato originale e su schermi dal rendimento decisamente più elevato di quelli di allora. La tecnologia, si sa, ha fatto passi da gigante anche nei sistemi di registrazione audio e video; fanno dunque un po’ di tenerezza i riferimenti a musicassette e Vhs, in auge a quei tempi. Di nuovo, rispetto a quanto scrivevo allora, c’è che da molto tempo, ormai, rifiuto di vedere i film fatti a pezzi sui canali tradizionali; anzi rifiuto di sintonizzarmi sui canali tradizionali, se non per qualche minuto di tg.


Quando lo spot rompe
(1984)

Esplode la protesta di autori e critici cinematografici contro le interruzioni pubblicitarie dei film in onda sulle tv commerciali. Il climax fu raggiunto in un convegno organizzato a Roma dal Pci; ed è recente una sentenzache dà ragione agli eredi di Germi, costituitisi parte civile contro lo spot invasore.

Diviso come sono tra l’amore per il cinema e la mia vita di pubblicitario, mi sento ora nella condizione del militante coinvolto in una guerra civile e costretto dagli eventi a far fuoco contro la mamma, i cugini e i compagni di scuola. Vorrei astenermi e rifugiarmi in Svizzera, senza tirare in ballo argomentazioni fin troppo risapute (a cominciare dalla più schietta: la logica di mercato che prescrive a un’emittente privata di finanziarsi con la pubblicità. Insomma: caro telespettatore, se vuoi Indiana Jones devi fare il modesto sacrificio di sorbirti un po’ di spot).

Ma come si fa a stare zitti? Consentitemi almeno di prendere le cose da lontano, senza la minima pretesa di far luce nelle tenebre, e anzi con il proposito di confondere ciò che è già sufficientemente confuso: giacché il mondo non è né bianco né nero, e il dubbio è meno nemico del bene di quanto lo siano le opposte certezze.

Il tema è talmente appassionante che sarebbe un peccato semplificarlo e circoscriverlo a una polemica del tipo “spot sì – spot no”. Le intromissioni pubblicitarie costituiscono infatti soltanto l’aspetto più vistoso, e storicamente più nuovo, di un problema vecchissimo: l’alterazione del prodotto artistico allorché lo si trasferisce in un contesto diverso da quello per cui è nato. La Gioconda riprodotta su un francobollo non è più la Gioconda, è un francobollo. La dolce vitatrasmessa in televisione non è più La dolce vita, è televisione. Certo, il francobollo e la tv citano rispettivamente l’opera di Leonardo e quella di Fellini, e qualche brandello dell’aura originaria sopravvive nonostante la “traduzione”; ma si tratta di qualcosa d’altro, che non consente confronti con il materiale autentico. Né si può sostenere che il francobollo leonardesco, o il film formato video, siano necessariamente merce scadente e avariata, come la finta Vuitton o la triglia decomposta.

Traviata sull’autostrada.

Francobollo e teleschermo si comportano in modo analogo: riducono drasticamente le dimensioni, quantitative e qualitative, apparenti e profonde, dell’originale. Sovrimprimono all’opera messaggi che le sono estranei: Poste italiane, lire 500; sigla dell’emittente nell’angolino, la domenica i risultati delle partite di calcio. Tagliano, impaginano, incorniciano in maniera diversa: bande nere sopra e sotto l’inquadratura che fu Cinemascope, abolizione di tutto ciò che sta troppo a destra o troppo a sinistra del rettangolo, attori compresi. Modificano le luci e i colori. E così via.

Tutto ciò non fa scandalo, non incita al furore e allo sdegno, è acquisito e digerito per convenzione. Così come è acquisito che Shakespeare e Umberto Eco possano liberamente circolare nel mondo in lingue diverse da quelle di partenza: Shakespeare in italiano è ancora Shakespeare? Eco in iswahili è ancora Eco?

Non ci sorprende, e anzi lo consideriamo un servizio, che una Traviata nata per il teatro diventi una musicassetta da consumare in automobile: privata del visibile, destinata alle sole orecchie, l’opera è già dimezzata. E non finisce lì: il fruitore può sovrapporre e subire rumori, distorsioni e distrazioni che alla Scala suonerebbero blasfemi. Può spegnere Violetta in ogni momento, se l’automobile è più veloce della tisi ad arrivare in garage. Può andare avanti e indrè con il fast forward e il rewind, se si commuove per Parigi, o cara e i recitativi lo stancano.

Non ci assale un conato di vomito, e anzi talvolta ci piace, che un dipinto finisca stampato in un catalogo, in una rivista, su una confezione di cioccolatini: in bianco e nero, o con i colori drogati, i retini à pois, i tagli per esibire i particolari, l’impaginazione generale dello stampato che influisce in modo arbitrario sulle suggestioni dell’opera. Ma un dipinto è un dipinto, un libro è un libro, una rivista è una rivista, una scatola è una scatola.

E che dire dell’architettura? Non esiste forse altra arte al mondo così esposta agli smarrimenti di identità, ai ricicli fisiologici e culturali, alle metamorfosi e alle metempsicosi. Lo spot passa e va, dovunque lo si ficchi denuncia onestamente la sua natura e la sua funzione di inserto alieno, di mosca nella minestra, e di fatto l’occhio umano lo riconosce e lo isola dal contesto, ricompone l’unità di ciò che gli sta attorno. Ma un altare barocco piantato a viva forza nella moschea di Cordova è uno spot permanente, un buco nero che inghiotte, mistifica e occidentalizza nei secoli le colonne moresche preesistenti.

Il video è un tostapane.

Non ha senso illudersi che un film trasferito in tv sia ancora “quel” film, o che sia ancora cinema. Né ha senso soffrire per una simile scoperta. La televisione assorbe tutto ciò che può e produce mutazioni allo stesso modo del tostapane, del frullatore, dello schiacciapatate: il pan carré che era morbido e bianco diventa bruno e croccante; la mela si fa succo; la patata puré. È bello e giusto che coesistano la mela unitaria e il suo derivato, la patata d’autore e il puré; né si considera insulto alla natura aggiungere zucchero al succo di mela, latte e formaggio alla patata schiacciata.

Il telespettatore, dal canto suo, tosta, frulla e macera Hitchcock e Ėjzenštejn con maggior lena di quanto già non faccia il televisore. Si alza per andare a far pipì (e se approfitta di uno spot, tanto meglio per l’arte). Sgrida il pargolo che si caccia il dito nel naso proprio mentre la carrozzella precipita giù per la gradinata di Odessa. Litiga con la suocera che vuol vedere la telenovela sull’altro canale. Risponde all’importuno squillo del telefono proprio quando i gabbiani si avventano su Tippi Hedren. No, non è cinema, ma non è neanche un vergognoso surrogato: è documentazione sulcinema, come è documentazione sull’arte del Seicento consultare il catalogo della mostra di Guido Reni (anche masticando un sandwich e rispondendo distrattamente alla moglie che chiede com’è andata la giornata in ufficio).

Non è male che i miei figli adolescenti si siano fatti un’idea di Charlie Chaplin o di Ladri di biciclette o di Casablanca senza dover andare tutte le sere all’Obraz di Milano o al Filmstudio di Roma o in qualche cineclub di Parigi o New York. La televisione e, sì, anche la pubblicità hanno il merito di salvare dall’oblio Pabst, Rossellini, John Ford. Accennavo ai cataloghi d’arte; ma no, la televisione per il cinema fa di più: ne è il museo permanente, un Louvre formato famiglia, perché è meno difficile andare a Parigi a vedere la Gioconda che inseguire Quarto potere chissaddove. Leonardo ha ancora un indirizzo; Orson Welles si aggira senza fissa dimora nell’universo dei sogni, e solo il teleschermo può restituircene, in parte, il sapore.

La videoregistrazione (e sempre di televisione si tratta) rende ora potenzialmente disponibile tutta la storia del cinema[1]. La libertà di tostare e frullare, da parte del fruitore, aumenta vertiginosamente. Altro che spot: posso bloccare l’immagine, tornare indietro, correre avanti, alzarmi per un bicchierino di Vov. E questo è ancora niente. Con le ultime, dissacranti tecnologie posso divertirmi a pasticciare Fellini come fosse roba mia. Cancellare l’audio. Ridoppiare Mastroianni con il mio accentaccio pugliese per fare uno scherzo alle zie. Sovrapporre disegnini colorati sul seno di Anita, per sfogare e sfoggiare insensate libidini creative. Accorciare e rimescolare qua e là, animato dai medesimi impulsi di colui che sfregiò la Pietà di Michelangelo in San Pietro. Cari cineasti, non c’è da farsi venire i brividi?

Ma delle infinite trasformazioni e decontestualizzazioni e manipolazioni possibili, il mondo del cinema sembra adontarsi per una soltanto: l’interruzione da spot. È soprattutto questo il fenomeno che viene vissuto come malattia, come minaccia, come disturbo all’integrità e allo “specifico” dell’opera. Perché? La risposta è scontata: perché la pubblicità non è mai stata veramente accettata, è tuttora sentita come qualcosa di poco pulito, una sorta di perversione del peggior capitalismo.

Elogio del tubo.

Per l’intellettuale italiano la pubblicità è un mostro da combattere o da confinare in angoli bui: non una necessità di mercato, almeno in un sistema come il nostro.

Si capisce allora perché la commistione con la comunicazione commerciale sia vista come il più efferato dei crimini perpetrabili a danno di un film. Eppure anche il cinema ha un costo, un prezzo, l’obbligo imbarazzante di misurarsi con un mercato. Un film si vende e si compra come qualsiasi altra merce – le mutande all’Upim, le tele di Van Gogh da Christie’s. Ma si può, volendo, non vendere un film alla televisione, se non si desidera che la creatura indossi i pannolini Lines.

Ultima riflessione alla buona. È innegabile che i mezzi di comunicazione, tv in testa, hanno contribuito a fondare nuovi codici estetici, nel bene e nel male. O semplicemente nuove modalità di lettura. La pubblicità fa indissolubilmente parte di questa nouvelle cuisine comunicatoria. Costituisce una parte rilevante della sua ossatura finanziaria e stilistica (vedi Warhol e dintorni). Ciò detto non sono d’accordo con chi nella pubblicità ravvisa, bontà sua, la «vera arte del nostro tempo». A quel punto di vista, espresso anche da firme insospettabili, do il valore di boutade, di provocazione, di paradosso. Non credo che la pubblicità abbia bisogno di difese enfatiche e di titoli nobiliari; così come non è indispensabile, per decantare le virtù dell’ingegneria idraulica, sostenere che l’invenzione del tubo superi in creatività la Divina Commedia.

Ecco, credo che la pubblicità abbia lo stesso valore del tubo. Non si può fare a meno né dell’una né dell’altro. E, come il tubo, è onesta: si dichiara per quello che è, non bara, non si finge diversa. Dice al prossimo: “Eccomi qua, sono la réclame, sto per somministrarti trenta secondi di detersivo liquido.”

Chi fa questo mestiere è sempre consapevole di non essere del tutto immune dal virus della volgarità, mentre le altre professioni cospirano a oscurare, in chi le pratica, una così dolorosa lucidità. Siate dunque clementi, o maestri del cinema. Talvolta ho intravisto spot pervasi di una bizzarra e lieve ombra di poesia, e li ho cinicamente preferiti a Rambo e Fantozzi va in pensione.

P.B.








[1]Nel 1984, il www era ancora di là da venire.

Il corpo

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Magnus Enckell, Ragazzo con teschio, 1893.    

Corpo di sabbia, corpo di cotone.
Corpo segreto: uno nell’intrico
di molti come il tuo. Tu nascondi
la pelle delle mani e delle dita,
il tremito invetrato nelle gambe,
l’ombra di te. Sei vivo, sei già spento
e lo sai solo tu. Da dove
vieni? Ti piacciono i gelati? Chi canta
per te, se canta? Hai fatto sesso
o non ancora? Dimmi: si balla
o non si balla mai dove ti sogna
il sogno che hai sognato? Una imperiosa
infanzia ora ti scappa dalle tasche
di ciò che credi anima. Giocavi:
è un gioco di prestigio, o forse no,
pure il rancore che ti porta qui,
tra perdenti perduto. O vittorioso
secondo un tuo poema accidentato.
Corpo non sai di avere: non di ghiaccio
tu tremi, né del pane
abbandonato in tavola al risveglio.
Sei qui digiuno, hai sete
non so se d’acqua o d’altro; mi domando
se una latrina bianca, azzurra o verde
hai visitato prima del tuo arrivo;
se ti ha turbato l’ultima
seduta accovacciato, se hai pianto
mentre pregando ti pulivi il culo.

Lo vedi, non ti faccio la morale:
è al tuo corpo che parlo, non a te.
Materia. Collo, scapole, menisco,
cartilagini antiche e dolorose
illusioni di terra e di metallo,
pene di pene e fuochi di vagina,
la pentola sul fuoco, l’ossessione
che si tramuta muta in uno sguardo,
un movimento, un gesto. Se hai un nome
lo perderai: il nome non è creta,
né rosa, né alabastro. Tu sei acqua,
acqua io sono; l’aria che fendiamo
tu col tuo corpo d’acqua, io col mio,
non sa che farsene della tua accensione,
non sa che farsene della mia paura.
Erba e catrame, vento
e dimenticanza:
né guerra né preghiera,
né cielo né martirio: solo corpo
tra i corpi. È questo che vuoi?
Sei sicuro? Hai fatto le abluzioni?
La doccia? Hai nuotato nel fiume?
Hai salutato qualcuno?
Ti mancherà? Ti mancherai?

Non hai sospirato abbastanza
sotto le stelle se l’intensità
delle luci ti sembra un’offesa.
Ora è troppo tardi se il lampo
illumina macerie e trasalimenti,
se il tuono ti sgretola
lasciando affiorare mappe
geopolitiche sulla tua pelle.
Ti vai trasformando in simbolo.
Il corpo, il tuo, tradisci; chi sei,
chi saresti, non sai. Ognuno
crede di scegliere, ma solo
tra maestri a portata di passo.
T’insegnano questo e quello
senza vederti, senza nemmeno
sapere come sei fatto; il taglio
di rasoio e machete, il suono
del tritolo già ti accomuna
a tutti i cadaveri del mondo,
non importa se amati o non amati.
Eppure il tuo corpo non dorme,
sente levarsi il giorno – ed è una piaga.
Vorresti che le braccia, la fronte, i capelli
sparissero in vertigini viola.

Non vuoi più saperne di lune,
di olivi, cavalli, telefoni,
hai scelto l’azzardo e lo speri
liberatore. Ma prima
devi piegare il peggiore
dei tuoi nemici – il corpo che reclama
frescura e indipendenza, il corpo
che pulsa e se ne frega
della tua ansia fosforescente.
Corpo rimasto adolescente e amaro,
più ribelle di te, disobbediente,
isterico, scontroso, persino
felice tuo malgrado finché il timer
non spezzerà le lance agli orologi.

Quel ch’era non è più, non è mai stato.
Fu corpo elettrico di radici e rami,
alito breve di spighe e d’arancio,
occhi di verde lauro, unghie di madreperla,
corteccia di tronco scuro.
Fu di rugiada lacrime e tagliente
risentimento, soffio di vento ardente,
squama di roccia e d’agile serpente,
palmizio in miniatura nell’ascella.
Pianta di carne, smalto
di ossa e denti puri.
La spalla era un sentiero,
il cuore un pellegrino.
Non più dolcezza e fremito,
solo scorpioni e sole
e marciapiedi caustici,
e crepe nel cemento.
Un bagliore ti sbianca,
ti scorpora, ti sbanda.
L’attimo sublimato
subito dopo è inganno.
Non ci avevi pensato.

Il corpo che non vuoi
è il primo a non volerti.
Si sente rifiutato,
brucia di bile blu.
Il fegato ti accusa,
ogni fibra ti accusa,
ogni cellula è cancro
che ti cospira contro.
E nello slancio estremo
sei corpo contro specchio,
sei specchio contro il mondo.

Hai lasciato la foglia
di menta ad appassire
nel bicchiere del tè.


P.B.

Grazie!

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Grazie a:

Laura Abati
Ezay Akyildiz
Marina Albalustro
Simona Amelotti
Vincenzo Ampolo
Kella e Aldo Angaroni
Roberto Angrisani
Anja Amy Armenise
Babette Auvrey-Pagnozzi
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Parole nuove

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Borsa malori. Mercato a rischio in cui vengono scambiati, attenendosi alla legge del più forte, sussulti e brividi ammessi alla speculazione, secondo norme che disciplinano ufficialmente le negoziazioni, i rapporti fra investitori e curatori fallimentari e le tipologie d’azzardo e depressione. Le regole, piuttosto libere, riguardano i requisiti dei titoli (ori, cuori, fiori, picche), la fissazione della posta in gioco e relative neuropatie, le modalità di pagamento e di trasferimento del titolo (nobiliare o scaduto). Estorsioni e suicidi sono controllati da un organo (non sessuale) di vigilanza che verifica le condizioni per un corretto fallimento del sistema. In Italia tale organo è la Commissione Nazionale per la Borsa o la Vita ( CONBOV), fondata sul modello Ball Street; fra i suoi compiti vi è anche la definizione del black calendar (lunedì nero, venerdì nero, etc.), che stabilisce i giorni di chiusura, nonché quelli relativi agli adempimenti di ogni liquidazione e alla liquidazione di ogni adempimento.

Bushardaggine. Teoria della relatività applicata alle nozioni convenzionali di vero e di falso, che prevede il ricorso a commoventi artifici retorici per giustificare interventi militari, esportazioni (di armi e democrazia) e inconfessate strategie petrolifere. Per estensione: pinocchieria politica di larghe vedute, mirante all’incremento del consenso popolare.

Carta sostituzionale. Principale fonte del diritto new wave, che stabilisce quanti e quali principî democratici consolidati siano da ritenere obsoleti e quindi bisognosi di sostituzione. Ad es.: «L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro» (principio), corretto e sostituito da «L’Italia è una repubblica sfondata sul lavoro e rifondata sulla disoccupazione» (fine).

Cattivismo. In contrapposizione al buonismo, consiste nell’ostentazione di cattivi sentimenti, di intolleranza e malevolenza nei riguardi di un avversario, specialmente nell’ambito della propaganda politica.


Cavolismo. Istigazione del Ministero della Salute italiano al rilancio del cavolo, della cicogna e dello spermatozoo, a beneficio dei ritardatari e dei recalcitranti. Il Piano nazionale della fertilità incoraggia amplessi senza contraccettivi da consumarsi preferibilmente il 22 settembre 2016, giornata propizia all’incintaggine (fertility day), al fine di contrastare la denatalità correndo ai ripari. Molti genitori potenziali si sono offesi, avendo riscontrato nell’iniziativa una certa insensibilità verso le condizioni esistenziali delle coppie esortate (lavoro precario o inesistente, prospettive economiche incerte, angustia di alloggi). Altri hanno trovato deplorevole il tono fiabesco e infantile (è il caso di dirlo) della propaganda, da taluni giudicata «un aborto». Un po’ troppo permalosa sembra invece la reazione di chi dice «insulta chi non ha figli», nel senso di chi ci ha provato o ci prova senza riuscirci. La campagna è stupida ma non cinica fino a tal punto. Molto più sensata è la protesta imperniata sui fattori economici e di lavoro. Finché c’è crisi, c’è Durex.

Che tempo che fu. Borotalk show condotto da Fabio Fazio su Rai 3, partito in grande nel 2003 con interviste a letterati e premi Nobel e finito con interviste promozionali a comici scadenti, calciatori liguri ed eredi di De André.

Copulazione di maggioranza. Intesa più o meno temporanea fra gruppi o partiti di diverso orientamento sessuale, finalizzata alla formazione di un governo ibrido. L’amplesso si svolge secondo un programma operativo concordato e sconcordato insieme, sulla base di scambi reciproci e con l’aiuto di preservativi a effetto ritardante, funzionali al prolungamento del piacere (stabilità). Tra i casi più comuni: copulazione delle forze demopratiche o copulazione demopratica; copulazione di centro-sinistra, di centro-destra, di sinistra-destra, di dietro-front.

Crexit. Dieta mediterranea dimagrante, collettiva e obbligatoria, per uscire dalla crescita senza perdere tempo in consultazioni popolari di tipo britannico.

Egologia. L’analisi scientifica e lo studio delle interazioni tra i soggetti politici e l’ambiente sociale. Trattasi di un campo interdisciplinare che include la neurologia, la psicoanalisi, la criminologia, il diritto, il rovescio. | «Il narcisismo è, in un senso, il contrario di un abituale senso della colpa; esso consiste nell’abitudine di ammirare sé stesso e di desiderare di essere ammirato. Fino a un certo punto ciò è, naturalmente, normale, e non va deplorato; è soltanto nei suoi eccessi che quest’abitudine diventa un male grave.» (Bertrand Russell)[1]

Eufumismo. Evoluzione avanzata dell’eufemismo, consistente nella dolcificazione estrema di termini e locuzioni discriminanti in nome di una corrente della psicopasticceria denominata politically sorbet (es: diversamente intelligente; portatore di bastone bianco; homo aut foemina sapiens). Amici in contatto con gli ambienti universitari statunitensi mi informano che la parola master andrebbe soppressa perché così venivano chiamati i padroni delle piantagioni nel sud schiavista. Prendersela con le parole è la via più facile e, al tempo stesso, più astrusa per arrivare al traguardo del mutismo assoluto. (A proposito di mutismo e sordità: il film francese La famiglia Bélier di Éric Lartigau, 2014, ha suscitato numerose proteste; sordi, muti e parlanti lo hanno ritenuto insultante nei confronti di chi ha problemi di udito e di comunicazione orale, nonostante l’attenzione sincera e la delicatezza con cui il film tratta la loro condizione). | L’eufemismo nasce come censura e autocensura di parole impronunciabili, che vengono sostituite da altre apparentemente inoffensive. Ma se Dio diventa Diesel in una bestemmia, il contenuto blasfemo rimane, almeno fino a quando – trascorse tante o tantissime generazioni – nessuno ricorda più il significato originario di quel “porco diesel”. Allora sono le bestemmie e gli insulti a dover essere rimossi, non le parole. Analogamente, nei casi di discriminazione sociale, bisognerebbe rimuovere la discriminazione, prima ancora che le parole. La rimozione delle parole controverse potrebbe diventare miracolosa – e spontanea – solo in un mondo utopico, nel quale il colore della pelle, il gender, l’orientamento religioso o sessuale non costituissero più un problema per nessuno. La parola negro, una delle più scottanti del vocabolario, ha un suono bellissimo e di per sé non è colpevole di nulla; senonché è stata usata troppo a lungo per esprimere odio, disprezzo e violenza, perdendo le sue accezioni innocue. È stata progressivamente sostituita da nero, di colore, afroamericano, man mano che anche le nuove designazioni si tingevano di veleno razzista. Adesso anche chi scrive queste note usa afroamericano, chiedendosi però perché un americano di origine francese o irlandese non venga parimenti designato come francoamericano o celtoamericano. O, più correttamente, euroamericano, dal momento che l’Africa è un continente mentre la Francia e l’Irlanda non lo sono. Certo un semplice americanosarebbe meglio per tutti: ma per questo bisogna aspettare il momento in cui, nell’immaginario comune, il colore della pelle non faccia più notizia e rimanga confinato fra i tratti somatici elencati nell’apposita sezione di passaporti e carte d’identità. Il colore degli occhi, per esempio, interessa solo all’ufficio anagrafe e ai romanzieri. (Occhio agli albini, però).

Famebook. Servizio di rete sociale basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione. Il sito, di facile accesso a chiunque, si propone di mettere in pratica il famoso principio divulgato da Andy Warhol: «In futuro ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità». Sì, ma a cosa serve la celebrità? «Le età future recheranno con sé nuovi e forse inimmaginabili passi avanti nel campo della civiltà, accresceranno ancora la somiglianza dell’uomo con Dio. Pure, nell’interesse della nostra indagine, non dimentichiamo che l’uomo d’oggi, nella sua somiglianza a Dio, non si sente felice.» (Sigmund Freud)[2]

Flusso d’incoscienza. Esposizione di pensieri a ruota liberista, propria di leader politici – di varia astrazione – esperti nella manipolazione delle masse. I concetti vengono espressi così come compaiono nella mente dell’oratore, prima di essere riorganizzati logicamente. Il fenomeno (detto anche riflusso di coscienza nei casi patologici) viene realizzato tramite il monologo esteriore di derivazione freudiana e joyciana.

Ideofobia. Conclamata estinzione delle ideologie (e dunque dei sistemi di pensiero), il cui funerale – dato comunemente per scontato – fa pensare alle sepolte vive di romanzesca memoria. Di vetero-ideologismo vengono di solito accusati i comunisti (quelli sì, davvero estinti, ma tuttora vivi e vegeti nell’immaginazione qualunquista) e i socialisti, anche i più moderati e i più vaghi. Confinante con l’odiologia, l’ideofobia è un pensiero critico che si oppone al pensiero critico, e gode di entusiastico favore tra i promotori e i sostenitori dell’oblio storico, essendo funzionale al ritorno del capitalismo più sfrontato.

Illogismo. Semplificazione e deregulation del sillogismo aristotelico: è costituito da due proposizioni dichiarative anziché tre, connesse in modo tale che dalla prima, assunta come premessa, si possa dedurne la seconda a mo’ di conclusione speculare. Es. Tutti i greci sono mortali > Quindi i mortali sono tutti greci; Un parlamentare su dieci è indagato > Quindi un indagato su dieci è un parlamentare; Anche i ricchi piangono > Quindi anche chi piange è ricco; Un dirigente del PD è stato coinvolto in uno scandalo > Quindi chi è coinvolto in uno scandalo è un dirigente del PD, etc.


Kamikazzismo. Implacabile erezione spirituale di membri militarizzati, indotti al sacrificio della propria vita e soprattutto della vita altrui in nome di un superiore orgasmo ideologico o religioso. | Il k. si sviluppa da forme estreme e adulterate di misticismo; è il picco dell’idealismo spinto e del razionalismo spento. Amos Oz ha scritto: «...i fanatici hanno indistintamente una particolare predisposizione, un senso tutto loro del kitsch. Il più delle volte il fanatico riesce a contare solo fino a uno, perché due è un’entità troppo grande per lui. Al tempo stesso i fanatici sono quasi sempre degli incorreggibili romantici, preferiscono il sentimento al pensiero, e sono affascinati dalla loro stessa morte. Disprezzano questo mondo e lo barattano volentieri in cambio del “cielo”. Il loro cielo, a ogni buon conto, è normalmente concepito in maniera non dissimile dal lieto fine di un brutto film.»[3]

Last food. Evoluzione del fast food e dello slow food, in voga nei periodi di più acuta crisi economica (recessione) e di più intensa critica alimentare (veganismo). Nei menu standard, il binomio “pane e pasta” è sostituito da “pane e basta” o, negli esercizi più pretenziosi, “pane e acqua”. | Per compensare la tendenza al last food, l’industria alimentare e i mass media (la televisione in particolare) hanno creato e intensificato il fenomeno del cuochismo, basato sulla proliferazione dei ricettari e sull’esaltazione divistica degli chef. | Locuzioni connesse: bast food, anoressia; cast food, la cucina di Hollywood; dust food, cibo in polvere; just food, allergia alla spiritualità; must food, specialità irrinunciabili; past food, gli avanzi di ieri; plast food, vivande immangiabili; roast food, arrosti; vast food, bulimia.

Loghi comuni. Marchi di fabbrica della semplificazione universale. Si esprimono in forma elementare, e possono essere fatti di parole o figure. Rispondono al bisogno umano di omogeneizzare le differenze per ridurre drasticamente la vastità dell’universo e la quantità di nozioni da imparare. La stereotiperia è una bottega in cui si spacciano idee sintetiche: la sedia ha sempre quattro gambe mentre potrebbe averne di meno o di più; l’uomo ha il colore che vede allo specchio e non riconosce il suo simile se è di pelle verde o amaranto; il libro non può che essere noioso, in quanto uguale al primo che mi è capitato fra le mani, un sillabario schifoso. Per Platone l’idea assoluta delle cose aveva più o meno la stessa singolarità, ma da quella assolutezza si partiva per aprirsi a una prospettiva infinita di variazioni. Abbiamo fatto a sua insaputa il cammino inverso: dalla straordinaria molteplicità del mondo ci siamo ritirati in una cella arredata di piccoli souvenir fabbricati in serie. E più si riduce il catalogo dei souvenir, più spento si fa il nostro sorriso. Chi non sa ridere di sé stesso è infelice, ma non sa perché. | Così si esprimeva Blaise Pascal sulla lugubre tristezza dei cliché: «Non si riesce a immaginare Platone e Aristotele se non con gran vesti di pedanti. Erano invece delle persone comuni e ridevano, come gli altri, con i loro amici; e quando si sono divertiti a scrivere le Leggi e la Politica l’hanno fatto per divertirsi; questa era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, mentre la più filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente. Se hanno scritto di politica, l’han fatto come per dar norme per un manicomio; e se hanno finto di parlarne come di cosa seria, l’hanno fatto perché i pazzi a cui si rivolgevano credevano di essere re e imperatori, ed essi si immedesimavano dei princìpi di costoro per rendere la loro follia meno dannosa possibile.»[4]

Magnacarta. Il complesso dei funzionarî che, articolati in varî gradi gerarchici, svolgono nelle istituzioni le funzioni della pubblica amministrazione, producendo in proprio o esigendo da terzi quantità crescenti di documenti cartacei superflui ma utili alla bonifica delle foreste, alla protezione della privacy eventualmente sfuggita alle telecamere e alla riproduzione esponenziale dei funzionarî che, articolati in varî gradi gerarchici, svolgono nelle istituzioni le funzioni della pubblica amministrazione, producendo in proprio o esigendo da terzi quantità crescenti di documenti cartacei superflui ma utili alla bonifica delle foreste, alla protezione della privacy eventualmente sfuggita alle telecamere e alla riproduzione esponenziale dei funzionarî che, articolati in varî gradi gerarchici, svolgono nelle istituzioni le funzioni della pubblica amministrazione...

Mediterroneo. Mare intercontinentale considerato la culla della civiltà occidentale a partire dal mondo antico, e la bara della civiltà tout court a partire dal mondo moderno. Mare nostrum secondo chi si oppone ai nuovi flussi migratori e, più in generale, alle popolazioni del sud, punto scardinato detto familiarmente Casaloro.

Monte dei Fiaschi di Siena. Istituto bancario nato nel 1472 come monte di pietà e sviluppatosi nel XXI secolo come aggregazione di esperti del dissesto gestito senza pietà.

New Pork City. Possibile equivalente di Tangentopoli nelle traduzioni in inglese. | Si fa un gran parlare di creatività a proposito della pubblicità, delle arti, dell’ingegno scientifico; ma le due categorie più vivaci e progredite del secolo sono la corruzione e il giornalismo. La prima ha raggiunto vertici sublimi di stravaganza ed efficacia; il secondo si è mostrato brillante nella formulazione di metafore e neologismi, e acutissimo nel ripeterli all’infinito, per rendere meno laborioso il lavoro di ogni giorno senza perdere in incisività. Anche la politica ufficiale trabocca, nella propaganda, di metafore e neologismi; e anch’essa, come i mass media, ama la ripetizione, perché gli slogan ripetuti mille volte hanno il pregio di influenzare l’opinione pubblica indipendentemente dai reali contenuti del discorso, se o quando tali contenuti esistano in concreto.

Pancismo. Teoria che sposta la sede del pensiero dal cervello al ventre, contenitore considerato più appropriato di qualsiasi altro alla custodia della verità e alla precisione del giudizio. La locuzione ragionare con la pancia implica, nella maggior parte degli umani, un sentimento di fede assoluta nella saggezza delle emozioni e di resistenza imperterrita alle fatiche della logica. Meglio ancora se le emozioni sono colte al loro primo apparire, cioè nella loro fase essenziale e immediata; il pancista esperto sa come proteggersi dal dubbio, sa come interrompere l’audio se una voce gli sussurra che non sempre le cose sono come sembrano. Un quadro è bello se sono belli i tramonti e le donne che l’autore ha dipinto; di Picasso o di Bacon non si sa cosa pensare, perché la pancia in quel momento è più interessata al prosciutto.

Parlavento. Assemblea legislativa e apparato respiratorio dello stato; sistema complesso, costituito essenzialmente da uno o più organi (camere d’aria), la cui funzione precipua, sebbene non unica, è l’emanazione delle leggi. Il nome deriva dalla consuetudine, frequente fra i parlaventari italiani, a prolungare ad libidum gli interventi solistici, nel corso di dibattiti utili agli ostruzionismi e alla rissa. Si sta lavorando alla trasformazione di una delle camere gemelle, tradizionalmente riservata agli anziani (Senato), in parco giochi per autorità regionali e comunali.

Partito Demopratico. Formazione politica che, pur ispirandosi ai principî fondamentali della democrazia, non disdegna – ove lo ritenga necessario o inevitabile – il ricorso al pragmatismo, patteggiando compromessi utili ai suoi membri o, in particolari circostanze, a un’esigua parte di essi.

Pestival di Sanremo. Annuale manifestazione di telemarketing rallegrata da una gara di canzoni a sfondo politico (es: Papaveri e papere, Un filo di speranza, Io ti darò di più, Nessuno mi può giudicare, Chi non lavora non fa l’amore, La musica è finita, Bisogna saper perdere, La vita è un paradiso di bugie, Libero, Vita spericolata, Sarà quel che sarà, Si può dare di più, Fiumi di parole).

Provacy. Utopia giuridica sulla riservatezza della vita privata, sostenuta da illustri esponenti del diritto e della filosofia ma in pratica sconfessata dalla proliferazione di schedature, telecamere di vigilanza, ricerche sui consumi, marketing telefonico, etc. La burocrazia (v. magnacarta) insiste comunque nella difesa di tale utopia, provando a realizzarla mediante la superfetazione di firme e documenti da riporre prontamente nel buio degli archivi.

Radical-shit. Controcritica di destra al radical-chic, presunto lifestyle degli intellettuali di sinistra.

Referenzum. Istituto parzialmente giuridico per il quale, in senso lato, è consentita o richiesta al corpo elettorale una decisione su singole questioni; in senso più ristretto pronuncia popolare, autorizzata dalla legge e nei modi da questa previsti, su atti normativi graditi al capo del governo, il quale decide a suo insindacabile giudizio se riconfermare il proprio mandato in caso di sì o se riconfermare il proprio mandato in caso di no.

Sballottaggio. Vertigine rotatoria testicolare post-ballottaggio che colpisce, in modo prevalente, i tifosi di sinistra. Il fenomeno si verifica quando gli esclusi dalla finalissima fanno convergere i loro consensi sul contendente più scarso, per sbattere fuori pista quello in pole position.

Seganord. Formazione politica impegnata nella rimozione progressiva dei punti cardinali ritenuti superflui o inopportuni: nell’ordine il sud, l’est e l’ovest. Tra le sue priorità: ottenere il riconoscimento delle reali dimensioni del Po, notoriamente superiori a quelle del Rio delle Amazzoni, del Nilo e del Mississippi; l’indipendenza della Padania dall’Italia, dall’Europa e dal sistema solare; la riduzione fiscale per meriti locali; l’espulsione dei non padani dal territorio padano; la sagra mondiale della trota.

Sistema immonetario. Insieme di regole che determinano il valore del denaro quando il denaro scarseggia.

Società multietica. Modello di comunità in cui appare legittima la coesistenza di istanze democratico-liberali con il nazifascismo e la sopraffazione criminale.

Spopulismo. Atteggiamento paternalistico di politici ambiziosi, che aspirano a spopolare elettoralmente. Consiste nel promettere il culo al popolo (storyselling) per fare il culo al popolo. Se questo chiede duelli all’ultimo sangue gli si concedono arene e gladiatori. Se chiede sicurezza gli si regalano leggi razziali. Se chiede miracoli può ottenere, in caso di insistenza, il beneficio dell’invisibilità (desaparecido).


Tank-show. Sformat televisivo modellato sul RisiKo, il gioco di strategia che ha come argomento una guerra apocalittica. I carri armati sono sostituiti da ugole militari: vince chi grida di più. Sul campo di battaglia vigila e interviene un eccitato dio Marte, travestito da moderatore. Lingue di fuoco guizzano su temi politici e sociali già abbastanza scottanti di per sé. Le più biforcute promettono pompieri, Croce Rossa e tregue paradisiache, tirando acqua (!) al proprio mulino. Ciascuna lingua in concorso gioca su due urne: quella elettorale (in cui ripone le proprie speranze) e quella delle ceneri (in cui ripone la speranza di annientare l’avversario).

The Inps. Gruppo folk-rock italiano, considerato come il principale e più influente esponente della welfare music. L’importanza della band travalica l’ambito specificamente musicale (work songs) e si pone come elemento rilevante per la comprensione dei mutamenti del costume, della politica new age e del rapporto con i pensionati (evergreens), al fabbisogno dei quali provvede, tagli permettendo e finché dura. Alcuni osservatori considerano The Inps una band in via d’estinzione.

Transortografia. Scrittura sintetica, nata con i cortomessaggi della telefonia portatile e in seguito assurta a modello superiore di stile post-stenografico, ecologico (riduzione degli sprechi verbali) e morale (parità di merito tra promossi e bocciati). Si basa su abbreviazioni, sostituzioni di gruppi di lettere con simboli omofonici (es. per = x) e sulla contrazione di lungaggini in acronimi (es. Nel mezzo del cammin di nostra vita ci ritrovammo in una selva oscura = nmdcdnvcriuso).

Trump-l’oeil. Effetto visivo ingannevole, più pittoresco che pittorico; induce la vittima a percepire prospettive di buongoverno e di benessere collettivo nelle promesse e nelle minacce d’un magnate da fumetto.

Villa San Mubarak. Maison lombarda di incontri diplomatici tra nipoti d’Egitto e utenti autorevoli, balzata agli onori della cronaca e alla cronaca degli onori per abusi e induzioni indebite secondo accuse smentite dagli interessati e dalla Corte di Scassazione.

P.B.





[1]B. Russell, The Conquest of Happiness, 1930: ed. it. La conquista della felicità, trad. Giuliana Pozzo Galeazzi, Milano: Longanesi, 1948.
[2]S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, 1930; ed. it. Il disagio nella civiltà, a cura di Joachim Flescher, Roma: Scienza Moderna, 1949.
[3]Amos Oz, The Tubingen Lectures. Three Lectures, 2002; ed. it. Contro il fanatismo, trad. Elena Loewenthal, Milano: Feltrinelli, 2004.
[4]B. Pascal, Les pensées, 1670; ed. it. Pensieri, trad. Gennaro Auletta, Milano: Mondadori, 1994.

L’intelligenza dei fessi

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Una questione di lana volpina.

Da gran tempo ho elaborato una convinzione che, espressa in forma di motto, suona così: «La furbizia è l’intelligenza dei fessi». Mi rendo conto di quanto sia perentoria una simile asserzione, oltre che fragile, di quella fragilità che sorge da intuizioni empiriche e che per irrobustirsi avrebbe bisogno di adeguati supporti logici, dimostrativi. Sono anche obbligato, per correttezza, ad ammettere che questa opinione – «la furbizia è l’intelligenza dei fessi» – ha tutta l’aria di un giudizio, più che di una verità scientifica. Un giudizio di specie morale, tipico di chi, come me e tanti altri, non vede di buon occhio ciò che chiama furbizia, e cerca (forse furbescamente) di privare i furbi del fascino e dell’autorevolezza di cui godono, specialmente in Italia. Scopo della presente indagine è appurare se la tesi secondo cui la furbizia è l’intelligenza dei fessi corrisponda al vero o sia un’esagerazione retorica e farlocca. Ci applicheremo dunque, con tutto il rigore di cui siamo capaci, all’analisi delle relazioni intercorrenti fra i dati del teorema (furbizia, intelligenza, fessitudine), per scoprire se l’equazione da cui siamo partiti abbia un reale fondamento o se debba essere scartata come un futile nonsense. La questione non è, come si suol dire, di lana caprina (semmai volpina, se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, in questo caso un pelo rossiccio). Attiene alla filosofia morale e persino alle neuroscienze, e da essa dipende il nostro metro di giudizio sui valori e i disvalori che ci vengono insegnati o, talvolta, propinati. Il nostro atteggiamento nei confronti della furbizia, praticata o subita, è un elemento centrale della conoscenza: e non di conoscenza accademica parlo, ma di quella strumentazione mentale che ci dà la forza di vivere, di sopravvivere e di essere più o meno felici.

Il primo passo della nostra esplorazione consiste, come in tutti i procedimenti di ricerca, nel far tabula rasa dei pregiudizi. Inizialmente, dunque, non daremo nessuna plusvalenza o minusvalenza ai concetti di furbizia, intelligenza, fessitudine. Seguitemi, per favore, nello sforzo di non considerare positiva l’intelligenza, negativa la fessitudine, neutra la furbizia. Indaghiamo le tre entità sgombrando il campo da eventuali simpatie e antipatie; freghiamocene – temporaneamente – di connotazioni quali la virtù, l’onestà, la rettitudine, la probità, la colpa, l’errore, il vizio, il peccato. Fingiamoci, voi ed io, ufficiali di polizia d’una base aliena, situata da qualche parte nell’universo: addetti, in particolare, al controllo degli arrivi dallo spazio. Sbarcano tre intrusi terrestri: il Furbo, l’Intelligente e il Fesso, di cui nulla sappiamo, se non che hanno sembianze umane, dunque aliene. La prima cosa che facciamo è spogliarli, per vedere se nascondono armi ed esplosivi nel buco del culo. Poi li interroghiamo a dovere, separatamente. Il primo dice: «Sono troppo furbo per mettermi contro di voi e farvi del male». Il secondo: «Sono troppo intelligente per mettermi contro di voi e farvi del male». E il terzo: «Sono troppo fesso per mettermi contro di voi e farvi del male». Ecco: abbiamo raggiunto, con un semplice esempio, la condizione di equilibrio che serve a un cervello vergine e fresco, pronto a lanciarsi con candido entusiasmo alla scoperta del mondo.

Il secondo passo è più impegnativo. Riguarda la semantica. Abbiamo bisogno di aiuti: con un po’ di pazienza li troveremo. I vocabolari e i dizionari sono stati inventati per questo. Dobbiamo, in pratica, dare un senso – il più possibile preciso – alle parole furbizia, intelligenza, fessitudine: soprattutto alla prima, che è il principale oggetto di indagine. La seconda e la terza possono aspettare; se definiamo bene la furbizia, è probabile che le altre si manifestino a sorpresa, di loro spontanea iniziativa: vedremo.

L’esattezza è fondamentale. Non lasciamoci infinocchiare dai sinonimi. Astuzia, callidità, furberia, malizia e scaltrezza sono sorelle della furbizia, fors’anche gemelle; le somigliano, ma sono diverse per inclinazione e temperamento. La furbizia, in quella famiglia, se ne sta per conto suo; non s’immischia negli affari dei parenti; pretende una camera tutta per sé, e farebbe carte false per assicurarsene una. La furbizia ama la singolarità, la solitudine; ammette l’altrui esistenza solo se può trarne un tornaconto. Furberiaè la sorella più somigliante: ma si esprime in circostanze occasionali, al bisogno, mentre la furbizia è sempre in campana, attiva al massimo grado. L’astuzia e la scaltrezza, virtù volpine, fanno parte del corredo biologico di autodifesa: chi ne è completamente privo è destinato a soccombere. La volpe non ha la forza del lupo e, per sopravvivere, sa inscenare stratagemmi che l’hanno resa leggendaria nel folklore di molte culture; presso alcuni popoli è simbolo di malignità, presso altri di saggezza. Secondo Ambrose Bierce, l’astuzia è la «facoltà che distingue gli animali o le persone deboli dal più forte».


Più enigmatico della furbizia c’è solo il baseball.



Il mondo animale e le favole che lo prendono a modello non sono di grande aiuto alla comprensione della furbizia. Dobbiamo prenderla per quello che è, una caratteristica squisitamente umana, e cercare di metterne a fuoco la sostanza e la funzione. Del furbo, il vocabolario Treccani dice: «Accorto nel fare il proprio tornaconto, nell’evitare di cadere in inganni e tranelli e nel cavarsela da situazioni imbrogliate e pericolose [...] In origine, furfante, imbroglione, ladro, vagabondo [...]». Fra le due accezioni enunciate, la principale e l’originaria, c’è un divario incolmabile. La prima sembra giustificare la furbizia, collocandola nell’area semantica dell’autodifesa; mentre in origine la medesima parola ha la fedina sporca, anzi sporchissima. Sappiamo bene che le parole cambiano d’abito nel corso del tempo, e che in questo caso il furboè stato talmente furbo da far dimenticare, con un colpo di bacchetta magica, il suo fosco passato. Se ne ricordano solo i critici del costume, quando la furbizia si dà alla pazza gioia e scandalizza il prossimo con eccessi spettacolari di indecenza. Michele Serra mette l’accento su una proprietà accessoria ma importante della furbizia, il servilismo, quando scrive: «Che la furbizia sia caratteristica servile, e mai signorile, è la sola fondamentale scoperta politica che milioni di italiani devono ancora fare.» Ma abbiamo detto che è prematuro balzare a conclusioni morali: stiamo ancora indagando sull’indiziata di reato (la furbizia) e ci vuole ancora un po’ di tempo prima di emettere un mandato di cattura, trascinarla in tribunale e ottenere una sentenza.

Non si può comunque negare che la furbizia, sebbene molti l’ammirino fino a invidiare chi ne è dotato, lascia adito a qualche sospetto. Il Dizionario etimologico della lingua italiana, opera preziosa di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli (Zanichelli, 1980), ci informa che nel 1455 il francese fourbe stava per ladro e ingannatore. L’etimologia viene prudentemente data per incerta (sebbene, in latino, fur significhi ladro), ma l’ipotesi che fourbe girasse nel gergo malavitoso dell’epoca e provenisse dal verbo fourbir è attraente. Il senso di questo fourbir (alla lettera forbire) era «ripulire le tasche». L’arte del furbo coinciderebbe con la maestria del borsaiolo: colui, o colei, che ti sfila di dosso il portafoglio senza che tu te n’accorga. Il borsaiolo è più sottile, più avveduto, più elegante del rozzo scippatore; ama il suo mestiere e disprezza i maldestri, i disordinati, gli impazienti, i casinisti. Ciò deporrebbe a favore della sua intelligenza: ed ecco che siamo arrivati al secondo lato del triangolo da cui siamo partiti. L’intelligenza, che avevamo messo in standby, si presenta di sua iniziativa in cancelleria, senza avere ancora ricevuto un mandato di comparizione.

Che la furbizia sia una specializzazione dell’intelligenza, del resto, non è una rivelazione tale da farci urlare di stupore. Ci potevamo arrivare anche dormicchiando. Ma che cosa intendiamo per intelligenza? A noi basterebbero tre parole per definirla: «capacità di intendere». Treccani, in questo caso, è meno reticente di quanto lo sia stato con la furbizia, anzi generoso a oltranza: «Complesso di facoltà psichiche e mentali che consentono all’uomo di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri, giudicare, e lo rendono insieme capace di adattarsi a situazioni nuove e di modificare la situazione stessa quando questa presenta ostacoli all’adattamento; propria dell’uomo, in cui si sviluppa gradualmente a partire dall’infanzia e in cui è accompagnata dalla consapevolezza e dall’autoconsapevolezza, è riconosciuta anche, entro certi limiti (memoria associativa, capacità di reagire a stimoli interni ed esterni, di comunicare in modo anche complesso, ecc.), agli animali, spec. mammiferi [...]».

Se rileggiamo attentamente questa articolata definizione e cerchiamo di trasporla sulla nozione di furbizia, possiamo trovare coincidenze interessanti, specialmente laddove si parla di adattamento alle situazioni e superamento degli ostacoli. Non dovrebbero sussistere dubbi sul fatto che la furbizia, comunque la si giudichi, è una forma di intelligenza. Una forma: una specializzazione. D’altronde, esistono intelligenze assolute? Neanche la genialità le presuppone. Tutte le intelligenze, credo, tendono a specializzarsi: per quanto estese e flessibili siano le capacità mentali d’un individuo, esse devono per forza di cose farsi selettive, autolimitarsi, stabilire graduatorie d’intenti, per non intasare la tazza del cervello d’un sovraccarico letale. Si è acuti e brillanti in qualche ramo dello scibile a scapito di altri. Si può eccellere in matematica ed essere dei brocchi perfetti in filosofia, per esempio; cavarsela discretamente nella scrittura senza aver capito un cazzo di baseball, anche dopo essersi sottoposti – come ho fatto io – allo stress di una interminabile partita subita non ricordo più in quale stadio, forse a Minneapolis. E sì che quella curiosità aveva, nel mio caso, un movente letterario: volevo afferrare meglio l’humus culturale di certi romanzi, a partire da Il giovane Holden. Più tardi mi sono fatto più furbo: ho divorato tranquillamente La bambina che amava Tom Gordon, di Stephen King, infischiandomene della mia ottusità in materia di baseball. (Tom Gordon, per chi non lo sapesse, era un lanciatore dei Red Sox di Boston).

La furbizia è uno status symbol.

Fine della digressione. Ora, stabilito che la furbizia è una forma specializzata d’intelligenza, cercheremo di capire qual è la sua mission (uso questa parolaccia perché in certi ambienti fa figo). Abbiamo già citato due volte, in questa trattazione, la parola tornaconto. Ovunque cerchiamo indizi di furbizia, inciampiamo fatalmente nell’ossessione del tornaconto: non v’è furbizia senza tornaconto. Ma siamo sicuri? Mi vengono in mente certi latitanti della mafia, pezzi da novanta, boss, talvolta costretti a vivere per anni e anni nascosti in ambienti grotteschi, scomodi, isolati. Così furbi da scampare eternamente, o quasi, alla cattura; e al tempo stesso così masochisti da non potersi godere una briciola delle ricchezze accumulate con implacabile dedizione all’arte dell’imbroglio, dell’abuso, del delitto. Cui prodest? La rinuncia volontaria alla libertà – sia pure alla modesta, ma in fin dei conti vitale, libertà di movimento: «Vado a fare una corsetta nel parco, cara. Non trovo la felpa, l’hai presa tu?» – è un portato della furbizia intesa come sottoprodotto della scaltrezza e dell’astuzia: un derivato debole e patetico di capacità analoghe, ma più «signorili».

Se il fine è il tornaconto, e il tornaconto non c’è, la furbizia è un fallimento. Ma se il tornaconto c’è, ed è stupido in partenza, che tornaconto è? Il latitante braccato e costretto all’autodetenzione in luoghi non più confortevoli di una cella ha certamente avuto successo nella sua scalata alla ricchezza, al potere, al dominio, al prestigio, senza tuttavia poterne trarre benefici all’altezza della complessità strategica del suo operare.

La furbizia è spesso antieconomica: richiede più impegno di quanto i risultati giustifichino. Ho visto furbi darsi da fare per ottenere risultati che avevano già in tasca; stakanovisti della furbizia impegnati fino allo spasimo per mettere le mani su un «tornaconto» agevolmente raggiungibile, con molto meno sforzo di quello profuso per arrivarci. Vi racconterò, a mo’ di apologo, la storia (vera) di due uzbeki che cercarono di corrompermi a Mosca. Uno dei due era membro di una giuria da me presieduta. Non una giuria da tribunale, beninteso; la giuria di un festival internazionale di creatività pubblicitaria. In eventi di questo genere non si può evitare che i giurati si ritrovino, a loro volta, nella condizione di concorrenti: il conflitto d’interessi è dietro l’angolo, e di solito si tende a tenerlo sotto controllo con regolamenti che impediscono di votare per il proprio lavoro e per il lavoro delle organizzazioni in cui si presta servizio. L’uzbeko in questione dirigeva un’agenzia di Tashkent, in gara con un paio di spot molto brillanti. Tutti i giurati, me compreso, avevano manifestato a gran voce il loro entusiasmo per quei due spot. Ciò nonostante, durante un party in albergo, l’uzbeko – questa volta accompagnato da un suo socio d’affari – cercò con ogni mezzo di circuirmi e di influenzarmi, facendomi ingoiare fiumi di vodka e invitandomi ripetutamente a trascorrere una vacanza, con consorte, a casa sua e a sue spese, includendo nel pacchetto anche una suggestiva escursione a Samarcanda. I due mi fecero capire che non potevano tornare a casa senza un premio, fosse pure un premio secondario. Non miravano al grand prix ma a una targa di bronzo, meglio ancora se d’argento o d’oro: l’avevano promessa al cliente, l’azienda reclamizzata negli spot, e tornare a mani vuote sarebbe stato un vergognoso tradimento, una vergogna punibile con la rottura del contratto, il licenziamento dei collaboratori, forse addirittura il fallimento dell’agenzia. Supplicavano in modo talmente adulatorio e servile (ha ragione Michele Serra riferendosi agli italiani, ma tutto il mondo è paese) che quel servilismo riuscivo a misurarlo con chiarezza anche se obnubilato dall’alcool e malfermo sulle gambe. Ciò che non capivo, e ancora non capisco, era il motivo per cui due uomini si stavano sputtanando per un esito che tutta la giuria aveva già dato per scontato. E, comunque, nessuna targa di metallo può valere più dell’onore personale, checché ne dicano gli uzbeki.

Sarebbe troppo empirico trarre una conclusione dall’episodio che vi ho appena raccontato? Sì e no: lasciatemi provare. La furbizia è un’attitudine mentale, prima ancora di palesarsi sotto forma di tattiche e stratagemmi. Furbo non sei perché applichi la tua creatività al conseguimento di uno scopo; furbo sei perché hai il convincimento profondo che la furbizia sia una virtù, una qualità superiore, necessaria, prestigiosa. Le manovre del furbo non mirano soltanto a raggiungere un traguardo specifico, ma anche – o soprattutto – a creare occasioni sempre nuove cui applicare il suo talento. Il vostro fornitore di metafore vi direbbe che il furbo è una volpe che si morde la coda. E mordersi la coda, ruotando all’infinito su sé stessi, non è da dervisci ma da fessi. Lo dice anche la rima.

La furbizia come scissione della personalità.

Finalmente, con la parola fesso, si è fatto vivo il terzo lato del triangolo. Ora viene la parte più difficile: vogliamo dimostrare, se ci riusciamo, che il furbo è anche – a sua insaputa e per colmo di paradosso – un fesso; o, più propriamente, che la specializzazione della sua intelligenza tende, involontariamente, alla fessitudine.

Anche qui: occhio ai sinonimi. Abbiamo scelto fesso con cognizione di causa, lasciando perdere il brocco, l’idiota, l’imbecille, lo scemo, lo sciocco, lo stolto, lo stupido, il tonto, e metteteci anche il coglione, se vi piace la parola. Il fesso è più interessante. Fesso implica spaccature e crepe, fratture e incrinature. Fessa è la brocca che ha perso la sua integrità di brocca. Non date retta a chi vi dice che, nel meridione d’Italia, fessoderiva da fessa, la parte più femminile della donna; se anche fosse verosimile, rifiuteremmo a priori di dar credito a un insulto così gratuito e strampalato alla dignità delle donne, e pure dei maschi. Semmai è vero il contrario: la fessaè una fessa, cioè una fessura, una spaccatura. Mentre l’equazione fesso = scisso, depurata da inutili allusioni ai genitali, trova consistenti puntelli nella psichiatria. Fessitudine è voce di gergo delle mie parti, assente nei vocabolari che ho consultato ma efficacissima e perciò meritevole di promozione lessicografica. La fessitudine, per come la intendiamo in questo studio, ha palesi punti di contatto con la schizofrenia: «psicosi dissociativa caratterizzata da un processo di disgregazione (dissociazione) della personalità psichica; si manifesta con gravi disturbi dell’attività affettiva e del comportamento [...]» (Treccani).

Ciò detto, abbiamo il dovere di domandarci se la furbizia sia o non sia una patologia mentale assimilabile, direttamente o indirettamente, alla schizofrenia. Sono stati catalogati, in base ai sintomi, diversi tipi di schizofrenia, ma c’è una caratteristica che li accomuna: l’asocialità. Il furbo è ossessionato dall’esigenza di prevalere sugli altri. Il furbo è asociale per costituzione. Per affermarsi ha un bisogno costante di rimuovere ostacoli, specialmente gli impedimenti, buoni o cattivi, che si frappongono fra la sua concezione di sé e i doveri sociali: per esempio le leggi, il fisco, la burocrazia, la meritocrazia, la concorrenza e gli imperativi etici in generale. La schizofrenia del furbo risulta clamorosamente evidente nella sua relazione col divino. Egli contravviene a uno o più dettati religiosi pur essendo, nei casi di maggiore intraprendenza criminale, devotissimo. I non furbi, in Italia, non cessano di manifestare la propria stupefazione quando le cronache, oltre che le narrazioni artistiche (letteratura, cinema), insistono sulla devozione quasi fanatica di mafiosi, camorristi ed elementi della ’ndrangheta. Non disponiamo di statistiche al riguardo, ma il ritratto del mafioso che ci viene proposto con bizzarra regolarità è quello di un cattolico intransigente, inginocchiato davanti all’altare, con le labbra socchiuse in attesa dell’ostia consacrata e il corpo tutto proteso a ricevere, via incenso, ondate di perdono e benedizione. Se questa non è dissociazione, e di quelle più gravi, io non sono io e tu, caro lettore, non sei tu.

Il furbo cattolico sa di peccare e di aver bisogno di ingenti forniture di perdono. Sa di aver commesso delitti (contro la persona, il patrimonio, le istituzioni, la giustizia, la società) e sa di mentire quando, nel confessionale, promette di ravvedersi. Il ravvedimento non è contemplato nell’agenda dei furbi, e dei fuorilegge in particolare. Il furbo è orgoglioso di esserlo, anche se non vi dirà mai apertamente «io sono furbo», perché è cosciente di essere un deviante. Trova altri modi per vantarsi, per esempio dando del fesso al resto del mondo. Egli crede con tutta l’anima di vivere in mezzo a una moltitudine di fessi, e se gli capita di prenderne a cuore qualcuno, paternalisticamente, o se gli conviene per qualche altro motivo, gli prodiga dei consigli. Il consiglio più pronunciato è «fatti furbo». Un modo obliquo per mettere le cose in chiaro: fra noi due il furbo sono io e il fesso sei tu.



Il dono dell’obliquità.

L’obliquità di linguaggio è una caratteristica precipua nella comunicazione dei furbi. Il furbo di professione eredita, inventa e condivide codici segreti, per escludere il potenziale nemico dalla comprensione delle sue manovre. Se si trova costretto, per vincere una gara d’appalto, a corrompere un fesso ancora vergine di scienza delle tangenti, gli parla in un codice obliquo (cioè né troppo chiaro né troppo astruso), in modo che l’altro afferri – per illuminazione improvvisa nella penombra di quel linguaggio – il senso del discorso e la busta allegata.

Il furbo si comporta da malato e vive la propria furbizia come un dono del cielo, ma anche come un peso al quale sacrificare le cose che renderebbero più facile la vita. Ovviamente ci sono tra di noi furbi che non rubano e non uccidono – non nel senso letterale, almeno; furbi non compromessi con le mafie, la politica ufficiale, la corruzione di serie A. Li trovi dappertutto, questi furbi di seconda classe: a scuola, in ufficio, nel tuo condominio, e li riconosci dal loro sgomitare, dal loro agitarsi, dal loro modo di condursi in vista di obiettivi di maggiore o mediocre portata. Fare carriera, per esempio; ma anche rubare la mela dallo zaino del vicino di banco, in prima elementare.

Durante una delle esperienze più emozionanti e istruttive che ho vissuto, gli esami di maturità scientifica (1960), fui testimone di due strategie esageratamente oblique di furbizia. Le chiamerò «strategia della pertica» e «strategia gatta ci cova».

La strategia della pertica fu messa in atto da uno studente e, a distanza, da suo padre nella giornata d’esame dedicata alla prova d’italiano. Gli esami si svolgevano in un lungo corridoio del liceo, e lo studente furbo aveva concordato con suo padre (furbo anche lui, anzi maestro di furbizia) di sedersi al banco adiacente a una finestra predeterminata. Com’è noto il giornale radio del mattino, nel periodo degli esami di stato, enuncia le tracce dei temi e dei problemi del giorno, subito dopo l’inizio dei lavori. Il padre furbo ascolta la radio e svolge – in proprio o più probabilmente con l’aiuto di terzi – il compito assegnato a suo figlio. Avvolge a un’estremità della pertica il tema svolto, lo assicura con un elastico, raggiunge la posizione da cui è possibile sollevare la pertica fino alla finestra convenuta: lo studente non ha altro da fare che sporgere le dita verso l’esterno, approfittando di un breve momento di distrazione della commissione. Non è chi non veda la complessità, contorta e assai compromettente, di un siffatto sotterfugio. Certo il liceo scientifico di Barletta, a quei tempi e da quel lato dell’edificio, forniva un’agevolazione: si affacciava su un terreno vago, una terra di nessuno ricoperta di sassi, erbacce e detriti; si poteva agire indisturbati, quasi del tutto al sicuro da eventuali ficcanaso. In pieno centro abitato una cosa così non si può fare senza essere circondati da un capannello di curiosi e smascherati da una pattuglia della polizia. Non ricordo se lo studente fu beccato nel corso dell’ardita performance, o se riuscì a portare a termine senza traumi il suo illecito. Ai fini della nostra investigazione, l’esito dell’azione è inessenziale. Ciò che ci interessa è misurare la sproporzione fra la normalità dell’obiettivo e l’eccessivo dispiegamento di risorse messo in campo per attuarlo. Lo studente in questione non era così sprovveduto da non riuscire, da solo, a svolgere in modo accettabile uno dei tre argomenti proposti. Non era né analfabeta né incapace in modo drammatico. Era solo abituato, fin dall’età più tenera, al culto della furbizia, ritenuta la scorciatoia vincente per emergere in qualsiasi circostanza.

La strategia gatta ci cova travolse quasi tutti gli studenti, a partire dai più furbi, e risparmiò solo me. Non ero un genio della matematica. Ma nel 1960 fui gratificato da un miracolo: il problema di matematica analitica più facile di tutta la storia degli esami di maturità scientifica. Da solo, nella torrida estate tra la fine delle lezioni e l’inizio degli esami, non sarei riuscito a risolvere nessuno dei problemi storici, compendiati in un apposito e orripilante volume. Dovetti farmi aiutare da un compagno bravo in matematica, offrendogli in cambio le mie competenze in fatto di italiano e latino. Il problema del 1960 era così elementare che lo risolsi in meno di mezz’ora senza l’aiuto di nessuno, sebbene il mio compagno-maestro si fosse piazzato a un filo di voce da me per proteggermi da un eventuale disastro. «Ho finito», gli sussurrai. «Non fidarti, c’è un trabocchetto», sentenziò con sincera preoccupazione. Ripassai i dati del problema e dedussi che il mio svolgimento era corretto. «Non vedo nessun tranello», gli dissi in un soffio. «Non ti fidare! Cerca una seconda soluzione!», replicò allarmato. I suoi occhi azzurri erano spalancati come nei primissimi piani di un film horror per teenager. Non gli diedi retta. Consegnai l’elaborato con grande anticipo sugli altri, e me ne andai a respirare aria di libertà. Fumai, lessi e passeggiai in attesa che uscissero gli amici. Fui circondato da tutti quelli che conoscevo. Mi trattavano come si tratta un orfano al funerale della madre: «Quanto mi dispiace per te! Ma perché hai mollato? Perché sei stato così impulsivo?» I più compunti erano, ovviamente, i bravi in matematica; e fra loro soprattutto i fedeli della furbizia, che in quel caso rivelava il suo aspetto più paranoico. La furbizia paranoide nasce da una diffidenza estrema nel confronti di tutto e di tutti. Si nutre di sospetto e di dietrologia. I bravi in matematica avevano cessato all’improvviso, come sotto ipnosi, di fare i bravi in matematica, e si erano invece messi a fare i bravi in dietrologia, sbagliando il problema di brutto. La conferma arrivò dai radiogiornali delle 13. La soluzione esatta del problema non era quella immaginata dai furbi, ma quella più semplice, la mia. Di colpo la compassione nei miei confronti si tramutò in avversione. Percepii un netto calo della popolarità faticosamente conseguita fra i miei compagni in cinque anni di liceo. I furbi mi tolsero il saluto, come se fossi stato io il responsabile della loro disfatta. Allora mi si rivelò con chiarezza un aspetto della furbizia che ancora non conoscevo: l’invidia.


La furbizia delusa.

Fra le molte cose che i furbi hanno da nascondere, dunque, c’è anche l’invidia, tipico sentimento da perdenti. Il furbo si dà da fare nei modi più tortuosi perché teme di non riuscire a vincere giocando a carte scoperte. Anche questo tratto caratteriale rafforza l’idea della scissione (alias schizofrenia, alias fessitudine). Da una parte i furbi si sentono padroni del mondo, in privato si sentono meno dotati della media. Nemmeno l’intelligenza specializzata (in questo caso in matematica) li soccorre, quando cadono in preda alla sindrome dello scisso.

Questi aneddoti non hanno nulla a che vedere con la malavita, organizzata e non. Ma se per superare un esame scolastico devi inventarti la pertica magica (lunga quanto dieci bacchette di Harry Potter messe in fila, data l’altezza di certi edifici) o costringere il cervello a un upgrading dalla versione logica alla versione paranormale, chissà come deve essere complicata la vita di un povero gangster o di un funzionario corrotto.

La reputazione della furbizia

In Italia – lo dice Michele Serra e lo dicono tanti altri – la furbizia non solo è di casa, ma è anche considerata una risorsa di prima necessità. Vale più dell’oro, del petrolio e della mamma. Senza furbizia non vai da nessuna parte. È una fede, questa, condivisa non solo dai furbi ma anche dai fessi al 100%. Evadere il fisco, tanto per fare un esempio a caso, è un diritto sacrosanto: essere ricchi senza macchiarsi di evasione fiscale è da fessi incurabili. Conquistare un potere qualsiasi (magari soltanto la scrivania dell’usciere in un ufficio pubblico) senza almeno tentare qualche abusino è un esempio di stoltezza cosmica. La furbizia è un bene nazionale, da proteggere come un patrimonio dell’Unesco. «Fatti furbo», dice papà al piccolino ancora in fasce. Le raccomandazioni fioriscono sugli alberi, nell’immenso giardino del Do ut des.

Non è vero, caro Michele, che la furbizia sia una creazione italiana, come gli abiti di Armani e la pizza. Ho incontrato furbi di tante nazionalità. Vero è, invece, che gli italiani sono così furbi da aver creato alibi solenni per giustificare i comportamenti e le opinioni più discutibili. Ve ne ricordo qualcuna:

«Gli italiani non hanno il senso dello stato perché la loro unificazione è ancora troppo recente.»

«Lo stato italiano deruba i cittadini, dunque è lecito non pagare le tasse.»

«Gli italiani hanno dovuto imparare ad aguzzare l’ingegno perché fin dai tempi antichi troppi invasori si sono approfittati di loro.»

«Gli italiani hanno inventato la mafia per sopperire alle manchevolezze dello stato.»

«La camorra è una cosa sporca, ma Saviano non perde occasione per mettersi in mostra. Intanto la sua scorta la paghiamo noi.»

Non fa parte dei miei compiti, almeno in questo contesto, commentare o confutare i suddetti punti di vista. Volevo solo capire se l’ipotesi di partenza – «La furbizia è l’intelligenza dei fessi» – si dovesse concludere con un punto interrogativo o un punto fermo. Io sarei per il punto fermo, ma lascio a ciascuno di voi la libertà di decidere.

© P.B.


La gita di Moh

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«Sono messicano, sono musulmano e sono il principale incubo di Trump», ha dichiarato Andrew, 11 anni, in un video postato su Facebook. Andrew Daee vive nel Texas e la sua pagina Facebookè seguita da circa 11.000 fan. Ha anche un canale YouTubetutto suo. La madre è un po’ preoccupata per i troppi occhi puntati su suo figlio, ma gli ha raccomandato: «Parla pure di qualsiasi cosa ti venga in mente, ma prima accertati di essere consapevole di ciò che dici.»

La famiglia di Moh non poteva permettersi di farlo partecipare alla gita scolastica. Alla prima riunione dei genitori, svoltasi senza alcun rappresentante della famiglia di Moh e senza insegnanti, la signora B. prese la parola e suggerì una colletta. «Con sei euro a famiglia potremmo mandare quel bambino a Firenze, insieme ai compagni. Che ne pensate?»

«Io sono favorevole, ma non dovrebbe pensarci la scuola?»

«Sono a corto di fondi», disse la signora B. «Quest’anno più che mai.»

«È già un miracolo che non si rivolgano a noi anche per la carta igienica, come facevano alla materna», disse una signora piccola, incinta e sorridente.

Ci fu un coretto di consensi, ma alcuni degli astanti mantennero un contegno impassibile. Così neutro da non lasciar trapelare né un sì né un no. Allora la signora B tirò fuori dalla borsetta un taccuino e una biro.

«Prendo i nomi di chi ci sta», disse la signora B. «Mi pare di capire che la maggioranza approva. Approverebbe anche un leggero rialzo, diciamo da sei a sette, massimo otto euro, nel caso non si raggiungesse l’unanimità?»

«Via», disse l’ingegnere, quello alto e brizzolato. «Per quanto mi riguarda posso mettercene anche dieci, non finirò sul lastrico per questo. Ma troverei un po’ strano che non partecipassero tutti.»

La luce al neon, nell’angusta stanzetta, decolorava i volti dei presenti. Un paio di facce sembravano più gialle e più fredde di altre. Persino la signora coi riccioli ossigenati, ancora calda di lampada e palestra, aveva un aspetto da acrilico su tela. Qualcuno si alzò per aprire uno spiraglio di finestra: sebbene fuori tuonasse e piovesse, l’ambiente ispirava una malinconia claustrofobica.

Riccioli Biondi teneva le braccia conserte e, senza mostrare alcuna espressione, disse che contribuire al viaggio di Moh non le sembrava una buona idea. Un paio di voci, forse tre, si sovrapposero per chiederle perché.

«Sarebbe umiliante per la sua famiglia», rispose. «Non ci hanno mica chiesto elemosine. Chi siamo noi per decidere al posto loro?»

Il fornaio del paese, un tipo rubicondo e rosso di capelli, lasciò trascorrere dieci secondi di apnea prima di dire la sua. «Quello che dice la signora è più che giusto», ammise. «Ma è un problema che si risolve in un tac. La madre di Moh viene a comprare il pane al mio negozio, la vedo quasi tutti i giorni. Le posso dire: signora, i genitori della classe di suo figlio eccetera eccetera, e poi le domando se è d’accordo. Insomma, se volete ci penso io.»

«Cioè.» Così replicò la signora Riccioli, con un punto fermo e una pausa. Poi riprese: «Cioè, oltre a pagare la gita di suo figlio dovremmo anche chiederle l’autorizzazione?»

La madre di Giacomo, che non parlava mai perché era troppo timida, trovò il coraggio di dire qualcosa. «Io ho ancora il mutuo da pagare, ma ho fatto un piccolo sacrificio e il mio Giacomo ce lo mando alla gita, eccome. Non capisco perché quella lì non faccia un piccolo sacrificio anche lei.»

Il fornaio azzardò un sorriso bonario. «Non lo dovrei dire perché sarebbe contrario al rispetto della privacy, ma tanto siamo fra di noi», e si guardò intorno, come in cerca di complicità per l’infrazione che stava per compiere. «La famiglia di Moh è povera da piangere, a volte mi tocca chiudere un occhio e farle credito – anche se ho il cartello che dice di no.»

Serpeggiò un ruscello d’imbarazzo tra i convenuti. La signora B. non sapeva cosa fare della biro che teneva fra le dita e dell’agendina Moleskine aperta su due paginette bianche. Forse l’ingegnere trovò irritante l’impasse, tant’è che borbottò: «Se c’è una persona che non è d’accordo sulla colletta, pago io per lei e la facciamo finita.» Si tolse il portafoglio dalla giacca, lo aprì e piazzò un bel biglietto da dieci proprio al centro del tavolo. E vi aggiunse una scintillante moneta da due, a mo’ di fermacarte. «Problema risolto.»

Non l’avesse mai fatto. La signora dei riccioli gonfiò, come per un effetto morphing digitale, due rughe di cuoio che aveva tenute nascoste sotto il mento. «Ma come si permette?», protestò con voce da contralto.

«Signora, io non ho tempo da perdere. Ho un impegno urgente e il tempo è denaro», dichiarò fermamente l’ingegnere, alzandosi di scatto e afferrando l’impermeabile ripiegato sullo schienale. Prima di andarsene, per colmo di disprezzo, aggiunse altri dieci euro ai dodici già sul tavolo. Abbandonò la stanza a passo svelto, ma lasciò una specie di avatar nell’aria, che i superstiti contemplarono in silenzio.

Dopo quel silenzio, però, tutte le voci si misero a parlare simultaneamente.

«Ma chi diavolo crede di essere quello?»

«Fare collette è contrario al regolamento della scuola.»

«Ma si è mai visto il padre di quel Moh?»

«Io ci starei, ma non più di sei euro. Per principio.»

«Firenze è Firenze. Migliora l’educazione dei bambini, italiani o stranieri che siano.»

«L’amante dell’ingegnere è una mulatta dei Caraibi. Bellissima, però.»

«Come ha ragione, signora. Io sono favorevole proprio perché è Firenze. Se fosse Napoli direi di no.»

«Faceva la ballerina a Cuba. Così almeno mi hanno detto.»

«Non saremo tacciati di paternalismo o, peggio ancora, di razzismo? Siamo sinceri: se quel bambino fosse uno dei nostri, intendo dire italiano, e fosse indigente al pari di Moh, ci sarebbe mai venuta in mente un’iniziativa come questa?»

«Dovreste leggere la Fallaci.»

«Il padre di Moh credo che sia in galera.»

«Quelli se ne fregano del Beato Angelico. A loro interessano le moschee.»

«Io non ce l’ho con l’Islam. Ce l’ho col terrorismo.»

«Noi paghiamo le tasse e per chi, poi? Per gente che starebbe meglio a casa sua. Mentre gli italiani sono disoccupati.»

«Ma Moh, insomma quel bambino lì, è italiano proprio come lei e come me, è nato qui e ha la cittadinanza italiana. Lo so perché me lo ha giurato la bidella, e anche la segretaria lo ha confermato.»

«Io ci metto dieci euro. Di più non posso, ma lo faccio volentieri.»

«Guidava senza patente. Andò addosso a un ciclista.»

«A quanto ammonta il debito della marocchina?»

«Forse era ubriaco.»

«Non posso dirlo, signora. Mi perdoni.»

«Se mi dice che è italiano la prendo in parola, ci mancherebbe altro. Ma la cittadinanza vale fino a un certo punto: gli altri non sono mica tenuti a conoscere il suo passaporto.»

«Gli arabi non bevono alcool.»

«Guardi i miei capelli. Devo assolutamente andare dal parrucchiere.»

«Non è marocchina, è egiziana.»

«Non è un’iniziativa della scuola.»

«Il ragazzino è italiano, ma le malelingue non lo sanno. Possono accusarci di aver discriminato Moh in quanto straniero, e tutti gli altri in quanto italiani.»

«Il ciclista morì?»

«Moh rischia la bocciatura, questo lo sappiamo tutti. Altro che gita.»

«Marocco, Egitto. Che differenza fa?»

«No, si rialzò da terra che era inviperito. Lo fece uscire dalla macchina e si morsicarono come cani arrabbiati.»

«Scusate, se parliamo tutti insieme non si capisce nulla.»

«Chi è il pazzo che ha aperto la finestra? Qui torno a casa con la polmonite.»

«Sono bravi a fare il kebab. Anche le pizze, però.»

«Chi ha parcheggiato il Suv in seconda fila? Io devo proprio andare, ma non posso muovermi. Sono bloccata.»

La signora B. stava perdendo un po’ della sua pazienza. Era molto ammirata per il suo aplomb, la sua eleganza e il suo piglio pratico. Picchiò due volte il pavimento con la punta dell’ombrello e alzò la voce per farsi sentire.

«Signore, signori, per favore. Rimettiamoci a sedere e ricominciamo daccapo, si fa tardi e tra un po’ arriva la bidella a chiudere tutto. Che ne facciamo di questi ventidue euro? Li rendiamo al legittimo proprietario o li consideriamo parte della raccolta?»

«Io li accetterei.»

«Io li restituirei.»

«Ci dica lei cosa dobbiamo fare. L’idea è stata sua.»

Alla fine, la proposta passò con qualche sopracciglio rialzato e un paio di astenuti. La proponente rifece i calcoli, divise l’ammontare in parti uguali e informò che avrebbe restituito all’ingegnere l’eccedenza. Si salutarono con ampi sorrisi e strette di mano, come se avessero parlato tutto il pomeriggio di patate al forno.

Due giorni dopo, la pagina locale d’un quotidiano popolare pubblicò tre colonne sotto il titolo: «Scandalo a scuola – Stranieri gratis a Firenze». La preside andò su tutte le furie. Convocò il consiglio di classe e atterrì gli insegnanti con una domanda mordace: «Come mai non ne sapevo nulla?»

«Non è stata un’iniziativa del corpo docente», ribatté qualcuno. «La scuola non c’entra niente.»

«Ah, sì? Lei lo ha letto l’articolo?»

«L’ho letto.»

«Allora ha letto anche che uno degli insegnanti, in modo specifico lei in persona, signor Bellanti, ha risposto alle domande della cronista.»

«Mi ha solo chiesto cosa ne pensavo, e ho risposto: sono contento che qualcuno si occupi della gita di Moh.»

«Bene, benissimo! E in nome di chi si è preso la briga di pontificare? Non ha pensato che rispondendo a quella stupida intervista lei stava rappresentando l’istituzione?»

«Non è stata un’intervista. Era una domanda al volo, mi ha colto di sorpresa. Stavo uscendo dall’auto e quella è sbucata fuori dal nulla.»

«Al volo. Una domanda al volo e una che sbuca dal nulla. Si rende conto del guaio in cui ci ha cacciati?»

«Quale guaio?»

«Lo capirà quando mi chiameranno dal provveditorato. E le assicuro che non mi lascerò mettere sotto i piedi, Bellanti. Quando arrivano gli ispettori la voglio al mio fianco in presidenza. Lei ha fatto il divo di Hollywood e lei ne risponderà.»

«Mi scusi, ma se fossi in lei starei calma. Né lei né io né altri ci siamo macchiati di qualche colpa.»

«Colpa sì, colpa no, lo scandalo è scoppiato. Sa leggere o no? Qui c’è scritto “Scandalo a scuola”, e cara grazia che non hanno messo anche il nome della scuola. Non nel titolo, almeno.»

Il professore sotto accusa volle avere l’ultima parola. «L’articolo è pieno di refusi. Ne ho contati tredici», osservò con disgusto, come se bastassero gli errori di stampa a delegittimare certi giornali o a scalfirne la credibilità.

I termini dello scandalo, se scandalo era, erano esposti in modo non del tutto chiaro – e non solo a causa dei refusi. Nella sua inchiesta, la cronista aveva raccolto reazioni contrastanti sulla colletta a favore di uno scolaro straniero, e aveva spinto il pedale sulle opinioni più polemiche. Una madre di cui non si faceva il nome aveva minacciato: «Se continua così ritiro mia figlia da quella scuola.»

La signora B., identificata come responsabile del pasticcio, fu convocata in presidenza per chiarimenti. Dopo quaranta minuti di conversazione a porte chiuse, uscì senza salutare la segretaria, che si aggirava in corridoio con un dossier tra le mani. La segretaria informò alcune delle sue conoscenze, a scuola e fuori, che la signora B. era «visibilmente seccata».

La gita a Firenze si fece, ma senza Moh. Lo scandalo perse vigore e, nel giro di due settimane, si prosciugò del tutto. La cronaca locale si dedicò all’apertura della stagione di caccia e alle previsioni sulla raccolta dei funghi.

P.B.




Italia s’è persa

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La bella smarrita che campeggia sui pali di Lesmo e dintorni non è una creatura qualsiasi. Il suo nome è Italia. Un bel giorno ha deciso di eclissarsi, per vedere – nascosta da qualche parte – che ne sarà di noi senza di lei. Ha portato con sé un manto di candore: perdendola, è come se avessimo perso la nostra solennità. Ciascuno di quei peli corrisponde a un bip: un messaggio, un memento, un monito. E ogni bip ha un nome: Dante, Mazzini, Verdi, Falcone, Borsellino... Delicate ma inflessibili, le sue vibrisse sono antenne orientate alla ricerca d’un mondo plausibile. Lo troverà? Mistero. Il nostro destino di italiani non dipende da lei, ma da noi. Mettiamoci tutti in cerca d’Italia. Alacremente. La signora non può essere andata molto lontano. Ha mille risorse, sa risollevarsi anche dopo cadute vertiginose, ma ha pur sempre le gambe corte. Dove la stiamo cercando? Nei cortili, nelle cantine, nelle discariche? Troverà il sistema di cavarsela? E se, giudiziosa com’è, si fosse semplicemente acquattata in fondo alla nostra coscienza? Speriamo di no, perché in tal caso non saremo più capaci di ritrovarla.


P.B.


Anima scritta

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Anima scritta

Ho cominciato a studiare l’anima dopo averla separata da me: non puoi vivisezionare qualcuno in un laboratorio di anatomia, se quel qualcuno sei tu. Per osservarla meglio me la sono sfilata di dosso e l’ho sistemata con cura sul mio appendino preferito – plexiglas, gancio simulante punto interrogativo, profilo antropomorfico appena accennato. Così abbigliato, il signor appendino mi è parso sobriamente chic e non meno immaginario d’uno spaventapasseri in chiesa. Sulle prime mi sono sentito a disagio, come in quegli incubi violacei in cui ti ritrovi, per fretta o distrazione, senza calzoni e senza mutande in una di quelle piazze tanto care a De Chirico, ma – a differenza di come le vedeva lui – la mia era farcita di gentiluomini che, oltre alla giacca, alla cravatta e alla ventiquattrore, indossavano anche gli indumenti inferiori. Ho compiuto poi altri esperimenti alla ricerca della disposizione perfetta, adagiando la creatura su un piano da stiro o dispiegandola per intero sul tavolo da pranzo, come avrebbe fatto un sarto; ho pensato, sebbene inesperto di bricolage, che non puoi capire né la forma né la sostanza dell’anima se trascuri di ispezionarne il taglio, le pieghe e le cuciture, se non t’impegni a rintracciarne le asole nascoste, se non provi ad attaccarle bottone. Le ho parlato come altri parlano alle rose, ai crocifissi, ai telefoni smart, e ho teso bene l’orecchio per udire eventuali sussurri di risposta. Ho persino tentato autopsie, suggestionato da Gogol’. Nessuna di queste operazioni preliminari è stata facile, perché in ogni momento ho dovuto forzare la vista: non più efficiente com’era in gioventù, occhio destro da pilota Alitalia, sinistro astigmatico ma a suo modo prezioso, capace di scoperte psichedeliche, di percezioni privilegiate come quelle degli impressionisti, perché se si è astigmatici da un occhio, e si osserva un giardino tenendo chiuso quello buono, si vede il mondo proprio come lo vedevano quei pittori. Ho intravisto l’anima fuggevolmente, di rado, non attraverso gli occhiali ma attraverso il vetro d’un bicchiere, dopo averlo ripetutamente vuotato per saggiarne, altrettanto ripetutamente, la trasparenza. Poi, da bravo scolaro, mi sono assoggettato alla peggiore delle tirannie: quella del Metodo. Ho dovuto accettare l’amara verità: che l’anima non si mostra ai dilettanti, non è una chitarra che puoi strimpellare sulla spiaggia intorno al fuoco cantando Bob Dylan con gli accordi al minimo, non è un buco da infliggere al muro a colpi di Black & Decker, o di Smith & Wesson. Ho sentito, come un gelido rivolo di sudore in discesa lungo la schiena, il bisogno di maestri e di lezioni. Mi sono applicato, innanzitutto, alla ricerca d’una bibliografia ragionevole, né vasta né striminzita, proporzionata alle mie capacità e limitazioni. Che spina! Ho dovuto presto rendermi conto che tutti i libri, nessuno escluso, parlano d’anima. Non è materia per soli evangelisti, padri della chiesa, teologi; l’anima è una signora intrusiva, debordante, narcisista e – soprattutto – refrattaria alle specializzazioni. L’ho trovata dappertutto, come certe caratteriste e comparse del cinema, come Bess Flowers, l’attrice più invisibile e onnipresente d’ogni tempo, 881 crediti Imdb tra film e fiction, il fantasma o subconscio di Hollywood dal muto al 1984, ovviamente infiltrato anche in Anime alla deriva e L’anima e il volto.


Di tutti e di nessuno.

Ho cercato l’anima, signore e signori, anche negli scaffali più laici, anche nelle pagine degli atei più acidi, perché d’una cosa sono certo: non è proprietà esclusiva dei santi, dei mistici, dei patriarchi, degli eremiti, dei frati, e neanche dei filosofi, degli alchimisti o dei soul singers. La si ritrova, golosa o svestita, persino nei libri di cucina («l’anima dell’aceto») e nei resoconti pornografici («finché l’anima non gli sfuggì in un fiotto irrefrenabile»), giacché si esprime anche attraverso la corporeità più tenace, come se fosse in costante competizione con la carne. Pure sono convinto che l’anima, ribelle com’è, totalitaria com’è, non si accontenta di accompagnarsi all’uomo: non posso credere che i topi ne siano sprovvisti, o le felci, o le pietre. Ama i travestimenti, questo sì, e chissà quali maschere assume nella natura più selvatica, fra i ghiacci dei poli, nelle tane dei lupi, nell’ossido delle città. In molti si chiedono se sia immortale. Gli immortalisti superano di gran numero gli scettici, e non c’è verso di persuadere i primi a dubitare, i secondi ad abboccare. Il nodo da sciogliere, a mio modesto avviso, non riguarda l’immortalità, ma la relazione tra l’anima e il corpo, o tra l’anima e i corpi; e su questo ho trovato un assioma che mi sembra utile registrare, a beneficio della filosofia popolare:

Non c’è alcun rapporto fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Quelli sono un legume appartenente alla famiglia delle asparagine, credo, ottimo lessato e condito con olio, aceto, sale e pepe. Alcuni preferiscono il limone all’aceto; anche eccellente è l’asparago cotto col burro e condito con formaggio parmigiano. Alcuni ci mettono un uovo frittellato sopra, e ci sta benissimo. L’immortalità dell’anima, invece, è una questione; questione, occorre aggiungere, che da secoli affatica le menti dei filosofi. Inoltre gli asparagi si mangiano, mentre l’immortalità dell’anima no. Questa, insomma, appartiene al mondo delle idee. Naturalmente, nel caso in esame, all’idea corrisponde un fatto. Da questo punto di vista si può dire che l’immortalità dell’anima è una qualità dell’anima, una proprietà peculiare dell’anima, un concetto insomma, il quale indica il fatto che le anime sono immortali. Siamo sempre ben lontani dagli asparagi.

Tale è l’opinione di Achille Campanile. Tendo a dissentire, perché immagino che anche gli asparagi abbiano un’anima, e persino i cavolfiori e i politici. Solo per restringere il campo d’indagine, solo per comodità, ci limiteremo a prendere in considerazione l’anima umana, se ne esiste una. E ci porremo domande come questa: l’anima è disgiungibile o indisgiungibile dal corpo? Davvero mi sono spogliato di lei, all’inizio di questa ricognizione, o mi sono soltanto illuso di farlo? L’anima è un altro nome della psiche o ne è la fabbrica, così come l’ostrica è il cantiere della perla? Bisogna che lo chieda non ai quattro venti, ma alla mia poetessa preferita, la signora Szymborska. La quale così risponde:

L’anima la si ha ogni tanto.
Nessuno la ha di continuo
e per sempre.

Giorno dopo giorno,
anno dopo anno
possono passare senza di lei.

A volte
nidifica un po’ più a lungo
solo in estasi e paure dell’infanzia.
A volte solo nello stupore
dell’essere vecchi.

Di rado ci dà una mano
in occupazioni faticose,
come spostare mobili,
portare valigie
o percorrere le strade con scarpe strette.

Quando si compilano moduli
e si trita la carne
di regola ha il suo giorno libero.

Su mille nostre conversazioni
partecipa a una,
e anche questo non necessariamente,
poiché preferisce il silenzio.

Quando il corpo comincia a dolerci e dolerci,
smonta di turno alla chetichella.

È schifiltosa:
non le piace vederci nella folla,
il nostro lottare per un vantaggio qualunque
e lo strepito degli affari la disgustano.

Gioia e tristezza
non sono per lei due sentimenti diversi.
È presente accanto a noi
solo quando essi sono uniti.

Possiamo contare su di lei
quando non siamo sicuri di niente
e curiosi di tutto.

Tra gli oggetti materiali
le piacciono gli orologi a pendolo
e gli specchi, che lavorano con zelo
anche quando nessuno guarda.

Non dice da dove viene
e quando sparirà di nuovo,
ma aspetta chiaramente simili domande.

Si direbbe che
così come lei a noi,
anche noi
siamo necessari a lei per qualcosa.



Body and Ketchup.

Una delle canzoni più famose del mondo, Body and Soul, cerca di esprimere la corporeità dell’anima nell’idioma del jazz. Questo vale solo per la parte musicale; il testo invece è incline a distinguere l’anima dal corpo, pur riconoscendoli complementari, e li tiene accostati (o scostati) con la congiunzione and. Forse gli autori delle parole (tre: una moltitudine, data la complessità dell’argomento) non hanno meditato abbastanza su quel passo di Nietzsche in cui il risvegliato dice al piccolo discepolo: «Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore.» La musica di Body and Soul esprime un algore lunare e distaccato, una emotività rattenuta, un melodismo sofisticato e strisciante che non concede nulla al gusto medio. Alcune interpreti tentano di addomesticarla giocando la languida carta della sensualità, ma la creatura è sfuggente e riottosa, asprigna nella sua pigrizia febbricitante, e si lascia manipolare al meglio solo dai jazzisti più fluidi e sensibili. Coleman Hawkins colma tutte le pause melodiche con una straordinaria varietà di stratagemmi, come a voler risospingere a viva forza l’anima nel corpo da cui è fuoruscita. C’è da chiedersi quale sia l’esatto rapporto fisiochimico fra anima e corpo; quanta energia occorra, ad esempio, per far sporgere la prima dall’altro quel tanto che basta a contemplarla, o a interrogarla nei casi di necessità. Non credo si possa applicare all’anima e al corpo la procedura Heinz: sculacciare il flacone fino all’uscita del ketchup.


Gas.

Analoga a un effluvio d’alcool, non solo per inconsistenza di peso ma anche per condivisione del sinonimo spirito, l’anima prevale fra le Muse per superiore potenza ispiratrice. Solo all’amore è seconda, come se amarsi fosse più semplice che dialogare con la propria anima. E come se l’amore la schiacciasse col suo peso, mentre ci pare che nessun medico, nemmeno Duncan MacDougall, abbia mai escogitato una bilancia per misurarlo. Il dottor MacDougall, più saggiamente, compì esperimenti sul peso dell’anima, e affermò senza alcun dubbio che l’anima pesa 21 grammi. Se non ho frainteso il suo metodo scientifico, pesò sei agonizzanti prima e dopo l’attimo fatale, e rilevò un calo di 21 grammi. Questa tara, per quanto modesta, giustificherebbe tutti coloro che propendono per l’evasione dell’anima dal suo involucro al momento della morte. Separazione, separazione, separazione.

Sbaglierebbe, comunque, chi con troppa fretta attribuisse ai religiosi la teoria di una netta separazione dell’anima dal corpo. Nel XII secolo Santa Ildegarda di Bingen, dottore (dottoressa?) della chiesa cattolica venerata anche dai protestanti, insiste alquanto morbosamente sui viscerali punti di contatto fra i due elementi:

Come la carne dell’uomo viene danneggiata se assume il cibo in quantità eccessiva o minore del necessario, così anche l’anima se cerca di essere rigorosa più o meno di quanto è giusto; e lo stomaco, assimilando i cibi puri e respingendo quelli maleodoranti, rappresenta l’uomo che si rallegra nei peccati, ma poi si purifica nella penitenza.

I moderni ricettari e manuali di dietetica santificano la buona alimentazione considerandola moralmente essenziale. Serve a star bene, e la salute fisica è diventata qualcosa di più che un semplice beneficio corporale. Hanno sviluppato a oltranza il principio di Giovenale della mens sana in corpore sano, carissima anche ai regimi fondati sul valore educativo della ginnastica. In tale contesto, Pellegrino Artusi fa la parte del demonio: il suo è un inferno foderato di burro, un’immensa casseruola in cui galleggiano prosciutti nello strutto, un forno dove gli arrosti d’anima non sono solo morti ma anche lardellati. Artusi se la spassa in cucina con Gargantua e Pantagruele, e tutti e tre fanno il ballo del mattone su zampe d’oca inchiodate al pavimento.


Dicevo che certe credenze spirituali (i blasfemi direbbero paranormali) fanno più breccia nei devoti, ma da ciò non si deve desumere che gli infedeli ne siano immuni. Una zia miscredente mi confidò di aver ravvisato, nel lieve e flessuoso agitarsi di una tendina all’uncinetto, la fuga dell’anima dal corpo di suo padre. Vide muoversi la tenda prima ancora di controllare il respiro e il polso del malato, su cui vegliava; e fu istantaneamente certa del significato di quell’indizio tessile. Chinò il capo sul defunto: era defunto.

Alberto Savinio scrive:

Per dare in immagine il distacco dall’anima dal corpo, ricorderemo una storiella che raccontava Lanfranconi, di come l’uomo può perdere l’orologio. Così: l’uomo esce a passeggio portandosi l’orologio nel taschino, a un certo punto l’orologio si ferma e l’uomo continua a camminare. A maggior ragione l’anima continua a camminare, anzi a correre dopo che l’uomo si è fermato, ché l’anima, come dice il suo stesso nome che viene da ànemos, è fatta di vento. Aggiungo che questa natura ventosa dell’anima depone a sfavore della sua vantata (ventata) durevolezza. Resta a vedere dunque quell’infinita durata dell’anima cui credono tanti, o se invece le possibilità dell’anima sciolta dal corpo sono limitate, se essa ha modo e quale di spostarsi anche nello spazio e nel tempo, e se anche l’anima obbedisce a una qualche legge di gravità che la tiene prigioniera di un determinato mondo; e cioè, per riprendere le parole del Lanfranconi, fin dove arriva l’anima nel suo camminare, dopo che il corpo si è fermato. L’anima è necessaria al corpo, ma sembra che non meno necessario sia il corpo all’anima. Perché tra uomini forniti di una certa quale malizia non si può pronunciare «Anima pura», «Spirito puro» e non sentire assieme il bisogno di ‘correggere’ queste parole con un risolino? Non c’è ragione perché nel regno dello spirito, la spiritualità pura perda quel carattere di inutilità e di stupidità ch’essa ha quaggiù. Del resto, la necessità che l’anima ha del corpo è ampiamente sostenuta da teologi e filosofi. I farisei credevano alla metempsicosi. I saducei che l’anima muore assieme al corpo. Gli esseni, e con essi Platone, che l’anima scende dal più alto dei cieli nel corpo e lo anima. E dopo?... Dopo, l’anima se ne va di là dall’Oceano, dicono gli esseni. Per noi, di là dall’Oceano significa grattacieli, gangsters, linciaggio. Per gli esseni, e per Platone, di là dall’Oceano significava una regione ove non fa né caldo né freddo, non piove né tira vento (le ricordate le piogge e il vento dei film americani?) e dove comodamente e senza rischio si potevano spedire le anime dei defunti dabbene. La geografia è nemica della spiritualità. In quanto parola, Anima è come certe parole convenzionali che nascono in seno alle famiglie, hanno un uso strettamente locale, e rimangono come suono anche dopo che sono morte come significato. Nella famiglia di mia moglie chiamavano dindi i denari, ma recentemente avendo parlato di dindi a mia suocera, essa non capì che intendevo parlare di denari. Così si continua a parlare di anima, ma nessuno sa di preciso di che s’intenda parlare. Platone invece... Anima: ànemos: vento. L’uomo tuttavia ripone in questo vento la parte più cara di se stesso, e Otello grida a Desdemona: «Anima mia, ti maledico!».


L’interno dell’anima.

Ne I miserabili, Victor Hugo ha sostenuto – in modo perentorio – che «c’è uno spettacolo più grande del mare, ed è il cielo; c’è uno spettacolo più grande del cielo, ed è l’interno di un’anima.» La tesi ha un bel suono, ma lascia perplessi. Che il cielo sia più grande del mare, non si discute; ma perché l’interno di un’anima dovrebbe superare, per dimensioni, il cielo? E ancora: che ne sappiamo dell’interno dell’anima, se non ne conosciamo nemmeno l’esterno? Victor, che ti è saltato in mente? Chi ti ha passato una simile soffiata? L’anima ha un dentro e un fuori? E se ha un dentro, come te lo sei immaginato? Io, se proprio devo stare al tuo gioco, lo vedrei come la camera oscura d’un fotografo cieco, un laboratorio senza finestre nel quale la vita si sviluppa da sola, all’insaputa del cielo e di sé stessa; prende lentamente corpoin un bagno di solfito, carbonato e idrossido di potassio, debolmente illuminato da una lampada di sicurezza che emette un chiarore sanguigno, vaginale. Quello dell’anima è un interno a luci rosse, Victor. Non così grande come dici tu, ma grandioso, a modo suo. Un traduttore traditore, ma pragmatico, ha creduto di farti un favore spingendosi oltre le tue intenzioni, e ha scritto due volte grandioso laddove tu avevi scritto semplicemente grand. Forse ha ragione lui, Victor. Grandioso rispetta la tua idea del sublime, ma non è impegnativo nel senso geometrico e spaziale.

Ho visto anch’io l’interno dell’anima, o qualche suo equivalente, in quel magico generatore di metafore e allegorie inventato dai fratelli Lumière. Che peccato, Victor, ti sei perso per un pelo – dieci anni soltanto – il primo film della storia: l’han dato proprio a Parigi, sul Boulevard des Capucines, a trenta minuti di omnibus da casa tua. Ho il sospetto che la familiarità con quella tecnologia avrebbe modificato il tuo modo di percepire le cose. Non avresti ragionato solo in termini di mare e di cielo, non saresti partito da così lontano per arrivare a scrutare l’interno dell’anima; l’avresti trovato in migliaia di pornofilm o, in chiave ancora più simbolica, in tutto ciò che è profondo rosso, intensamente corporale, come rosso e corporale è il piacere, rosso e corporale il dolore.



E non solo rossi, ma molteplici sono i colori dell’anima: bianchi come la balena del capitano Achab, verdi come gli occhi del mostro che tormenta la mente di Iago, d’un bruno coriaceo «diviso in tanti segmenti ricurvi» il ventre del commesso viaggiatore Gregor Samsa. Perché spesso l’anima coincide con le nostre ossessioni, e tutte le ossessioni hanno materia e colore. Materia e colore, occorre dirlo, cangianti: non smetto di ribadire, a costo di scadere nella ridondanza, il capriccio dello spirito per le maschere, i travestimenti, i trucchi. Più lo credi trasparente, inconsistente, ectoplasmatico, e più t’inganna. Più lo consideri innocente, diafano, virgineo, e più si prende gioco di te. L’anima è mille volte più maliziosa del corpo: quello è un bruto che agisce d’istinto, si conforma alle abitudini, è un servo obbediente, conosce i suoi bisogni più elementari e cerca di soddisfarli come può; mentre lei, la padrona, la maîtresse, è esperta di sofismi e di poker, di pretesti e di trompe-l’oeil. In certi luoghi del Mezzogiorno, poche ore dopo la mezzanotte (ne hanno una anche loro), i contadini d’una volta montavano sui traini a cavallo per dirigersi alle campagne, spesso assai lontane dall’abitato; il silenzio di quei trasferimenti notturni, scardinato solo dal ritmo degli zoccoli, dai lamenti delle giunture di legno, dagli schiocchi di frusta e dalla permalosa protesta delle ruote costrette a un rude mazurkare sulle asperità del percorso, imponeva all’anima superstiziosa del conducente solitario l’inquietudine dell’ignoto. Allora la stessa anima si staccava dal corpo del legittimo proprietario e assumeva le sembianze d’un monaco muto, abbigliato di saio e cappuccio regolamentari; un Savonarola in miniatura, non più alto d’una bottiglia da litro. Dispettoso come Darth Vader, costui andava a materializzarsi all’esterno e sul retro del carro, che pedinava senza stancarsi fino alle luci dell’alba. Il contadino disanimato sapeva di quella presenza e ne subiva al tempo stesso il fascino e la minaccia. I suoi sentimenti nei confronti del fraticello erano confusi: svariavano dal disturbo allo sgomento, dall’angoscia alla speranza di riceverne protezione in caso di sconquassante maltempo, d’improvviso incidente, di sgradevole incontro con fantasmi di stazza superiore o di semplici briganti. Il tacito compagno, gran camminatore, esercitava sul regno della notte un potere scorbutico e maligno: era la migliore delle guardie del corpo ma non potevi scommettere sulla sua lealtà, così come non puoi giurare sulla fedeltà d’un vigilante pagato dalla Cia.


E se per «interno dell’anima» s’intendesse l’anima stessa, custodita come una cozza fra due valve robuste? Nella descrizione del bulimico Sobakevič, Gogol’ – tradotto da Nabokov in inglese e di lì ritradotto in italiano da Cinzia De Lotto e Susanna Zinato – si diverte a scrivere:

Pareva che in quel corpo non ci fosse affatto un’anima, oppure c’era, però non era là dove doveva essere, ma come quella dell’immortale Koščej [un orrido personaggio del folclore russo] era chissà dove, al di là dei monti, e ricoperta da un guscio così spesso che qualsiasi cosa si muovesse sul suo fondo, non produceva assolutamente alcuno sconvolgimento in superficie.

Una Sirena dalla coda d’argento.

«Quello che gli uomini chiamano ombra del corpo non è l’ombra del corpo, bensì il corpo dell’anima.» Lo rivela la Strega dai capelli rossi al giovane Pescatore, in una fantasia visionaria di Oscar Wilde. Il ragazzo perde la testa per la Sirena; essendo il Popolo del Mare privo di anima, la Sirena accetta di sposarlo a condizione che si liberi dell’anima sua. Con un coltello magico lui si separa dalla propria ombra. L’Anima che fu del Pescatore se ne va in giro per il mondo, e periodicamente si rifà viva implorando una ricongiunzione in cambio di tesori inauditi: saggezza, ricchezze, principesse dai piedi conturbanti (la Sirena non ne ha). L’ex Pescatore, ormai annesso alla fauna marina, rifiuta le prime offerte in nome dell’amore ma si lascia tentare dall’ultima, i piedi. L’Anima ripenetra in lui e gli fa commettere ogni sorta di malazioni, assassinio compreso; sicché l’imbecille si pente, torna in riva al mare, invoca il perdono della sposa tradita (due volte: perché si è ripreso l’animaccia sua e perché è andato in cerca di piedi umani), e le onde gliela restituiscono morta. In balia del dolore, il fedifrago si lascia morire anche lui, un po’ per crepacuore e un po’ per annegamento. Sepolto con la sua adorata in un cimitero di maledetti, il defunto fa spuntare fiori superbi sull’altare del prete maledicente.

È curioso il ruolo dell’Anima nella fiaba di Wilde. Strano è soprattutto il vincolo, morbosamente dark, che la lega al Pescatore. Lui non sa che farsene: non la vede, la considera un’intrusa, al mercato è merce priva di valore e, peggio del peggio, gli è di ostacolo nella passione per la Sirena. Abbandonata, l’Anima si comporta come una di quelle amanti che non demordono mai; il suo annuale ritorno sulla spiaggia dell’addio, e l’insistenza con cui cerca di riconquistare il corpo perduto, è stalking allo stato puro. Il dramma della gelosia non può che marciare verso la tragedia. Wilde sta chiaramente dalla parte del Pescatore: costui ha scelto di morire per amore in barba alle convenzioni, quegli stupidi ingombri sociali che l’anima (nera come l’ombra, razionale come il buonsenso, il denaro e il proverbio «moglie e buoi dei paesi tuoi») impone ai mediocri e ai senzacuore.

Il Pescatore che, dal momento in cui conosce la Sirena, non vede l’ora di disfarsi dell’Anima, ci offre una variante da cartoon della leggenda di Faust, che tanti scrittori e artisti ha ispirato e continua a ispirare. Ma uno come Wilde, amante dei paradossi, non poteva che rileggere il mito alla rovescia. Mentre Faust vende l’anima al diavolo in cambio della realizzazione dei propri desideri, il Pescatore la darebbe via gratis in cambio dell’amore. E non è Mefistofele a cospirare contro di lui, ma un prete qualsiasi, che vuole impedirgli di divorziare dall’anima e, non riuscendoci, lo punisce con una maledizione.


Nel racconto wildiano, l’Anima altro non è che un alter ego. Quando il suo titolare trancia di netto la connessione che li lega, l’ombra si erge in verticale e il Pescatore scopre, non senza orrore, di trovarsi davanti al suo doppio. Inutile chiedersi se si tratta di un gemello o di una gemella (l’Anima parla con un timbro di voce grave, ma potrebbe trattarsi di un contralto): solo noi latini, ossessionati dal sesso, diamo i genitali anche ai sostantivi, agli aggettivi, agli oggetti concreti e ai pensieri astratti: maschio il sasso e femmina la pietra, maschio il monte e femmina la montagna, maschio il dolore e femmina la pena. Sicché pensiamo all’anima come a una donna, mentre soul non è né maschio né femmina: è neutro siccome un angelo. E la vita è tutta al femminile, in attesa che qualche accademia pc (politically correct) si decida a darle per compagno un vito. (Anche la vite è sempre femmina, sia come generatrice di grappoli sia come penetratrice di fori; e i caduti di guerra o d’incidente saran sempre vittime, finché non saremo obbligati a registrare i vittimi).

Il sesso dell’anima.

L’anima latina ha un figlio maschio: l’animo. Questo animo somiglia molto alla madre, ma è più battagliero e ardimentoso di lei; quando ci vuole coraggio, è il primo a farsi avanti. Risiede in un villaggio a metà strada fra la dimora materna e la casa della sua amante, Psiche. Animo è un grande mediatore: abile in diplomazia e ingegnere avveduto. Fabbrica solidi ponti tra l’anima e la mente, la trascendenza e il mondo reale, la fisica e la metafisica, la ragione e il sentimento. Equidistante dal corpo e dallo spirito, dispensa a entrambi carattere e temperamento, ma anche consigli e suggerimenti d’azione, non necessariamente moralistici. Dell’animo, più che dell’anima, si occupa lo stoico Seneca, politico di una specie di cui s’è forse persa la traccia. Non lo disturbano la brevità della vita e il compromesso, se giustificato; ma piuttosto l’incostanza, l’incoerenza, le emozioni sbracate, le passioni furenti. Per questo consegna ai posteri ciò di cui hanno maggiore bisogno: un manuale d’istruzioni per tenere l’animo sotto controllo. La sua filosofia è un tranquillante più efficace del Valium:

Per questo rifiuto dei successi altrui e per questa disperazione dei propri, l’animo si fa iracondo contro la fortuna, si lamenta del proprio tempo, si ritrae nei cantucci e sta tutto addosso alla propria pena, mentre si annoia di sé stesso e se ne rincresce. Per natura, l’animo è portato ad agire ed è propenso al movimento; grata gli è ogni materia per mettersi in moto e per distrarsi; più grata ancora lo è ai peggiori caratteri, che volentieri si logorano sfregandosi nelle occupazioni: come certe piaghe desiderano le mani che pur nuoceranno loro, godono al tatto, e la sconcia scabbia dei corpi tutto ciò che la esaspera l’allieta, non diversamente direi che per quelle menti, in cui i desideri sono soliti scoppiare fuori come cattive piaghe, la fatica e lo sballottolio sono motivo di piacere.

Il confine tra la metafisica e la psicologia è talmente indistinto che sfugge ai navigatori satellitari, ai dischi volanti e all’università di Harry Potter. Eppure c’è, e trasmette incessantemente i suoi bip nella testa di ogni pensoso esigente: James Hillman tenta di decifrare il codice dell’anima ripartendo da Platone e dal daimon, il demone che ciascuno di noi riceve come compagno prima della nascita (alla chiesa non piacerà questa demonizzazione dell’angelo custode); allo stesso daimon, materia oscura in cui l’anima si manifesta fisicamente, lo scrittore di fantascienza Philip Pullman dedica un’intera trilogia.


Quanto al sesso dell’anima, non è una nostra fantasia. Se ne è occupato anche Francesco I, il pontefice, quando in un’omelia del 2014 ha sottolineato che:

La nostra piccola anima non si perderà mai se continua a essere anche una donna, vicina a queste due grandi donne che ci accompagnano nella vita, Maria e la Chiesa.

Il passaggio dell’omelia è stato commentato da Vito Mancuso:

La dottrina ecclesiastica sull’anima si può compendiare in tre precise affermazioni che ne dichiarano l’identità, l’origine e il destino. Quanto all’identità, il cattolicesimo pensa l’anima come un’essenza spirituale strettamente unita con il corpo materiale cui conferisce forma, e per questo parla di essa in termini di forma corporis (con evidente eredità aristotelica). Quanto all’origine, la dottrina cattolica sostiene che l’anima viene creata direttamente da Dio senza nessun concorso dei genitori, e che ciò avviene nello stesso istante del concepimento biologico, quando lo spermatozoo maschile feconda l’ovulo femminile (non più quaranta giorni dopo, come affermavano san Tommaso d’Aquino e altri insigni teologi del passato). Quanto al suo destino, il cattolicesimo afferma che l’anima è immortale (con evidente eredità platonica), sostenendo che essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo; anzi, essa verrà di nuovo unita al corpo alla fine dei tempi quando i corpi di carne verranno richiamati in vita.

Vale la pena di leggere per intero l’interpretazione di Mancuso. La trovate sul suo sito.

Io mi fermo qui, come il protagonista di una vecchia canzone di Sanremo. Poco edotto in cose spirituali, e più confuso di prima, mi ritraggo dal problema come Roma dalle Olimpiadi, con l’animo sopraffatto da tanta vastità. Riprendo il mio abito invisibile dall’appendino di plexiglas per tornare a occupazioni più modeste, sperando di non suscitare la delusione di Seneca. E mentre mi accosto all’anima per tirarla giù dalla gruccia, ho come la sensazione che un lieve soffio di vento, di ànemos, la stia facendo danzare. Ma potrei sbagliarmi. Il gancio dell’appendino è sempre più simile a un punto interrogativo.

© Pasquale Barbella


All’origine delle citazioni.

Libri.

Campanile, Achille, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Milano: Rizzoli, 1974.

Gogol’, Nikolaj, Mërtvye duši, 1842; ed. it. Le anime morte, trad. Serena Prina. Milano: Mondadori, 1996.

Hillman, James, The Soul’s Code, 1996; ed. it. Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino, trad. Adriana Bottini. Milano, Adelphi, 1997.

Hugo, Victor, Les Misérables, 1862.

Ildegarda di Bingen, Liber divinorum operum, ed. it. Il libro delle opere divine, trad. Michela Pereira. Milano: Mondadori, 2003.

Kafka, Franz, Die Verwandlung, 1915; ed. it. La metamorfosi, trad. Rodolfo Paoli/Ervino Pocar. Milano: Mondadori 1934/1970.

Mancuso, Vito, «Quando il Papa parla di sesso dell’anima», in www.vitomancuso.it, 16 settembre 2014.

Melville, Herman, Moby-Dick or The Whale, 1851; ed. it. Moby Dick o La balena, trad. Cesare Pavese. Milano: Frassinelli, 1932; Adelphi, 1987.

Nabokov, Vladimir, Nikolai Gogol, 1944; ed. it. Nikolaj Gogol’, a cura di Cinzia De Lotto e Susanna Zinato. Milano: Adelphi, 2014.

Nietzsche, Friedrich, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, 1895; ed. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, trad. Mazzino Montinari. Milano: Adelphi, 1968.

Pullman, Philip, His Dark Materials, trilogia composta da The Golden Compass, The Subtle Knife e The Amber Spyglass, 1995-2000; ed. it. Queste oscure materie (La bussola d’oro, La lama sottile, Il cannocchiale d’ambra), trad. M. Astrologo e A. Tutino. Milano: Salani, 2008.

Savinio, Alberto, Nuova enciclopedia (anni ’40), ed. postuma. Milano: Adelphi, 1977.

Seneca, Lucio Anneo, Ad Serenum de tranquillitate animi, anno 50 d.C. circa, ed. it. La tranquillità dell’animo, trad. Giovanni Viansino. Milano: Mondadori, 1993.

Shakespeare, William, The Tragedy of Othello, the Moor of Venice, 1603 circa; ed. it. Otello, trad. Salvatore Quasimodo. Milano: Mondadori, 1959.

Szymborska, Wisława, «Troche o duszy» in Chwila, 2002; ed. it. «Qualche parola sull’anima» in Attimo, a cura di Pietro Marchesani. Milano: Scheiwiller, 2004.

Wilde, Oscar, The Fisherman and His Soul, 1891; ed. it. Il Pescatore e la sua Anima, trad. Masolino d’Amico, in Opere. Milano: Mondadori, 1979.

Canzoni.

Body and Soul, parole di Frank Eyton, Robert Sour, Edward Heyman; musica di Johnny Green. Regno Unito/USA, 1930. © Quartet Music / Range Road Music / Warner Bros.

Io mi fermo qui, parole di Luigi Albertelli; musica di Enrico Riccardi. Italia, 1970. © Radio Record.

Film.

A Stolen Life(L’anima e il volto) di Curtis Bernhardt, USA, 1946. Warner Bros.

Bondage (Anime alla deriva) di Alfred Santell, USA, 1933. Fox Film Corporation.






















Necrologio verde

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Il 23 settembre 2016 è morto Libereso Guglielmi, angelo e artista di giardinaggio e botanica. Il suo maestro fu Mario Calvino, direttore della Stazione sperimentale di floricoltura di Sanremo; il figlio Italo, scrittore, dedicò al giardiniere adolescente un racconto irresistibile. Di Libereso, da cui trassi qualche goccia di saggezza pur essendo impermeabile a tale virtù, ho già parlato in due occasioni affettuose: Il taglio del tiglio e Giardiniere anarchico. Adesso sta a curare parchi invisibili, ma per me è più visibile che mai: mi basta dare un’occhiata al giardinetto di casa per veder torreggiare il suo alter ego gigante, mirabilmente ramificato e universale nel suo respiro. I tanti che a Lesmo gli furono amici lo cercano affacciandosi sul verde, dalle finestre, e lo salutano senza tristezza, perché di scorza immortale è fatto il tronco di Libereso.

La morte che ti morde non è morte:
è solo un otiorhynchus che di notte
si arrampica sul fusto come un ladro
di verde. Immateriali paradisi
adesso vai curando, tu che libero
non credi all’aldilà ma troppo amante
di terra e d’eden non puoi fare a meno
di usare mani ruvide in giardino.
Un’altra estate cede alla stagione
che imporpora e ingiallisce i suoi abitanti;
la guardi da lontano e stendi calmo
fiato e carezze sulle specie in lutto.
Sei vivo della vita che imprimesti
a tante zolle nude di radici
fatte di terra e d’uomo e d’anarchia.
La liana illanguidita si dimena
come un’opaca coda di serpente
nella boscaglia vedova. Rinfranca
il ricordo di te, acquarellista
ridente come elleboro in settembre.
Ridente ti rivedo con la sghemba
dentatura di bacche e di ligustro.
Mi narravi maestro di avventure
e cicatrici mentre già volavi
da un ramo all’altro d’albero selvaggio.
Dimenticarti no. Non è possibile.
Come si può dimenticare il fiume
che ci vide sbagliati, e poi redenti
dall’ossido di piombo di metropoli,
dall’odore di diesel, dall’impervia
città drogata e dalle insane borie
di schiavi assoggettati al dio di niente?
Libereso tu fosti e per un attimo
liberator di chi solo per caso
o per fortuna sua ti fu di fianco.
Verrà la pioggia e bagnerà gli scarti
del corpo che fu tuo, e da quel corpo
risorgerà gagliardo il negro humus
che provvido alimenta questa vita.

P.B.


Matera

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Il torrente Gravina di Matera, affluente di sinistra del Bradano, scorre nella profonda fossa naturale che delimita i due antichi rioni della città: il Sasso Barisano e il Sasso Caveoso. L’insediamento originario è costituito da abitazioni, chiese rupestri, terrazzamenti e altre infrastrutture ricavate direttamente nella roccia; su questo tessuto di bioarchitettura arcaica è sorta nei secoli una città “sopraelevata”.





Eccola qui, più vera del vero, una delle architetture impossibili immaginate da Escher, l’incisore olandese celebre per le sue esplorazioni di un infinito geometrico che cambia gradualmente forma generando effetti paradossali.

I Sassi di Matera sono stati dichiarati dall’Unesco Patrimonio mondiale dell’umanità.






I Sassi sono un insediamento urbano derivante dalle varie forme di civilizzazione e antropizzazione succedutesi nel tempo. Da quelle preistoriche dei villaggi trincerati del periodo neolitico all’habitat della civiltà rupestre di matrice orientale (IX-XI secolo), che costituisce il sostrato urbanistico dei Sassi, con i suoi camminamenti, canalizzazioni, cisterne; dalla civitas di matrice occidentale normanno-sveva (XI-XIII secolo) con le sue fortificazioni, alle successive espansioni rinascimentali (XV-XVI secolo) e sistemazioni urbane barocche (XVII-XVIII secolo), e infine dal degrado igienico-sociale del XIX e della prima metà del XX secolo allo sfollamento disposto con legge nazionale negli anni cinquanta, fino all’attuale recupero iniziato a partire dalla legge del 1986.





La visita alla Casa Grotta di vico Solitario è un’autentica opportunità per rendersi conto di quella che era la vita nelle case scavate del Sasso Caveoso prima del loro abbandono, avvenuto in  seguito alla legge di risanamento dei Sassi voluta dal presidente del consiglio Alcide De Gasperi nel 1952. Una grande cavità rocciosa fa da cornice all’arco d’ingresso della Casa Grotta, unico elemento costruito che si addossa alla grotta nella quale è stata ricavata l’abitazione; le ultime modifiche del prospetto risalgono al 1700.

La scelta di questo sito, sebbene abbia garantito una estrema sicurezza all’abitato, ha comportato ai suoi abitanti enormi difficoltà nell’approvvigionamento delle acque. Di fatto i Sassi si trovano su un enorme banco calcarenitico a circa 150 metri dal livello del torrente, mentre le colline d’argilla che li circondano ad ovest risultano essere troppo lontane, per una città che costruita nell’ottica dell’assedio, doveva garantirsi l’autonomia al suo interno. Sin dai primi giorni, quindi, i suoi abitanti concentrarono le loro energie non tanto sulla costruzione delle case, quanto sullo scavo di cisterne e palombari e dei relativi sistemi di canalizzazione delle acque. Vista in quest’ottica Matera risulta essere uno dei più antichi e meglio conservati esempi di bio-architettura al mondo. Una breve analisi dei sistemi insediativi costruiti intorno all’acqua, mostra come di fatto le civiltà e le tradizioni costruttive più antiche del mondo abbiano numerosi punti in comune, sebbene secoli e chilometri le vedano come elementi distinti. Strutture apparentemente semplici e rudimentali si rivelano come dei prodigi di efficienza tecnica. Le umili tecniche arcaiche, dimenticate dagli stessi abitanti, acquistano un fascino e un valore un tempo inimmaginabili.





La calcarenite è un tipo di roccia sedimentaria clastica, formata da particelle calcaree delle dimensioni della sabbia. Il termine calcareni venne proposto per la prima volta, nel 1903, dal geologo e paleontologo statunitense Amadeus William Grabau, come parte della sua classificazione dei carbonati di calcilutite, calcarenite e calcirudite basata sulla dimensione dei granuli dei detriti che compongono la roccia sedimentaria. I clasti che compongono la calcarenite sono spesso di origine biologica, ovvero fossili di organismi marini (frammenti di gusci di molluschi, alghe o foraminiferi).


Lavori in corso.

Insieme a Plovdiv (Bulgaria), Matera è stata designata Capitale europea della cultura per l’anno 2019. Fervono i lavori di restauro.

Piazzetta Pascoli.

Appena laureato, Giovanni Pascoli insegnò latino e greco al liceo Duni di Matera. Al fratello Raffaele scrisse la lista delle sue spese: «65 lire al mese per mangiare, 25 per dormire, 7 alla serva, 2 al casino (necessità), 15 in libri (più che necessità).» (Lettera ripresa in un saggio di Rosita Boschetti).

Il castello Tramontano è situato su una collinetta, chiamata collina di Lapillo, sovrastante il centro storico della città di Matera. In stile aragonese, il castello, con un maschio centrale e due torri laterali pià basse, l’uno e le altre rotonde, smerlate e dotate di feritoie, fu fatto costruire a partire dal 1501 dal conte Giovan Carlo Tramontano, feudatario di Matera. Il nuovo re di Napoli, Ferdinando II, aveva promesso ai materani di non cedere più la città ad alcun feudatario, dopo che questa si era già liberata più volte dal giogo feudale pagando diversi riscatti per restare città libera ad autonomo reggimento, cioè dipendente direttamente dalla Corona reale. Invece il conte Tramontano, che vantava crediti nei confronti dell’Erario reale, chiese ed ottenne la contea di Matera nel 1496. Il conte si rese presto inviso ai materani in quanto con il passare del tempo si riempì di debiti, per far fronte ai quali tassava la popolazione con gravose imposte. Cominciò così la costruzione del castello, che era situato su una collina dominante la città, al di fuori delle mura cittadine, con lo scopo di controllo “feudale” dei terreni circostanti più che di difesa della città stessa. Pare che poi la costruzione avrebbe dovuto comprendere altre torri di difesa, una delle quali è stata rinvenuta sotto la centrale piazza Vittorio Veneto di Matera insieme ad altri ambienti ipogei. Per la costruzione del castello furono spesi ben 25.000 ducati e ciò andò a gravare ancor di più sulla popolazione. Fu così che alcuni cittadini, stanchi dei continui soprusi, si riunirono nascosti dietro un masso, che da allora fu chiamato u pizzon’ du mal consigghj, cioè “la pietra del mal consiglio”, ed organizzarono l’assassinio del “tiranno” Tramontano. Il 29 dicembre 1514 il conte, appena uscito dalla cattedrale, fu assassinato in una via laterale della stessa, che fu successivamente chiamata in modo eloquente “Via del Riscatto”. Il castello restò dunque incompiuto.
 
Riflessi nella cisterna.















I testi di questo post sono tratti da Wikipedia. Fotografie di Pasquale Barbella scattate durante un viaggio in Basilicata e in Puglia organizzato dalla Frigerio Viaggi di Giussano per conto della Banca di Credito Cooperativo di Lesmo.


Letteratura: i segreti del Nobel

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Ricordo i commenti sbalorditi e sprezzanti di tanti italiani, quando Dario Fo fu insignito del Nobel 1997. «Che c’entra Fo con la letteratura?», andavano chiedendosi, in preda a un insopprimibile turbamento. Certo, la letteratura non è né la Coppa Uefa né la Coppa Rimet: lì si è felici se vincono gli azzurri, e si dà la colpa agli arbitri in caso di disfatta; ma con la letteratura siamo più severi. Siamo molto curiosi di conoscere contro chi ha vinto Dario Fo, ma lo sapremo solo nel 2047, quando gli archivi di cinquant’anni prima si apriranno allo sguardo indiscreto dei posteri. Vi prego: telefonatemi appena si scioglie il mistero: mi trovate al 666 666 666 interno 6. Dario Fo è stato in effetti una sorpresa. Come avranno tradotto il suo Mistero buffo? Val la pena di ricordare, in ogni caso, che Fo non era affatto sconosciuto all’estero: già nel 1972, di passaggio a Londra, vidi il suo nome sui cartelloni. E si dice che nel 1975 fosse già tra i candidati. La motivazione del premio gli si attaglia a pennello: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi.» Ma le istituzioni italiane patrocinavano da anni la candidatura di Mario Luzi. 

Da Sully-Prudhomme a Bob Dylan, 1

13 ottobre 2016. Tredici nero per Dario Fo e rosa per Bob Dylan. A poche ore dalla morte del primo, Nobel per la letteratura 1997, da Stoccolma annunciano il Nobel 2016 a Bob Dylan per aver «creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana». Due premiati eccentrici. Ennesimo smacco per Philip Roth, l’eterno favorito. Ladbrokes, primaria impresa britannica di gioco d’azzardo e scommesse, indicava in Haruki Murakami il più probabile vincitore di quest’anno. Seguivano il poeta siriano Adonis, il solito Roth, lo scrittore keniano Ngugi wa Thiong’o, la statunitense Joyce Carol Oates, l’albanese Ismail Kadaré e lo spagnolo Javier Marías. A proposito di eventuali quanto improbabili candidature italiane, sul sito MondoFoxElisa Giudici aveva scritto: «Tra gli autori più apprezzati a livello internazionale, Claudio Magris e Dacia Maraini hanno il profilo giusto e la bibliografia qualitativamente all’altezza della sfida. Non bisogna poi dimenticare il caso Elena Ferrante: autrice popolarissima all’estero e amatissima dalla critica di mezzo mondo. Forse è un po’ presto per sperare concretamente in una vittoria, ma non è un caso che abbia fatto timidamente capolino in alcuni pronostici dei ben informati. Certo è che la recente scomparsa di Umberto Eco ci priva del candidato italiano con più chance d’immediata vittoria, oltre che di un grande scrittore e umanista.»

Bob Dylan. 

Nobel letterario: come funziona.

La Svenska Akademien (Accademia Svedese), responsabile del premio Nobel per la letteratura, è costituita da soli 18 membri. In pratica anche meno, se qualcuno muore o decide di smettere di collaborare (è il caso della scrittrice Kerstin Ekman, che per statuto rimane comunque titolare a vita del suo scranno vuoto) senza essere stato ancora sostituito. Un comitato ristretto di quattro o cinque studiosi (eletti dai membri dell’Accademia e in carica per tre anni) si occupa del lavoro preliminare: raccolta, valutazione, selezione e raccomandazione delle segnalazioni (nominations). Le candidature annuali sono espresse, con o senza invito, da membri della stessa Accademia Svedese nonché di istituzioni e società equivalenti di qualsiasi paese; docenti universitari di letteratura e linguistica; autori premiati in precedenti edizioni; presidenti di società d’autori rappresentative della produzione letteraria nei rispettivi paesi.

In autunno, subito dopo il conferimento del premio dell’anno, l’Accademia invia un formulario a circa 700 persone e organizzazioni qualificate, per la raccolta delle nuove proposte. Il comitato passa al setaccio gli endorsement così ottenuti (circa 350), prepara una lista di nomi e la sottopone all’Accademia per l’approvazione. In seguito a ulteriori indagini il comitato restringe la lista dei papabili fino a 15-20 nomi; non si tratta comunque di un numero chiuso: dagli archivi risulta che a volte il limite è stato abbondantemente superato. Attraverso una serie di filtri successivi si scende a cinque raccomandazioni finali (talvolta di meno e talvolta di più). I membri dell’Accademia hanno tutta l’estate per leggere e approfondire l’opera dei finalisti. Le candidature – totali, preliminari o finali che siano – rimangono segrete per cinquant’anni. Solo dopo mezzo secolo è possibile scoprire chi avesse supportato chi, e chi fosse in gara oltre al vincitore.

Ramón Menéndez Pidal, filologo e storico della letteratura spagnola (1869-1968).

Il database del Nobel è una ghiotta miniera di curiosità retrospettive. Quella che riguarda il candidato spagnolo Ramón Menéndez Pidal, eminente filologo e storico della letteratura (1869-1968), è da Guinness dei primati. Dal 1931 al 1965 totalizzò ben 149 candidature – da parte di accademici di lingua spagnola e ispanisti di altre nazionalità – ma non vinse mai. Nel 1956 ci fu un vero e proprio pressing in suo favore, ma il premio andò a un altro spagnolo, il poeta Juan Ramón Jiménez, nominato da un solo supporter (lo scrittore e poeta svedese Harry Martinson, vincitore a sua volta del Nobel nel 1974 ex aequo con il connazionale Eyvind Johnson). Jiménez era in lizza da cinque anni, sempre promosso con discrezione: un solo sostenitore all’anno. Nel 1956, tuttavia, sgominò non solo Pidal, ma anche Karen Blixen, Borges, Brecht, Camus, Georges Duhamel, E.M. Forster, Graham Greene, Nikos Kazantzakis, Malraux, Montherlant, Neruda, Marcel Pagnol, Saint-John Perse, Ezra Pound, Šolochov, Trevelyan e altri. Quattro degli esclusi avrebbero vinto il premio più tardi: Camus nel 1957, Perse nel 1960, Šolochov nel 1965 e Neruda nel 1971. Tra gli sfortunati concorrenti di Jiménez c’erano anche due italiani: Vasco Pratolini e Giuseppe Ungaretti, nominati rispettivamente dall’italianista francese Paul Renucci  e dal critico ginevrino Marcel Raymond.

Michail Šolochov, premio Nobel 1965 per la letteratura.

Il regolamento vieta ai proponenti (nominators) di candidare sé stessi, ma non impedisce ai membri della Svenska Akademien di premiare i propri colleghi. Proprio il caso già citato del 1974, l’ex aequo attribuito a Harry Martinson ed Eyvind Johnson, suscitò un certo scalpore, trattandosi di due professori dell’Accademia premiante.

Come si è visto con Pidar e Jiménez, il numero dei sostenitori e delle segnalazioni è ininfluente. Si può perdere con 150 sponsor e vincere con uno solo. L’esuberante numero di perorazioni pro Pidar lascerebbe pensare a cordate nazionali, linguistiche o culturali impegnate in un lavoro di squadra per orientare con maggiore efficacia le decisioni dei giurati. Lobby? Agonismo? Tifoseria? Niente di preciso e niente di male: è umano, e non c’è dubbio che Pidar meritasse quel premio per l’eccellenza del suo lavoro. Ma l’esito del 1956 lascia spazio a pensieri maliziosi: senza nulla togliere al valore di Pidar né a quello di Jiménez, resta il fatto che, eliminato il candidato più accreditato, il premio andò comunque alla Spagna. Una specie di risarcimento?

Dev’essere divertente infiltrarsi come un’ombra fra i professori dell’Akademien e ascoltare cosa si dicono, quando il dibattito entra nella fase cruciale. Capire con quali argomentazioni si liquida un Borges o un Camus e con quale fervore diplomatico si promuove un autore scarsamente favorito alla vigilia. Immagino che non tutte le analisi abbiano a che fare soltanto con la letteratura (che in ogni caso deve avere uno sfondo idealistico o almeno civile, secondo le volontà espresse nel testamento di Alfred Nobel). A me scapperebbe di dire: «Ragazzi, guardiamoci negli occhi: Jiménez ha 65 anni portati male, passa da una depressione all’altra, e oltretutto è in esilio dai tempi della guerra civile. Ovviamente anche Borges ha le carte in regola: geniale, antiperonista, antipopulista, antifascista e anticomunista, ma ha 57 anni e sta bene; c’è tempo. Di Camus poi non parliamo neanche: ha solo 44 anni, ha tutta la vita davanti a sé.»

Tra il 1901 e il 1965, ovvero nel periodo liberato dal top secret, i dieci autori che hanno ottenuto più di 25 segnalazioni sono stati, oltre a Menéndez Pidal, Johannes Jensen (danese), André Malraux (francese), Frans Sillanpää (finlandese), Johan Falkberget (norvegese), Robert Frost (statunitense), Edward Morgan Forster (britannico), Selma Lagerlöf (svedese), Georges Duhamel (francese), Paul Valéry (francese) e Tarjei Vesaas (norvegese). Di questi, solo tre hanno vinto il Nobel: Lagerlöf nel 1909, Sillanpää nel 1939 e Jensen nel 1944.

Tra gli italiani, detengono il primato delle nominations Grazia Deledda (18), Guglielmo Ferrero (18 per la letteratura più 3 per la pace) e Benedetto Croce (16). Solo Deledda vinse il premio, nel 1926, patrocinata da singoli scrittori italiani e dalla nostra Accademia dei Lincei, ma anche da tre membri dell’Accademia Svedese.

Benedetto Croce.

Letteratura tra scienza e politica.

Taluni autori di riconosciuta grandezza – come Proust e Joyce, tanto per citare due nomi – non sono mai stati presi in seria considerazione per il Nobel. Per quanto madornali, le sviste dell’Akademien non hanno intaccato l’autorevolezza del suo operato. Le polemiche, talvolta furibonde, sorte in seguito a certe attribuzioni ed esclusioni confermano, anziché offuscarlo, il prestigio dell’istituzione. A distanza di oltre un secolo dagli esordi, l’aura del Nobel rimane inscalfibile perché la letteratura è associata all’oggettività, vera o presunta, delle scienze (la fisica, la chimica, la medicina e, dal 1969, l’economia) e a un superiore valore geopolitico (la pace). Le massime istituzioni culturali della Svezia, paese tradizionalmente rispettato per la sua civiltà, e il comitato norvegese responsabile per il premio alla pace, concorrono a tenere alta l’immagine del Nobel. Il premio a Dario Fo (1997, letteratura) non è meno solenne di quello conferito ad Albert Einstein (1921, fisica), a Marie Curie (1903, fisica e 1911, chimica) o al Dalai Lama (1988, pace). Il Nobel non somiglia a nessun concorso di tipo convenzionale; connette la letteratura alle scienze e all’utopia pacifista anziché alle arti figurative, al cinema, alla musica, o semplicemente a sé stessa. L’accademia che eroga il premio alla letteratura è ovviamente diversa da quelle che si occupano delle altre discipline (l’Accademia Reale Svedese delle Scienze, l’istituto Karolinska per la medicina, la commissione eletta dal Parlamento norvegese per il Nobel della pace), ma il sistema appare solidamente unitario, efficace nella promozione di un canone mondiale del pensiero e del progresso.

Si comprende dunque lo scalpore del 1964 quando, a contestare il premio, non è né la critica letteraria né un corteo di studenti ribelli ma il premiato stesso, Jean-Paul Sartre. Il rifiuto di Sartre è un gesto di evidente impronta ideologica, la cui intensità eguaglia o supera il valore del riconoscimento. O meglio: lo raddoppia. Agli occhi del mondo, l’autore de La nausea vince due volte: come intellettuale (filosofo, romanziere, drammaturgo) e come attivista della libertà. Tra i motivi del no: «Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in un’istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli, come in questo caso. [...] Durante la guerra d’Algeria, quando abbiamo firmato il Manifesto dei 212, avrei accettato il premio con riconoscenza perché non avrebbe onorato solo me ma la libertà per cui si lottava. Ma questo non è successo, ed è solo alla fine della guerra che mi si è assegnato il premio». Viva la coerenza. Alla fine, tuttavia, ha scarsa importanza il fatto che Sartre non sia andato a Stoccolma a ricevere il premio e abbia motivato per iscritto l’insolita decisione: negli annali del Nobel risulta in ogni caso come titolare, se non detentore, dell’onore attribuitogli. L’unico vantaggio al quale ha effettivamente rinunciato è l’assegno, piuttosto cospicuo, offerto ai vincitori (attualmente l’equivalente in corone di circa novecentomila euro, ma nel 1964 era ancora più sostanzioso). Il pensiero più elementare che può venirci in mente è che avrebbe fatto meglio ad accettare quei soldi per devolverli a qualche organizzazione benefica. Ma ciò avrebbe sminuito la portata politica, e propagandistica, del suo dissenso.

Marcel Proust.

La funzione morale della letteratura.

In un precedente articolo sull’argomento di cui ci stiamo occupando, Un Nobel per Stephen King, ho scritto: «La vocazione edificante – e in parte ideologica – del Nobel ha fatto sì che ne fossero esclusi, nel corso del tempo, autori geniali come Borges, Pessoa, Nabokov.» Chi altri, per esempio? Guillaume Apollinaire, Antonin Artaud, Georges Bataille, Paul Bowles, Charles Bukowski, Erskine Caldwell, Italo Calvino, Truman Capote, Louis-Ferdinand Céline, Raymond Chandler, John Cheever, Francis Scott Fitzgerald, Jean Genet, James Joyce, Marcel Proust... Integrate la lista a vostro piacimento. È probabile che i giurati non abbiano intravisto, nell’opera di questi bocciati, nessun sintomo evidente di fervore costruttivo, nessun segno tangibile di tensione spirituale all’edificazione di un mondo più giusto. Neanche Orwell li ha commossi. Vladimir Nabokov dev’essere stato iscritto d’ufficio nell’elenco dei cattivi. Sentite cosa scrive nel suo irresistibile saggio su Gogol’: «Nutro un’insopprimibile avversione per chi si compiace del fatto che la propria finzione narrativa sia educativa o nobilitante, o patriottica, o salutare quanto lo sciroppo d’acero e l’olio d’oliva...»[1]

Ma neanche questo basta a spiegare gli orientamenti del Nobel. Se si trattasse soltanto di una visione etica della letteratura e del pensiero, la mancata attribuzione del premio a Tolstoj, o in epoca più recente a – tanto per fare un nome – Hannah Arendt, suonerebbe a dir poco contraddittoria. Forse ci incaponiamo a cercare la coerenza laddove regna invece una solida e radiosa naïveté. E del resto l’incoerenza del Nobel concorre anch’essa al suo prestigio: ci piace, ogni anno, essere spiazzati da una decisione inaspettata, ci piace reagire con proteste di scherno o, ed è meglio, con lo stupore e la voglia di scoprire autori che non conoscevamo, o che avevamo sottovalutato. In ogni caso, l’obiettività non sta nei disegni dell’uomo. Che ci piaccia o no, l’obiettività è in ciò che accade. Per fortuna, ciò che accade alla Svenska Akademien non uccide nessuno.

A proposito di Tolstoj. In un libro bellissimo, Voci di Frederic Prokosch, André Gide – intervistato dall’autore – si lascia andare a uno sfogo: «Vorrei proprio sapere per quale dannata ragione quegli idioti di Stoccolma si lasciarono sfuggire la grande occasione. Pensi un po’. Avrebbero potuto sparare i primi colpi di cannone in onore di Tolstoj, ne avrebbero ricavato un prestigio inimmaginabile, e si lasciarono sfuggire l’occasione. Diedero il premio a Sully-Prudhomme. Scartarono Proust, e si può anche immaginare la ragione, non senza fatica, ma bisognerebbe vivere a Stoccolma per capire perché mai scelsero Sully-Prudhomme...»[2]

Il poeta francese Sully-Prudhomme, primo letterato della storia insignito del Nobel, nel 1901.

I limiti storici del Nobel.

Su Tolstoj e Proust, André Gide ha ragioni inconfutabili. Per il resto, è facile lasciarsi andare a critiche e congetture, fare un po’ di dietrologia. Senza tenere conto, tuttavia, dei limiti oggettivi (e banali) in cui la Svenska Akademien dovette operare nella prima metà del secolo scorso. Ci siamo abituati, da bravi posteri, a considerare il Nobel una perfetta macchina globale, un efficiente radar in grado di monitorare senza sforzo il mondo della letteratura e la letteratura del mondo: ragioniamo come si ragiona nell’era di internet. Ma fino al secondo dopoguerra l’accademia di Stoccolma dovette misurarsi con un compito estremamente complesso, non sempre facilitato dalla cooperazione delle istituzioni più lontane, o più distratte, o ambientate in paesi politicamente ostili. Basta questo a spiegare, per esempio, il quasi-monopolio degli autori europei – e delle lingue più accessibili – nel gotha dei candidati e dei laureati. Altrettanto si può dire sulla presenza delle letterature scandinave, statisticamente esorbitante rispetto ai corretti equilibri geografici e culturali. Nel suo testamento, Alfred Nobel era stato alquanto vago sull’universalismo dei suoi propositi. Aveva scritto: «È mia espressa volontà che nell’assegnazione dei premi non si tenga in alcuna considerazione la nazionalità dei candidati, ma che solo i più meritevoli ricevano il premio, siano essi scandinavi o non.» La frase lascia spazio a interpretazioni ambigue, o imprecise. Potrebbe essere letta anche così: «Se proprio non riuscite a scovare un talento coi fiocchi in Scandinavia, cercatelo da qualche altra parte.» Di fatto, tutti gli autori svedesi laureati col Nobel – a parte Selma Lagerlöf – facevano parte della Svenska Akademien all’epoca della premiazione, circostanza che è stata in seguito assai criticata (e, a onor del vero, più in Svezia che altrove). Il tiro è stato aggiustato gradualmente, a piccoli passi; si può dire che la vera coscienza universale del Nobel per la letteratura sia una conquista della sua maturità, notevolmente cresciuta solo nei decenni più recenti.

Quanto alla cooperazione degli organismi culturali di altri paesi, si vedano gli annali più remoti del premio. Candidati scandinavi a iosa, nomi che spesso non ci dicono o ricordano nulla. E, subito dopo, i francesi: i primi e più efficienti a raccogliere, dall’estero, l’affascinante sfida di Stoccolma. L’Académie Française fu prontissima a fare pendant con la Svenska nella direzione di un’orchestra letteraria vissuta come nuovo patrimonio della civiltà europea. I tedeschi, gli spagnoli, i britannici e gli italiani impararono presto, anche loro, a promuovere le rispettive identità. Il primo autore non europeo a vincere il Nobel è il poeta indiano Rabindranath Tagore, nel 1913, quando l’India è ancora una colonia dell’Impero britannico. A candidarlo è un membro della Royal Society of Literature di Londra, il poeta Thomas Sturge Moore. Insomma, anche quando il bacino di pesca si fa più ampio, si continua per un pezzo a giocare in casa. E non per semplice provincialismo, ma perché – persino nei milieux accademici – le informazioni circolano a fatica: almeno fino al 1930, quando il primo statunitense, Sinclair Lewis, sfonda la barriera dell’egemonia europea. Uno studio più approfondito sull’evoluzione dell’universalismo del Nobel letterario presupporrebbe ampie e complicate ricognizioni sul contesto: la storia mondiale dell’editoria, i cambiamenti di gusto, la quantità e la qualità delle traduzioni, la fortuna o sfortuna critica di certi autori nel corso del tempo, per non parlare dei conflitti geopolitici e di due guerre mondiali che non hanno certamente agevolato il già gravoso lavorío di Stoccolma. Una simile analisi richiederebbe dati e incroci a non finire, e non sarebbe del tutto inutile, se servisse a prefigurare il destino dei canoni critici, dell’istruzione letteraria, della diffusione del libro in una mutata prospettiva tecnologica, politica e sovranazionale.

Congetture sui criteri di selezione.

Le parole che ricorrono con maggiore frequenza nelle motivazioni dei premi assegnati sono l’indicatore più esplicito dei parametri più condivisi, ma anche della loro evoluzione nel tempo. Ideali, idealismo, idealista ricorrono spesso fino al 1950, per poi scomparire all’improvviso. Non perché quelle parole rappresentino valori desueti, ma perché sono diventate un cliché inadeguato a esprimere la complessità di una visione della letteratura intesa come scienza dell’umanesimo, dell’estetica, della storia, della società. Reale, realismo, realistico fanno la loro comparsa a partire dal 1962, per indicare un’attenzione dei premiati al contesto che li circonda. Espresso anche con altre parole, questo concetto è tuttavia uno dei leit-motiv più insistenti nella storia del premio; sta a indicare, in varie forme, la sensibilità di autori impegnati a raccontare le dinamiche sociali del loro tempo facendone lo sfondo, spesso drammatico, di storie individuali. Un tipo di engagement senza tempo, che accomuna voci distanti nel tempo e nello spazio come quella di Grazia Deledda (premiata nel 1926 «per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi») e quella di Svetlana Aleksievič (premiata nel 2015 «per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo»).

Tutto ciò riconferma l’orientamento etico e sociale del Nobel letterario, espresso dal fondatore con un termine generico (idealismo). Particolarmente gradite, agli accademici della giuria, sono le visioni universali quando partono da specifiche radici nazionali: piacciono le epopee, le saghe, le tradizioni che – pur adeguatamente rinnovate – continuano a tener viva la memoria culturale dei luoghi, dei miti, del folklore, della storia: scrittore epico (Sienkiewicz, 1905); poema epico (Spitteler, 1919); grande epica nazionale (Reymont, 1924); epica descrizione della vita contadina in Cina (Pearl S. Buck, 1938); potente opera epica (Laxness, 1955); nel solco della grande tradizione epica russa(Pasternak, 1958); forza epica (Andric, 1961); l’epica del Don (Šolochov, 1965); arte epica e psicologica della narrazione (Patrick White, 1973); magnifica scrittura epica (Gordimer, 1991), etc.

La condizione esistenziale dell’uomo (individuo o popolo) commuove i giurati quando sono in ballo l’oppressione e la tirannia, l’emarginazione e la sopraffazione, i deboli e i prevaricatori. Basta questo a spiegare l’indifferenza di Stoccolma nei confronti di un Proust o di un Nabokov.

© Pasquale Barbella 

(Da Sully-Prudhomme a Bob Dylan – Continua)





[1]V. Nabokov, Nikolai Gogol, 1944; ed. it. Nikolaj Gogol’, a cura di Cinzia De Lotto e Susanna Zinato, Milano: Adelphi, 2014.
[2]Adelphi, 1985.

Dylanite

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Da Sully-Prudhomme a Bob Dylan, 2


Canzoni da Nobel


Qualche milione di persone si sta chiedendo se sia legittimo considerare poesia i versi delle canzoni: poesia, talvolta, talmente di prim’ordine da giustificare un premio Nobel per la letteratura. Peccato non sapere cosa ne penserebbe Dylan Thomas, il poeta gallese al quale Robert Zimmerman si ispirò per la scelta del proprio nome d’arte, Bob Dylan. Purtroppo il primo Dylan, essendo deceduto nel 1953, non sa nulla del secondo, ed è all’oscuro del Nobel attribuito a questo suo fan di Duluth, Minnesota, di professione songwriter. Adoro gli accademici di Stoccolma: a volte prendono cantonate indimenticabili, come quando i loro predecessori ignorarono Tolstoj per un tale Sully-Prudhomme; ma non è detto che il premio a Bob Dylan debba considerarsi una birichinata, o che Philip Roth (in attesa da anni del suo Nobel, come lo fu DiCaprio per il suo Oscar) debba ritenersi offeso per essere stato scavalcato da una rockstar. Bisognerebbe essere grati, anzi, alla Svenska Akademien per aver sollevato una questione elettrizzante sulla natura della letteratura e sui parametri tradizionali della critica ufficiale.

Pesano sulla reputazione degli autori di canzoni le orrende vaccate scritte dalla maggior parte della categoria (il canzoniere italiano trabocca persino di insulti alla grammatica e alla sintassi), ma anche la tirannia della metrica musicale. I testi da cantare difficilmente possono aspirare a una nobiltà autonoma, finalizzati come sono a un altro linguaggio. Provate a leggere (senza musica) i libretti d’opera: gridano vendetta al cielo. Nemmeno quelli di Lorenzo Da Ponte, raffinato librettista di Mozart per le opere italiane, stanno bene in un’antologia poetica destinata alle medie superiori. A maggior ragione è difficile considerare poesia il lavoro di Mogol. Ciò non toglie che, ciascuno nel proprio ambito, Mozart e Lucio Battisti se la siano cavata piuttosto bene, serviti da versi perfetti per la funzione che dovevano svolgere.

Dylan nella sua casa di Byrdcliff, NY, 1968. © Elliott Landy/Magnum Photos.

Eppure succede, talvolta, il miracolo. C’è un verso di Jacques Brel che ho sempre considerato all’altezza della grande poesia francese:

Avec un ciel si bas qu’un canal s’est perdu,

«Con un cielo così basso che un canale si è perduto.»

Il verso è in una canzone, La plat pays, bella (e letteraria) fin dal titolo: Il paese piatto, riferito al Belgio, con doppio riferimento alla sua modesta altitudine – in buona parte sotto il livello del mare – e l’umida malinconia che lo affligge: una tetraggine che Brel considera quasi metafisica. Il «paese piatto» è un Belgio geografico e mentale. Come in Ne me quitte pas, Jacques Brel è insuperabile nell’illustrazione del vuoto esistenziale e della desolazione. Gli spazi del plat payssembrano immensi, cupi e grigiastri come lastre addolorate sferzate dal vento. E le parole affondano come sassi al rallentatore nel più gelido dei mari, in balia dei loro mille significati: vague, per esempio, si ripete quattro volte nei primi tre versi, denotando quattro significati differenti fino a perderli tutti e a diventare suono “vagante”, astratto, ipnotico, irriconoscibile:

Avec la mer du Nord pour dernier terrain vague
Et des vagues de dunes pour arrêter les vagues
Et de vagues rochers que les marées dépassent
Et qui ont à jamais le cœur à marée basse
Avec infiniment de brumes à venir
Avec le vent de l’est écoutez-le tenir
Le plat pays qui est le mien…

Con il mare del Nord estremo spiazzo incolto
e onde di dune come argine alle onde
e scogli solitari che in balia di maree
hanno sempre bassa la marea del cuore
con foschie in arrivo all’infinito
con il vento dell’est sentitelo come resiste
il piatto paese che è il mio...

Jacques Brel nel 1967.

E si prosegue con il nordico, immobile gigantismo delle cattedrali gotiche, uniche montagne plausibili in quel depresso paesaggio; i campanili anneriti; i diavoli di pietra che

squarciano le nubi
con il filo dei giorni per unico viaggio
e sentieri di pioggia per sola buonasera.

Ma stavamo parlando di Bob Dylan. Del suo modo di scrivere e dell’enorme influenza che ha avuto sulla cultura popolare americana, musicale e non. In realtà, il profilo poetico di Dylan corrisponde in modo più che trasparente ai modelli statutari del Nobel, tant’è che il suo nome girava da un pezzo da quelle parti: conflitto interiore tra idealismo e nichilismo, anelito libertario, furore sociale e politico... Vero è che Bob ha sempre negato di voler trasmettere messaggi attraverso le sue canzoni, ma è vero fino a un certo punto: Blowin’ in the Windè fin troppo esplicita in quel senso, e ancora di più lo è Hurricane, tanto per citare qualche titolo a caso.

Bob Dylan fotografato da Elliott Landy per la copertina dell’album Nashville Skyline, 1968. 
© Elliott Landy/Magnum Photos.

18 carichi di dylanite.

Blowin’ in the Wind, 1962.

Dylan non ha mai amato parlare delle sue canzoni: ciò che hanno da dire lo dicono da sole, ha sempre sostenuto. Vero. Ma investigare un poco sui primi passi di Blowin’ in the Windaiuta a percepire il clima che doveva respirarsi, in quegli anni, nei ritrovi del Greenwich Village newyorkese, diventato il quartier generale dei folksinger d’America. Diverse fonti concordano sulla data di nascita della canzone: 16 aprile 1962. L’ispirazione arriva al Commons, un caffè di MacDougal Street a due passi dal Gaslight, folk club tra i più vivaci del quartiere. Secondo Anthony Scaduto, uno dei biografi di Dylan, è in corso una discussione sui diritti civili e sulle promesse non mantenute fatte dall’America. Poi la discussione si arena, «e tutti rimasero a contemplare i loro boccali di birra. A Dylan venne un’idea: “il tuo silenzio ti tradisce.” Prese degli appunti e, finito di bere, corse a casa a scrivere.»[1]

Altri sostengono che Dylan scrisse il testo seduta stante, senza muoversi dal Commons, alla presenza di un solo amico. Poco importa. Più interessante invece la genesi della melodia, ripresa più o meno di sana pianta (com’era uso comune tra i folksinger) da materiale preesistente. In particolare da No More Auction Block, canzone libertaria incisa da Odetta nel 1960 (dal vivo alla Carnegie Hall), a sua volta derivata da uno spiritual del 1833, Many Thousands Gone, originario del Canada. No More Auction Block sta per «mai più piedistallo per l’asta» e si riferisce ai blocchi di cemento sui quali i mercanti di schiavi esponevano i negri in vendita. Forse Dylan conosceva il disco di Odetta; certo ebbe modo di ascoltare quella canzone nello stesso Village, da Delores Dixon e i New World Singers.

Chi erano i New World Singers? Gli stessi che avrebbero non solo presentato in pubblico per la prima volta, ma anche inciso per primi, Blowin’ in the Wind: Gil Turner, Bob Cohen, Delores Dixon e Happy Traum. Turner era più che un cantante. Era uno dei leader in quell’ambiente. Aveva avuto l’idea di fondare una rivistina, Broadside, per raccogliere testi folk di nuovi autori. Con i compagni del quartetto si esibiva abitualmente al Gerde’s Folk City, e da quei microfoni aveva esortato il popolo del Village a scriversi da sé le proprie canzoni. Bob Dylan andò al Gerde’s la sera stessa del 16 aprile, poche ore dopo aver scritto di getto (pare in dieci minuti) Blowin’ in the Wind. Durante una pausa dello show, la fece ascoltare a Gil Turner. Questi non solo apprezzò il motivo, ma invitò Dylan a unire la propria voce a quelle dei New World Singers per una esecuzione istantanea. La canzone fu battezzata al microfono subito dopo, con le parole – non ancora memorizzate – lette in diretta su un foglietto di carta.

Gil Turner e compagni incisero quell’anno, per la Smithsonian Folkways, diverse ballate pubblicate sul Broadside, tra cui Blowin’ in the Wind. Precedettero così Peter, Paul & Mary (1963), artefici di un clamoroso successo commerciale, e lo stesso Dylan, la cui interpretazione – voce, chitarra, armonica a bocca – si ascolta in The Freewheelin’ Bob Dylan, l’album prodotto da John Hammond. Nel 1963 escono anche la versione del Chad Miller Trio e quella, insolita e meravigliosa, di Marlene Dietrich in tedesco per la EMI Electrola, con testo di Hans Bradtke (Die Antwort weiss ganz allein der Wind) e arrangiamento di Burt Bacharach.

Che si potesse scrivere un inno così epocale in un caffè, chiacchierando con gli amici in un’ora morta del pomeriggio, per poi andarsela subito a giocare in un altro caffè dove si fa musica ogni sera, la dice lunga sull’America dei primi anni sessanta. E su New York. E su Dylan, uno dei tanti ragazzi spettinati che se ne vanno in giro con la chitarra in spalla e i calzoni sdruciti da un posto all’altro del Village.

Il folk era ovunque. Ci avevano impegnato una vita i due Lomax, padre e figlio, a battere le campagne e le prigioni a caccia di motivi popolari da collezionare e rimettere in circolo. Dove battevi, trovavi. Spiritual, gospel, blues, inni sacri e ballate profane provenienti dall’Inghilterra, dalla Scozia, dall’Irlanda, più volte riciclati da oscuri montanari, da contadini delle colline, da cowboys. Inni della guerra civile. Canti di lavoro di ferrovieri e minatori. E altri inventati di sana pianta da vagabondi, fuorilegge, o da nomadi solitari e dissenzienti come Woody Guthrie. Negli anni cinquanta c’erano stati gli Almanac Singers e gli Weavers – Pete Seeger e compagni – e tipi come loro, ragazzacci che non piacevano al senatore McCarthy e che ebbero il loro bravo filo da torcere. Gli Weavers, un po’ come i Lomax, amavano rovistare dappertutto, anche nel folklore esotico (furono loro a importare dal Sudafrica Mbube, ovvero Wimoweh, ovvero The Lion Sleeps Tonight). E poi c’era Harry Belafonte, gran detective e divulgatore della musica delle Antille.

Il boom del folk, negli anni cinquanta e sessanta, era inscindibile dalla protesta. Le canzoni erano frecce puntate contro l’establishment. Contro i padroni, i colonizzatori, i razzisti, i guerrafondai. Lo sfascio nel Vietnam produsse, oltre che un numero spaventoso di vittime, anche una notevole effervescenza musicale. Canzoni come Blowin’ in the Wind portavano già, tra le righe, il germe del Sessantotto. Ma erano talvolta permeate anche da un’aura di religiosità – se non altro per l’origine melodica. Come We Shall Overcome, rielaborata da un vecchio canto liturgico.

Chi può dire di non aver cantato Blowin’ in the Wind, da solo o in coro, almeno una volta? Questa è stata ed è davvero una canzone di tutti: persino di Papa Wojtyla, nel 1997, quando un Dylan precocemente invecchiato e visibilmente stanco delle many roads attraversate nella sua vita si esibisce in un concerto per il Pontefice.

How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
Yes, ’n how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, ’n how many times must the cannonballs fly
Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind,
The answer is blowin’ in the wind.


Quante strade deve girare un uomo
prima di potersi dire uomo?
Già, e quanti mari deve sorvolare una colomba
prima di riposare sulla sabbia?
Sì, e quante volte devono volare le palle dei mortai
prima di essere bandite una volta per tutte?
La risposta, amico, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.

Il 27 settembre 1997, trentacinque anni dopo la nascita di Blowin’ in the Wind, Dylan ricanta il suo inno a Bologna, al megaconcerto rock in mondovisione organizzato per il 23° Congresso Eucaristico. In Piazza Maggiore, sotto il palco eretto davanti alla basilica di San Petronio, ci sono trecentomila ragazzi. Si avvicendano le star: Adriano Celentano con Pregherò, cover italiana di Stand by Me, e Lucio Dalla, Gianni Morandi, Andrea Bocelli. Dylan appare sul tardi con un cappello bianco da cowboy e quel genere di stanchezza che fa invecchiare anzitempo tutti quelli che nel vento non trovano mai risposte soddisfacenti alla propria inquietudine. Giovanni Paolo II dichiara: «Un vostro rappresentante ha detto che la risposta alle domande della vostra vita sta soffiando nel vento. È vero. Però non nel vento che tutto disperde nei vortici del nulla, ma nel vento che è soffio e voce dello Spirito, voce che chiama e dice vieni. Mi avete chiesto quante strade deve percorrere un uomo per potersi riconoscere uomo. Vi rispondo: una. Una sola è la strada dell’uomo, e questa strada è Cristo, che ha detto “Io sono la via.” Egli è la strada della verità, la via della vita.»

Per chi non si aspettava questo tête-à-tête fra la chiesa cattolica e la grinta trasgressiva del rock, non poteva esserci incontro più emblematico. Dylan, ebreo errante e vecchio ribelle radicale, passato attraverso tante disillusioni e tante svolte, da anni cerca le sue risposte anche nella religione.

28 agosto 1963. Bob Dylan (al centro) e Peter Yarrow (a destra), attivista e cantante del trio Peter, Paul and Mary, alla grande marcia su Washington per i diritti civili degli afroamericani. All’apice della manifestazione Martin Luther King pronunciò il famoso discorso I have a dream. © Danny Lyon/Magnum Photos.

Don’t Think Twice, It’s All Right, 1963.

(Non pensarci due volte, va bene così). La melodia deriva da quella di una folk song dei monti Appalachi, Scarlet Ribbons for Her Hair, da cui Paul Clayton, un amico di Dylan, aveva già tratto una canzone, Who’ll Buy You Ribbons When I’m Gone (Chi ti comprerà i nastri quando me ne sarò andato). Di Clayton, Howard Sounes scrive (a proposito di un viaggio di Bob Dylan, Clayton e altri due compagni in California per una tournée del 1964): «[...] gli amici ritenevano che Paul fosse innamorato di Bob. Clayton faceva uso smodato di droga, e aveva una preferenza per le amfetamine. Parte del suo bagaglio era composto da una valigetta che una volta aperta rivelava un vasto spiegamento di pasticche. “Era una farmacia ambulante” dice scherzando Karman (Pete Karman, un altro dei compagni di viaggio, ndr).»[2]

Ispirata, come Tomorrow Is a Long Time, dal tramonto di una lunga relazione con Suze Rotolo, Don’t Think Twice è imperniata su uno dei temi più frequenti nella storia della canzone popolare: la separazione. Due amanti si lasciano, uno dei due canta la sua pena: niente di nuovo sotto il sole. Eppure Dylan riesce a essere nuovo e bruciante, come se il suo fosse il primo addio che l’uomo abbia mai osato rivestire con i versi e le note di una canzone. Usa parole di ogni giorno, semplici e strazianti, un po’ come in Italia Luigi Tenco, per abolire ogni sentore di retorica: i tempi stanno cambiando, come lo stesso Dylan presto prometterà e minaccerà in una canzone-manifesto, ed è giunto il momento di cambiare anche il modo di affrontare i propri e gli altrui sentimenti. Non più trucchi e bugie: solo la verità, per quanto scomoda o spietata possa suonare.

Non serve a niente startene seduta
a chiederti perché
se non l’hai capito finora;
non serve a niente startene seduta
a chiederti perché
tanto non servirà a niente lo stesso.
Quando canterà il gallo
e ricomincerà il giorno
guarda dalla finestra:
io non ci sarò più
e sei tu il motivo
per cui devo andarmene.
Ma smettila di pensarci,
va bene così.
(...)
Non serve a niente
accendere la luce,
quella luce
non ho mai saputo cosa fosse.
Non serve a niente
accendere la luce,
sono sul lato oscuro
della strada...

In realtà il testo sembra reggersi su un’inversione di soggetto: è Suze (Susan Rotolo, la ragazza con cui l’artista appare sulla copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan) che se n’è andata per sempre, in Italia; mentre chi sta seduto a chiedersi perché è lui, un Dylan disperato più che mai. Si potrebbe forse con gli ultimi due versi, I’m on the dark side / of the road, riassumere l’intera biografia interiore di un ricercatore complesso, mutevole, pronto a ferire ma al tempo stesso vulnerabile; un uomo che ha saputo cantare il proprio malcontento e le proprie lacerazioni come se appartenessero non solo a lui, ma al mondo intero.

New York, febbraio 1963. La foto di copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan fu scattata da Don Hunstein all’angolo tra Jones Street e la West 4th Street nel Greenwich Village. Dylan, 22 anni, è con la sua compagna di allora, Suze Rotolo. 

A Hard Rain’s a-Gonna Fall, 1963.

(Sta per cadere una pioggia dura. Dall’album The Freewheelin’ Bob Dylan. Incisa lo stesso anno anche da Pete Seeger. Il testo contiene riferimenti (più stilistici che sostanziali) al poemetto Howl di Allen Ginsberg e a una vecchia canzone per bambini, Lord Randal.

Da più parti si sostiene che A Hard Rain’s a-Gonna Fall sia stata ispirata dal momento più teso delle relazioni USA-URSS, allorché la guerra fredda rischia di diventare bollente. Nel 1961, il presidente John Fitzgerald Kennedy tenta di rovesciare a Cuba il governo comunista di Fidel Castro. Autorizza i servizi segreti a organizzare una spedizione militare di 1400 esuli cubani opportunamente addestrati ed equipaggiati; il 17 aprile gli assalitori vengono annientati mentre tentano lo sbarco sulla Playa Girón, nella baia dei Porci. Nell’autunno del 1962 si apre la “crisi dei missili”. Gli Stati Uniti denunciano la presenza nell’isola di missili strategici e aerei da bombardamento sovietici e presidiano le acque cubane per bloccarne la fornitura e imporne il ritiro. L’allarme è altissimo; il braccio di ferro tra le due potenze tiene il mondo col fiato sospeso. L’Unione Sovietica si rassegna infine a ritirare i missili per evitare una terza guerra mondiale.

Dylan, sempre piuttosto restio a svelare i meccanismi che originano le sue creazioni, non conferma né smentisce: «Tutto ciò che ricordo di quella crisi è che ogni giorno la radio diffondeva comunicati, e la gente, nei bar e nei locali, la stava ad ascoltare, e la cosa più spaventosa era che intere città, come Houston e Atlanta, avrebbero dovuto essere evacuate. Era piuttosto pesante. In realtà non è importante da dove viene una canzone. L’unica cosa importante è dove ti porta.»[3]

Ho inciampato sul fianco
di dodici montagne nebbiose,
ho camminato
e strisciato su sei strade tortuose,
ho camminato
nel mezzo di sette tristi foreste,
sono stato di fronte
a dodici oceani morti...
E una pioggia dura cadrà.

Si può leggere come profezia apocalittica: una pioggia di bombe all’idrogeno, l’America (o il mondo intero) trasformati in un gigantesco fungo di Hiroshima, il risultato finale dell’insensatezza umana, il castigo che si preannuncia – biblicamente, cabalisticamente – nel diabolico esoterismo dei numeri. O un tributo a quella poesia visionaria, rombante e messianica che ricollega Walt Whitman (1819-1892) alla beat generation di un secolo dopo, soprattutto ad Allen Ginsberg (1926-1997).

Masters of War, 1963.

(I padroni della guerra). Incisa dall’autore (e prodotta da John Hammond) con l’album The Freewheelin’ Bob Dylan. Melodia ripresa da una vecchia ballata scozzese, a sua volta ispiratrice – negli anni cinquanta – di Fair Nottamun Town di Jean Ritchie.

Una delle più veementi invettive mai scritte dai tempi di Cecco Angiolieri («S’i’ fosse foco, ardereï ’l mondo; / s’i’ fosse vento, lo tempesterei; / s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; / s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo...»). Niente a che fare, naturalmente, con la comica truculenza di Cecco: qui siamo alla lacerazione ulcerante, alla bile, al j’accuse guerrigliero e definitivo:

Come you masters of war
You that build all the guns
You that build the death planes
You that build the big bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks.
(...)
And I hope that you die
And your death’ll come soon
I will follow your casket
In the pale afternoon
And I’ll watch while you’re lowered
Down to your deathbed
And I’ll stand over your grave
’Til I’m sure that you’re dead.

Fatevi sotto, padroni della guerra
voi che fabbricate cannoni
voi che fabbricate aeroplani di morte
voi che costruite grosse bombe
voi che vi nascondete dietro i muri
voi che vi nascondete dietro le scrivanie
voglio solo farvi sapere
che vedo chi siete anche attraverso le maschere.
(...)
E spero di vedervi morire
e che la morte venga presto
verrò appresso alle vostre bare
nel pallore pomeridiano
e starò a guardarvi mentre vi calano
giù nella fossa
e veglierò sulla vostra tomba
finché sarò certo che siete morti.

Talkin’ John Birch Paranoid Blues, 1963.

(Blues parlato sulle paranoie della John Birch Society). Probabilmente la canzone di Dylan più boicottata di tutte. Registrata nel 1963 per The Freewheelin’ Bob Dylan, fu eliminata dall’album quando si era già in fase di stampa. Invitato a partecipare all’Ed Sullivan Show, passaggio televisivo ambitissimo ed estremamente proficuo, dal punto di vista promozionale, per le star in carriera, il giovane folksinger vi rinunciò orgogliosamente quando i responsabili del programma gli impedirono di eseguire Talkin’ John Birch Paranoid Blues. Tranne che nei concerti dal vivo, il brano continuò a essere oscurato fino al 1991, quando un’esecuzione del 26 ottobre alla Carnegie Hall comparve nel primo volume dei bootleg dedicati a Bob Dylan dalla sua casa discografica, la Columbia. Nel sesto volume della serie, uscito solo nel 2004, se ne può ascoltare una versione del 1964, registrata durante uno straordinario concerto alla Philharmonic Hall di New York.

Fondata nel 1958, la John Birch Society (JBS) è un’associazione politica statunitense ultraconservatrice, che propugna ideali discriminatori e spesso di estrema destra quali il razzismo, l’antisemitismo, l’omofobia e l’anticomunismo. Nella canzone, Dylan finge di essere un anticomunista paranoico e viscerale come il De Niro Taxi Driver di tredici anni dopo. Si iscrive alla JBS perché:

Now we all agree with Hitlers’ views
Although he killed six million Jews...

«Adesso condividiamo tutti le idee di Hitler / anche se ha ammazzato sei milioni di ebrei».


The Times They Are a-Changin’, 1963.

(I tempi stanno cambiando). Lanciata dall’autore nel 1964 con l’album dallo stesso titolo. La canzone si ispira alla ballata The 51st (Highland) Division’s Farewell to Sicilydel poeta e folksinger scozzese Hamish Henderson, dedicata ai soldati che tornavano dall’Italia alla fine della seconda guerra mondiale.

«I tempi stanno cambiando»: il Dylan libertario lancia il suo monito e la sua maledizione ai potenti e ai reazionari di ogni ordine e grado. Scaglia i suoi versi come sassi per colpire non solo il potere ufficiale — senators e congressmen— ma anche chi lo asseconda servilmente, a cominciare da certi intellettuali:

Come writers and critics
Who prophecie with your pen
And keep your eyes wide
The chance won’t come again
And don’t speak too soon
for the wheel’s still in spin
And there’s no telling who
That it’s naming
for the loser now
Will be later to win
for the times they are a-changin’…

Fatevi avanti scrittori e critici
che usate la penna per sentenziare
e aprite bene gli occhi
non ci sarà nessun’altra occasione
e aspettate prima di aprire bocca
perché la ruota sta ancora girando
e non si può ancora dire
a chi toccherà
perché chi perde adesso
domani vincerà
perché i tempi stanno cambiando.

L’America dei perdenti e degli incompresi è in ebollizione, i giovani e gli emarginati alzano la testa. Dylan annuncia al nemico che le acque intorno a lui sono salite, non c’è più via di scampo, presto chi se ne stava comodamente in poltrona a dettar legge sarà inzuppato fino all’osso:

Se il tempo per voi
ha qualche valore
allora è meglio che cominciate già a nuotare
altrimenti andrete a fondo come pietre
perché i tempi stanno cambiando.

Ce n’è per tutti: dopo l’anatema agli odiati oppressori, Dylan si rivolge agli adulti in generale, ai padri e alle madri che non sanno capire i figli e i nuovi fermenti: si facciano da parte, lascino spazio alla nuova generazione, il loro modo di vedere la vita sta rapidamente tramontando. Nessun altro musicista prima di Dylan, neanche il suo maestro Woody Guthrie, era riuscito a mobilitare con una voce e una chitarra tanto dissenso e tante speranze. Nessun altro — né i Beatles né i Rolling Stones — ha saputo interagire in modo altrettanto diretto con le mozioni e le emozioni più intense del momento.

Intanto il 22 novembre 1963, a Dallas, un cecchino appostato a una finestra del quarto piano di un vecchio deposito spara tre colpi di fucile sul corteo presidenziale. Uno colpisce alla testa il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy: muore nel giro di mezz’ora. Un altro ferisce il governatore del Texas, Connally, che viaggiava nella stessa auto. Uccisi anche due uomini della scorta. I tempi stanno cambiando, ma non si capisce quale direzione abbiano preso.

All I Really Want to Do, 1964.


(Tutto ciò che davvero voglio fare). Dall’album Another Side of Bob Dylan (voce, chitarra acustica e armonica a bocca, senza accompagnatori), prodotto da Tom Wilson per la Columbia. Ripresa nel 1965 in decine di cover, tra cui primeggiano subito quelle dei Byrds e di Cher.


Un Dylan giovanissimo ma già con le idee chiare, determinato a seminare massicce dosi di sensibilità contemporanea – e talvolta intel­lettuale – nel solco di una tradizione folk spontanea e ruspante. La mu­sica non pretende nient’altro che adeguarsi alle cantilene e filastrocche più fanciullesche, ma quella voce nasale e sgraziata è già ironia, e i versi la dicono lunga su come dovrebbero essere i rapporti umani; un inno alla tolleranza di coppia e universale, non si sa quanto sincera o sfottente. «Non ho nessuna voglia di mettermi in competizione con te, né di maltrattarti, giudicarti, etichettarti, crocifiggerti, impormi su di te, frustrarti, analizzarti, sfruttarti, darti addosso, controllarti, sottometterti, fregarti; tutto quello che voglio è esserti amico»: questo il senso della tiritera, nella quale alcuni hanno voluto cogliere un punto di vista – tra l’accondiscendente e il polemico – sul movimento di liberazione fem­minile. L’armonica a bocca contribuisce non poco al sapore della can­zone, conferendole quel tanto di crepuscolare e campestre proprio della semplicità dei canti popolari; ma allo stesso tempo, con i suoi interventi di raccordo tra una stanza e l’altra, sembra commentare i versi in modo irriverente e beffardo.

Nella loro versione, un po’ country e un po’ Beatles, i Byrds roc­keggiano come Dylan ancora non fa, privilegiando la parte musicale rispetto alle parole.

Mr. Tambourine Man, 1964.

(Signor Tamburino). Dylan la eseguì dal vivo per sette mesi, da solo e in coppia con Ramblin’ Jack Elliott, prima di inciderla. La prima registra­zione – dei Brothers Four (Columbia), ov­vero Bob Flick, Dick Foley, Mike Kirkland e John Paine, quartetto vocale e strumentale folk – rimase a lungo inedita per questioni legali. Dal 1965 esplode una discografia sterminata, a partire dalle incisioni leggen­darie dello stesso Dylan e dei Byrds.

Mr. Tambourinemobilita gli adepti del folk che girano fra un covo e l’altro del Village, ma anche jazzisti come Mulligan e soul singers come Stevie Wonder. Ed è il biglietto d’ingresso nell’olimpo della fama per i Byrds, il cui 45 giri d’esordio (Colum­bia) incrocia il folk e il rock in modo così esemplare da diventare un punto di riferi­mento nella storia dei due generi («The first folk-rock song», secondo la definizione co­mune). Una fusione inedita fra il linguaggio di Woody Guthrie ripreso e aggiornato da Dylan, il vocalismo degli Everly Brothers e le sonorità di gruppi di tendenza come i Beach Boys e i Beatles. Per ironia della sorte, l’unico Byrd che suoni effettivamente nello storico disco è Roger McGuinn con la sua chitarra a dodici corde (una Rickenbac­ker), mentre i compagni Gene Clark e David Crosby – quest’ultimo quasi inudibile – si limitano a cantare le armonie.

Hey Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I’m not sleepy and there is no place I’m going to.
Hey Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I’ll come followin’ you.
(...) Then take me disappearin’
Through the smoke rings of my mind.
Down the foggy ruins of time, far past the frozen leaves,
The haunted, frightened trees, out to the windy beach,
Far from the twisted reach of crazy sor­row.
Yes, to dance beneath the diamond sky with one hand waving free,
Silhouetted by the sea, circled by the cir­cus sands,
With all memory and fate driven deep beneath the waves,
Let me forget about today until tomor­row…

Ehi, Mr. Tambourine, suonami una can­zone,
non ho voglia di dormire né un posto dove andare.
Ehi, Mr. Tambourine, suo­nami una canzone,
nello sberluccichìo del mattino ti seguirò.
(...)
E poi fammi spa­rire
tra gli anelli di fumo della mente.
Giù tra le rovine annebbiate del tempo, lontano dalle foglie ghiacciate,
via dagli alberi at­territi e stregati, verso una spiaggia al vento,
lontano dalle contorsioni e dall’insensatezza del rimpianto,
sì, danzare sotto un cielo di diamanti con una mano che fluttua libera nell’aria,
in controluce al mare, nel cerchio di sabbia di un circo,
con tutti i ricordi e il destino annegati fra le onde,
fammi dimenticare questo giorno fino a domani.

Uno dei testi più visionari di Dylan, che fa pensare al mondo poetico di Fellini con quelle stravaganze tristi di un circo sulla spiaggia solitaria. È opinione comune che questo viaggio immaginario sia il trip d’uno sballato, e che il signor Tamburino sia l’illustrazione di una marca di caramelle le cui cartine venivano occasionalmente rici­clate per avvolgervi sostanze stupefacenti. Secondo Dylan a ispirare il personaggio di Mr. Tambourine sarebbe stato invece il chi­tarrista Bruce Langhorne, presentatosi una volta in uno studio di registrazione con un grosso tamburo. Per inciso, è proprio Lang­horne a fornire l’accompagnamento di chi­tarra elettrica in Mr. Tambourine Man; fra gli altri collaboratori, il bassista John Sebas­tian e il batterista Bobby Gregg.

Quali che siano i retroscena, Mr. Tam­bourine Man rimane fra le espressioni più creative ed emozionanti non solo di Dylan ma di un’epoca intera. La melodia si fa strada fra i resti malinconici e straziati di un’allegria effimera, clownesca; è una can­zone fatta di stracci colorati, spiagge deserte e ventose, cieli plumbei, gelidi crepuscoli e, soprattutto, di disperato vitalismo giovanile. Notevole la versione giamaicana di Gregory Isaacs a tempo di reggae (2004), permeata di spiritualismo rasta.


Desolation Row, 1965.

(Vicolo della Desolazione), da Highway 61 Revisited, album fra i più memorabili di Dylan, prodotto da Bob Johnston. Ospite, da Nashville, il chitarrista Charlie McCoy. Versione italiana: Via della Povertà, testo di Francesco De Gregori per Fabrizio De André (1974).

Il Vicolo della Desolazione, agghiacciante allegoria d’un mondo in disfacimento, fa pensare — più che a Fellini, come è stato talora indicato — alle visioni affollate e infernali di uno Hyeronimus Bosch resuscitato, quattro secoli dopo, in un’America metropolitana e teatrale, vista attraverso uno specchio deformante. Spira aria da giudizio universale fin dai primi versi:

They’re selling postcards of the hanging
They’re painting the passports brown
The beauty parlour is filled with sailors
The circus is in town...

Vendono cartoline illustrate dell’impiccagione
dipingono i passaporti di marrone
il salone di bellezza è pieno di marinai
il circo è arrivato in città...

Mercanti di morte, burocrati kafkiani, marinai alla Jean Genet aprono una interminabile e delirante sfilata di clown, una umanità caricaturale che si muove su un pianeta grottesco. Poliziotti ciechi, funamboli ubriachi, Romeo portato via da un’autoambulanza, donne che passano la vita a ripassare i pavimenti come la Cenerentola dei cartoon, incursioni nella Bibbia con Caino, Abele e il buon samaritano, il gobbo di Notre-Dame che fa l’amore e aspetta la pioggia, l’Ofelia shakespeariana ridotta a una vecchia zitella che scruta la vita nel vicolo, Einstein travestito da Robin Hood che scrocca sigarette e va annusando scoli di acqua fetida accompagnato da un monaco geloso. E poi c’è Doctor Filth, «dottor Schifezza», che «tiene il suo mondo in una tazza di cuoio» ed è probabilmente la caricatura di uno strizzacervelli. E il fantasma dell’opera travestito da prete che si prepara ad «avvelenare Casanova di parole». E ci sono anche Ezra Pound e T.S. Eliot che «lottano nella torre di comando mentre cantanti di calypso ridono di loro».

È difficile districarsi in questa ermetica foresta di personaggi e allusioni; ma forse una mezza soluzione del rompicapo la fornisce Dylan stesso nell’ultima strofa, quando dice:

Tutta questa gente di cui parli
la conosco, è gente abbastanza comune.
Ho dovuto alterarne le facce
e cambiargli nome...

Come Cecco Angiolieri, Dylan se la prende con tutti quelli che disapprova, e sono tanti, usando spesso le canzoni come armi da fuoco. Non a caso il suo grande maestro, Woody Guthrie, portava scritto sulla chitarra il motto: «Questa è una macchina ammazzafascisti».


It’s All Over Now, Baby Blue, 1965.

(Adesso è tutto finito, Baby Blue), dall’album Bringing It All Back Home. Testo fra i più struggenti e sconsolati di un autore che non ha mai scherzato. Chi è Baby Blue? Dylan dice di essersi ispirato a una vecchia Baby Blue di Gene Vincent, il famoso rocker degli anni cinquanta. Ma è solo la superficie. I dylanologi sostengono che Baby Blue sia in realtà Joan Baez, che molto contribuì a far conoscere l’artista e che intrattenne con lui una intensa relazione sentimentale.

Adesso devi andare,
prendi quello che ti serve e che pensi durerà;
ma se c’è qualcosa che vuoi tenerti
è meglio che l’afferri subito.
Fuori c’è il tuo orfano con il suo fucile
che piange come una fiamma al sole.
Guarda, stanno arrivando i santi
e adesso è tutto finito, Baby Blue.
La strada è degli avventurieri,
cerca di usare prudenza.
Porta con te ciò che hai messo insieme per caso;
il pittore squattrinato che ti fa compagnia
riempie le tue pagine di strambi disegni;
persino il cielo si va piegando sotto di te
ed è tutto finito adesso, Baby Blue.
(...)
Il vagabondo che bussa alla tua porta
indossa gli abiti che una volta portavi tu.
Accendi un altro fiammifero, riparti da zero,
è tutto finito adesso, Baby Blue.

Dietro queste e altre visioni ci sono i poeti della beat generation, a cominciare da Allen Ginsberg con cui Dylan allacciò rapporti di amicizia e che cercò di fargli condividere il pensiero zen.

Fra le cover più interessanti di It’s All OverNow si segnalano quelle della stessa Baez e dei Byrds. La più stravagante è del francese Pascal Comelade, inventore di una surreale Bel Canto Orquestra a base di strumenti-giocattolo. Il motivo di Dylan è trattato a tempo di valzer e ricorda atmosfere da circo. In un disco precedente, Comelade aveva già “revisionato” Like a Rolling Stone. Nel 1993 ha minacciato di registrare l’integrale di Dylan a tempo di valzer.

Like a Rolling Stone, 1965.

(Come pietra che rotola), uscita con un 45 giri prodotto da Tom Wilson e quindi con l’album Highway 61 Revisited. Inondazione di cover: nel solo 1965 Billy Strange, Glen Campbell, The Gene Norman Group, The Jerry Murad’s Harmonicats, The Surfaris, The Turtles, Billy Lee Riley, The Four Seasons e tanti altri.

Una svolta nella carriera di Dylan (dal folk al rock elettrico) e nell’evoluzione dello stesso rock and roll, che si apre ai grandi temi sociali ed esistenziali. In Like a Rolling Stone tutto è amaro e al tempo stesso travolgente: dai versi di Dylan alla chitarra di Mike Bloomfield, dall’organo Hammond di Al Kooper alla batteria di Bobby Gregg, dal pianoforte di Paul Griffin al basso di Russ Savakus. Scrive Anthony Scaduto: «Quanto [Dylan] fosse cambiato si vide la sera della domenica 25 luglio [1965], al Newport Folk Festival. [...] Quando lo si vide arrivare correndo sul palcoscenico non ci fu più alcun dubbio che si trattava di un nuovo Bob Dylan. Via gli stivali, i jeans e le camicie da lavoro. Ogni volta che Dylan assumeva una nuova identità, cambiava dentro e fuori; il fuori, adesso, era l’espressione delle cose viste in Inghilterra: ragazzi che esprimevano il loro odio per l’autorità e la loro gioia di vivere vestendo abiti folli, assurdi. Dylan era tornato da Londra con un guardaroba completo da mod; sul palcoscenico di Newport apparve con una giacca di cuoio nero, pantaloni neri, camicia bianca e stivali neri a punta con dei tacchi altissimi alla Chelsea. Impugnava una chitarra elettrica a struttura compatta. La platea rimase stupefatta, immobile, mentre qualcuno collegava con un cavo elettrico la sua chitarra agli amplificatori...».[4]

Su quel concerto sono fiorite leggende a non finire: imprecazioni e fischi del pubblico su Like a Rolling Stone, una voce che gli urla «Tornatene all’Ed Sullivan Show!», Alan Lomax che minaccia di troncare con l’ascia i cavi elettrici, Dylan che abbandona lo stage a testa bassa fra risate di scherno, Pete Seeger in lacrime per l’affronto traditore alla sacra purezza del folk. Molte cronache giornalistiche del tempo, esageratamente colorite, sono state successivamente ridimensionate dalle testimonianze di chi c’era; ma un po’ di choc quella performance dovette provocarlo, dato che per i fedeli del folk il fragore delle chitarre elettriche era sintomo inequivocabile di cedimento al registratore di cassa, e quindi politicamente reazionario. E si riferisce di una analoga contestazione il 17 maggio 1966 alla Free Trade Hall di Manchester, in Inghilterra: un integralista del folk gli urla «Giuda!» quando Dylan si presenta sul palco con The Band, il gruppo di Robbie Robertson, e lui gli risponde con una dura versione di Like a Rolling Stone dopo aver incitato i musicisti a «suonare fortissimo, cazzo.»[5]

La «pietra che rotola» è insomma la pietra dello scandalo per i cultori del Dylan prima maniera, artista alternativo ma solidamente ancorato alla tradizione folk, e in particolare — come egli stesso ha più volte pubblicamente riconosciuto — alla poetica di Woody Guthrie. Lo scandalo è nella forma (il look esteriore, la conversione al rock elettrico) e nella sostanza: il nichilismo di Like a Rolling Stoneè in effetti talmente feroce da non lasciare spazio alcuno ai sentimenti edificanti, né borghesi né di sinistra:

Once upon a time you dressed so fine
You threw the bums a dime in your prime, didn’t you?
People’d call, say, “Beware doll, you’re bound to fall”
You thought they were all kiddin’ you
You used to laugh about
Everybody that was hangin’ out
Now you don’t talk so loud
Now you don’t seem so proud
About having to be scrounging for your next meal.
How does it feel
How does it feel
To be on your own
With no direction home
Like a complete unknown
Like a rolling stone?...

Una volta andavi vestita di fino,
eri ancora una ragazzina e gettavi monetine ai barboni, eh?
E la gente si voltava come per dirti “Bambola, occhio a non cadere”.
Tu pensavi che scherzassero
e guardavi dall’alto in basso
chiunque non avesse un punto d’appoggio.
Adesso non la meni più come allora,
adesso non sembri tanto fiera
di doverti sbattere per trovare da mangiare.
Che effetto fa,
che effetto fa
arrangiarti da sola
senza una casa dove andare,
come una perfetta nullità,
come una pietra che rotola?

L’oggetto delle rime vendicative è probabilmente una donna che lo ha deluso; ma la voce strascicata di Dylan e la valanga desolata dei suoni che l’accompagnano — l’organo, in particolare, con solennità ecclesiale da memento mori— sembrano “rotolare” come macigni per una scarpata senza fine; e nella frana non vediamo precipitare solo la complete unknown, la perfetta sconosciuta, la Miss Nessuno di cui poco ci preme, ma tutte le convinzioni e illusioni dell’universo, come se a lagnarsi e ad autoflagellarsi fosse la nostra coscienza.

La grandezza di Dylan è pari alla dimensione del suo furore e alla profondità dell’invettiva; le sue ballate più riuscite, e sono tante, scavano come lame roventi nella pelle di chi le raccoglie. Rotolano a fondovalle le convenzioni, le apparenze, le ipocrisie: la musica di consumo sembra rinunciare alla sua funzione consolatoria. Il rock si fa ansiogeno, suggerisce rifondazioni etiche, ci chiama in causa. Like a Rolling Stone va ben oltre Blowin’ in the Wind: non propone messaggi, non è un inno di pace né di speranza; è il ruggito solitario di chi osserva, con rancore e disgusto, un mondo che si sgretola. Al racconto e alle implicazioni storiche e culturali di questa sola canzone, descritta da Dylan come «un pezzo di vomito lungo circa venti pagine, dal quale uscì fuori un singolo», è dedicato un intero libro di Greil Marcus, intitolato ovviamente Like a Rolling Stone e pubblicato anche in Italia (Donzelli).

Nel novembre 2004, un sondaggio promosso dalla rivista americana Rolling Stone indica in Like a Rolling Stone la canzone più grande di tutti i tempi. Seguono – nell’ordine — Satisfaction (The Rolling Stones), Imagine (John Lennon), What’s Going on (Marvin Gaye), Respect (nella versione di Aretha Franklin), Good Vibrations(The Beach Boys), Johnny B. Goode(Chuck Berry), Hey Jude (The Beatles), Smells Like Teen Spirit(Nirvana), What’d I Say (Ray Charles).

I Want You, 1966.

(Ti voglio), lanciata prima con un 45 giri, poi con Blonde on Blonde, doppio album di canzoni indelebili prodotto da Bob Johnston per la Columbia. La formazione strumentale comprende il gruppo che accompagna abitualmente Dylan in quel periodo, gli Hawks, più alcuni membri di The Band a cominciare dal leader, il chitarrista Robbie Robertson.

Reduce da un brutto incidente stradale, sempre più aspro e nevrotico, polemico con la stampa e talvolta col suo stesso entourage, immerso nella elaborazione di un romanzo (Tarantula) e di riflessioni filosofiche di stampo orientaleggiante ma arditamente egocentriche, circondato da moltitudini che non riescono a sradicarlo dal suo isolamento intellettuale, l’artista dalle mille contraddizioni scarica le sue tensioni in un crescendo di visionaria creatività. Anche canzoni d’amore come I Want You sono permeate di una visione del mondo che va ben oltre il semplice rapporto a due: ed è una visione dai toni drammaticamente desolati, dove già la musica e la voce, ancor prima delle parole, segnalano l’incombere di una realtà malsana e irrimediabile.

I Want You ti avvolge come un morbo, e nel mezzo dell’ascolto ti senti rapito e a disagio: riaffiorano alla mente i nodi irrisolti dell’esistenza. Il testo è goticheggiante, sopra le righe, da film cimiteriale; un ribollire di post-espressionismo non infrequente nella poetica del rock d’autore (da Dylan ai Doors, fino ai Nirvana):

Il becchino colpevole sospira,
lo spremiaranci solitario grida,
il sassofono d’argento ripete
che dovrei rifiutarti;
le campane incrinate, i corni sbiaditi
mi soffiano in faccia il disprezzo,
ma non sarà così,
non sono nato per perderti:
ti voglio, ti voglio,
ti voglio così tanto,
amore, ti voglio...

Just Like a Woman, 1966.

(Proprio come una donna), dall’album Blonde on Blonde. Con Dylan suonano Wayne Moss, Charlie McCoy, Kenneth Buttrey, Hargus Robbins, Jerry Kennedy, Joe South, Al Kooper, Bill Aikins, Henry Strzelecki e Jaime Robertson.

Spiacque al movimento di liberazione femminile questo ritratto di donna ornata di ribbons e bows, fiocchi e nastrini caduti dai suoi riccioli, che sa fare l’amore e fingere «proprio come una donna» ma scoppia a piangere come una ragazzina. Una donna «come tutte le altre / con il suo profumo, la sua amfetamina e le sue perle.» Una donna incontrata in un bar dove lui è entrato per ripararsi dalla pioggia, e sembra che una pioggia persistente accompagni dall’inizio alla fine questa inquieta storia d’amore.

L’ispiratrice è Edie Sedgwick, modella del giro della Factory di Andy Warhol; il bar è il Kettle of Fish del Greenwich Village; la sua storia con Dylan dura meno di un anno, ed è già finita quando lui, reduce da un matrimonio segreto con un’altra, si mette a scrivere Just Like a Woman in un albergo di Kansas City. Edie (che forse ha ispirato anche il titolo dell’intero album, Blonde on Blonde) morirà nel 1971 per abuso di barbiturici. Come sempre nelle canzoni di Dylan, anche una vicenda privata come questa si trasfigura in lacerante evento universale, toccando da vicino le emozioni di milioni di ascoltatori. Col suo andamento lento e vagamente rockambulo, Just Like a Woman trasmette un senso di inesorabile smarrimento, di desolazione esistenziale: fa balenare lampi di felicità precaria, condannata a estinguersi nel momento stesso in cui si manifesta:

Nessuno sente alcun dolore
stanotte, mentre sto in piedi
sotto la pioggia.
Lo sanno tutti
che la piccola ha un vestito nuovo.
Ma ho appena visto i nastri
e i fiocchi
cadere giù dai suoi capelli...

Superba la coverdi Nina Simone (1987), ricca di vibrazioni oscure: dai meandri della sua gola affiorano suoni oracolari, come se non fossero canzoni quelle che interpreta, ma misteriose profezie per l’aldilà. E tra i mille tributi a Dylan, non si può dimenticare Is It Rolling Bob?, strepitosa antologia in chiave rasta-reggae (2004, Ras Records). Quattordici capolavori dylaniani che sembrano ripensati nella tomba da un altro Bob ugualmente leggendario, Bob Marley, senza perdere i valori originali ma assumendone di nuovi. Just Like a Womanè cantata da Beres Hammond.

Dylan con il figlio Jesse nella sua casa di Byrdcliff, NY, 1968. © Elliott Landy/Magnum Photos.

Rainy Day Women # 12 & 35, 1966.

(Donne n. 12 e n. 35 per giorni di pioggia), 45 giri Columbia prodotto da Bob Johnston; con Dylan suonano il trombonista Wayne Butler, reclutato per l’occasione, mentre Wayne Moss, Charlie McCoy, Kenneth Buttrey, Hargus Robbins, Jerry Kennedy, Joe South, Al Kooper, Bill Aikins, Henry Strzelecki e Jaime Robertson si scambiano i rispettivi strumenti per “fare caciara”, tutti rigorosamente imbottiti di alcool e di erba. Ne risulta una marcetta sgangherata ma geniale, con un titolo senza senso improvvisato da Dylan – subito dopo la registrazione – per rispondere a uno dei compagni curioso di sapere «cosa abbiamo suonato». Il tutto finisce qualche mese più tardi anche in Blonde on Blonde, forse l’album più grande di Dylan.

Everybody must get stoned, il verso che conclude ogni strofa della tiritera (un elenco di tutte le cose che puoi fare o non fare, con l’unico fatale risultato di trovare sempre qualcuno pronto a lapidarti), è la frase da cui parte l’intera ispirazione. Guarda caso, si tratta di una frase a doppio senso; letteralmente vuol dire «ognuno dev’essere preso a pietre», ma in gergo sta per «tutti devono farsi

Copiata di sana pianta da Rainy Day Womenè Pietre, canzone di Ricky Gianco e Gian Pieretti spacciata come inedita al Festival di Sanremo del 1967 nella doppia interpretazione di Gian Pieretti e del francese Antoine.

Absolutely Sweet Marie, 1966.

(Infinitamente dolce Marie). Nostalgie notturne di un detenuto ogni volta che dalla cella sente sferragliare il treno. Da Blonde on Blonde, album talmente ricco di immagina­zione – poetica e musi­cale – da rendere arbitraria qualsiasi gra­duatoria di qualità fra i vari momenti che lo compongono. Certo è difficile scrol­larsi dalla mente il pathos lirico di brani come Just Like a Woman o Vi­sions of Jo­hanna o One of Us Must Know – le parole, l’armonica, l’organo, quella voce sarca­stica e sgraziata che trascina e com­muove proprio attraverso l’esagerazione delle imperfezioni; difficile sorvolare sul blues di Pledging My Time, sul rock melanconico di I Want You, sulla biz­zarra esaltazione alcolica di Rainy Day Wo­men. Non esistono pezzi mi­nori in quella raccolta; non sono minori nemmeno i brani che costringono la memoria a fare, suo malgrado, una sele­zione. Absolu­tely Sweet Marie, per esempio, rimane un po’ in om­bra rispetto ai capola­vori appena citati; fosse stata, però, una creatura altrui anziché di Dylan, sarebbe entrata nella storia del rock come una verti­gine, un sof­fio di grandezza, una pietra mi­liare. Così è di molte canzoni di Bob Dylan, un inesau­ribile campionario di colpi di genio spo­stati un po’ più in là dall’irruenza di altri colpi di genio: frecce che colpiscono tutte il centro del ber­saglio, accalcandosi sullo stesso punto e scavalcandosi a vicenda.

«Dove sei stanotte, Marie?», ripete il menestrello allupato e sconfitto, il poeta-fuorilegge in disgrazia, sognatore più che viaggiatore da carro merci, che proietta il suo desiderio inap­pagato, la sua insoste­nibile nostalgia sessuale sui binari, i pas­saggi a livello, le trombe soli­tarie del pae­saggio acustico che oltrepassa le sbarre della prigione. Marie è sparita dalla circo­la­zione, ma almeno i «sei cavalli bianchi» che aveva pro­messo sono finalmente arrivati al peniten­ziario. Droga? Il quiz suona così alato che sarebbe un peccato farselo spie­gare (è stu­pido spiegare le canzoni: Dylan lo ha sem­pre sostenuto). E poi: «Per vivere fuori dalla legge ci vuole onestà», para­dosso da ribelle romantico ignaro di mafie e camorre, quelle vere. La ballata va avanti rockeg­giando tra metafore freudiane e fatalismo, falsa allegria e risentimento, libidine e solitudine: la feb­bre in fondo alla tasca dei calzoni, il «per­siano ubriaco» che ti perseguita, la porta chiusa, la chiave indisponibile, la ferrovia ingial­lita come una fotografia d’altri tempi, virata in sep­pia e consumata ai bordi. E in­fine un bal­cone in rovina – ultima immagine di una love story sgretolata e irrecuperabile. Ad­dio Marie, «dolce» fino allo sfinimento, alla consunzione.

Il blues non sarebbe blues in un mondo senza treni né carceri, senza piogge tor­renziali né amori avariati. In Absolutely Sweet Marie non piove, ma l’umidità pe­netra ugualmente dentro le ossa.

Dylan nella sua casa di Byrdcliff, NY, 1968. © Elliott Landy/Magnum Photos.

All Along the Watchtower, 1967.

(Lungo la torre di guardia), dall’album John Wesley Harding (Colum­bia), prodotto da Bob Johnston. Con Dylan (voce, chitarra, armonica e piano­forte) suonano Charles McCoy (contrab­basso) e Kenneth Buttrey (batteria). Versione italiana: Lungo i merli di vedetta di Tito Schipa Jr. (1988).

Dylan nel suo versante allegorico, crip­tico e surreale. Se Mr. Tam­bourine Man sembrava un’inquadratura di Fellini, All along the watchtowerpropende al gotico come Il settimo sigillo di Ingmar Berg­man. Popolato di prìncipi e buffoni di corte, paggi scalzi e gentil­donne, il testo schizza rapide sequenze di un Medioevo senza tempo né luogo. Un castello nel mezzo del nulla, i potenti alla finestra, mentre due in­dividui di basso rango – il ladruncolo e il jolly – marciano a ca­vallo verso (o contro) la fortezza. Ulula il vento e brontola, in lonta­nanza, una lince. Si avverte – ma molto più sintetica e sfumata che in Like a Rolling Stone, Masters of War o Desolation Row– l’insofferenza dell’artista (jolly, buffone, trovatore, saltimbanco, Dylan) nei confronti di un establishment saldamente in mano ad affaristi e guerrafondai.

Se Dylan annuncia l’apocalisse con un affresco dai toni inquietanti ma trattenuti, Jimi Hendrix ci salta dentro per cavarne furore allo stato puro. La sua chitarra ruggi­sce e fiammeggia come un’intera schiera di angeli caduti in un inferno elettrico. Tra strappi, distorsioni e impennate imprevedi­bili, un grande episodio di rock devastante e dantesco.

Sette testi di Dylan, tra cui All Along the Watchtower, hanno avuto la singolare ven­tura di essere rimessi in musica da un altro compositore. Nel 2000 John Corigliano ha scelto sette poesie di Dylan (le altre sono Mr. Tambourine Man, Clothes Line, Blowin’ in the Wind, Masters of War, Chimes of Free­dom e Forever Young) e ne ha ricavato un ciclo di Lieder per soprano e orchestra. La sua musica non ha nulla a che vedere con quella degli originali né con l’alfabeto del pop o del rock in gene­rale: Corigliano ha dichiarato di non aver mai ascol­tato queste o altre canzoni di Dylan (non prima, almeno, di aver concluso il proprio la­voro), ma di averne letto i versi e di esserne stato impres­sionato. Il ciclo, intitolato Mr. Tambourine Man: Seven Poems of Bob Dylan, ha avuto il suo battesimo in pubblico alla Carnegie Hall di New York nel 2000; il soprano era Sylvia McNair, che proprio in vista di questo suo recital aveva chiesto a Corigliano di com­porre qualcosa di nuovo su versi di un poeta americano. Per la sua collana American Classics, la Naxos ha pubblicato nel 2008 una versione di Hila Plitmann con la Buffalo Philharmonic Orchestra diretta da JoAnn Falletta.

I Shall Be Released, 1967.

(Sarò rilasciato), demo dell’autore con The Band pubblicata in un bootleg negli anni novanta; prima incisione ufficiale: The Band (Robbie Robertson, Richard Manuel, Rick Danko, Garth Hudson, Levon Helm) nel 1968, seguita da dischi di Hamilton Camp, Joan Baez, Peter, Paul & Mary, The Tremeloes, The Box Tops, Joe Cocker, Big Mama Thornton, The Hollies, Nina Simone, Miriam Makeba, Pearls Before Swine, Ricky Nelson; versione ufficiale di Dylan solo nel 1971.

Struggente ballata sui pensieri di un detenuto a pochi giorni dalla liberazione:

I see my light come shining
From the west unto the east.
Any day now, any day now,
I shall be released...

Vedo la mia luce arrivare splendendo
dall’ovest verso l’est.
Uno di questi giorni, uno di questi giorni,
sarò rilasciato...

Come in molte canzoni di Dylan, il testo si può leggere in più d’un modo. La prigione può essere vera o simbolica, fatta di pareti e di gabbie reali o invisibili. Tutti prima o poi devono cadere, ma tra una moltitudine di uomini soli qualcuno protesta la sua innocenza: vera o ingannevole? I Shall Be Releasedè un piccolo capolavoro sui temi della colpa e del riscatto, della pena e della libertà, e dell’ambiguità che questi concetti si portano dietro. Una meditazione e uno sfogo di poche parole, su una melodia che da sola esprime sentimenti forti: il diritto alla dignità, il superamento delle umiliazioni. La voce irregolare di Dylan comunica questo e altro, pure a chi non sa l’inglese. E se si vuole scavare ancora più a fondo nel pathos di questa ballata, nelle sue pieghe più riposte, nel suo nucleo più dolente ma anche pervaso di speranza e determinazione, non bisogna lasciarsi sfuggire, oltre a quella di Dylan, la versione di Nina Simone: non una semplice cover ma, come per Just Like a Woman, una rilettura ispirata e personalissima.


Hurricane, 1975.

(Uragano), formata da Bob Dylan e Jacques Levy; singolo del 1975, poi nell’album Desire del 1976, prodotto da Don DeVito. Con Dylan (voce, chitarra ritmica, armonica) collaborano Rob Stoner (basso e cori), Scarlet Rivera (violino), Howard Wyeth (batteria), Vincent Bell (bouzouki), Dom Cortese (mandolino), Emmylou Harris, Ronee Blakley e Steve Soles (cori), Luther (conga).

Hurricaneè il soprannome del pugile nero Rubin Carter, detenuto per nove anni con l’accusa di un triplice omicidio che non aveva commesso. Il caso, che lo stesso Carter aveva fatto conoscere attraverso l’autobiografia scritta in prigione (The 16th Round), commosse e mobilitò prima un gruppo di volontari molto tenaci, poi diverse celebrità e buona parte dell’opinione pubblica. Dylan contribuì con questa ballata, di sincero e impressionante spessore emotivo, a moltiplicare l’attenzione nei confronti di Rubin Carter. Nel 1976, dopo un nuovo processo, il condannato fu finalmente assolto. Ventiquattro anni dopo, Norman Jewison dedicò a Hurricane un buon film; intensa l’interpretazione, premiata con un Golden Globe, di Denzel Washington.

© Pasquale Barbella

(Da Sully-Prudhomme a Bob Dylan – Continua)





[1] A. Scaduto, Bob Dylan – An Intimate Biography, 1971; ed. it. Bob Dylan – La biografia, Arcana, Roma 1972.
[2] H. Sounes, Down the Highway: The Life of Bob Dylan, 2001; ed. it. Bob Dylan, trad. Giovanni Garbellini, Parma: Guanda, 2002.
[3] Intervista raccolta ad Amsterdam da Robert Hilburn per Los Angeles Time, Washington Post e La Repubblica del 15 aprile 2004.
[4] A. Scaduto, op. cit.
[5] H. Sounes, op. cit.

Rimini fuori stagione / 1

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Rimini schiera lungo le sue spiagge e nel resto della città 1002 alberghi, che con l’aggiunta di residence, bed & breakfast, pensioni, ostelli, locande, case e appartamenti per vacanze, villaggi turistici, campeggi, luoghi di ospitalità religiosa e alloggi per studenti creano un sistema di circa 1300 strutture di accoglienza. Se cammini lungo viale Regina Elena e chiedi dove puoi trovare un tabaccaio, non ti dicono «tre isolati più avanti» ma «tre alberghi più avanti». Con 15 km di spiaggia, l’imponente assortimento di ristoranti, trattorie, pizzerie, bistrot, bar e gelaterie, le discoteche, i parchi giochi, i negozi e un inesauribile calendario di fiere e congressi, mostre, concerti e spettacoli d’ogni genere, Rimini ha le carte in regola per giustificare in pieno la sua fama di capitale delle vacanze. Si mangia bene (e troppo) dappertutto a prezzi più che digeribili. La gente è cordiale e simpatica. Non c’è da meravigliarsi se d’estate la città viene presa d’assalto da milioni di ospiti italiani e stranieri, di ogni età e condizione sociale. Molti buoni motivi per andarci, ma altrettanti per starne alla larga, se si è o si diventa allergici al carnaio, allo shopping e alle file di ombrelloni. Ma fuori stagione, Rimini è l’ideale anche per gli scorbutici come me. Il suo letargo non è mai così profondo da lasciarti smarrito in un deserto. Rimini fuori stagione è viva senza essere incasinata, e produce effetti positivi sull’equilibrio psichico, sulle proteine dell’umanesimo e sulla macchina fotografica. Storia e cultura prendono il sopravvento su creme solari e pedalò. Cesare, Augusto, Tiberio, Sigismondo Malatesta, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Federico Fellini e Hugo Pratt vegliano su di te. E, se proprio non sai cosa fare dopo esserti abbuffato di pesce fresco in un ristorante del porto, puoi sempre consultare il sito ufficiale del turismo riminese, www.riminiturismo.it: qualcosa da vedere o da fare non si nega a nessuno, in qualsiasi stagione.

Porta Montanara. Costruita nel I secolo a.C., era uno dei quattro ingressi dell’antica Ariminum insieme alle porte Romana, Gallica e Marina. In origine era composta da due archi in grossi blocchi di arenaria, dai quali transitavano separatamente carri e pedoni: il fornice di destra, distrutto dai bombardamenti nel 1943, fu rialzato e utilizzato per secoli come accesso alla città per le strade provenienti dall’entroterra, mentre quello di sinistra fu chiuso già nei primi secoli dell’impero e in seguito inglobato nel complesso delle “case rosse” dei Malatesta.

Tempietto di Sant’Antonio da Padova. Eretto nel 1518 e ricostruito dopo le distruzioni subite nel terremoto del 1672.

Piccole oasi nel centro storico.

Tempio Malatestiano. È il duomo di Rimini e una delle più alte espressioni dell’architettura italiana del Rinascimento. Fu costruita nella seconda metà del XIII secolo dall’ordine dei Francescani e divenne il luogo di sepoltura dei signori di Rimini. Nel 1450, per volere di Sigismondo Pandolfo Malatesta, l’antica chiesa fu trasformata in un monumento celebrativo che lo avrebbe reso immortale. L’incompiuta facciata in pietra d’Istria, capolavoro dell’architettura di Leon Battista Alberti, suggerisce l’idea prospettica di un arco di trionfo romano, sull’esempio dell’Arco d’Augusto e di quello di Costantino a Roma. Lungo i fianchi si allineano sette arcate a tutto sesto sostenute da pilastri, che accolgono le arche di poeti e intellettuali della corte malatestiana. L’interno, a un’unica grande navata affiancata da cappelle, è arricchito da opere d’arte di Agostino di Duccio, Giotto e Piero della Francesca e custodisce le tombe monumentali di Sigismondo e Isotta degli Atti.



Palazzo Massani, ora sede della Prefettura. L’edificio risale nella sua attuale struttura alla fine dell’800, quando il nobiluomo Guglielmo Massani ne assunse la proprietà e lo fece ridisegnare in stile neoclassico. Gravemente danneggiato dai bombardamenti, fu oggetto di una ricostruzione affrettata e lacunosa. Oggi appare completamente restaurato a cura di Paolo Beltrambini con un’area museale all’interno, dove si ammirano i resti di un’antica domus romana. 



«Servizio a tavola gratuito».

Un caffè in corso Quattro Novembre, a due passi dal Tempio Malatestiano. Fellini è onnipresente. Anche nell’odonomastica: via 8½, via Amarcord, via Il Bidone... Tutti i titoli della sua filmografia, nessuno escluso.

Porticato in piazza Tre Martiri, così denominata in memoria di tre giovani partigiani (Mario Cappelli, Luigi Nicolò, Adelio Pagliarani) qui giustiziati il 16 agosto 1944. 

Un cippo cinquecentesco ricorda il discorso che Giulio Cesare avrebbe rivolto alle legioni dopo il passaggio del Rubicone: in sua memoria la piazza, che già ne portò il nome, ospita una statua bronzea, copia di un originale romano.




Corso d’Augusto. Attraversa il centro storico scorrendo dal Ponte di Tiberio all’Arco d’Augusto e connette piazza Cavour e piazza Tre Martiri.

A passeggio in piazza Tre Martiri.

Vetrine.

Torre dell’Orologio. Fu costruita nel 1547 sul luogo delle antiche beccherie e riedificata nel 1759 su progetto di Giovan Francesco Buonamici. Nel 1875 un’altra scossa determinò il crollo della cella campanaria, la cui ricostruzione, avvenuta solo nel 1933, restituì alla torre l’aspetto originario. La torre ha un orologio risalente al 1562, sotto il quale è posto un calendario perpetuo del 1750, decorato da formelle in terracotta raffiguranti i segni zodiacali, i mesi e le fasi lunari. 


Castel Sismondo prende il nome dal suo ideatore e costruttore, Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), signore di Rimini e Fano. La struttura rimasta non rappresenta altro che il nucleo centrale del castello, originariamente difeso da un ulteriore giro di mura e da un fossato.


© Fotografie di Pasquale Barbella. 

1 - Continua.

Rimini fuori stagione / 2

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Fontana della Pigna in piazza Cavour (particolare).

Piazza Cavour: fontana della Pigna (particolare). Fu eretta originariamente in epoca romana, sfruttando la provenienza dell’acqua da un pozzo distante circa 900 m. Fu l’unica fonte cittadina di acqua potabile fino al 1912, anno in cui fu inaugurato l’acquedotto pubblico. Nel corso dei secoli, la fontana subì varie trasformazioni. L’ultimo restauro è del 2002.

Nome da Hemingway per un pub in via Carlo Pisacane, presso la Pescheria.

La Pescheria, edificata nel 1747 in piazza Cavour su progetto di Giovan Francesco Buonamici, è un elegante edificio porticato sotto il quale si svolse per secoli il mercato del pesce. È aperta sui lati da nove arcate su massicci pilastri in muratura, coronata da una copertura su capriate lignee, ed è unita agli altri edifici della piazza da un fronte a tre arcate culminante in un timpano curvo affiancato da volute barocche. Agli angoli della pescheria si trovano quattro fontanelle in pietra, decorate da delfini dalla cui bocca zampilla l’acqua. Il percorso centrale è delimitato da banconi in marmo, sotto i quali corre una canalina per lo scolo e la raccolta dell’acqua.

La Pescheria.

La Pescheria.

La Pescheria.



«Dalla Saraghina fritto e piadina». Arredi di modernariato alla buona in questa simpatica trattoria di Via Cairoli. La Saraghina, per chi non se ne ricordasse, era un personaggio di 8 ½ (Fellini, 1963) interpretato dal mezzosoprano statunitense Eddra (o Edra) Gale, nota anche come efficace caratterista (c’era anche ne Il laureato di Mike Nichols). Nel suo cameo felliniano usciva da una baracca, chiamata a gran voce dai ragazzini; matronesca e truccata da fattucchiera ballava la rumba sulla spiaggia, in una selvaggia e ironica celebrazione delle fantasie sessuali infantili.



Il porto-canale di Rimini è costituito dall’originale foce del fiume Marecchia, con banchine sui due lati e prolungamento su due moli.

Porto-canale.

Porto-canale.

Via Destra del Porto.

Porto-canale.

Via Destra del Porto.

Alla sinistra del porto hanno sede attività strettamente collegate alla pesca: cantieri navali, officine meccaniche, mercato del pesce all’ingrosso, negozi per la nautica.

Una delle bitte portuali in ghisa che nel dopoguerra hanno sostituito le bitte in pietra d’Istria.





Via Destra del Porto.

Insegna di stabilimento balneare.

Bar-ristorante sulla spiaggia a Marina Centro.

Viale Regina Elena.

Viale Regina Elena.

Viale Regina Elena. Insegne in caratteri cirillici. In molti ristoranti riminesi il russo è diventata la prima lingua che si incontra nei menu.



© Fotografie di Pasquale Barbella

(2 - Continua)

Rimini fuori stagione / 3

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Ogni essere umano che abbia raggiunto un’età sufficientemente molesta dovrebbe recarsi d’inverno in uno di quei luoghi di esagerato turismo estivo, e soggiornarvi almeno una settimana per rendere più malleabile il suo spirito e più morbidi i suoi spigoli. Meglio se, fra i dispetti del meteo, spunta qualche lama di sole; e se non tutti gli alberghi e ristoranti sono chiusi. Rimini è l’ideale: il suo letargo non è mai così profondo da lasciarti prigioniero della solitudine. Usa lo smartphone solo per le telefonate, lascia perdere i selfie e portati dietro una Canon, una Nikon, una Leica o quel che ti pare. Rimini fuori stagione, oltre che bella e ospitale, è squisitamente fotogenica.

Dove si affaccia al mare, Rimini è un mondo di rette parallele. Una linea tra il cielo e l’acqua, una tra l’acqua e la sabbia, una tra la sabbia e il limite posteriore degli stabilimenti balneari, una tra il loro confine anteriore e il marciapiede, e altre che delimitano il lungomare, i recinti dei parcheggi alberghieri, le facciate, il viale Regina Elena... Non dire che è noioso. È design allo stato puro, ordinato, lineare, pratico, servizievole. Quando sei stufo di fotografare la geometria, vattene nel centro storico e buttati a capofitto nella vita.

Inverno. Un albergo su quattro è sempre aperto.









Uno sguardo dal ponte di Tiberio sul Marecchia, l’antico Ariminus.

Il ponte di Augusto e Tiberio, comunemente noto come ponte di Tiberio, è un monumento di epoca romana. Cominciarono a costruirlo nel 14 d.C., sotto il governo di Augusto, e lo finirono sette anni dopo, sotto Tiberio. Realizzato in pietra d’Istria, si compone di cinque arcate a tutto sesto. Dal ponte passavano due vie consolari: la via Emilia che arrivava fino a Piacenza e la Popilia-Annia che conduceva ad Aquileia. Il ponte di Tiberio ha resistito alle offese della seconda guerra mondiale ed è tuttora praticabile sia per i pedoni che per gli automezzi, esclusi i più pesanti.

Sul Ponte di Tiberio.

Dal Ponte di Tiberio.


Dei quattro borghi incorporati nella città a metà Novecento, San Giuliano è il più antico. Era abitato già nell’XI secolo ed è stato un borgo di pescatori. Di qui tanti partirono per le Americhe, e i loro eredi, molti dei quali tuttora presenti nel borgo, ne ricordano l’esistenza con una grande narrazione murale, fatta di piastrelle commemorative e affreschi. Completamente rimesso a nuovo, il borgo San Giuliano si presenta coloratissimo e attraente.

Borgo San Giuliano.

Borgo san Giuliano. L’onnipresente Fellini è qui ricordato per il film E la nave va (1983): allusione ai piroscafi del primo Novecento e alle migrazioni per l’America.

Borgo San Giuliano.

Borgo San Giuliano.

Borgo San Giuliano.

Borgo San Giuliano con Fellini e Benigni (La voce della luna).

Borgo San Giuliano.

Borgo San Giuliano.

Borgo San Giuliano. Motori e poesia.

Borgo San Giuliano.


Lungo il Marecchia.

Lungo il Marecchia.

Lungo il Marecchia.


© Fotografie di Pasquale Barbella

(3 - Continua)

Una risata nel buio

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Questa recensione è stata pubblicata per la prima volta sul blog Pagina Club, il 25 maggio 2016.

Una risata nel buio

«C’era una volta un uomo che si chiamava Albinus, il quale viveva in Germania, a Berlino. Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per un’amante giovane; l’amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore dei modi.»

Tutto il plot nell’incipit. Il romanzo, Una risata nel buio, è del grande Vladimir Nabokov. Il quale così continua: 

«La storia, in breve, è tutta qui, e qui avremmo potuto fermarci se non fosse stato giovevole e dilettevole raccontarla; e benché su una pietra tombale vi sia spazio quanto basta a contenere, incorniciato nel muschio, il compendio di una vita, i particolari sono sempre graditi.»


La prima edizione americana (1938) di Laughter in the Dark, riscritto in inglese dall’autore. Due anni prima, con una traduzione di Winifred Roy che non era piaciuta a Nabokov, l’originale russo era comparso in Gran Bretagna con il titolo Camera obscura.

Cinque righe per la trama, altre cinque per esprimere una concezione della letteratura, poco più di duecento pagine per procurare puro godimento a chi scrive e a chi legge. In equilibrio perfetto, abbiamo da una parte la complessità raffinata della scrittura e dall’altra una lettura che scorre con la facilità dell’acqua fresca in una gola assetata. Il superbo, elegante umorismo di uno dei massimi scrittori del Novecento applicato a uno schema ricorrente nella letteratura, quello dell’uomo rispettabile rovinato da una femme fatale. Qui abbiamo un signore ricco e stupido che perde la testa per una carognetta bella e senza scrupoli. Lei si prende gioco di lui, lo tradisce sotto il naso e gli svuota il conto in banca. Il tutto va a finire malissimo, con nostro sommo divertimento. La ragazza, Margot, è un’anticipatrice di Lolita (1955) e discende un po’ dalla Lulù di Frank Wedekind (1904) e un po’ da Lola-Lola, la cantante di cabaret immaginata da Heinrich Mann nel 1905 (Professor Unrat).

Anna Karina è una Margot aggiornata agli anni sessanta in un film, In fondo al buio, tratto da Laughter in the Dark di Nabokov e diretto dal regista britannico Tony Richardson nel 1969.

Nabokov scrisse e pubblicò in russo la prima edizione (Kamera obskura, 1931). Sei anni dopo, insoddisfatto di una altrui traduzione, provvide a riscrivere il libro quasi di sana pianta direttamente in inglese (Laughter in the Dark, 1937). Di qui l’attuale edizione Adelphi in italiano (bravissima la traduttrice Franca Pece).

Amorale, vorace e infedele, Lola-Lola (Marlene Dietrich) seduce e porta alla perdizione il professor Unrat (Emil Jannings) ne L’angelo azzurro di Josef von Sternberg (1930), tratto dal Professor Unrat di Heinrich Mann.

Alle vicende del tragicomico quadrilatero sentimentale (marito, moglie, amante del marito, amante dell’amante), fa da contrappunto la satira – dai toni misurati e allusivi, ma proprio per questo implacabile – sulla società del tempo, soprattutto quella dei quartieri alti. L’intellettuale Albinus, critico d’arte, fulminato dai cartoni animati a colori di Biancaneve e i sette nani (1937) sogna di applicare la magica tecnica di Walt Disney a una serie di film sui capolavori della pittura («meglio se di scuola fiamminga»). Rex è un vignettista famoso, ma avido e spregiudicato; pur di scroccare denaro a profusione si offre di illustrare I proverbi di Bruegel per andare incontro alle infantili fantasie di Albinus. Più tardi sarà lieto di scoprire che non c’è bisogno di impegnarsi in progetti così eccentrici per sottrarre al riccastro la donna e il patrimonio.

Louise Brooks è Lulu nel film di Georg Wilhelm Pabst Il vaso di Pandora (1929), tratto da due tragedie di Wedekind. Lulu rovina molte esistenze prima di finire, prostituta a Londra, tra le grinfie di uno che non perdona: Jack lo Squartatore.

Sue Lyon è Lolita – l’adolescente che porta alla follia il professor Humbert Humbert – nel film omonimo di Stanley Kubrick (1962).

In una cena d’alto bordo si presentano personaggi che somigliano alle caricature di Grosz e a certi quadri di Otto Dix. Un certo Ivanoff («von Ivanoff come lui riteneva giusto farsi chiamare») ha «la faccia da furetto, i denti guasti e il monocolo.» Lo scrittore Baum è «un individuo corpulento, dal viso paonazzo, sdegnoso, con forti tendenze comuniste e un reddito soddisfacente». La moglie di Baum, «durante la turbolenta gioventù, aveva nuotato in una vasca di vetro tra foche ammaestrate.» Nel corso della cena si discute di arte e letteratura come se ne parlerebbe in uno sketch di cabaret o in un film di Woody Allen. Il sarcasmo di Nabokov non risparmia nessuno, ma il suo veleno è una continua delizia.



© Pasquale Barbella




Vladimir Nabokov
Una risata nel buio
Traduzione di Franca Pece
Adelphi, 2016
€ 20,00



Due libri di Simenon

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I clienti di Avrenos

Georges Simenon continua a cogliere di sorpresa i suoi lettori anche con romanzi scritti nel remoto 1932, come I clienti di Avrenos  uscito in italiano da Adelphi. La sua produzione è stata talmente debordante che mi chiedo se esista al mondo un suo fan, o uno studioso, che possa vantarsi di aver letto tutto ciò che è stato pubblicato con la sua firma o con un suo pseudonimo.

Si legge Simenon come se fosse tuttora, anche dopo la morte avvenuta nel 1989, un romanziere vivo e vegeto, dalla vena inesauribile. Molti attendono il suo “ultimo” romanzo che può essere stato scritto prima di cento altri e se ne stava sepolto nell’ombra, sopraffatto dalla moltitudine dei suoi fratelli, in attesa di riemergere alla luce.


La narrativa di Simenon spazia con disinvoltura dalla serie del commissario Maigret – immediatamente familiare a milioni di lettori e spettatori di cinema e televisione – a un’infinità di storie imprevedibili, narrate con uno stile asciutto e preciso, mai indulgente o autocompiaciuto. Essenziale, privo di ornamenti superflui, secco e oggettivo, lo sguardo dello scrittore si posa sui suoi personaggi senza giudicarne i sentimenti e i comportamenti: ci pensi il lettore, se proprio ci tiene, a tirare le somme di queste esistenze così “normali” anche quando sconfinano nell’eccentricità o addirittura nel crimine. A leggere o rileggere anche le pagine cronologicamente più vecchie di questo autore si ha l’impressione che il minimalismo – quello che la critica fa risalire a Hemingway – lo abbia inventato lui. Simenon lo ha coltivato con estrema coerenza per tutta la vita, infischiandosene di progettarlo o teorizzarlo, come se il suo modo di scrivere fosse esattamente lo specchio del suo modo di vedere il mondo. Del resto, se scriveva – come dicono – non meno di ottanta pagine al giorno, vuol dire che esprimersi in quel modo non gli costasse alcuna fatica: che le pagine e le invenzioni gli scaturissero dalla mente con la stessa placida fluidità con cui si usa la macchina fotografica per scattare immagini a ripetizione.

L’Avrenos del titolo è il titolare di un ristorante di Istanbul frequentato da uno strano gruppo di vitelloni, turchi e non turchi. Li lega un’amicizia superficiale ma non per questo meno stretta: si vedono tutti i giorni perché non hanno altro da fare se non incontrarsi nei soliti posti, passeggiare, mangiare e bere insieme, organizzare festicciole, girare per nightclub, fumare hashish. Quando uno di loro, un modesto dragomanno francese dell’ambasciata, perde la testa per una ballerina ungherese (che per età, cinismo e ambizione sembra l'archetipo della Ruby di Berlusconi), dovrà “condividerla” malgré soi con tutti i suoi amici, macerandosi di gelosia. Perché Nouchi, la ragazza, non solo affascina tutti gli uomini in cui si imbatte, ma da ciascuno sa trarre vantaggi concreti, determinata com’è a sotterrare la miseria delle sue origini e a costruirsi un benessere economico e sociale. Lo spasimante francese diventerà ben presto una insignificante pedina al suo servizio, anche a causa della propria inguaribile mediocrità; la convivenza con lei e la totale dipendenza da lei lo condurranno fatalmente ad azioni vergognose, che non anticipiamo per non guastarvi il piacere della scoperta.

Les clients d’Avrenos, film per la televisione francese sceneggiato da Emmanuel Carrère, 1996. Regia di Philippe Venault, interpreti Jacques Gamblin e Carlotta Natoli.

Scoperta, dunque. Di cosa? Non solo di un bel libro da leggere tutto d’un fiato, ma anche d’un personaggio femminile insolitamente moderno, se si pensa alla data del romanzo. Nouchi non è solo un’entraîneuse minorenne che si prostituisce per tirare a campare. Ha la testa solida, e forse non si prostituisce affatto, almeno nell’accezione brutalmente corporea; ottiene quello che vuole senza concedere troppo di sé; è talmente indipendente e sicura da non temere nulla e nessuno. Il suo rapporto con gli uomini è di assoluta dominanza. E non è neanche una vamp come la Lola di Heinrich Mann; i suoi tratti sono irregolari, la magrezza androgina. Il suo charme è tutto allusivo, comportamentale.

Sullo sfondo Istanbul, Ankara, il Bosforo, evocati con pochi e sapienti tratti di penna. Intravedi barche, yacht solari, figure vestite di bianco e sciarpe verdi al vento nell’azzurro, ambienti e arredi tipici dell’epoca; e un tessuto sociale cosmopolita e indolente, in cui s’indovina il peso della burocrazia e della corruzione. Un Simenon esotico, quasi un pittore art déco, che schizza un dramma sentimentale e sociale senza cedere alla tentazione di dipingerlo a tinte troppo fosche.

La scala di ferro

Se non avete ancora letto La scala di ferro di Simenon, un consiglio: evitate di farvi fregare dai risvolti di copertina. Rivelano esattamente ciò che l’autore cerca di nascondere nelle prime cento pagine, anche se ve lo lascia – in parte – sospettare. Ma la grandezza di questo romanzo sta proprio nell’arte della reticenza, che Simenon coltiva con una maestria a dir poco sublime. Fate conto che, per cento pagine su un totale di centosettantanove, succedano tutte queste cose:

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Si intuisce subito che questi minimi avvenimenti, costruiti con incredibile acume psicologico, sono assai meno marginali di come sembrano. Si svolgono in un ambiente claustrofobico, i personaggi principali sono due, sembra che — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —, ma invece — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —, e nessuno dei due — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —, finché — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —.

Gran parte della vicenda ha luogo fra una cartoleria parigina e il piccolo appartamento padronale al piano di sopra, separati da una scala a chiocciola. Anche i gesti più elementari, come quello di prendere un libro qualunque da uno scaffale o andare in bagno a fare la pipì, si caricano di ombre minacciose. Sicché il lettore, preso nell’ingranaggio, non fa che domandarsi se — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — o cosa stia per — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —. Potete tirare a indovinare, e il gioco sta proprio nell’indurvi costantemente, pagina dopo pagina, paragrafo dopo paragrafo, a formulare congetture. Ogni thriller si propone di fare altrettanto, ma questo — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —. Ed è esattamente per tale ragione che La scala di ferro non è soltanto un thriller perfetto, ma anche una mirabile lezione di letteratura e psicanalisi.

© Pasquale Barbella


Annelise Hesme in due scene del film per la televisione francese L’escalier de fer (La scala di ferro), tratto dall’omonimo romanzo di Simenon. Regia di Denis Malleval, protagonista maschile Laurent Gerra (2013).

Georges Simenon
I clienti di Avrenos
Traduzione di Federica Di Lella, Maria Laura Vanorio
Adelphi, 2014

Georges Simenon
La scala di ferro
Traduzione di Laura Frausin Guarino
Adelphi, 2016



Due libri di Carrère

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Limonov

Altro che sdoppiamento di personalità. Eduard Savenko detto Limonov, nato in Ucraina sotto il regime sovietico nel 1943, di personalità ne possiede un’intera collezione. Una specie di Zelig che compare e scompare – come teppista, poeta, scrittore, barbone, domestico, punk, mercenario, attivista politico – in Ucraina, in Russia, a Parigi, a New York, nella Jugoslavia dilaniata dalla guerra e, in temporanea fuga da una vita d’azione, persino tra le astratte solitudini dell’Altaj. Per tornare poi stabilmente nella Russia post-sovietica, fondatore di un movimento anch’esso non immune da contraddizioni: il Nazbol, nella cui confusa ideologia convivono senza imbarazzi nazismo e bolscevismo.


La vita spericolata ed eccessiva di questo personaggio al tempo stesso singolare e plurale ha ispirato a Emmanuel Carrère una biografia tra le più sconcertanti e istruttive che siano mai state scritte. «Anche del suo nome vuole essere debitore soltanto a se stesso», scrive Carrère dopo aver spiegato l’origine di quello pseudonimo: «tributo al suo spirito acido e bellicoso, perché in russo limonsignifica “limone” e limonkagranata (nel senso di bomba a mano).»

Limonov non è fatto per il relax. Si butta a capofitto in imprese ed esperienze ora sublimi ora rocambolesche: talvolta, francamente, scellerate. Pungolato da ambizioni smodate e inossidabili rancori, si vanta senza reticenze delle azioni più abiette e, se proprio si sente costretto a mantenere qualche riserbo, lo fa sui sentimenti d’amore o di tenerezza per le donne della sua vita, scelte anche quelle con costante sprezzo della lucidità e del pericolo. 

Per chiunque non sia nato e vissuto a lungo nell’ex Unione Sovietica, Limonov è una figura incomprensibile. Non meno incomprensibile della Russia stessa: quella di ieri e soprattutto quella di oggi. «Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore». Sono parole di Putin, e Carrère cita il paradosso come exergo per penetrare nelle contraddizioni che caratterizzano il paese dalla perestrojka in poi. Il libro cerca di spiegare l’origine e la natura di quelle contraddizioni, ed è una miniera di sorprese: perché politici come Gorbačëv, poeti come Evtušenko, musicisti come Rostropovič, stimatissimi in Occidente, sono visceralmente impopolari in Russia? Da dove nasce il disprezzo di Limonov per Aleksandr Solženicyn e Josif Brodskij, insigniti del Nobel per la letteratura rispettivamente nel 1970 e nel 1987? 

Mosca, 11 giugno 2007. L’ex campione mondiale di scacchi Garri Kasparov (a sinistra) ed Eduard Limonov partecipano a una marcia del dissenso contro Putin. Kasparov, da sempre attivista politico, è leader e fondatore del partito Fronte civile unito, ispirato a ideali di liberalismo sociale e socialdemocrazia, fortemente opposto a Russia unita di Vladimir Putin. Limonov aveva fondato e guidato il Partito nazional-bolscevico (Nazbol) descrivendosi come nazionalista moderato, socialista «della linea dura» e attivista dei diritti costituzionali. Come avversario politico di Putin e alleato di Kasparov, era uno dei leader della coalizione L’Altra Russia, disciolta nel 2010 e da allora diventata un partito guidato da Limonov stesso.

Limonov è un protagonista ad alta tensione, un po’ Rambo e un po’ Rimbaud, ed Emmanuel Carrère è un grande scrittore. Questo libro conferma come meglio non si potrebbe il suo talento e il suo stile, personalissimo: la ricostruzione, in forma di romanzo, di vite realmente vissute. Carrère accumula materiali narrativi ispirandosi a persone reali (non necessariamente famose come Limonov), e con esse intrattiene colloqui e rapporti prolungati prima di tessere la sua trama definitiva. Il risultato non ha nulla di giornalistico: la sua non è cronaca ma letteratura sublime, perché l’autore sa rendere sue, e universali, le esperienze degli altri. Due dei suoi romanzi contengono già nel titolo italiano la chiave del suo procedimento: La vita come un romanzo russo (Einaudi, 2009; ma va detto che il titolo originale è semplicemente Un roman russe); e Vite che non sono la mia (Einaudi, 2011; originale D’autres vies que la mienne). – Questo è articolo è stato pubblicato per la prima volta il 23 aprile 2013 sul blog www.libreriamo.it

L’avversario

L’incipit è una bomba: «La mattina del sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean-Claude Romand uccideva sua moglie e i suoi figli, io ero a una riunione all’asilo di Gabriel, il mio figlio maggiore, insieme a tutta la famiglia. Gabriel aveva cinque anni, la stessa età di Antoine Romand. Più tardi siamo andati a pranzo dai miei genitori, e Romand dai suoi. Dopo mangiato ha ucciso anche loro.»

Risvolto di copertina: «Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso la moglie, i figli e i genitori, poi ha tentato di suicidarsi, ma invano. L’inchiesta ha rivelato che non era affatto un medico come sosteneva e, cosa ancor più difficile da credere, che non era nient’altro. Da diciott’anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla. Sul punto di essere scoperto, ha preferito sopprimere le persone di cui non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo. È stato condannato all’ergastolo. Sono entrato in contatto con lui e ho assistito al processo. Ho cercato di raccontare con precisione, giorno per giorno, quella vita di solitudine, di impostura e di assenza. Di immaginare che cosa passasse per la testa di quell’uomo durante le lunghe ore vuote, senza progetti e senza testimoni, che tutti presumevano trascorresse al lavoro, e che trascorreva invece nel parcheggio di un’autostrada o nei boschi del Giura. Di capire, infine, che cosa, in un’esperienza umana tanto estrema, mi abbia così profondamente turbato – e turbi, credo, ciascuno di noi». (Emmanuel Carrère)

Il binario su cui scorrono le esistenze parallele dell’autore e dei suoi oggetti di indagine è una costante nei libri di Emmanuel Carrère. Scrive di persone vere, come il Romand de L’Avversario o il Limonov della biografia a questi dedicata, ma rinvia continuamente gli accadimenti che le riguardano alla propria e alla nostra coscienza. E più inquietanti sono i fatti, più ne siamo disturbati di persona e nel profondo. Carrère azzera le distanze fra noi e i suoi “indagati”, abbatte le barriere che erigiamo per autodifesa in presenza di psicologie distorte, azioni nefande o sovrumane sofferenze; tanto che alla fine non possiamo più cavarcela con uscite consolatorie del tipo “quello è un pazzo, un mostro, un anormale, un’eccezione”, oppure “è stato un caso, è stato il destino”; e il peso delle colpe o del dolore altrui ripiomba come un meteorite sulla nostra ragione e sui nostri sensi. 

Carrère usa la penna a rischio e pericolo della propria incolumità emotiva. Perché le distanze che azzera non sono solo metaforiche, ma anche chilometriche. Nei suoi romanzi-reportage si avvicina fisicamente ai protagonisti, come aveva fatto Truman Capote con i due assassini di A sangue freddo. Uscito in Francia nel 2000 e lo stesso anno in Italia (Einaudi; ripubblicato da Adelphi nel 2013), L’Avversario ha in comune con A sangue freddo il generico ambito d’ispezione: la cronaca nera. Ma se lì si trattava di due balordi che sterminano una famiglia – senza premeditazione – alla fine di una rapina malriuscita, qui abbiamo il caso di una personalità singolare e complessa, di cui non riusciamo a spiegarci né i comportamenti né i moventi. I quali ci appaiono illogici, e tali sono in realtà; ma correlati in modo talmente coerente da farci escludere la scappatoia, buona a tutti gli usi, della pazzia come scatenatrice di impulsi imprevedibili. 

Aurélien Recoing in una scena di L’emploi du temps di Laurent Cantet, 2001.

La singolarità di Romand (attualmente all’ergastolo) non consiste tanto nella strage dei propri familiari – purtroppo le cronache ci hanno allenato anche a questo tipo di orrore – quanto nell’assurdità del mondo parallelo che si era inventato e che era riuscito a rendere credibile agli occhi del prossimo, famiglia e amici compresi. Un’intera esistenza edificata sul falso. Tutti lo credevano medico, mentre non era riuscito a superare nemmeno i primi esami universitari. Per giustificare la sua inattività – ambulatoriale o ospedaliera che fosse – ha lasciato credere per anni di essere un ricercatore di spicco (un «luminare della ricerca») presso il quartier generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, a Ginevra. Nessuno ha mai dubitato delle sue fandonie: nemmeno il suo miglior amico, un medico vero. Non era dunque un millantatore dei più banali, ma un mitomane competente, informato e avveduto, assai stimato nel proprio entourage e abilissimo nella fabbricazione di inganni a catena: una complicata rete di sotterfugi per non far crollare miseramente il suo visionario teatro d’azione. 

Perché, se vuoi farti credere un pezzo grosso dell’OMS, devi condurre un tenore di vita all’altezza della bugia. Devi metterti al sicuro dalle telefonate in ufficio, a cominciare da quelle di tua moglie. Non devi mai, ma proprio mai, farti sorprendere a bighellonare nei giorni feriali da qualcuno che ti conosca anche solo di vista. Romand è riuscito a lungo a tenere sotto controllo la situazione, per quanto fragile e precaria essa fosse. Senza aver mai lavorato un giorno in vita sua, ha potuto permettersi una villa di prestigio, automobili di lusso e un train de vie generale di tutto rispetto appropriandosi prima dei risparmi dei propri genitori, parenti e affini; poi indebitandosi con gli amici ed estorcendo una somma più che rispettabile all’amante (scampata per miracolo allo strangolamento fisico, dopo averne subìto uno finanziario). Girava con un cercapersone per farsi rintracciare telefonicamente (siamo in epoca pre-cellulare): aveva pregato tutti di non provarci in ufficio, i centralini dell’OMS erano già fin troppo oberati dal traffico istituzionale. Quanto all’impiego del tempo nei giorni feriali, ecco la soluzione: interminabili passeggiate nei boschi di confine tra Francia e Svizzera, lungo il breve tragitto tra Ferney-Voltaire e Ginevra; in caso di maltempo o stanchezza, noiose soste in automobile in parcheggi anonimi e poco frequentati. Si inventava anche missioni internazionali e destinazioni remote quando invece doveva allungare il suo excursus pendolare fino a Parigi, per trascorrervi il weekend con Corinne (un’amante indecisa e riluttante assediata a forza di stalking, patetiche istanze vittimistiche, regali costosi, cene nei migliori ristoranti, vacanze allettanti). 

La tragedia esplode quando ormai è, ai suoi occhi, diventata inevitabile: finiti i soldi, esaurito il numero dei potenziali derubandi, sarà smascherato, dovrà confessare una vita di menzogne e di truffe insanabili. Meglio la morte. Quella dei suoi cari e la sua: un copione non nuovo nella criminologia dei fallimenti. Nel suo caso gli omicidi riescono ma il suicidio fallisce. Come sopravviverà ai rimorsi? Allestendo pazientemente una nuova dimensione immaginaria, questa volta odorosa di mistica e gigli: il teatro buonista dell’espiazione e della redenzione, con l’aiuto della preghiera e di Dio. 

Lo scavo di Carrère si fa universale nell’indurci a toccare con mano non solo la diversità del criminale, ma anche la sua fastidiosa somiglianza con chi criminale non è. Le persone più vicine a Romand – le morte e le sopravvissute, come gli amici e vicini di casa – gli riservavano affetto e fiducia incondizionati; mai l’ombra di un sospetto, mai un dubbio; a loro modo di vedere era la persona più gentile, affidabile, equilibrata del mondo. Del resto, le sue truffe finanziarie (spesso molto naïf se giudicate da lontano: se non sai cosa fare dei tuoi soldi ci penso io, te li faccio fruttare al 18% con un investimento riservato al personale dell’OMS) avevano successo proprio perché era considerato da tutti una garanzia in carne e ossa: un amico o parente talmente irreprensibile che il solo chiedergli, per comprensibile prudenza, una firma su un pezzo di carta sarebbe stato sconveniente e offensivo. 

A tragedia compiuta il trauma degli amici è un racconto nel racconto, ed è naturale per il lettore calarsi nei loro panni. Non è solo curiosità morbosa; è un senso di colpa che da individuale si fa collettivo, come se ciascuno di noi si sentisse carente di anticorpi morali per prevenire o impedire l’infrazione dei tabù più sacri da parte di un singolo membro della stessa specie. 

Oltre a calamitare l’attenzione degli psichiatri e di Carrère, narratore tra i più sottili e inquietanti del nostro tempo, il caso Romand ha mobilitato i cineasti. Nel 2002 L’Avversario è diventato un film, diretto da Nicole Garcia e presentato al festival di Cannes, con Daniel Auteuil nel ruolo dell’impostore-omicida. Non l’ho visto. Conosco bene, invece, L’emploi du temps (A tempo pieno) di Laurent Cantet, capolavoro uscito l’anno prima e pluripremiato a Venezia, con una stupefacente interpretazione di Aurélien Recoing. La motivazione del premio Fipresci parla di «impressionante rappresentazione dell’angoscia esistenziale e dell’alienazione in un sistema sociale dominato dalla competizione, dallo status e dal successo.» Il film di Cantet sorvola sulla tragedia e si limita a mettere in scena una sapiente ricostruzione delle bugie di Romand e del suo impiego del tempo; ciò nonostante, riesce ugualmente a trascinare lo spettatore in un perturbante processo di identificazione con lo sciagurato simulatore.

© Pasquale Barbella

Emmanuel Carrère
Limonov
Traduzione di Francesco Bergamasco
Adelphi, 2012

Emmanuel Carrère
L’Avversario
Traduzione di Eliana Vicari Fabris
Adelphi, 2013


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