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Elogio dell’algoritmo

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Applicazioni algoritmiche. Animazione di Lea Margareta.

Elogio dell’algoritmo. In sei (o sette) lingue, quattro animazioni Gif e tredici automatismi da social network.

Schema di algoritmo pubblicato nel 1926 da Otakar Borůvka.

In un mondo sempre più dominato dall’ansia e dal malcontento, siano benedetti gli ultimi detentori dell’ironia e della leggerezza: gli algoritmi, dadaisti fantasiosi e implacabili, che con generoso zelo scandagliano il mondo e la psiche degli uomini per assisterli nella buona e nella cattiva sorte.

Traduttore automatico dall’italiano all’inglese:

In a world increasingly dominated by anxiety and discontent, they blessed the last holders of irony and lightness: the algorithms, imaginative and relentless Dadaists, who with generous zeal scour the world and the psyche of men to assist them through thick and thin.

Traduttore automatico dall’inglese al francese:

Dans un monde de plus en plus dominée par l’anxiété et le mécontentement, ils ont béni les derniers détenteurs d’ironie et légèreté: les algorithmes, dadaïstes imaginatives et implacable, qui, avec zèle généreux parcourent le monde et la psyché des hommes pour les aider à travers vents et marées.

Applicazioni algoritmiche. Animazione dal sito Imgur.

Traduttore automatico dal francese al tedesco:

In einer Welt, die zunehmend von Angst und Unzufriedenheit geprägt, lobten sie die letzten Inhaber von Ironie und Leichtigkeit: Algorithmen, Dadaisten phantasievoll und unerbittlich, der mit großzügigen Eifer, die Welt und die Psyche der Menschen reisen ihnen helfen, durch dick und dünn.

Traduttore automatico dal tedesco al russo:

В мире, который все больше и больше отмеченного тревоги и неудовлетворенности, и похвалил последнего владельца иронии и легкости: алгоритмы Дадаисты воображением и беспощадной, бегущая помочь с щедрой рвением, мира и психики человека них через толстые и тонкие.

Traduttore automatico dal russo al latino:

In mundo magis insignis et metus orci ironia et laudavit dominus ultimo levitatis algorithms Dadaists animo et indefessa currebat liberale studium adiuvare, et mundus per crassum et tenues animae humanae.

Traduttore automatico dal latino all’italiano:

Nel mondo di leggerezza, più cospicuo di quello precedente, e la carriera infermieristica per l’ironia e il signore lodato il libero, studio ininterrotto di algoritmi per aiutare la mente e dadaisti, tra alti e bassi, e il mondo dell’anima umana.
Applicazioni algoritmiche. Animazione di Eleanor Lutz sullo sviluppo embrionale dal concepimento alla nascita.


Fakebook














© Pasquale Barbella





Vincere l’odiens

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Giudizio: ***** (explicit contentezz).

Figli di Zappa e procugini degli Skiantos, Elio e le Storie Tese sono soprattutto sé stessi, sulla breccia di Porca Pia da secoli, cioè dal 1979 secondo le biografie ufficiali e ufficiose. Fanno musica e casino, colpendo al quore molteplici ossessioni – dalla prima elementare alla quinta di Beethoven. Sono il pepe del pop italiano, perché sanno prenderlo per il popò. Elio, alias Stefano Belisari, viene dal conservatorio, che ha saputo brillantemente convertire in riformatorio. Ciò spiega la competenza musicale del gruppo, premiata in lungo e in largo, e la sapienza birichina del loro nouàu, che i britannici si ostinano a scrivere know-how. Il loro nuovo album, intitolato policiosamente Figgatta de blanc, è in effetti una figata, come si usa dire negli ambienti chic. Una figata color senape, speziata e sfiziosa: ricca di consonanti ma anche di consonanze, perché afferra per le corna i grandi cliché che non ci fanno dormire di giorno.

Superbo già nella grafica accreditata a Jekyll e Hyde, l’album sviluppa, come i precedenti, l’analisi del male e dell’ambiguità dell’animo umano. Nell’intro e nelle successive quattordici tracce (una cavalcata freudiana dalle stazioni termali alla soppressione universale dell’odio) viene evidenziato, in maniera significativa, quel naturale sdoppiamento che caratterizza ed è presente in ogni essere umano e che si configura come una rottura dell’integrità della persona, come la scissione del Bene dal Male e, in definitiva, come lo sdoppiamento della stessa coscienza umana. Niente paura, però: ho solo copiato le parole che Wikipedia usa per interpretare il senso del celebre romanzo di Robert Louis Stevenson dedicato allo strano caso di Jekyll e Hyde. Mi sono attenuto all’esortazione della traccia 4, Parla come mangi, e io ho mangiato Stevenson.

Sulla copertina del nuovo album di Elio e le Storie Tese un tributo, casto e minimale, all’Origine del mondo di Gustave Courbet.

Ho mangiato Stevenson dopo averlo cucinato seguendo la ricetta cantata nella traccia 2, Vacanza alternativa. La ricetta in realtà è quella del risotto ai funghi, ma ho sostituito i funghi secchi con pagine di carta, schiavo del luogo comune secondo il quale i libri sono più istruttivi dei funghi. Oltre a evocare la passione di massa per la tv culinaria, Vacanza alternativa affronta di petto due problematiche di indiscutibile gravità: il funky e la pedofilia. Funky è parola non detta (sostituita da eufemismi come “funghi” e “fanghi”: ve l’ho già detto che siamo alle terme), mentre sul secondo tema il testo è explicit (Parental advisory explicit content: mi permetto di suggerire a Elio e compagni questo titolo per una prossima canzone. Royalty free).

A proposito di inglese. In Parla come mangi, si vaffancula un polposo inventario di terminiimportati nel tossico lessico fessico dell’era presente: c’è di tutto, da brain storming a brunch, ma manca, purtroppo, mission. Lacuna inesplicabile, perché tutto il disco adempie a una missione educativa: contro il bullismo dei pierini, il bullismo dei nonni, la tirannia dei masterchef, la santa inquisizione, il razzismo che discrimina i delfini dai tonni, il festival di Sanremo, le bombe intelligenti, le code sulla tangenziale, gli slogan umanitari (Vincere l’odio) che ci fanno sentire più buoni.


Storie lese: Sanremo immune all’elioterapia.

Presentata a Sanremo e castigata dall’abominevole abuso di televuoto, Vincere l’odio non è una canzone ma un festival in miniatura. Un medley di sette ritornelli mirabilmente incongrui, culminanti in un messaggio finale supertenorile: Vincere l’odio, per l’appunto, che è il rovescio di Perdere l’amore, implacabile romanza con cui Massimo Ranieri vinse il Sanremo dell’88. Sfavillano nel microprogramma Tubero e Topinambur, rock and roll elvisiano il primo, sanremoide inno all’amore il secondo. Vincere l’odiens è però più arduo che vincere l’0dio: il volgo nongradisce. Fosse capitato a Tenco ciò che è successo a Elio, si sarebbe suicidato in albergo. Il fatto è che il popolo italiano, anche quello che sghignazza con i cinepanettoni, è triste nel profondo: mentre Elio e le Storie Tese sono sempre severamente divertenti, persino quando, a carnevale, si dipingono la faccia da Kiss. Al posto loro hanno vinto canzoni lagrimose e storte, tra cui una presentata da un duo uomo-donna di gran lunga più antico di Orietta Berti.

Sempre all’Ariston, nella serata dedicata alle cover, Elio e la sua band hanno ripescato – invece del solito De André o del sempreverde Carosone – la Quinta di Ludwig van B, discotecata a dovere. Titolo: Il quinto ripensamento. Anche questa è inclusa fra le perle selvagge della Figgatta, e da sola ne giustifica il prezzo (€ 9,99 su iTunes).

© Pasquale Barbella.



Elio e le Storie tese
Figgatta de blanc
Hukapan, 2016

Tracce:

  1. Figgatta de Blanc– 0:49 – [Introduzione]
  2. Vacanza alternativa– 4:44
  3. She Wants– 4:48
  4. Parla come mangi– 5:49
  5. Il mistero dei bulli– 5:17
  6. China Disco Bar– 5:06
  7. Il quinto ripensamento– 3:08
  8. Bomba intelligente (feat. Francesco Di Giacomo) – 4:59
  9. Inquisizione– 5:53
  10. Ritmo sbilenco– 6:05
  11. Il rock della tangenziale (feat. J-Ax) – 2:56
  12. Cameroon– 4:10
  13. I delfini nuotano– 5:38
  14. Il primo giorno di scuola– 4:36
  15. Vincere l’odio– 3:52


Formazione:

Elio
voce, flauto traverso


Rocco Tanica (Sergio Conforti)/Sergio Antibiotice
tastiere
voce solista maschile in She Wants
voce addizionale in I delfini nuotano
arrangiamento orchestrale in Vincere l’odio


Cesareo (Davide Civaschi)
chitarra
basso in Il rock della tangenziale
voce addizionale in I delfini nuotano


Faso (Nicola Fasani)
basso
cori in Inquisizione, Ritmo sbilenco e Cameroon
ukulele in Ritmo sbilenco e Cameroon
chitarra acustica e mellotron in Ritmo sbilenco
voce addizionale in I delfini nuotano

Christian Meyer
batteria
percussioni in Cameroon
voce addizionale in I delfini nuotano


Jantoman (Antonello Aguzzi)
tastiere in China Disco Bar e Bomba intelligente
preproduzione in Il quinto ripensamento e Bomba intelligente
arrangiamento orchestrale in Vincere l’odio


Altri musicisti:

Paola Folli: cori; voce solista femminile in She Wants eRitmo sbilenco;
Vittorio Cosma: tastiere in Cameroon e intermezzi recitati;
Demo Morselli: arrangiamento fiati e tromba in Vacanza alternativa, Inquisizione, e Il primo giorno di scuola;
Andrea Tofanelli: tromba in Vacanza alternativa e Inquisizione;
Massimo D’Avola: sassofono in Vacanza alternativa e Inquisizione;
Ambrogio Frigerio: trombone in Vacanza alternativa, Inquisizione e Il primo giorno di scuola;
Nick The Nightfly: voce (cantante confidenziale) in She Wants;
Francesco Di Giacomo: voce in Bomba intelligente;
J-Ax: voce addizionale in Il rock della tangenziale;
Silvio Pozzoli: cori in Vincere l’odio;
Moreno Ferrara: cori in Vincere l’odio.




Il fisarmonicista

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Robert Doisneau, L’accordéoniste, 1951.

Parigi, 1940. Un mezzogiorno di prima estate.


Che ci fa il soldato Rosenstein in libera uscita? Non dovrebbe stare all’ospedale militare? E per quale malattia o ferita lo hanno internato?

Mentre le truppe di Hitler entrano a Parigi senza bussare, il soldato Rosenstein bussa alla porta di madame Gassion, in arte Edith Piaf. Emer Rosenstein scrive canzoni con lo pseudonimo di Michel Emer ed è francese a tutti gli effetti, anche se nato a San Pietroburgo. Del resto neanche San Pietroburgo si chiama più così. I nomi sono capricciosi e instabili: non si fidano né dell’anagrafe né del passato, e non condividono il culto dell’identità che ci ostiniamo a pretendere da loro.

Rosenstein ha trentaquattro anni, non è più un novellino. Per Charles Trenet ha scritto le parole di Y a d’la joie, nel 1936, quando a Parigi si respirava ancora un po’ d’allegria.

Continua a bussare, ma la porta non si spalanca. Simone Berteaut, la sorella di Edith, socchiude quel tanto che le basta per riconoscerlo. Annuncia che si tratta di Emer: dice di avere una canzone pensata per lei. Ma è come quando suonano il campanello di casa mia e mia moglie mi mette in guardia: «Non aprire, sono i soliti venditori di acqua, luce e gas.» A Piaf le canzoni di Emer stanno sulle palle, se così si può dire. Le trova stucchevoli. E poi non è giornata: oggi ha i nervi a fior di pelle. Come ieri, l’altro ieri, domani e dopodomani. «Mandalo via», ordina a Simone. Edith non sta bene, sarà per un’altra volta.

Un’altra volta quando? Con questa guerra del cazzo e i tedeschi in casa, l’avvenire della Francia è sbiadito come una bandiera nella candeggina. Michel si scosta dalla porta e comincia a tamburellare con le nocche sul vetro della finestra. Non demorde. C’è gente che pur di piazzare la sua merce ti entrerebbe in casa col piede di porco. Dice che è l’ultima occasione: sta all’ospedale militare, deve rientrarvi prima di sera. Ora o mai più. Aprite, per favore.

Piaf in un disegno di Andrés.

Le donne si rassegnano, sbuffando. Come si fa a dire di no a uno sfigato come quello, per di più in divisa, all’ospedale militare, così smunto che oggi c’è e domani chissà? «A certi uomini l’uniforme dà prestigio», annota Simone, «ma non era certo il caso suo. Niente bella presenza, un ta­pino come tanti altri.»

Il tapino ha vinto la sua battaglia. Si siede al pianoforte e sfodera il piccolo colpo che ha in serbo: L’accordéoniste. Piaf fa finta di niente, poi gli comanda di togliersi la giubba e la cravatta. «Mettiti a tuo agio, si lavora. Riat­tacca e dammi le parole. Domani la canto al Bobino.»[1]

«Era arrivato a mezzo­giorno, se ne andò alle cinque del mattino», continua Simone.

«Per te­nergli su il morale, salame, camembert e vino rosso. Come malato, era in piena forma. Un poco stordito, diceva di continuo: “Edith, io finisco da­vanti al tribunale mili­tare... ‘di­serzione in tempo di guerra’... ep­pure me ne frego, non sono mai stato tanto felice!” “Lascia per­dere” rispon­deva Edith, su­perba. “Conosco dei generali.” Non ne conosceva nean­che uno. Ma una cosa era certa, che se Michel fosse stato in pericolo, lei sarebbe andata dal ministro della guerra. La faccia tosta di Edith era monu­mentale... quando lo ritro­vammo, molto più tardi, Mi­chel non era più lo stesso ra­gazzo. Capii subito che non funzionava. Aveva la faccia di un uomo brac­cato, ter­roriz­zato. “Edith, è finita. Le mie can­zoni... ne­anche ti da­reb­bero il diritto di cantarle. Io sono ebreo e debbo portare la stella gialla. Si comincia così e poi...” Non ci fu poi. Edith trovò il modo di pagargli il passaggio nella zona non occupata, e lo ri­vedemmo alla Liberazione.»

Le canzoni come L’accordéoniste si amano per quello che sono, ma anche per i piccoli retroscena che si portano appresso. Sullo sfondo l’avanzata tedesca, lo spettro di Vichy, la preca­rietà delle speranze. I versi parlano di una prostituta (una fille de joie) che s’innamora di un fisarmoni­cista. L’uomo parte soldato e ci rimette la pelle. Il testo, struggente, è tipico del realismo poe­tico di molte canzoni francesi, e la musica fol­leggia sul ritmo ternario della giava, una specie di mazurka. L’impeto danzerec­cio del refrain è preceduto e inter­rotto dalle strofe, ritmica­mente tratte­nute, che Piaf elabora con la giusta dose di strazio:

La fille de joie est belle
au coin d’ la rue là-bas
elle a une clientèle
qui lui remplit son bas…

«È bella la ragazza di vita / giù all’angolo della via / ha una clien­tela / che non le fa mancare il necessario. / Quando ha finito il turno / se ne va per i fatti suoi / a cercare un po’ di sogni / in un ballo di quartiere. / Il suo uomo è un artista / un tipo divertente / fa il fisarmonicista / e ci sa fare con la giava...»

Parigi, rue du Rivoli durante l’occupazione.

I due amanti sognano di mettere in piedi, dopo la guerra, una maison: lei ne sarà la cassiera, lui il patron. L’uomo non tornerà più; lei andrà ancora ai balli di quartiere, sognando di lui a oc­chi aperti, e le sembrerà ogni volta di rive­dere

…le jeu nerveux
et les doigts secs et longs de l’artiste...

«il gioco nervoso / e le dita secche e lun­ghe dell’artista» sulla tastiera dell’accordéon.

La cover più insolita è quella in dialetto napoletano e in chiave gay di Leo­poldo Mastelloni (2007), che tra­sforma il fisarmonicista parigino in un “cubista” dei vicoli di Napoli costretto a far mar­chette per procurarsi i soldi necessari a un matrimonio riparatore.

© P.B.

Robert Doisneau, Panetteria a Belleville durante l’occupazione.

L’Accordéoniste, parole e musica di Mi­chel Emer, 1940, Francia. © Société d’Editions Musicales Internationales. Lan­ciata da Edith Piaf durante un recital al Bo­bino, storico music-hall parigino di Rue de la Gaîté.





[1]Simone Ber­teaut, Piaf, Parigi: Opera Mundi, 1969; ed. it. Edith Piaf, una vita una voce, Milano: Rizzoli, 1970.



Il ragazzo di metallo

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Un giorno ho visto un ragazzo di metallo camminare nel parco. Era alto un metro e ottanta, più o meno. Indossava jeans e T-shirt in una lega leggera e flessibile. Scarpe non molto diverse dalle tue, dalle mie. E uno zaino di metallo sulla schiena.

Doveva essere stanco di camminare, perché si lasciò andare di botto sull’unica mezza panchina rimasta vuota. Sull’altra metà c’ero io. Prima di sedersi si tolse lo zaino e lo posò per terra, con cura. Poi sollevò l’orlo dei jeans, aprì uno sportellino nella gamba sinistra, proprio sopra la caviglia, e ne estrasse un telefonino come i nostri. Digitò qualcosa e, con voce d’argento, mormorò: «Brug fe klum.» Poi ripose l’apparecchio nel suo alloggio, si mise comodo, incrociò le braccia e, in un attimo, le palpebre gli si chiusero con un kling.

Approfittai di quel sonno per scrutargli il volto. Ho visto dei robot, ma questo era diverso. I robot non dormono. E non sanno che farsene di uno zaino. Mi sembrò che respirasse, ma non ne sono sicuro. Il naso gli fischiava un poco: appena appena, come se nella testa gli circolasse del vento, o dell’aria condizionata. Poi riaprì gli occhi di scatto e io distolsi prontamente lo sguardo, tuffandomi nel manuale di diritto privato che stavo studiando prima del suo arrivo.

Faceva un gran caldo. Davanti a noi c’era il baracchino delle bibite. Comprai due coche fredde e gliene porsi una. Prese la lattina senza esitare, dicendomi «Klam do.» La aprì come facciamo noi e bevve dalla prima all’ultima goccia, senza muovere il pomo d’Adamo e senza gorgogliare. Poi mi guardò ripetendo «Klam do.»

«Vieni da lontano?», azzardai. E lui: «Broka duka pix.» Non capii cosa intendesse, ma lui capì che non avevo capito. Allora sollevò il bagaglio da terra e lo piazzò sulla panca, proprio in mezzo a noi. Premette un pulsante e nello zaino si aprì una finestrella piccola piccola. Ci infilò dentro un dito e lo zaino si mise a parlare nella nostra lingua. La voce era uguale a quella dei navigatori satellitari, e non la smetteva più di parlare. Descriveva nei minimi dettagli un luogo che non avevo mai sentito nominare.

A un certo punto il ragazzo di metallo guardò l’ora su un display inserito nel palmo di una mano, spense la voce chiacchierona e si alzò per rimettersi in cammino. Prima di andarsene disse di nuovo «Klam do» e posò, accanto a me, un blocchetto di metallo non più grande di un pacchetto di sigarette, prelevandolo dal taschino anteriore dei jeans. Balbettai un «Klam do» e rimasi a osservarlo finché non sparì dietro la prima curva.

Solo allora provai a esaminare il suo regalo, per cercare di capire cosa fosse. Ma era così pesante che non riuscii a staccarlo dalla panchina. Provai anche a usare tutte e due le mani, a strapparlo con la forza dalla sua posizione. Niente. Sta ancora lì e vado a toccarlo ogni domenica, perché ho come l’impressione che mi porti fortuna. E poi, chissà, il ragazzo di metallo potrebbe rifarsi vivo, e dirmi qualcosa che mi aiuti a chiarire il mistero del suo dono.

Ho raccontato molte volte questa storia, ma nessuno mi ha mai creduto, e perciò ho smesso di parlarne. Alcuni, oltre a non crederci, si divertivano a prendermi in giro. Naturalmente potrei costringere gli increduli a venire con me nel parco, per fargli vedere il blocchetto magico e sfidarli a sollevarlo. Ma non ho voglia di perdere il mio tempo con chi ride di me. Lo farò soltanto se incontrerò qualcuno che se lo merita. Se poi è una ragazza, le chiederò di venire a vivere con me e quel pezzo di metallo sarà il nostro amuleto.

P.B.






Ridere con Tarantino

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Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh e Bruce Dern.

Al cinema con Freud.

Mi sarebbe piaciuto vedere The Hateful Eight con Sigmund Freud seduto sulla poltrona accanto, per poi farmi spiegare da lui, a cena, cosa ne pensa dei meccanismi emozionali del cinema splatter. Io provo un certo disgusto nel vedere splash esagerati di sangue, poltiglia di cervelli, vomito a profusione, interiora in libera uscita dalle sedi anatomiche ufficiali, teste esplodenti come gavettoni di ragù presi a fucilate. Non provo alcun piacere in tutto questo, e perciò evito i b-movie sugli zombi e i serial killer più sadici e fantasiosi, a meno che non m’incuriosiscano per qualche ragione diversa dalla semplice e ripetitiva espulsione di frattaglie e liquami organici. Ho smesso, dopo qualche prova, di annoiarmi con George Romero e Dario Argento, sebbene molto amati anche da un pubblico non necessariamente specializzato nel gusto della mattanza o dei flussi intestinali alla deriva. Nemmeno Il silenzio degli innocenti, graditissimo a moltitudini che lo considerano un capolavoro, mi ha mai commosso o rallegrato.

Kurt Russell e Samuel L. Jackson.

Dicono che lo splatter sia divertente: una variante tragica della comicità, talmente iperbolica da suscitare scoppi d’ilarità incontenibili; e che funzioni un po’ da esorcismo (sei impressionabile? ridiamoci sopra) e un po’ da valvola di sfogo (vuoi ammazzare la suocera? non ce n’è bisogno: sullo schermo te la facciamo a pezzi e te la brasiamo gratis). La morte, purché brutalissima, diventa gag. In tal senso il cinema horror non fa che aggiornare e gonfiare la malignità di meccanismi ormai desueti, da comica del muto, quando si rideva ingenuamente del tizio che sta per scivolare sulla buccia di banana; e si sa che una caduta violenta, seppur generata da un banale avanzo di frutta gettato sul marciapiede, può spaccarti il cranio, amico mio.

Jennifer Jason Leigh.

Questi erano i pensieri che mi frullavano in testa nella parte finale di The Hateful Eight, quando il regolamento di conti fra i suoi personaggi trasforma un emporio isolato fra le nevi in un mattatoio di gaia ed esuberante ferocia. Mi è piaciuto il film di Tarantino? Sì, tantissimo, come Le iene, Pulp Fiction, Django Unchained. E perché mai? Perché Tarantino scrive dialoghi al pepe nero, sa creare meraviglie visive (superbe le scorrazzate delle diligenze in mezzo alla bufera di neve), sa ricavare dagli attori prestazioni entusiasmanti. Sa manipolare e mischiare generi e sottogeneri in modo vulcanico e beffardo: questo è un western, un dramma, una commedia, uno splatter, un romanzo storico, un racconto d’azione e d’avventura, un thriller, una parodia (di tutto: da Ombre rosse agli spaghetti western, cotti però in una cucina da doppia stella Michelin). Quentin, inoltre, s’intende anche di musica, perché è riuscito a cavare da Ennio Morricone una delle sue colonne migliori di sempre, senza farsene fagocitare. E come se ciò non bastasse, Quentin è uno spirito così libero che se ne frega di Freud.

Samuel L. Jackson.

A cena Sigmund, che per ragioni anagrafiche ha studiato più gli incubi dei nostri bisnonni che i sogni di Tarantino e dei suoi fan, mi farebbe una dotta disquisizione sulla natura invariabilmente sessuale dei motti di spirito; ma ciò che vorrei sentire da lui è come la sessualità interagisca con lo show pirotecnico di sparatorie e impiccagioni, rendendole godibili fino alla soglia dell’orgasmo.

La comicità di Tarantino riesce a far ridere anche me, vuoi per i dialoghi, vuoi per certe gag – non l’estrema macelleria dei corpi ma, ad esempio, le gomitate con cui il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) sfigura il volto della perfida prigioniera Domergue (Jennifer Jason Leigh). La cattiveria di Tarantino – fors’anche alquanto misogina: prof, dove sei? – ha qualcosa di mostruoso e di giocoso, di squinternato e d’innocente, ed è cinema al massimo grado d’immaginazione e d’impaginazione. Il suo cinismo gli fa inventare western dove i buoni, se mai ce ne fossero, sono già morti prima dei titoli di testa, in modo da sgombrare subito il campo da potenziali rigurgiti di amabilità: cattivi contro cattivi, in parità si ragiona meglio e nessuno è tenuto a fare il santo o l’eroe. Certo, ci sono cattivi più simpatici di altri, ma ciò non li obbliga né alla filantropia né alla buona educazione. Comunque nelle arene di Roma antica il popolo si divertiva un sacco agli sbudellamenti dei gladiatori (lo sbranamento di cristiani non è stato provato), e pure alle decapitazioni della révolution partecipavano masse festanti. Di consolante c’è che The Hateful Eightè solo finzione, il sangue è veramente sugo di pomodoro: il cinema è più innocuo degli imperatori romani e di Robespierre.

Tim Roth.

Un altro pensiero che mi stuzzica, quando rido al cinema (purtroppo di rado), è che la maggior parte dei film che mi hanno fatto ridere non aveva attori comici nel cast. Nel multisala dove ho visto Tarantino davano, in contemporanea, Quo vado? con Checco Zalone (supersuccesso della stagione), L’abbiamo fatta grossa con Verdone e Albanese, Onda su onda di e con Rocco Papaleo, Zoolander n. 2 di e con Ben Stiller, tutte cose che andrei a vedere solo se cospicuamente incentivato da un improbabile mecenate; ma che da sole, e con altre commedie in programma francesi, americane, talune animate e rivolte all’infanzia, testimoniano l’irresistibile bisogno di risate dello spettatore vessato da una quotidianità non sempre felice. E mi chiedo perché io, al posto loro, non riderei affatto, avvelenandomi di sbadigli; e perché le battute e le smorfie dei comici mi deprimono, mentre trasudo letizia se rivedo per l’ennesima volta Uno, due, tre! di Billy Wilder (1961), interpretato da un attore severamente drammatico come James Cagney. Non ci sono comici nei film di Tarantino: non lo sono né i suoi habitué come Samuel L. Jackson e Tim Roth, rispettivamente il maggiore Marquis Warren e il boia Oswaldo Mobray in The Hateful Eight, né gli ospiti di turno Kurt Russell e Jennifer Jason Leigh; eppure si ride di cuore e di budella, perché a smuovere il riso non devono essere (secondo me) gli individui di per sé, ma il loro comportamento quando sono intrappolati in una situazione difficile, goffa o semplicemente imprevista.

Tim Roth e Walton Goggins.

Tarantino ha messo in piedi un circo stupefacente, alternando prodigi emozionanti che vanno dalla vastità degli spazi innevati (come in The Revenant di Iñárritu) alla claustrofobia del bazar dove la tensione elettrica fra i personaggi cresce ad ogni bip cardiaco. Sfido qualunque Verdone o Papaleo ad avere una concezione così grandiosa della spettacolarità, e così realistica della recitazione. Perché qui le smorfie sono contenute al minimo, le battute sono feroci ma non sottolineate da ammiccamenti e gomitatine da Legnanesi, persino le circostanze più enfatiche e inverosimili (il maggiore Warren che trascina un prigioniero completamente nudo nella neve e lo costringe al sesso orale!) sono trattate come se fossero plausibili.

Nel cast c’è spazio per caratterizzazioni sublimi: non solo quelle degli attori già citati (inarrivabile Tim Roth nel ruolo di un compitissimo lord della forca), ma anche quelle del vegliardo Bruce Dern (già strepitoso nel recente Nebraska, oltre che nei film di quand’era più giovane) e del semisconosciuto Walton Goggins, che interpreta lo sceriffo Mannix con una petulanza da standing ovation.

P.B.

Channing Tatum.


The Hateful Eight
Sceneggiatura e regia: Quentin Tarantino
Direzione della fotografia: Robert Richardson
Musica: Ennio Morricone
Montaggio: Fred Raskin
Cast: Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demián Bichir, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, James Parks, Channing Tatum
The Weinstein Company, USA, 2015.

 
Samuel L. Jackson.


Panebianco, pane nero

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Bologna. Contestato il Panebianco
durante la lezione all’ateneo.
Accusano il barone d’esser reo
di stare de’ belligeranti al fianco.

Striscioni, voci, epiteti ed insulti
all’editorialista del Corriere
di cui non si sopporta che sia alfiere
di destri e di destrissimi singulti.

Va bene. Non va bene. Se si attacca
la libertà del professore inviso,
il libero pensiero pur s’intacca

di ogni pensatore condiviso;
e la democrazia finisce in vacca,
e il pane nero vince senza avviso.

P.B.



Esiste l’Uomo?

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Confidenze a un amico che non ho conosciuto.


Esiste l’Uomo? Sono agnostico al riguardo.

L’Uomo si è creato a immagine e somiglianza di sé stesso. È una condizione da cui fatica a sbloccarsi.

Illudendosi di esistere per volontà superiore e non per banale accidente materico, l’Uomo ha creato Dio a propria immagine e somiglianza. Gli ha conferito poteri da Superman e la prerogativa di promulgare leggi assolute, ma ha serbato a sé stesso il diritto di trasgredire.

Il libero arbitrio è arbitrario, ma non necessariamente libero.

L’Uomo non crede nell’Uomo. Crede in sé stesso, anche quando sa di sbagliare.

L’Uomo ha inventato le religioni nei momenti di bisogno, cioè ogni volta che ha dubitato di sé stesso. Le religioni sono figlie del dubbio, che a quanto pare è anche il loro peggior nemico.

Se l’Uomo esistesse davvero, sarebbe alquanto diverso da come immagina di essere.

L’Uomo ha talmente paura della morte da procurarla, per scaramanzia, a tutti i nemici che può.

In quanto infedele alla propria specie, l’Uomo – se esistesse – sarebbe l’unica specie terrestre a negare sé stessa.

L’Uomo ha inventato la politica per gestire l’economia, e l’economia per gestire la politica.

L’Uomo ha inventato la tortura e l’omicidio per punire chi esiste davvero.

L’Uomo ha inventato la diplomazia per mascherare i suoi crimini, la democrazia per occultare il suo autoritarismo, la dittatura per andare per le spicce, la propaganda per indorare il tradimento. Poi, come un artigiano insoddisfatto del proprio lavoro, ha inventato l’anarchia per liberarsene.

Secondo Polifemo, l’Uomo è Nessuno. Secondo Pirandello è Uno, Nessuno e Centomila. Secondo la maggioranza, l’Uomo è Quasi Tutto. Il Tutto Assoluto non è mai dell’Uomo, ma del singolo individuo.

L’Uomo passa tutta la vita a dimostrare di esistere. Persino il suicidio è un tentativo di soluzione dello stesso teorema.

L’ottimismo non è né un vizio né una virtù: è una funzione biologica, non meno giovanile dell’acne, innescata da appositi recettori del sistema immunitario. Serve a proteggere il lettore incautamente finito su questa pagina.

Il pessimismo è un punto d’arrivo, come l’Aids. Ma si può curare con l’Alzheimer.

L’Uomo ha creato la verità per poterla falsificare a piacimento. I servizi segreti d’Egitto ne sanno qualcosa.

Anche chi muore ubriaco nacque astemio. Anche chi muore ignorante nacque saggio.

Smettere di fumare è più difficile che smettere di mentire. E di uccidere.

Homo sapiens, iena ridens. Il secondo verbo è più onesto del primo.

Io esiste. Tu no.

P.B.














Micitero

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Micitero

Qui giace Flik, regina dei caravan.
Quando gli zingari abbandonarono il campo
si aggirò notte e giorno fra labirinti d’erba
finché non trovò un padrone accettabile.
Tutta la vita si morse la coda
per regolare i conti col passato.


Qui dev’esserci Piuma, avventuriera
e scalatrice, giunta dai nonluoghi.
Nessun tetto era troppo alto per lei,
nessun merlo abbastanza veloce.
Nell’orto è rimasta la scatola di scarpe
dove fu vista l’ultima volta.


Qui c’è Misha, madre di Panda,
madre di tutte le madri, scovatrice
di lucertole, talpe e bisce clandestine.
Fece perdere la testa a tutti i topi della zona
finché non perse la sua nell’incantesimo
abbagliante di due fari di Mercedes.


Qui giace Brahms fra molti altri maschi
morti di primo amore, quando il confine
dell’orto si fa stretto e la vita
ti chiama altrove. Qui c’è Roxana
fiduciosa di tutti, anche del cane triste
che le sciolse le ossa come si scioglie un nastro.


E qui c’è Zombi, più sventato del vento;
se ne andò a spasso nell’età dei giochi
per vedere qualche altro orizzonte.
Ricomparve quando nessuno lo aspettava più,
forte e limpido come non era mai stato.
Felice visse altri due giorni prima
dell’ultima incursione sull’asfalto.

P.B.






Pubblicità nuda

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Manifesto francese del 1905. Autore: un L.W. non meglio identificato. Stampa di Georges Massias.

Pubblicità nuda
(1988 circa)


Ogni tre settimane vengo intervistato al telefono sui temi più scottanti. Esempio:

«Signor Barbella, stiamo preparando un servizio su pornografia e pubblicità. Qual è il suo punto di vista sul trend in atto?»

Oppure:

«Stiamo uscendo con una cover story sulla crisi dell’adulterio: Attrazione fataleè un segno eloquente dei tempi. È la paura dell’Aids a promuovere il rilancio del matrimonio? Lei, come pubblicitario, che rapporti ha col fenomeno? Ce l’ha un’amante?»

O ancora:

«Lunedì prossimo pubblicheremo un’inchiesta sull’incalzare della volgarità nella comunicazione. Lei ha avuto qualche esperienza recente con la censura della Sacis o col Giurì di Autodisciplina? In che stato si trova la sua fedina professionale?»

Leopoldo Metlicovitz, Varo della nave Roma, 21 Aprile 1907, Officine G. Ricordi & C.

A questo tipo di domande, di solito, rispondo educatamente che il fenomeno non esiste o è irrilevante. Se si tratta del nudo in pubblicità (tema gettonatissimo: negli ultimi anni sono stato interrogato almeno trenta volte sulla questione), faccio notare che l’esposizione di corpi svestiti era assai più frequente sui manifesti del primo Novecento che nella pubblicità di oggi. All’interlocutore (più spesso interlocutrice) non piace molto, però, sentirsi confutare la tesi di partenza: negata quella, addio inchiesta. Sicché, della mezz’ora di appassionata conversazione telefonica, non restano che due righe lapidarie il cui contenuto, oltre che estraneo al mio pensiero, suona spesso surreale:

«Per Pasquale Barbella, direttore creativo dell’agenzia X, il seno è più efficace del sedere.»

Oppure:

«Barbella sostiene che una casalinga si riconosce dalla fede al dito.»

O ancora:

«Per Barbella, Drive Inè più trasgressivo del gelato Orlando.»

Marcello Dudovich, Fisso l’idea, 1899.

Alle mie presunte e sintetiche dichiarazioni si affiancano quelle di autorevoli colleghi, tutte accuratamente selezionate in funzione del teorema che si vuole dimostrare. Il montaggio che ne risulta è un miniscoop pseudo-sociologico che serve a giustificare un paio di chiappe in copertina.

Amici giornalisti, siete molto simpatici e potete intervistarmi ancora, tutte le volte che volete. Sul trend delle fotomodelle asiatiche. Sull’inarrestabile declino della tintarella. Sulla metafisica e la giurisprudenza dell’ombelico. Sulla dimensione ideale del capezzolo nell’Europa del novantatrè. Sul comune senso dell’impudicizia.

La pubblicità, però, è un’altra cosa. Parlatene meno, ma parlatene meglio.

Grazie.

P.B.

Leopoldo Metlicovitz, Os vinhos de Oporto de Aramos Pinto, 1915.




Dal diario di Rocco

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Dal diario di Rocco

Salve, sono Rocco Salvatore Maglino, in arte Rocky Jr. Il mio motto è «Se non mi conosci, mi eviti». Ho imparato a menare le mani quando facevo il buttafuori freelance di un cesso di discoteca. Sono un tipo tranquillo ma non mi faccio mettere sotto da nessuno. Non so se mi piego.

Sono un cittadino libero (cioè disoccupato), liberista e bicamerale, in quanto affittuario con mammà di due locali più servizi zona Baggina, downtown Tangentopoli.

Guido come un fulmine una Honda Civic 3 porte, reginetta del mercato compatte, e faccio vedere i sorci verdi al primo prepotente che mi capita a tiro di clacson.

Sono autodidattico di natura. Se volessi potrei rifare d’insana pianta tutta la casa di ringhiera dove sto, ma non ho tempo per queste cose. Mammy insiste ma le ho detto che sono allergico alle vernici: è furba ma alla fine ci ha creduto. Ho invece migliorato assai le mie tecniche di P.R. fai-da-te e so come braccare quelli che possono darmi una mano a emergere dalla condizione di aspirante artista permanente. Aspiro da quando facevo lo showman all’ultimo banco delle elementari e collezionavo i primi autografi. Ne ho di tutti gli anchormen e le anchorwomen di ieri e di domani, compreso uno in osservazione giudiziaria per eccesso di corteggiamento molesto.

Anch’io mi esercito con la Montblanc, raffinata produttrice di autografi, perché non si sa mai.

Ho messo da parte cento copie del mio autoscatto più figo, in giacca D&G aperta sul nudo torace, cintura bassa e occhiali Ray-ban, firmate una per una e destinate alle prime cento fans del Rocky Jr. Maglino Club. Astenersi racchie.

Di recente mi è scappata la mano e ho firmato anche un contratto con un distinto talent scout della provincia di Padova. Ho anticipato le spese rimettendoci l’emolumento una tantum che mia madre mi aveva erogato per comprare il PC. Ero stato scelto come protagonista maschile, anzi più che maschile, di un film in costume e senza, intitolato Triangolo, di cui si dava per certo il lancio alla mostra di Venezia. Con Valeria Marini nella parte della monaca di Monza, la Raffaella Zardo nella parte dell’Innominata e io nella parte di Triangolo, un bravo post-manzoniano che squarta gli untori e fa girare la testa e le tette alle untrici. Il talent scout aveva talento da vendere e io ne ho comprato un bel po’, tant’è che lui è scomparso dalla circolazione e io sono di nuovo al verde; anzi in bianco, cioè in mutande CK di quel colore. Slip sgambati. I boxer non vanno più, li ho regalati tutti alla Caritas.

Ho scritto sia alla Valeriona che alla Raffaella, chiedendo come mai il progetto si è arenato. Attendo risposte. In fondo il film si può fare anche senza talent scout se loro, le mie partnerissime, ci mettono un po’ di buona volontà. Hanno tante di quelle aderenze! Già che c’ero, ho allegato anche una mia polaroid un po’ osé (già pubblicata dalla redazione di Max, mica noccioline) da cui risulta chiaro che il fisico ce l’ho. Non solo i muscoli, ma anche il look interiore, da Rambo romantico.

Potrei interpretare indifferentemente sia ruoli eroici che ruoli erotici, secondo necessità. Anche ruoli da Oscar, volendo. Ho praticato fitness a non finire, avendo smesso di fumare prima del dodicesimo compleanno. La mia mission è palestra, bodybuilding e karatè, per tenere in campana la massa muscolare e la prontezza di riflessi in caso di set improvviso.

Non sono di primo pelo: mia madre ha torto marcio quando mi dà dell’imbecille. Volevo vedere lei al posto mio. Come fai a non fidarti di un imprenditore del Nordest? Ci sarebbe cascata in pieno anche lei, nonostante la sua mortale indifferenza al richiamo dello spettacolo. Vanzina, Bigas Luna e Tinto Brass non li ha nemmeno sentiti nominare: è ancora ferma alla Corazzata e alla nouvelle vague, avendo frequentato da giovane il cineforum della cellula di quartiere.

Cinque anni fa ho sfondato ufficialmente nel fotoromanzo. In L’ultimo sogno infranto ho fatto il fratello di Antonio. Muoio di Aids per via delle cattive compagnie, ma Antonio fa credere a Fanny che sono deceduto di epatite virale perché si vergogna. La verità viene a galla soltanto alla fine, quando la migliore amica di Fanny, respinta da Antonio, vuota il sacco per soddisfare la propria insaziabile sete di vendetta.

Io nel fotoromanzo mi vedo praticamente all’inizio. Nel primo fotogramma rilascio le ultime parole: «Addio fratello. Non volevo che finisse così.» Nel secondo mi estinguo, con la faccia intrisa di lacrime e sudore freddo (basta cacciare la testa nel lavandino senza asciugarsi) e i capelli spettinati da un professionista, che me li ha impastati di gelatina.

Immacolata ammette che i capelli alla Grease mi donano, ma tanto non la sposerò mai perché ha un accento esagerato: se ne accorgono anche i non udenti che viene da almeno seicento chilometri sotto il Po.

Appena uscito in edicola, ho comprato trenta copie del fascicolo col fotoromanzo per smistarlo a gente del giro giusto: Ezio Greggio, il cav. Berlusconi, le Carlucci sisters, Emilio Fede e diversi altri vip, compreso il Gabibbo. Mi sono dato disponibile per qualsiasi impiego: fiction, talk-show, varietà, reality, Sanremo. Già, forse non vi ho detto che sono tenorilmente intonato per dotazione spontanea e che ho scritto non una, ma ben due canzoni postume, entrambe inoppugnabilmente sentimentali, tipo Baglioni per intenderci. Una si intitola Amore non lasciarmi questa sera e l’altra Piccolo grande amore 2, essendo proprio il sequel del Piccolo grande amore originale. Ci terrei a farla sentire a Claudio per uno spassionato parere favorevole, senza alcun impegno da parte mia.

Non per metterla giù dura, ma per quanto riguarda la pop music sento di avere l’attrezzatura giusta per le classifiche. So come coinvolgere emotivamente i teens, che sarebbero quelli che comprano i dischi. Mamma mi dà del tamarro ma io sono un tamaro, vado alla grande dove mi porta il cuore.

Immy ogni tanto mi dice: «Lascia perdere, Ro’, cercati un lavoro sicuro, hai trent’anni suonati.» Sì, lavoro sicuro. Senti chi parla: Fulminante Maria Immacolata, professione commessa. E mica alla Rinascente, da Sephora o da Compro Oro: in uno shop camionale di frutta e verdura dell’hinterland, da hinterista senza speranza, mentre il qui presente, Milano-città da due generazioni due, è milanista per diritto civile.

Sto all’erta: aspetto che la fortuna mi salti addosso come una belva. Anzi – da dinamico self made man versato in effetti speciali – mi prodigo per avere presto un meeting con lei: potrei esserle utile. Sono il suo artefice ideale, perché so benissimo che chi dorme non piglia pesci.

Non equivochiamo, però. Io certi pesci non li piglio neanche da sveglio. L’anno scorso vedo questo individuo sul treno, il tipico mostro da sbattere in prima pagina: una palla di lardo che dopo mezz’ora di ronda nel corridoio viene a sedersi indovinate dove? Proprio nello scompartimento della mia privacy ferroviaria, sebbene l’intera carrozza sia più vuota di un ossobuco usato.  Parla e riparla, finisce che si qualifica come impresario culo-e-camicia con tutto l’olimpo dello show business. Magari voi state già pensando: eccolo qua un altro che ti ha scucito il portafoglio, come il latitante del Padovano. Altro che portafoglio, questo a momenti mi scuciva la patta del 501. Quasi lo sventro con un colpo di gomito, e la cosa finisce lì.

Sono mica uno che se ne sta con le mani in mano. Mi sono arruolato, tanto per bruciare le tappe e seppellire i tempi morti, in una primaria agenzia di fotomodelli e mi hanno invitato a fare un provino per uno spot di sughi pronti. Certo avrei preferito una copertina di Vogue Uomo, ma anche la pubblicità non è male come trampolino di slancio. Pare che Brad Pitt abbia cominciato la carriera proprio così. Nel provino, ripreso con una telecamera verace, indossavo uno scicchissimo maglione norvegese modello Nordsjø a girocollo, tipico degli esploratori del Grande Nord, che mi è costato un pacco di soldi in prestito. Dovevo mangiare, fingere entusiasmo e recitare la frase: «Uhm...Cosa hai fatto, cara? Non è il solito ragù!» Mi sono esibito di faccia e di profilo col metodo Stranislavsky e giuro che la frase mi è venuta da dio, con l’espressione di Schwarzenegger quando lo fanno incazzare. Hanno scelto un altro, un inglese più scialbo di un ronzino a riposo, con la scusa che ci metteva più carisma. Carisma un cazzo! Se un giorno arrivo a casa e scopro che mia mamma ha usato quei sughi per rovinare i suoi spaghetti da quattro stelle di critica e di pubblico, come minimo la faccio interdire.

La vocazione per la audience me la porto dentro fin dall’infanzia. Nel ’73 ho fatto il diavolo a quattro per convincere mamma a iscrivermi allo Zecchino d’Oro, ma è stato come sbattere la testa contro il muro di Berlino. «Te lo do io lo Zecchino», e giù sberle, nonostante le sue prediche sulla non violenza e Il mio bambino dell’abominevole dottor Spock sul comò accanto al libretto rosso, al ritratto in cornice del Che e alla Lettera alla professoressa di quel prete. Mamma, che La Russa la perdoni, è stata sempre più rossa del ketchup e del morbillo: il suo mago non era Zurlì, era Zedong. Stravedeva per il vecchio Mao, anche quando nessuno ci credeva più.

Mia mamma ha passato la vita a far casino contro tutto e contro tutti, e in più è stata sempre femminista di brutto: per forza che non l’ha sposata nessuno. Mio papà se la svignò nel fiore del celibato, quando ella era al secondo mese di gravità. Lei sostiene che lui era uno studente operaio militante di Lotta Continua, ma figuratevi se ci credo. Dice così per umiliare le mie ambizioni e cancellare quanto di più aspirazionale c’è in me: l’edonismo, il feeling per la qualità della vita, lo stile. La vecchia non me la conta giusta. Tra i suoi molteplici impegni, per un certo periodo ne ha avuto uno in un’impresa di pulizie al servizio della Rai. Sexy com’era, vuoi che non abbia suscitato l’interesse di un Corrado, di un Mike, di un Paternostro? Chi è mio padre? Un giorno dovrà pur materializzarsi questo fantasma. Aspettate che faccia un po’ di grano per procurarmi un principe del foro con le palle e poi faccio causa a tutti i big della tv, vivi e morti, finché non salta fuori quello col dna malandrino.

Come potete arguire, non mi manca il coraggio della sincerità. Non vi nascondo niente delle mie origini e dei bidoni che ho incassato dal destino, tanto lo so che le biografie delle star sono tutte più o meno scioccanti. Nel 2017 scriverò un libro di memorie intitolato I miei primi cinquant’anni: un’opera epica che farà epoca. Perché farà tremare svariate celebrità che non hanno ancora avuto la fatale occasione di entrare nella mia vita.

P.B.





Anziani alla riscossa

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Immagine tratta dal sito della Qada (Queensland aged and disability advocacy), organizzazione australiana non-profit che si occupa di anziani e disabili.

Anziani alla riscossa
(1997)

C’era una volta un lacrimevole valzer intitolato Tutte le mamme. «Son tutte belle le mamme del mondo / quando un bambino si stringono al cuor», cantava Gino Latilla con l’ugola vibrante di filiale commozione. Quarantaquattro anni dopo le stesse mamme, promosse (o retrocesse?) alla condizione di nonne dall’incalzare del tempo e della biologia, riscoprono arditamente le tensioni dell’adolescenza, il desiderio di piacere, le passioni proibite. E i loro compagni, vispi ottuagenari scampati alla crociera sul Titanic e a tutti gli iceberg della vita, scendono in campo per competere direttamente contro DiCaprio, sfoderando un sommesso ma efficace sex appeal.

Questo, almeno, è quanto risulta dalla pubblicità. E la pubblicità, diciamolo pure, è talvolta un attendibile telescopio puntato sul nostro avvenire: una rivelatrice di indizi, un voyeur di tendenze in corso o imminenti, sia pure incline a qualche esagerazione.

Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve (Hundraåringen som klev ut genom fönstret och försvann) è un film del 2013diretto da Felix Herngren e basato sull’omonimo romanzo dello scrittore svedese Jonas Jonasson.

Se l’ultima pubblicità di Mandarina Duck ci proietta nel 2037, facendoci assistere al matrimonio di un Miroslav (97 anni) e di una Irina (92), Diesel si spinge anche oltre. La nonna di Cappuccetto Rosso, stufa di immolarsi passivamente alle fauci del Lupo cattivo, indulge ad alluparsi in prima persona e a tendere la mano verso gli effetti personali d’un assopito vicino di sofà. Ciò che le interessa non è propriamente il bastone della vecchiaia al quale l’ignaro, provato dai troppi compleanni e dal whisky on the rocks, si affida per trarne adeguato sostegno.

La tarda età sta dunque scoprendo che un sano orgasmo è più eccitante dell’estrema unzione? Chissà. Sta di fatto che al giorno d’oggi si rileva, in modo sempre più nitido, l’effetto congiunto di due opposti fenomeni: si nasce di meno, si muore in ritardo. Da una parte i miracoli del preservativo, dall’altra quelli del bypass: ed ecco che i grafici Istat sulle fasce d’età della popolazione schizzano baldanzosi verso l’alto.

Foto di Martin Parr/Magnum Photos.

L’invecchiamento della società dovrà pur comportare qualche conseguenza, nei costumi e nei consumi. È sintomatico, peraltro, che fra i primi prodotti sensibili al motto «vegliardi ma gagliardi» ci siano marche di ciclomotori e di jeans: settori tradizionalmente fedeli all’universo del teenager, almeno nella comunicazione commerciale.

Del resto gli stessi giovani sono un’invenzione storicamente recente. Fino agli anni cinquanta era come se non esistessero. L’umanità passava direttamente dal girello al cappello. Se sfogliate l’album di famiglia e vi soffermate sul ritratto d’un qualsiasi ventenne d’inizio novecento, gli darete volentieri quarant’anni a causa dell’austerità conferita dai baffoni, dal cipiglio, dalla postura e dall’abbigliamento. I cosiddetti «ragazzi del ’99» furono spediti ai fronti della prima guerra mondiale senza tanti complimenti; l’unico fastidio da cui furono esenti fu la rasatura quotidiana in trincea, essendo ancora imberbi. Più tardi qualcuno patrocinò a gran voce l’inno «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza»; ma la tanto conclamata giovinezza era ancora una volta di tipo muscolare e patriottico, virilmente spendibile in caso di urgente bisogno militare.

Foto di Martin Parr/Magnum Photos.

Tra il 1954 e il 1955 i pionieri del rock and roll, e James Dean con Gioventù bruciata, annunciarono l’avvento di un nuovo soggetto sociale: il Ragazzo, polemicamente contrapposto all’Adulto e capace di decisioni autonome, meglio se irregolari. Il marketing tradusse prontamente questa prodigiosa apparizione in opportunità, e contribuì alla fondazione di un sistema culturale ad hoc, infiltrando soft drink, gomme da masticare, motociclette e calzoni di tela fra le abitudini e le inquietudini della nuova generazione.

Accadrà qualcosa di simile con gli anziani, ora che i minorenni diventano minoranza? E con quali modalità e proposte? Fino a ieri, la pubblicità si occupava dei nonni solo per vendergli dentiere, pannoloni e apparecchietti acustici. Se proprio si voleva inscenare un senile colpo di vita, al massimo si arruolava una immacolata vecchietta per farle decantare le virtù del candeggiante per bucato. Ora che buona parte del parco consumatori si avvicina inesorabilmente al parco delle rimembranze, come cambierà la pubblicità? Venderemo gite organizzate in Florida e a Monte-Carlo? Costruiremo nuove Disneyland per il tempo libero dei pensionati? I maestri del prêt-à-porter inseriranno finalmente pantofole e papaline firmate nelle loro collezioni? Esploderà il boom dell’antirughe o quello delle polizze assicurative sul femore?

Foto di Martin Parr/Magnum Photos.

Nel frattempo fervono i preparativi. Siamo nella fase sperimentale. Per adesso i «diversamente giovani» della pubblicità giocano a fare gli enfants terribles; possono permetterselo, giacché i messaggi di cui sono portatori si rivolgono, in realtà, ai nipotini. Nessun centenario, a meno che non si tratti d’un potenziale compagno di merende, oserà prendere alla lettera la campagna Diesel, progettata per far colpo su età decisamente inferiori. Mentre sembra ancora vero che, per piacere agli attempati, conviene trattarli con rispettosa prudenza. Se si vuole coinvolgerli in un gioco osé, meglio mostrargli una top model col pannolone che una trisavola in tanga.

P.B.

Foto di Martin Parr/Magnum Photos.



Il mondo disegnato dai bambini

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Alle bambine e ai bambini piccoli e sereni piace disegnare le case, gli alberi, i fiori, le barche, le bandiere, i castelli, le stelle.

Le braccia dei personaggi sono più lunghe o più corte che dal vero. Idem le gambe.

A volte disegnano creature alate dall’aspetto umano. Non necessariamente angeli.

Raramente il cielo si abbassa al livello dell’orizzonte. Il cielo è una striscia sospesa sopra la terra, e non ama confinare con la striscia inferiore, che si presenta in forma di prato o di mare. Fra il cielo e la base c’è quasi sempre uno sfondo vuoto, fatto di aria o di niente.

I rami degli alberi spuntano, schizzando verso l’alto, da tronchi troncati di netto nel terminale superiore, che ha l’aspetto di una piattaforma di lancio.

Bambini di ambo i sessi vanno a pescare su barche coloratissime, e il sole si compiace – ridendo di gusto – della loro abilità. Il mare è pescosissimo, come doveva esserlo prima di impoverirsi; nel cielo volano le rondini.

Il colore delle cose va ben oltre la realtà. Se c’è una pioggia di cuori, il rosso appartiene a uno solo. Gli altri cuori sono bianchi, verdi, rosa, viola, gialli, blu, arancio, marron e neri. La varietà dei colori piace ai bambini. Solo i grandi hanno il vizio di discriminare.

Gli alberi non sono tutti uguali. Ci sono alberi con i rami ben visibili, e altri sormontati da una soffice sfera verde.

A volte le case hanno il tetto a punta, un vertiginoso triangolo rosso dai netti contorni neri, marcati. Sul vertice gira una folle banderuola, di forma imprevedibile.

Sui prati si aggirano creature con una vibrante piuma sul cappello.

Viste di tre quarti, anche le case più semplificate sono stilizzate con un’intenzione prospettica. Le finestre sono talvolta centrifugate fino agli estremi confini dei rispettivi muri; le porte, invece, preferiscono stare al centro.

Ci sono uomini col mantello di un blu elettrico, grandi orecchie sporgenti e capigliature svettanti, tre volte più voluminose di come piaceva a Jimi Hendrix.


I bambini non disegnano solo su fogli immacolati ma anche su documenti d’ufficio recuperati dal cestino, e non si curano delle scritte dei grandi. Sanno che i loro colori sono più forti e più importanti di qualsiasi fattura e di qualsiasi verbale.

I fiori hanno quattro grandi petali, preferibilmente gialli, e al centro un bel disco arancione.

Di notte il cielo è di un blu intenso, percorso da correnti marine. Anche se è ora di chiudersi dentro, gli scuri delle finestre sono spalancati.

Che ci fa una ragazza dall’abito verde sotto il ciliegio pieno di frutti, accanto a una scala rossa più alta del foglio da disegno? E perché indossa un cappello da predicatore mormone, sormontato da un mazzo di fiori azzurri?

Le bandiere vanno d’accordo tra loro, infischiandosene dei paesi che simboleggiano. Bandiere diverse sventolano sullo stesso castello, o anche in accampamenti dove la tenda del comandante è confezionata e colorata come un patchwork. Castelli, castelli, castelli: i bambini hanno una visione monarchica della politica, ispirata dalle favole e dai cartoni di Walt Disney.

Che cos’è un comignolo? Solo una casa in miniatura sul tetto di una più grande. È un bene che sia così, perché sul tetto vivono omini abbigliati da gaucho, e i comignoli sono le loro abitazioni.


Ai disegnatori in erba piace immaginare costruzioni a forma di scacchiera, con un colore diverso in ogni casella; e quando hanno usato tutti i colori disponibili, o sono stanchi di colorare, lasciano vuoto il resto della struttura, che somiglia per questo a una gabbia avveniristica.

Enormi stelle policrome dominano il paesaggio senza sentirsi obbligate ad aspettare la notte.

Bambini dalle gambe lunghissime reggono con un filo i loro palloncini a ossigeno, senza aver paura delle farfalle – anche se queste hanno la dimensione di una casa.

Farfalle giganti scortano anche la barca del pescatore, impavide come gabbiani.

Una fontana monumentale spruzza getti d’acqua da un cuore rosso, e nella vasca sottostante si formano onde impetuose.

La testa di un giocoliere vola senza corpo nel cielo. Egli ha solo un abbozzo di ali o di eliche sotto il mento, quanto basta per compiere prodigi con cinque palle simultaneamente.

«Sono l’anello della gabbia», dice contento un elfo da leggenda il cui corpo è una voliera. Dentro la gabbia un enorme uccello verde dal becco rosso, perplesso.

In primo piano il ciliegio carico di frutti; all’orizzonte quattro case alte e strette, gotiche d’aspetto e colore, con strani pennacchi geometrici in punta di tetto.

Sopra il castello c’è il cielo, sopra il cielo c’è un prato, sopra il prato una donzella dalle gambe corte, sopra la donzella un sombrero azzurro. Chi è? Come mai ha perso il naso e le labbra? Sembra confusa.

La principessa sorride; il principe, altissimo, pure. Indossano entrambi corone enormi, a forma di castelli: ma devono essere lievi da portare, a giudicare dal colore – tenue fino alla trasparenza.

Dell’arcobaleno si vede solo una sezione dell’arco; il resto è un oceano di cielo.


P.B.

I disegni di questa pagina sono stati realizzati da una bambina di cinque anni.



Vite da 8 marzo

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Manifesto tedesco per la Giornata della Donna dell’8 marzo 1914, con il diritto di voto come rivendicazione principale.

Ci sono donne che l’8 marzo
lo portano stampato sulla carta d’identità.

Anch’io, una volta, regalavo mimose. Poi ho smesso. Che senso ha essere sensibili, una volta all’anno, con metà del prossimo, invece di esserlo tutti i giorni col prossimo intero? L’8 marzo, certo, ha una storia e un valore secolari: il Women’s Day è un immenso contenitore di eventi e simboli, battaglie e conquiste difficili, e come tale merita celebrazioni e rilanci, memorie e strategie di progresso. Ho scelto di dedicare questo post a una piccola galleria di donne speciali, pescate in una categoria che le accomuna: sono tutte nate proprio l’8 marzo. Non che la cosa sia importante: non credo agli oroscopi. Ho usato il filtro “nate l’8 marzo” solo per limitare il campo di ricerca e non finire nelle citazioni più abusate: Jane Austen, Rosa Luxemburg, Marie Curie, Simone Weil – nate in giorni e mesi diversi – non hanno certo bisogno di ulteriori fan per essere ricordate. Nella mia galleria ci sono volti del passato e del presente. È un album come un altro: vale quanto un augurio e un saluto.

Patrizia Caporossi.

Caporossi nella Treccani.

Per Patrizia Caporossi, l’8 marzo è una data di nascita (1951) ma anche molto, molto di più. Perché è una delle donne più titolate a rappresentare i valori e la cultura del femminismo, tanto da essersi già meritata una voce nell’Enciclopedia Treccani. La riporto tale e quale, per paura di sbagliare: «Filosofa e storica delle donne italiana (n. Cupra Marittima 1951). Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma (1975), addottorata in Filosofia e teoria delle scienze umane a Macerata (2007), è stata dirigente provinciale dell’Unione donne italiane di Modena (1976-78), socia fondatrice dell’Istituto Gramsci Marche (1980), presidente provinciale dell’Istituto di storia del movimento di liberazione delle Marche di Ancona (1985-86) e commissaria della prima Commissione delle pari opportunità delle Marche (1987-91). Socia della Società delle storiche italiane fin dalla fondazione (1989), e dal 2009 della IAph-Associazione internazionale filosofe, nel 2011 ha aderito e contribuito alle iniziative del movimento Se non ora quando. Le sue specialità di studio e ricerca sono la filosofia e la storia delle donne, negli ambiti interdisciplinari dei Women’s Studies; ha inoltre curato e condotto corsi di formazione sulla comunicazione e sulla pratica della relazione, relativi alle metodiche maturate nel movimento delle donne. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Tina Modotti (1998); Seminare per fare politica (2000); Joyce Lussu e la passione politica (2002); Joyce Lussu e la storia (2003); Il giardino filosofico (2005); Il dono della libertà femminile (2006); Essere creare sapere (2008); Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile (2009); Il genere e il metodo; donne e scienza (2010); La matrice del Sé (2011); Vedere con gli occhi del cuore (2011); Simone Weil, l’indomabile (2011); Donne e Risorgimento (2011); Teti in mare (2012); Nel vivente ricordo del Sé (2012); La figura del docente (2013); Mia piccola libertà, ti chiamo per nome (2014).»

Cyd Charisse con Gene Kelly in Singin’ in the Rain (1952).

Le gambe più gambe d’America.

Cantando sotto la pioggia (Stanley Donen, 1952) è uno dei musical cinematografici più riusciti d’ogni tempo. La sequenza più famosa è quella in cui Gene Kelly balla per strada sotto un acquazzone, ma quella che amo di più è il balletto in cui viene sedotto, in sogno, dalla meravigliosa Cyd Charisse: capelli alla Lulu, sigaretta nel bocchino, abito e scarpe verdi e le gambe più vertiginose del mondo. La ballerina texana, nata l’8 marzo 1921 e morta nel 2008, partecipò a molti musical della Metro-Goldwyn-Mayer, danzando spesso in coppia con Gene Kelly o Fred Astaire.

Susan Clark, 1972.

Lady Macbeth.

La foto mostra Susan Clark nel 1972, nel ruolo di Lady Macbeth su un palcoscenico di Seattle. Da noi l’attrice canadese (8 marzo 1940) è più nota per i suoi ruoli cinematografici, per esempio nei film di Don Siegel Squadra omicidi, sparate a vista! e L’uomo dalla cravatta di cuoio, entrambi del 1968. C’era anche in Ucciderò Willie Kiddi Abraham Polonsky (1969), Airport 75 di Jack Smight (1974), Bersaglio di notte di Arthur Penn (1975). Grande popolarità con la sit com televisiva Webster, interpretata in 150 episodi (1983-1989) con l’ex giocatore di football americano Alex Karras, suo secondo marito.

Josephine Cochrane.

La donna che odiava lavare i piatti.

In Romania l’hanno commemorata con un francobollo, in Italia non la conosce nessuno. Era un’americana benestante ma controcorrente, nata nell’Ohio l’8 marzo 1839 e poi vissuta nell’Illinois. La sua casa era sempre piena di ospiti, e la cucina sempre piena di stoviglie da lavare. Dato il suo rango, la vedova Cochrane (nata Josephine Garis) non era certo sprovvista di personale di servizio; ma forse, oltre ai piatti sporchi, la infastidiva anche il sovraccarico di lavoro imposto alle collaboratrici domestiche e, intraprendente com’era, si chiese se non ci fosse un modo per meccanizzare quello spreco di sudore.

Non era stata la prima a pensarci. Già nel 1850, quando lei aveva solo undici anni, un inventore – un certo Joel Houghton – aveva brevettato un prototipo di lavastoviglie. Il signor Houghton però doveva essere poco pratico di faccende di casa: aveva creduto di potersela cavare con una macchina tutta di legno, dentro e fuori. Che illusione! La signora Cochrane aspettò fiduciosa gli sviluppi di quell’invenzione; ma siccome la macchina per lavare i piatti non progrediva, perse la pazienza e disse: «If nobody else is going to invent a dish washing machine, I’ll do it myself!» Che, tradotto in lombardo, sta per «ghe pensi mi».

Figlia di un ingegnere civile e nipote di un inventore, Josephine era cresciuta in un ambiente favorevole al progresso tecnologico. In famiglia era una passione per cui si poteva anche morire. Il nonno John Fitch, orologiaio e ingegnere di Indianapolis, aveva brevettato nel 1786 un motore Watt per battelli a vapore. Ma quando un concorrente gli soffiò il monopolio di quell’invenzione, Fitch annegò la delusione nell’alcol e infine si suicidò.

Josephine brevettò la prima lavastoviglie funzionante usando – con l’aiuto del costruttore meccanico George Butters – una ruota e una caldaia di rame. La sua idea fu premiata alla World’s Columbian Exposition di Chicago nel 1893. Alberghi e ristoranti dell’Illinois non vedevano l’ora di dotarsi di quella meraviglia. La signora Cochrane mise in piedi una fabbrica per produrla e fece un sacco di soldi, diventando così un’antesignana della moderna industria elettrodomestica.

Eva Dahlbeck con Ulf Palme in Sogni di donna di Ingmar Bergman (1955).

Un’icona di Bergman.

I film di Ingmar Bergman hanno reso celebri i volti di Bibi Andersson, Liv Ullmann, Ingrid Thulin, ma non bisogna dimenticare quello di Eva Dahlbeck (8 marzo 1920 – 8 febbraio 2008). Con il maestro recitò in Donne in attesa (1952), Una lezione d’amore (1954), Sogni di donna (1955), Sorrisi di una notte d’estate (1955). Negli anni sessanta si dedicò soprattutto alla letteratura, pubblicando poesie e racconti.

Marta Dassù.

8 marzo geopolitico.

È stata viceministro degli affari esteri nel governo Monti e nel governo Letta, e direttore generale delle attività internazionali di Aspen Institute Italia. Dirige Aspenia, rivista di politica estera. Marta Dassù (Milano, 8 marzo 1955), recentemente nominata dal governo Renzi nel C.d.A. di Finmeccanica, non è solo una presenza istituzionale ma anche l’autrice di saggi come La Cina e la crisi asiatica (Guerini, 1999), Guida ai paesi dell’Europa centrale, orientale e balcanica (Il Mulino, 2001), Mondo privato (Bollati Boringhieri, 2009).

Federica Fornabaio.

Quanti direttori d’orchestra conosci?

Facile, eh? Adesso una domanda più difficile: quante direttrici d’orchestra conosci? A me ne viene in mente, di botto, solo una: Carla Bley. (A volte anche artiste come Billie Holiday o Ella Fitzgerald venivano accreditate come bandleader, ma chiaramente non era questo il loro vero ruolo). Bley è nota agli appassionati di jazz; altrettanto nota dovrebbe essere stata la violinista Iona Brown, morta nel 2004, che diresse l’orchestra da camera Academy of St Martin-in-the-Fields dal 1974 al 1980.

Scrutando nel web ci si può imbattere, tuttavia, in sostanziosi elenchi di direttrici d’orchestra, anche se sono gli uomini a detenere tuttora il primato della categoria in termini di storia, quantità e popolarità. Per questa pagina ho scelto una giovane ottomarzista (1985) di Andria, Federica Fornabaio, che si è fatta notare anche in un festival di Sanremo (2009) e di cui sentiremo parlare sempre di più.

Sophia Grojsman.

Profumo di donna.

Molti profumi famosi sono legati a griffe maschili come Calvin Klein, Christian Lacroix, Karl Lagerfeld, Oscar de la Renta, Yves Saint Laurent... Ma dietro quei nomi c’è spesso la mano, anzi il fiuto, di Sophia Grojsman, autorità indiscussa del campo. È stata lei, nata in Bielorussia l’8 marzo 1945 e naturalizzata statunitense, a inventare magie come Eternity, Volupté, Paris, Yvresse, Bulgari pour Femme, Spellbound. Letto per intero, l’elenco delle sue creazioni è impressionante.

La profumeria non è solo estro e immaginazione: è scienza a tutti gli effetti. Prima di trasferirsi negli Stati Uniti, Grojsman aveva vissuto e studiato in Polonia, diplomandosi in chimica inorganica. Nel corso della sua attività è stata più volte premiata per le sue fragranze: uno dei riconoscimenti più prestigiosi è il Premio Leggenda Vivente, conferitole dall’American Society of Perfumers.

Maja Haderlap.

Per non dimenticare.

Con il suo primo romanzo, L’angelo dell’oblio, Maja Haderlap ha vinto nel 2011 il premio Ingeborg Bachmann. Maja – poetessa, drammaturga, saggista, narratrice – è nata l’8 marzo 1961 a Bad Eisenkappel/Železna Kapla in Austria, in una famiglia appartenente alla comunità di lingua slovena della Carinzia.

Il libro, che ha raccolto in Austria ampi consensi di critica e pubblico, rende giustizia a una minoranza trascurata d’Europa, che molto ebbe a soffrire a causa del nazismo e della sua ossessione per le pulizie etniche. La scrittrice va a caccia di memorie nei luoghi della sua terra e ne ricostruisce – con emozionante autenticità – vicende storiche e, in parte, familiari. In Italia L’angelo dell’oblioè stato pubblicato nel 2014 da Keller, piccolo ma lodevole editore di Rovereto.

Peggy March.

Marzo anche di nome.

Nata l’8 marzo 1948 a Lansdale, in Pennsylvania, Margaret Annemarie Battavio è più nota col nome d’arte Peggy March. Cominciò a cantare da piccola (Little Peggy March) e nel 1963 diventò una popstar di fama internazionale con I Will Follow Him, la versione in inglese di Chariot.

Fratassina e atassia.

Mi dispiace  di non essere riuscito a trovare un ritratto di Laura Montermini (8 marzo 1965), biologa milanese con una stella nel curriculum. Vent’anni fa, da borsista, partecipò a Houston – con un’équipe internazionale – alla ricerca che condusse alla scoperta del gene dell’atassia di Friedreich. La malattia è causata da un’anomalia genetica che provoca danni progressivi al sistema nervoso. Il nome di Laura Montermini è legato, con altri, alla scoperta della fratassina, una proteina la cui deficienza è responsabile dell’atassia di Friedreich.
Wanda Tettoni.

Di chi è quella voce?

Il doppiaggio è un’arte molto italiana e ci siamo abituati a riconoscere le attrici e gli attori stranieri da voci di casa nostra. Si può pensare ai doppiatori come ad artisti senza volto o dai molti volti, giacché passano con disinvoltura da una maschera all’altra. Sono spesso così bravi da competere con l’originale, anche se si esprimono, per così dire, dietro un sipario.

Alina Moradei.

Wanda Tettoni e Alina Moradei, due leggende del doppiaggio italiano, sono entrambe nate l’8 marzo. Wanda (1910-1998), senese, ebbe una carriera teatrale e radiofonica prima di partecipare alla fondazione della Cooperativa doppiatori cinematografici e prestare la voce a Katharine Hepburn, Agnes Moorehead, Ginger Rogers, Bette Davis, Gloria Grahame, Shelley Winters e tante altre star. Sue anche le voci di Madame Adelaide ne Gli aristogatti e di molti personaggi da cartoon, compresa la strega di Biancaneve nella riedizione del 1972. Ha lavorato per decenni senza interruzioni, fino al Titanic di James Cameron.

Alina Moradei (8 marzo 1928), ligure di Chiavari, è la voce di Angela Lansbury nei telefilm della serie La signora in giallo, ma nel suo carnet ci sono anche Maggie Smith, Katharine Hepburn, Joan Plowright, Olympia Dukakis e tantissime altre.

Christiane Paul.

Cinema, medicina e impegno sociale.

Christiane Paul (Berlino, 8 marzo 1974) è un’attrice tedesca di cinema e teatro. Il suo è un curriculum insolito: si è laureata in medicina dopo essersi già affermata come attrice. Nella sua filmografia c’è anche La polvere del tempo di Theodoros Angelopoulos. Christiane è molto attiva sul piano sociale: testimonial tedesca per la Giornata mondiale contro l’Aids, fa parte di Amnesty International e si batte per la tutela della biodiversità.

Lynn Redgrave.

Per Shakespeare e Brecht.

Lynn Redgrave (Londra, 8 marzo 1943 – New York, 2 maggio 2010) apparteneva a una grande famiglia di attori: il padre Michael, la sorella Vanessa, il fratello Corin. Ha fatto parte di compagnie teatrali di prestigio come l’English Stage Company e l’Old Vic, recitando Shakespeare e Brecht. Candidata due volte all’Oscar, ha lavorato con registi come Tony Richardson, Sidney Lumet, Woody Allen, John Schlesinger, David Cronenberg, James Ivory.

Sibyl von der Schulenburg.

Psiconarratrice.

Nata in Svizzera nel Canton Ticino (Sorengo, 8 marzo 1954) da una famiglia dell’aristocrazia tedesca, figlia di un letterato antinazista cui ha dedicato il libro Il Barone,Sibyl von der Schulenburg vive e scrive in Italia. Ha inventato un sub-genere letterario, lo psicoromanzo, che Sibyl descrive così: «È frutto di un’idea nata durante gli studi di psicologia, quando ho sentito l’esigenza di coreografare e circostanziare i casi clinici che studiavo. L’artigianato letterario era già presente in me, l’ho solo messo a frutto in maniera nuova. Lo psicoromanzo non ha nulla a che vedere con il romanzo psicologico, intende invece raccontare storie di disturbi e patologie psichiche offrendo dettagli tecnici col massimo della leggibilità: voglio che il lettore si diverta, i miei non sono libri da comodino.» (Da un’intervista rilasciata al blog Mangialibri.com).

Ha pubblicato, tra l’altro, i romanzi I cavalli soffrono in silenzio (2013), Huginn & Muninn (2013), Ti guardo (2014), La porta dei morti (2015).

Claire Trevor.

Regina del noir, ma non solo.

Attrice di primo piano negli anni trenta e quaranta, Claire Trevor (New York, 8 marzo 1910 – Newport Beach, 8 aprile 2000) ebbe una lunga e onorevole carriera nel cinema di Hollywood, guadagnandosi un Oscar per il suo ruolo ne L’isola di corallo di John Huston (1948). Era lei la protagonista di Strada sbarrata di William Wyler (1937) e di Ombre rosse, capolavoro di John Ford (1939). La chiamavano “regina del noir” per i molti thriller interpretati in quegli anni, talvolta accanto a Humphrey Bogart.

Alessia Trost.

8 marzo d’oro e d’argento.

L’8 marzo è favorevole agli sport. È il giorno in cui si celebrano, a iosa, i compleanni di atlete, biatlete, triatlete, schermitrici, cestiste, tenniste, sciatrici, calciatrici, pallavoliste, pallanuotiste, pattinatrici, nuotatrici... Per rendere onore alla categoria, ecco una foto di Alessia Trost (Pordenone, 8 marzo 1993), specialista di salto in alto, vicecampionessa europea indoor in carica. Ha vinto quattro titoli italiani assoluti e quindici nazionali giovanili. Detiene sei record italiani giovanili, tre indoor e altrettanti outdoor nelle tre principali categorie (promesse, juniores ed allieve). In tutte le rassegne internazionali cui ha partecipato, ha sempre raggiunto la fase finale (superando quella di qualificazione); e quando ha vinto la medaglia, è stata sempre d’oro o d’argento.

Una Troubridge.

Il mio nome è Vincenzo.

Lady Una Troubridge, scultrice e traduttrice britannica (8 marzo 1887 – 24 settembre 1963), si faceva chiamare Vincenzo e indossava abiti maschili in un’epoca in cui non era prudente rivelare in modo troppo esplicito la propria bisessualità. Del resto nemmeno Una era il suo vero nome, mentre Troubridge era il cognome del marito; all’anagrafe risultava come Margot Elena Gertrude Taylor. Era la versione femminile del dandismo, elegante, spregiudicata e cosmopolita (visse anche in Italia, ed è sepolta a Roma).

Fu lei, con le sue traduzioni, a far conoscere Colette nel Regno Unito. Il grande ballerino e coreografo russo Vaclav Nižinskij posò spesso come modello per le sue sculture.

Pasquale Barbella






Spotlight e la democrazia

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Nelle edicole turche è tornato il quotidiano Zaman, chiuso dalle autorità per le sue critiche al governo di Recepp Tayyip Erdoğan. Il quotidiano si è presentato con una linea editoriale filogovernativa. Erdoğan: «Finalmente un giornale che mi piace davvero.» (Kemensky, Slovacchia). Per saperne di più sulla vicenda di Zaman, clicca qui.



Art. 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»

Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti: «Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione, o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea, e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti.»


Quando il cinema confina con l’attualità.

Pochi giorni dopo la consacrazione di Spotlight, miglior film del 2015 per le giurie dell’Academy Award, la libertà di stampa subiva in Turchia l’ennesimo affronto da parte del potere politico. Il quotidiano Zaman, colpevole di appoggiare l’opposizione al presidente Erdoğan, è stato sequestrato, commissariato e scaraventato nel recinto dell’informazione filogovernativa. Il 5 marzo, una folla di sostenitori e dipendenti di Zaman è stata dispersa dalla polizia, che non ha esitato a usare i gas lacrimogeni.

Erdoğan è uno che va per le spicce. Non so se la costituzione turca preveda la libertà di opinione e di stampa: la questione è quasi irrilevante, dal momento che si tratta di un lusso troppo spesso tradito anche nei paesi che gli sono esplicitamente favorevoli. Del resto, Il caso Spotlight racconta proprio delle censure che le lobby più potenti (in questo caso la chiesa cattolica statunitense, pesantemente coinvolta in un festival della pedofilia) esercitano sul dovere d’informare e il diritto di conoscere.

Un manifestante mostra una copia di Zaman durante una protesta a Istanbul, il 6 marzo 2016. (Ozan Kose, Afp)

Spotlight– come il film che gli è strutturalmente più vicino, Tutti gli uomini del presidente (Alan J. Pakula, 1976) – è un riuscito esempio di cinema civile, ben diretto (Tom McCarthy) e magnificamente interpretato dall’intero cast. Il cinema di Hollywood, che per lunghi anni fu a sua volta tormentato da censure e autocensure (prima, durante e dopo il maccartismo), ha cominciato negli anni settanta a rivendicare il suo spazio di indipendenza fino a diventare una delle voci più critiche d’America sulle porcherie dei servizi segreti, della politica e delle congreghe di ogni tipo.

Naturalmente la libertà di stampa consente anche abusi intollerabili: se tutti hanno il diritto di pubblicare ciò che gli pare, ciò implica che si possono spacciare anche bugie mastodontiche, usare i media per compiacere il pubblico di bocca buona, creare ondate d’opinione a favore o a sfavore di avversari politici o finanziari, perseguire scopi equivoci o comunque estranei alla disinteressata diffusione di verità comprovabili. È una delle contraddizioni più evidenti della democrazia, ma anche una garanzia sine qua non per provare a difendersi dai bulldozer della dittatura. Proprio il cinema, anch’esso un mass medium, ci ricorda l’impeto propagandistico dei suoi cinegiornali all’epoca di Hitler e Mussolini.

Il cast dei redattori in Spotlight. Da sinistra: Michael Keaton, Liev Schreiber, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, John Slattery, Brian D’Arcy James.

Dovunque esista uno straccio di libertà, il cinema ha fatto quello che poteva – più della politica, più della sociologia, più della scuola – per divulgare, almeno tra i suoi spettatori abituali, la conoscenza degli aspetti positivi, e anche dei più oscuri, della comunicazione di massa. Ci ha raccontato e ci racconta come funzionano i meccanismi dell’informazione, quali sono i suoi poteri e i suoi limiti, a quali condizioni e in quale misura i media contribuiscono, nel bene e nel male, alla costruzione di una civiltà. Film come Spotlight ci insegnano anche a distinguere il giornalismo rigoroso, razionale, scientificamente supportato da fonti inoppugnabili, dalla dilagante edicola del pressappochismo e della faziosità. Persino il cinema più commerciale, persino il più devoto ai luoghi comuni mostra un notevole interesse – quando si occupa di vicende legate all’informazione – per la deontologia e l’etica editoriale, perché è intorno a questi valori, autentici o solo dichiarati, che si avvolgono tutti i problemi e tutte le opportunità della comunicazione stampata, radiotrasmessa o teletrasmessa.

P.B.

Il mondo dell’informazione in 60 film.

Questa filmografia non pretende di essere esaustiva. Ma è più che sufficiente per catalogare la varietà dei temi legati, direttamente o indirettamente, alla libertà di stampa e alla sua deontologia professionale. Può essere un punto di partenza per studi e tesi di laurea sull’argomento. Ci sono anche commedie e thriller il cui unico scopo è l’intrattenimento, ma è sempre utile tener conto di come l’industria dello spettacolo consideri le figure professionali del reporter e del fotoreporter, dell’editore, del magnate dell’informazione, del finanziatore di giornali ed emittenti audiovisive, dell’anchorman, etc. Altrettanto interessante è studiare le relazioni tra informazione, politica e spettacolo, un connubio indissolubile quando si passa dai giornali alla televisione.

1931, Five Star Final. Regia: Mervyn LeRoy. Sceneggiatura: Byron Morgan, da un dramma teatrale di Louis Weitzenkorn. Fotografia: Sol Polito. Cast: Edward G. Robinson, Marian Marsh, Boris Karloff. USA, Warner Bros.

Il responsabile della cronaca cittadina di un giornale scandalistico va contro i propri principii deontologici per riportare alla luce un caso d’omicidio vecchio di vent’anni.

1934, It Happened One Night (Accadde una notte). Regia: Frank Capra. Sceneggiatura: Samuel Hopkins Adams, Robert Riskin. Fotografia: Joseph Walker. Musica: Louis Silvers, Howard Jackson. Cast: Clark Gable, Claudette Colbert, Walter Connolly, Roscoe Karns. USA, Columbia Pictures.

Ereditiera ribelle in fuga da casa incappa in un giornalista a caccia di scoop durante la Depressione.

Jean Harlow e Spencer Tracy in La donna del giorno di Jack Conway, 1936.

1936, Libeled Lady(La donna del giorno). Regia: Jack Conway. Sceneggiatura: Maurine Dallas Watkins, Howard Emmett Rogers, George Oppenheimer. Fotografia: Norbert Brodine. Musica: William Axt. Cast: Jean Harlow, William Powell, Myrna Loy, Spencer Tracy, Walter Connolly. USA, Metro-Goldwyn-Mayer.

Ereditiera querela un giornale che le ha attribuito una falsa relazione extraconiugale. Il direttore editoriale coinvolge uno dei suoi giornalisti in una cospirazione contro di lei.

1940, Foreign Correspondent (Il prigioniero di Amsterdam). Regia: Alfred Hitchcock. Sceneggiatura: Charles Bennett, Joan Harrison, James Hilton, Robert Benchley, Ben Hecht. Fotografia: Rudolph Maté. Musica: Alfred Newman. Cast: Joel McCrea, Laraine Day, Herbert Marshall, George Sanders, Edmund Gwenn. USA, Walter Wanger Productions/United Artists.

Giornalista americano inviato in Europa come corrispondente di guerra scopre un criminale complotto spionistico.

1940, His Girl Friday(La signora del venerdì). Regia: Howard Hawks. Sceneggiatura: Charles Lederer, dalla commedia The front page di Ben Hecht e Charles MacArthur. Fotografia: Joseph Walker. Musica: Sidney Cutner, Felix Mills. Cast: Cary Grant, Rosalind Russell, Ralph Bellamy, Gene Lockhart. USA, Columbia Pictures.

Una giornalista di successo intende sposarsi e abbandonare la professione, ma il direttore del giornale tenta il tutto per tutto per non farla andar via.

1941, Citizen Kane(Quarto potere). Regia: Orson Welles. Sceneggiatura: Orson Welles, Herman J. Mankiewicz. Fotografia: Gregg Toland. Musica: Bernard Herrmann. Cast: Orson Welles, Joseph Cotten, Dorothy Comingore, Agnes Moorehead, Ruth Warrick. USA, RKO Radio Pictures.

La vita e la personalità di un tycoon dell’editoria ricostruite sotto forma d’inchiesta attraverso una serie di flashback. Il magnate Hearst si riconobbe nel ritratto e andò fuori dai gangheri.

1942, Somewhere I’ll Find You (Incontro a Bataan). Regia: Wesley Ruggles. Sceneggiatura: Marguerite Roberts, Charles Hoffman, Walter Reisch. Fotografia: Harold Rosson. Musica: Bronislau Kaper. Cast: Clark Gable, Lana Turner, Robert Sterling. USA, Metro-Goldwyn-Mayer.

Seconda guerra mondiale. Due fratelli, corrispondenti di guerra, s’incontrano nelle Filippine con la collega di cui sono entrambi innamorati. Uno dei due perderà la vita durante l’attacco giapponese a Bataan.

1948, Call Northside 777 (Chiamate Nord 777). Regia: Henry Hathaway. Sceneggiatura: Jerome Cady, Jay Dratler, Leonard Hoffman, Quentin Reynolds. Fotografia: Joseph MacDonald. Musica: Alfred Newman. Cast: James Stewart, Richard Conte, Lee J. Cobb, Helen Walker. USA, 20th Century Fox.

Un reporter di Chicago riesuma un delitto di vent’anni prima per il quale è stato condannato un innocente. La sua indagine sarà ostacolata con ogni mezzo dalle istituzioni.

1951, Ace in the Hole (L’asso nella manica). Regia: Billy Wilder. Sceneggiatura: Billy Wilder, Lesser Samuels, Walter Newman. Fotografia: Charles Lang Jr. Musica: Hugo Friedhofer. Cast: Kirk Douglas, Jan Sterling, Porter Hall. USA, Paramount Pictures.

Un giornalista col pelo sullo stomaco sfrutta in modo vergognoso il lungo dramma di un uomo rimasto intrappolato sotto una frana.

Kim Hunter e Humphrey Bogart in L’ultima minaccia di Richard Brooks, 1952.

1952, Deadline - U.S.A. (L’ultima minaccia). Regia: Richard Brooks. Sceneggiatura: Richard Brooks. Fotografia: Milton R. Krasner. Musica: Cyril J. Mockridge, Sol Kaplan. Cast: Humphrey Bogart, Ethel Barrymore, Kim Hunter, Ed Begley. USA, 20th Century Fox.

Il direttore di un giornale si oppone alla cessione del quotidiano dopo la morte dell’editore per portare a termine una campagna contro un’organizzazione criminale.

1952, Scandal Sheet (Ultime della notte). Regia: Phil Karlson. Sceneggiatura: Ted Sherdeman, Eugene Ling, James Poe, Samuel Fuller. Fotografia: Burnett Guffey. Musica: George Duning. Cast: Broderick Crawford, Donna Reed, John Derek, Rosemary DeCamp. USA, Columbia Pictures.

Redattore-capo d’un giornale di cronaca nera commette un delitto, ma sarà smascherato proprio da uno dei suoi giornalisti.

1957, A Face in the Crowd (Un volto nella folla). Regia: Elia Kazan. Sceneggiatura: Budd Schulberg. Fotografia: Harry Stradling Sr., Gayne Rescher. Musica: Tom Glazer. Cast: Andy Griffith, Patricia Neal, Anthony Franciosa, Walter Matthau, Lee Remick. USA, Warner Bros.

Una giornalista trasforma un folk singer sconosciuto in un idolo nazionale, senza rendersi conto di aver creato un mostro.

1957, Sweet Smell of Success (Piombo rovente). Regia: Alexander Mackendrick. Sceneggiatura: Clifford Odets, Ernest Lehman. Fotografia: James Wong Howe. Musica: Elmer Bernstein. Cast: Burt Lancaster, Tony Curtis, Susan Harrison, Martin Milner. USA, United Artists.

Un potente giornalista di New York fa di tutto per rovinare la reputazione e la carriera di un jazzista, allo scopo di impedirgli di diventare suo cognato.

1960, La dolce vita. Regia: Federico Fellini. Sceneggiatura: Federico Fellini, Tullio Pinelli, Ennio Flaiano, Brunello Rondi. Fotografia: Otello Martelli. Musica: Nino Rota. Cast: Marcello Mastroianni, Anouk Aimée, Anita Ekberg, Magali Noël, Alain Cuny, Yvonne Fourneaux, Nadia Gray, Annibale Ninchi, Lex Barker. Italia/Francia, Cineriz.

Peregrinazioni romane di un cronista mondano e di uno stuolo di paparazzi a caccia di gossip.


1972, Sbatti il mostro in prima pagina. Regia: Marco Bellocchio. Sceneggiatura: Sergio Donati, Goffredo Fofi. Fotografia: Luigi Kuweiller, Enrico Menczer. Musica: Ennio Morricone, Nicola Piovani. Cast: Gian Maria Volonté, Fabio Garriba, Carla Tatò, Jacques Herlin, Laura Betti. Italia-Francia, Euro International Films.

Partendo da un caso di cronaca nera, il film mette in evidenza i legami fra stampa, politica e forze dell’ordine. Racconta come un giornale possa manipolare l’opinione pubblica, e lo svolgersi delle stesse vicende, per indurre una precisa reazione nell’elettorato.

1974, The Front Page (Prima pagina). Regia: Billy Wilder. Sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond, dalla commedia di Ben Hecht e Charles MacArthur. Fotografia: Jordan Cronenweth. Cast: Jack Lemmon, Walter Matthau, Susan Sarandon, Vincent Gardenia. USA, Universal Pictures.

Buffa coppia di giornalisti alle prese con una vicenda di corruzione e razzismo.

Dustin Hoffman e Robert Redford in Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, 1976.

1976, All the President’s Men (Tutti gli uomini del presidente). Regia: Alan J. Pakula. Sceneggiatura: William Goldman, da Carl Bernstein e Bob Woodward. Fotografia: Gordon Willis. Musica: David Shire. Cast: Dustin Hoffman, Robert Redford, Jack Warden, Martin Balsam, Hal Holbrook, Jason Robards. USA, Warner Bros.

Ricostruzione dell’indagine dei due giornalisti del Washington Post che portarono alla luce lo scandalo Watergate, causando l’impeachment del presidente Nixon e le sue dimissioni.

1976, Network (Quinto potere). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Paddy Chayefsky. Fotografia: Owen Roizman. Musica: Elliott Lawrence. Cast: Faye Dunaway, William Holden, Peter Finch, Robert Duvall, Ned Beatty. USA, United Artists.

Commentatore televisivo licenziato per calo di audience preannuncia il proprio suicidio in diretta. Intorno al caso si scatena un feroce sfruttamento mediatico.

1976, Signore e signori, buonanotte. Regia: Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola. Sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Luigi Comencini, Piero De Bernardi, Agenore Incrocci, Nanni Loy, Ruggero Maccari, Luigi Magni, Ugo Pirro, Furio Scarpelli, Ettore Scola. Fotografia: Claudio Ragona. Musica: Lucio Dalla, Giuseppe Mazzucca, Nicola Samale, Antonello Venditti. Cast: Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Senta Berger, Adolfo Celi. Italia-Francia, Titanus.

Satira politica e di costume di un’immaginaria giornata televisiva, con spot, inchieste, sceneggiati e tg.

1981, Absence of Malice (Diritto di cronaca). Regia: Sydney Pollack. Sceneggiatura: Kurt Luedtke. Fotografia: Owen Roizman. Musica: Dave Grusin. Cast: Paul Newman, Sally Field, Bob Balaban, Melinda Dillon. USA, Columbia Pictures.

Una giovane reporter viene strumentalizzata da un procuratore distrettuale e indotta a mettere in cattiva luce l’imputato di un omicidio.

1981, Die Fälschung (L’inganno). Regia: Volker Schlöndorff. Sceneggiatura: Volker Schlöndorff, Jean-Claude Carrière, Margarethe von Trotta, Kai Hermann, da un romanzo di Nicolas Born. Fotografia: Igor Luther. Musica: Maurice Jarre. Cast: Bruno Ganz, Hanna Schygulla, Jerzy Skolimowski. Germania-Francia, Argos Films, Artémis Productions.

Giornalista tedesco in crisi con la moglie parte per un reportage sulla guerra nel Libano. Tra violenze, morte e speculazioni giornalistiche, si ritrova più disgustato che mai.

1982, The Year of Living Dangerously (Un anno vissuto pericolosamente). Regia: Peter Weir. Sceneggiatura: C.J. Koch, Peter Weir, David Williamson. Fotografia: Russell Boyd. Musica: Maurice Jarre. Cast: Mel Gibson, Sigourney Weaver, Linda Hunt, Michael Murphy. Australia-USA, Metro-Goldwyn-Mayer.

Amicizia, amore e tragedia nell’Indonesia di Sukarno durante i sanguinosi eventi del 1965. Un reporter australiano e un cineoperatore locale pagano di persona il loro impegno professionale e civile.

1983, Under Fire (Sotto tiro). Regia: Roger Spottiswoode. Sceneggiatura: Clayton Frohman, Ron Shelton. Fotografia: John Alcott. Musica: Jerry Goldsmith. Cast: Nick Nolte, Ed Harris, Gene Hackman, Joanna Cassidy. USA, Lions Gate Films.

Un cinico fotografo americano, in Nicaragua per la guerra civile, si lega sentimentalmente con una collega, e insieme affrontano l’inferno della guerriglia. Ma a un certo punto il fotografo è costretto a fare una scelta di campo e lascia la macchina fotografica per imbracciare il fucile, pur considerando colpevoli tutte le parti impegnate nella guerra.

1986, Defence of the Realm (Dossier confidenziale). Regia: David Drury. Sceneggiatura: Martin Stellman. Fotografia: Roger Deakins. Musica: Richard Harvey. Cast: Gabriel Byrne, Greta Scacchi, Denholm Elliott, Ian Bannen. Regno Unito, Rank Organisation.

Giornalista svelto e spregiudicato crede di aver realizzato il sogno di ogni cronista: lo scoop col quale incastrare un importante esponente politico. Ma scopre di essere stato usato.


1986, Salvador. Regia: Oliver Stone. Sceneggiatura: Oliver Stone, Rick Boyle. Fotografia: Robert Richardson. Musica: Georges Delerue. Cast: James Woods, James Belushi, Michael Murphy, John Savage. Regno Unito-USA, Hemdale Film.

1980. Un reporter di guerra statunitense va in Salvador dove infuria la guerra civile. Interessato solo a raddrizzare la carriera in declino, dovrà a poco a poco superare il proprio cinismo e la propria indifferenza.

1987, Broadcast News (Dentro la notizia). Regia: James L. Brooks. Sceneggiatura: James L. Brooks. Fotografia: Michael Ballhaus. Musica: Bill Conti. Cast: William Hurt, Albert Brooks, Holly Hunter, Jack Nicholson. USA, 20th Century Fox.

Relazioni professionali e sentimentali fra tre operatori di un’emittente tv.

Kevin Kline e Denzel Washington nei panni del giornalista Donald Woods e dell’attivista sudafricano Biko in Grido di libertà di Richard Attenborough, 1987.

1987, Cry Freedom (Grido di libertà). Regia: Richard Attenborough. Sceneggiatura: John Briley, da due libri di Donald Woods. Fotografia: Ronnie Taylor. Musica: George Fenton, Jonas Gwangwa. Cast: Kevin Kline, Penelope Wilton, Denzel Washington. Regno Unito, Universal Pictures, Marble Arch Productions.

Apartheid in Sudafrica, anni settanta. Amicizia e lotta comune tra il giornalista bianco Donald Woods e l’attivista nero Steve Biko, che morirà nel 1977 in seguito alle atroci torture subite in carcere.

1987, Radio Days. Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Carlo Di Palma. Musica: Dick Hyman (supervisione). Cast: Mia Farrow, Seth Green, Julie Kavner, Josh Mostel, Michael Tucker, Dianne Wiest. USA, Orion Pictures.

Woody Allen rievoca gli anni d’oro della radio e della sua enorme influenza sulle idee e sui comportamenti delle persone.

1988, Talk Radio. Regia: Oliver Stone. Sceneggiatura: Eric Bogosian, Oliver Stone (da Stephen Singular). Fotografia: Robert Richardson. Musica: Stewart Copeland. Cast: Eric Bogosian, Ellen Greene, Alec Baldwin. USA-Canada, Universal Pictures.

Ascesa e caduta di un opinionista radiofonico che si batte per le minoranze ma poi è costretto a tradirle cedendo alle minacce di razzisti e neonazisti.

1990, Tre colonne in cronaca. Regia: Carlo Vanzina. Sceneggiatura: Carlo Vanzina, Enrico Vanzina, dal romanzo di Corrado Augias e Daniela Pasti. Fotografia: Luigi Kuweiller. Musica: Ennio Morricone. Cast: Gian Maria Volonté, Massimo Dapporto, Sergio Castellitto. Italia, Cecchi Gori Group.

Terrorista arabo riceve l’incarico di uccidere un agente di borsa. Il misfatto innesca una serie di ricatti e sotterfugi con cui i poteri forti che gravitano intorno a un quotidiano cercano di ottenere la supremazia.

1992, Hero (Eroe per caso). Regia: Stephen Frears. Sceneggiatura: David Webb Peoples. Fotografia: Oliver Stapleton. Musica: George Fenton. Cast: Dustin Hoffman, Geena Davis, Andy Garcia, Joan Cusack. USA, Columbia Pictures.

Un ladro salva i sopravvissuti di un incidente aereo, tra cui una reporter della tv, alla quale ruba il portafoglio prima di abbandonare la scena. La giornalista fa del misterioso salvatore un eroe nazionale, gratificando però un impostore, mentre il vero “angelo” è in galera.

1994, Quiz Show. Regia: Robert Redford. Sceneggiatura: Paul Attanasio, da un libro di Richard N. Goodwin. Fotografia: Michael Ballhaus. Musica: Mark Isham. Cast: John Turturro, Rob Morrow, Ralph Fiennes, Paul Scofield. USA, Buena Vista Pictures.

Vi si narra lo scandalo che alla fine degli anni cinquanta svelò, all’opinione pubblica statunitense, che il più popolare quiz televisivo dell’epoca era truccato.

1994, The Paper (Cronisti d’assalto). Regia: Ron Howard. Sceneggiatura: David Koepp, Stephen Koepp. Fotografia: John Seale. Musica: Randy Newman. Cast: Michael Keaton, Glenn Close, Marisa Tomei, Randy Quaid, Robert Duvall. USA, Universal Pictures.

La nostra vita può cambiare nel giro di ventiquattr’ore. Se ne accorgono i giornalisti di un quotidiano, coinvolti anche personalmente negli eventi di cui devono occuparsi, in incalzante competizione reciproca.

1995, To Die for (Da morire). Regia: Gus Van Sant. Sceneggiatura: Buck Henry, da un libro di Joyce Maynard. Fotografia: Eric Alan Edwards. Musica: Danny Elfman. Cast: Nicole Kidman, Matt Dillon, Joaquin Phoenix, Casey Affleck. USA-Regno Unito, Columbia Pictures.

Una bella ragazza, decisa a sfondare con ogni mezzo in televisione, non esita a macchiarsi d’infamia pur di raggiungere il suo scopo.

1997, Welcome to Sarajevo (Benvenuti a Sarajevo). Regia: Michael Winterbottom. Sceneggiatura: Frank Cottrell Boyce, dal libro di Michael Nicholson. Fotografia: Daf Hobson. Musica: Adrian Johnston. Cast: Stephen Dillane, Woody Harrelson, Marisa Tomei. Regno Unito-USA, Miramax.

Il film racconta dell’assedio di Sarajevo durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina nel 1992, dal punto di vista di una troupe tv britannica.

1998, The Truman Show. Regia: Peter Weir. Sceneggiatura: Andrew Niccol. Fotografia: Peter Biziou. Musica: Burkhard von Dallwitz. Cast: Jim Carrey, Laura Linney, Noah Emmerich, Natascha McElhone. USA, Paramount Pictures.

Ripreso fin dalla nascita in un reality show, un uomo-cavia continua per trent’anni a esserne il protagonista a propria insaputa, scambiando per mondo reale il set televisivo di cui è prigioniero.

1999, The Insider (Insider - Dietro la verità). Regia: Michael Mann. Sceneggiatura: Eric Roth, Michael Mann. Fotografia: Dante Spinotti. Musica: Pieter Bourke, Lisa Gerrard. Cast: Al Pacino, Russell Crowe, Christopher Plummer, Diane Venora. USA, Touchstone.

Un cronista televisivo combatte al fianco di un testimone (ex dirigente di un’industria del tabacco) per denunciare le menzogne sulla composizione chimica delle sigarette. Sarà una lotta dura, avversata dalle multinazionali del tabacco e dall’autocensura dei mezzi d’informazione.

1999, True Crime (Fino a prova contraria). Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Larry Gross, Paul Brickman, Stephen Schiff, da un romanzo di Andrew Klavan. Fotografia: Jack N. Green. Musica: Lennie Niehaus. Cast: Clint Eastwood, Isaiah Washington, LisaGay Hamilton, James Woods, Diane Venora. USA, Warner Bros.

Rovinato dall’alcol, un giornalista fallito si riscatta e vince il Pulitzer per aver salvato un innocente dalla sedia elettrica.

2003, Ilaria Alpi - Il più crudele dei giorni. Regia: Ferdinando Vicentini Orgnani. Sceneggiatura: Marcello Fois, Ferdinando Vicentini Orgnani. Fotografia: Giovanni Cavallini. Musica: Paolo Fresu. Cast: Giovanna Mezzogiorno, Rade Serbedzija, Amanda Plummer. Italia, Emme Produzioni.

L’ultimo mese di vita di Ilaria Alpi, giornalista Rai, e del suo operatore di ripresa Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio, in Somalia, il 20 marzo 1994.

2003, Shattered Glass (L’inventore di favole). Regia: Billy Ray. Sceneggiatura: Billy Ray, da un articolo di Buzz Bissinger. Fotografia: Mandy Walker. Musica: Mychael Danna. Cast: Hayden Christensen, Peter Sarsgaard, Chloë Sevigny, Rosario Dawson. USA-Canada, Lions Gate Films.

Rapida ascesa di un giornalista che non esita a fabbricare falsi scandali per la sua smodata sete di successo.


2003, Veronica Guerin (Veronica Guerin - Il prezzo del coraggio). Regia: Joel Schumacher. Sceneggiatura: Carol Doyle, Mary Agnes Donoghue. Fotografia: Brendan Galvin. Musica: Harry Gregson-Williams. Cast: Cate Blanchett, Colin Farrell, Ciarán Hinds, Brenda Fricker. Irlanda-Regno Unito-USA, Touchstone.

Biopic su Veronica Guerin, coraggiosa giornalista irlandese decisa a smascherare i boss della droga resistendo alle peggiori minacce.


2005, Good Night, and Good Luck. Regia: George Clooney. Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov. Fotografia: Robert Elswit. Musica: Jim Papoulis. Cast: David Strathairn, Patricia Clarkson, George Clooney, Jeff Daniels, Robert Downey Jr., Frank Langella. USA-Francia-Regno Unito-Giappone, Warner Independent Pictures.

La storia vera del giornalista statunitense Edward R. Murrow, anchorman della CBS, figura storica della lotta al maccartismo.

2006, The Devil Wears Prada (Il diavolo veste Prada). Regia: David Frankel. Sceneggiatura: Aline Brosh McKenna. Fotografia: Florian Ballhaus. Musica: Theodore Shapiro. Cast: Meryl Streep, Anne Hathaway, Emily Blunt, Stanley Tucci, USA-Francia, 20th Century Fox.

Come funziona una influente rivista di moda. Con Streep nel ruolo della sofisticata e nevrotica direttrice e Hathaway in quello della stagista ingenua e inelegante, ma in rapida mutazione.

2007, La giusta distanza. Regia: Carlo Mazzacurati. Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Carlo Mazzacurati, Marco Pettenello, Claudio Piersanti. Fotografia: Luca Bigazzi. Musica: Tin Hat Trio. Cast: Giovanni Capovilla, Valentina Lodovini, Ahmed Hafiene, Giuseppe Battiston, Fabrizio Bentivoglio. Italia, Fandango, Rai Cinema, Ministero dei Beni Culturali.

Giornalista alle prime armi in un paesino del Veneto smonta l’accusa di omicidio a carico di un immigrato e inchioda l’assassino italiano, rendendosi sgradito alla comunità.

2007, Perfect Stranger. Regia: James Foley. Sceneggiatura: Todd Komarnicki, da un soggetto di Jon Bokenkamp. Fotografia: Anastas N. Michos. Musica: Antonio Pinto. Cast: Halle Berry, Bruce Willis, Giovanni Ribisi. USA, Columbia Pictures.

Una giornalista che indaga sulla morte di un’amica si fa assumere come stagista in un’agenzia di pubblicità per stringere alle corde l’uomo che ritiene responsabile del delitto.

2008, Frost/Nixon (Frost/Nixon - Il duello). Regia: Ron Howard. Sceneggiatura: Peter Morgan. Fotografia: Salvatore Totino. Musica: Hans Zimmer. Cast: Frank Langella, Michael Sheen, Sam Rockwell, Kevin Bacon. USA-Regno Unito-Francia, Universal Pictures.

Adattamento cinematografico delle vere interviste a Nixon registrate nel 1977 dal giornalista britannico David Frost e dell’omonimo dramma teatrale scritto da Peter Morgan.

2008, Nothing but the Truth (Una sola verità). Regia: Rod Lurie. Sceneggiatura: Rod Lurie. Fotografia: Alik Sakharov. Musica: Larry Groupé. Cast: Kate Beckinsale, Matt Dillon, Angela Bassett, Alan Alda, Vera Farmiga. USA, Yari Film Group.

Esiste davvero la libertà di stampa? Una giornalista passa i guai per uno scoop su un agente della Cia.

2009, State of Play. Regia: Kevin Macdonald. Sceneggiatura: Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy, Billy Ray. Fotografia: Rodrigo Prieto. Musica: Alex Heffes. Cast: Russell Crowe, Ben Affleck, Rachel McAdams, Helen Mirren, Robin Wright, Jeff Daniels. USA-Regno Unito-Francia, Universal Pictures.

Un giornalista investiga su una serie di delitti che coinvolgono anche il mondo politico.

2009, The Soloist (Il solista). Regia: Joe Wright. Sceneggiatura: Susannah Grant, da un libro di Steve Lopez. Fotografia: Seamus McGarvey. Musica: Dario Marianelli. Cast: Jamie Foxx, Robert Downey Jr., Catherine Keener. Regno Unito-Francia-USA, DreamWorks.

Un musicista di talento affetto da schizofrenia finisce sulla strada a chiedere l’elemosina suonando il violino. Lo strano homeless incuriosisce un giornalista del Los Angeles Time, che si dà da fare per proteggerlo e riportarlo in auge.

2009, Videocracy (Videocracy - Basta apparire). Regia: Erik Gandini. Sceneggiatura: Erik Gandini. Fotografia: Manuel Alberto Claro, Lukas Eisenhauer. Musica: Krister Linder, Johan Söderberg, David Österberg. Documentario. Svezia-Danimarca-Finlandia-Regno Unito, Atmo Media Network, Zentropa Entertainments, Sveriges Television.

Documentario sul berlusconismo e sul ruolo giocato dalla televisione per rincoglionire gli italiani. Il regista è italiano ma vive in Svezia; c’è da chiedersi se sarebbe mai riuscito a realizzare Videocracy in Italia.

2010, The King’s Speech (Il discorso del re). Regia: Tom Hooper. Sceneggiatura: David Seidler. Fotografia: Danny Cohen. Musica: Alexandre Desplat. Cast: Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Derek Jacobi. Regno Unito-USA-Australia, The Weinstein Company.

Amareggiato dalla balbuzie, Giorgio VI ha il difficile compito di governare il Regno Unito mentre scoppia la seconda guerra mondiale e la radio è il mezzo principale per rivolgersi alla nazione. Il suo logopedista farà miracoli.

2010, The Social Network. Regia: David Fincher. Sceneggiatura: Aaron Sorkin, dal libro The Accidental Billionaires di Ben Mezrich. Fotografia: Jeff Cronenweth. Musica: Trent Reznor, Atticus Ross. Cast: Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Bryan Barter. USA, Columbia Pictures.

Il film è imperniato sui primi e tumultuosi anni di Facebook, dalla sua fondazione nel 2004 fino alle cause indette contro Zuckerberg dai partner che ha tradito.

2012, Reality. Regia: Matteo Garrone. Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Ugo Chiti, Maurizio Braucci. Fotografia: Marco Onorato. Musica: Alexandre Desplat. Cast: Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone. Italia-Francia, produzione Domenico Procacci.

Un pescivendolo fermamente determinato a diventare uno dei protagonisti de Il grande fratello impazzisce per non esserci riuscito.

2012, The Company You Keep (La regola del silenzio - The Company You Keep). Regia: Robert Redford. Sceneggiatura: Lem Dobbs, dal romanzo di Neil Gordon. Fotografia: Adriano Goldman. Musica: Cliff Martinez. Cast: Robert Redford, Shia LaBeouf, Julie Christie, Susan Sarandon, Nick Nolte, Terrence Howard, Stanley Tucci, Richard Jenkins. USA-Canada, Sony Pictures Classics.

Duello psicologico fra un giovane giornalista d’assalto e un avvocato che ha fatto parte, in gioventù, di un’organizzazione di estrema sinistra. L’Fbi ci mette lo zampino.

2013, Philomena. Regia: Stephen Frears. Sceneggiatura: Steve Coogan, Jeff Pope, da un libro di Martin Sixsmith. Fotografia: Robbie Ryan. Musica: Alexandre Desplat. Cast: Judi Dench, Steve Coogan, Sophie Kennedy Clark. Regno Unito-USA-Francia, BBC Films.

Una donna irlandese viene costretta ad abbandonare suo figlio dopo averlo partorito in un convento. Cinquant’anni dopo si mette alla ricerca del figlio, con l’aiuto di un giornalista.

2013, The Fifth Estate (Il quinto potere). Regia: Bill Condon. Sceneggiatura: Josh Singer. Fotografia: Tobias A. Schliesser. Musica: Carter Burwell. Cast: Benedict Cumberbatch, Daniel Brühl, Clarice Van Houten, Laura Linney, Stanley Tucci, David Thewlis, Dan Stevens. USA-India-Belgio, DreamWorks.

Il film si snoda intorno alla vicenda del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, e del suo collega Daniel Dormscheit-Berg, creatori di una piattaforma per divulgare in forma anonima documenti istituzionali top secret.

2014, Nightcrawler (Lo sciacallo - Nightcrawler). Regia: Dan Gilroy. Sceneggiatura: Dan Gilroy. Fotografia: Robert Elswit. Musica: James Newton Howard. Cast: Jake Gyllenhaal, Rene Russo, Bill Paxton. USA, Bold Films.

Un cameraman psicopatico e una giornalista televisiva priva di scrupoli sfruttano senza ritegno incidenti mortali e cronaca nera per fare audience e soldi a palate.


2014, Rosewater. Regia: Jon Stewart. Sceneggiatura: Jon Stewart, da un libro di Maziar Bahari e Aimee Molloy. Fotografia: Bobby Bukowski. Musica: Howard Shore. Cast: Gael García Bernal, Kim Bodnia, Dimitri Leonidas. USA, International Traders.

Il film si basa sul libro di Maziar Bahari Then They Came for Me («E poi vennero per me»), scritto con Aimee Molloy, in cui il giornalista canadese-iraniano racconta i suoi 118 giorni di prigionia e tortura nel 2009, dopo le proteste post-elettorali in Iran.

2015, Spotlight (Il caso Spotlight). Regia: Tom McCarthy. Sceneggiatura: Tom McCarthy, Josh Singer. Fotografia: Masanobu Takayanagi. Musica: Howard Shore. Cast: Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel McAdams, Liev Schreiber, John Slattery, Brian D’Arcy James, Stanley Tucci, Elena Wohl, Billy Crudup. USA-Canada, BIM Distribuzione.

Un gruppo di giornalisti del Boston Globe indaga – fra mille ostacoli istituzionali – sul macrofenomeno della pedofilia dei preti cattolici negli Stati Uniti, e sulle responsabilità degli alti prelati che per anni hanno occultato i fatti.

Robert Redford, Cate Blanchett e Bruce Greenwood in Truth – Il prezzo della verità di James Vanderbilt, 2015.

2015, Truth (Truth - Il prezzo della verità). Regia: James Vanderbilt. Sceneggiatura: James Vanderbilt, da un libro di Mary Mapes. Fotografia: Mandy Walker. Musica: Brian Tyler. Cast: Cate Blanchett, Robert Redford, Topher Grace, Dennis Quaid. Australia-USA, Sony Pictures Classics.

Ricostruzione drammatica dell’inchiesta CBS 2004 su come George W. Bush, presidente degli Stati Uniti, era riuscito a evitare l’arruolamento nella guerra del Vietnam, grazie ai poteri del padre.

A cura di P.B.







Gli italiani e i Beatles

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Milano, 24 giugno 1965. I Beatles in concerto al velodromo Vigorelli.

Gli italiani e i Beatles.

L’8 marzo 2016 è scomparso George Martin, arrangiatore dei Beatles e artefice massimo delle loro principali innovazioni. Giovanni Ansaldo gli ha dedicato un bel pezzo su Internazionale: potete leggerlo qui. L’influenza che quei cinque (Martin + i Beatles) hanno esercitato non solo sulla musica pop, ma anche sul costume, le mode e la cultura media in generale, è stata talmente debordante che sarebbe superfluo ribadirla. L’eco e la mania dei Beatles non si sono ancora spente, sebbene il loro lavoro insieme sia durato pochissimo: meno di dieci anni nella formazione di maggior successo, quella con John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr. Da notare che i loro concorrenti storici, i Rolling Stones, non si sono mai separati e sono tuttora attivi.

Da coetaneo dei Beatles, devo confessare che li ho apprezzati senza mai sbavare per loro – tranne che per una manciata di brani, con Strawberry Fields forever in testa a tutti gli altri. Possiedo tutti i loro dischi ufficiali, ma li ho comprati a cinquant’anni, età in cui le nostalgie cominciano a lavorarti ai fianchi. Non mi sfuggivano la novità e la malia del loro sound, ma in molte delle loro canzoni ravvisavo un retrogusto dolciastro. Forse erano le voci a non conquistarmi del tutto: spesso ho preferito cover di altri artisti agli originali. Dei quattro ragazzi ho decisamente preferito il quinto, George Martin; una volta separati i Beatles hanno smesso del tutto di interessarmi, con l’unica eccezione di Imagine(Lennon).


Ma i miei gusti personali non significano nulla. Più interessante, invece, è misurare la popolarità che i Beatles hanno avuto nel nostro paese. Si sa che il loro doppio concerto al velodromo Vigorelli di Milano, il 24 giugno 1965, non fece il tutto esaurito e che i ragazzi ne furono così delusi da non ritornare mai più a esibirsi in Italia. C’è un sito, www.hitparadeitalia.it, che raccoglie ed elabora i dati di vendita dei dischi in Italia a partire dal 1947. La prima cosa che si nota, a proposito dei Beatles, è che i loro album si sono venduti meglio dei single. Negli anni sessanta il mercato dei single era dominante rispetto a quello degli album. Quelli che collezionavano dischi a 33 giri facevano già parte di un’élite, in parte economica e in parte culturale. Sarebbe insensato dedurne che i Beatles sono stati, da noi, una band di nicchia. Ma si può dire che non hanno capovolto, durante la loro esistenza, i gusti e le idolatrie degli italiani. Non come hanno fatto nei paesi anglosassoni, almeno.


Il loro primo single di successo internazionale, Please please me, entra nella hit parade italiana nel gennaio del 1964 e ci rimane per alcune settimane, senza mai salire al di sopra della sesta posizione. Nella classifica di tutto l’anno si ferma al 23° posto; She loves you al 48°. Il 1965 è, per i ragazzi di Liverpool, ancora più deludente: Help! al 32° posto, Yesterday all’88°, Ticket to ride al 99°. I loro single più fortunati in Italia sono Michelle, ottavo fra i 45 giri più venduti del 1966, e Let it be (il loro addio!) ottavo nel 1970. Molto meglio se la cavano i loro album: nel 1965 seguono Mina, prima in classifica con Studio Uno, piazzandosi al secondo e al terzo posto con due dischi antologici. Al 12° posto troviamo Help! (l’album), segno che il 1965 è stato un anno piuttosto favorevole al gruppo. Meglio ancora il 1966: primi assoluti con Rubber soule quarti con Revolver. Sono dunque gli album, e non i singoli, ad avvicinare il mercato italiano alla reale dimensione internazionale del fenomeno Beatles.

Come tutti i miti, anche quello dei Beatles si valuta meglio a distanza di anni. Il culto è cresciuto a dismisura dopo la loro separazione. Si sono disciolti nel 1970 ma è come se esistessero ancora. Anche in Italia, dove però Claudio Baglioni e Vasco Rossi stravincono sui Beatles, sui Rolling Stones e persino su Gesù (imbarazzante un trailer in cui Vasco è definito «dio del rock» e i fan «i suoi fedeli»). Il sito che abbiamo citato, quello delle hit parade italiane, pubblica un resoconto interessante: una «superclassifica all time» delle canzoni più vendute di sempre, indipendentemente dalle date e dal tipo di supporto. Sono comprese anche le cover, quando esistono. Ai primi posti Baglioni, Vasco e Celentano, rispettivamente con Questo piccolo grande amore, Vita spericolata e Azzurro. I Beatles compaiono solo al quindicesimo posto, con Let it be, il loro canto funebre. Al ventitreesimo c’è Yesterday, irrobustita da un mucchio di cover (Sinatra, Mina, Matia Bazar, Patty Pravo, Ray Charles, McCartney solista, Joan Baez, Ornella Vanoni, Tom Jones): i Beatles concorrono solo per il 25% alla glorificazione della loro creatura. Al 46° e al 47° posto troviamo Come together e Hey Jude. L’eterno, presunto duello fra i Beatles e i Rolling Stones si risolve in Italia con un k.o: gli Stones figurano solo al 121° posto, con Satisfaction.

P.B.

Milano, 24 giugno 1965. I Beatles in concerto al velodromo Vigorelli.




I Beatles in 16 canzoni

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Love me do

Parole e musica di un Paul McCartney ancora adolescente con la collaborazione di John Lennon, composta nel 1958 – quando i due formavano una band studentesca denominata The Quarrymen – ma pubblicata solo nel 1962. È il vero esordio discografico di un quartetto semisconosciuto di Liverpool, i Beatles – se si eccettua il precedente 45 giri con una formazione diversa, Tony Sheridan & The Beatles o anche, in Germania, Tony Sheridan & The Beat Brothers, con Pete Best al posto di Ringo Starr e un povero Stu Sutcliffe, bassista, subito morto di emorragia cerebrale. Ma Lennon, McCartney e George Harrison c’erano già.

Il produttore George Martin scarta, durante la registrazione di Love me do, gli incerti takes con Ringo Starr alla batteria, affidando lo strumento a un free-lance più esperto, Andy White, e limitando l’intervento di Ringo a una umiliante prestazione al tamburino. Esce così allo scoperto, dopo vario girovagare in questo o quel club, lo stile definito merseybeat (dal fiume Mersey di Liverpool), che inaugura la carriera discografica e il mito dei Beatles, rivoluzionerà il pop britannico e influenzerà la colonna sonora di mezzo mondo, Stati Uniti compresi.

La canzoncina non è un granché: acerba ed elementare, se non fosse per l’insolito riff di armonica a bocca suonato da Lennon; e riesce difficile pensare che sotto quelle note semplici e grezze si agitino le prime scintille d’un incendio epocale. Ma tale era lo stato di dormiveglia musicale e sociale del paese che già questo dischetto sembrava – ed era – fuori dagli schemi, annunciandosi, con un’economia stilizzatissima dei suoni e delle armonie, portatore di eventi imprevedibili.

She loves you

Di John Lennon e Paul McCartney, 1963. Uno dei primi grandi successi dei Beatles; disco prodotto da George Martin.

«Quando She loves youarrivò al numero uno in classifica», scrive Sting nell’autobiografia Broken music pubblicata in Italia da Mondadori – «io ero già alla scuola superiore, ma... non fu l’euforia primitiva del coro di yeah, yeah, yeah a entusiasmarmi tanto, bensì l’accordo di sol maggiore con la sesta aggiunta che colorava la chiusura della coda. Era un cliché dei vecchi gruppi da ballo, ma usato dai Beatles sembrava nascondere una sottile ironia.... capivo istintivamente che quello era un livello di raffinatezza inaudito nella musica pop.»


A Hard day’s night

Di John Lennon e Paul McCartney, 1964. Lanciata dai Beatles (con la partecipazione di George Martin al pianoforte) con un 45 giri, l’album e il film dallo stesso titolo (in Italia Tutti per uno) di Richard Lester.

Sull’onda di un successo senza precedenti, i Beatles provvedono ad autocelebrarsi con tutti i mezzi disponibili, compreso il cinema. Questo è il loro primo lungometraggio, che sarà seguito da Help! e, più tardi, da Yellow submarine. Del cinema fanno un uso surreale e visionario, che manifesta il volto stravagante e umoristico delle correnti più attuali (dalla nouvelle vague francese al nuovo cinema britannico). Sono film che, in qualche modo, anticipano quell’estetica del videoclip che tanta presenza avrà nella cultura dell’immagine degli anni ottanta. Fondamentale è la collaborazione del regista americano Richard Lester, proveniente da esperienze musicali, televisive e pubblicitarie; specialista dell’ironia e della velocità narrativa, né profondo né intellettuale ma dotato di un naturale talento inventivo, in efficace sintonia con la nuova sensibilità giovanile e l’eccitazione psichedelica della swinging London. A hard day’s night («la notte di una giornata dura») era una frase buttata lì da Ringo Starr dopo la faticosa seduta di registrazione di un’altra canzone; quando si decide di intitolare così un nuovo motivo, John Lennon corre a casa in tutta fretta per battere sul tempo McCartney. Anche se la maggior parte delle canzoni dei Beatles sono firmate da entrambi, è spesso l’uno o l’altro dei due il vero autore, e non si esclude che ciò abbia contribuito a produrre fin dall’inizio quei sentimenti di competizione e di rivalità che porteranno, nel 1970, allo scioglimento del quartetto.

It’s been a hard day’s night,
And I’ve been working like a dog,
It’s been a hard day’s night,
I should be sleeping like a log...

«È stata una giornataccia, / e ho lavorato come un cane, / è stata una giornataccia, / dovrei dormire come un ghiro...», dice il testo; aggiungendo però che il ritorno a casa è una consolazione, che vale proprio la pena di sfacchinare per qualcuno che si ama, e «fare soldi per comprarti le cose». Niente di serio; la canzoncina non ha ambizioni vertiginose; ma il suo drive è contagioso, è la maniera tutta beatlesiana di addolcire il rock and roll, di trovare l’ideale punto d’incontro fra perbenismo e trasgressione.



And I love her


Di Lennon e McCartney, 1964. Dall’album A hard day’s night dei Beatles, prodotto da George Martin. Voce e basso McCartney, chitarra acustica ritmica Len­non, chitarra acustica solista George Harri­son, bongo e legnetti Ringo Starr.

Ballata sentimentale di esemplare nitore, è una delle tante canzoni dedicate da McCartney (And I love her è farina del suo sacco; Lennon c’entra marginalmente) all’attrice Jane Asher, con cui intrattenne una relazione durata un quinquennio. «La linea melodica, ascendente e di­scendente nell’estensione di un’undicesima, senza note vicine ripetute, è un’invenzione di sorpren­dente bellezza e semplicità.»[1]Solare lo stile spagnolesco, promettente la breve introduzione strumen­tale, ina­spettato l’inciso: uno dei più ele­ganti classici beatlesiani, musica lieve come l’aria, dolce senza essere dolciastra.

And I love her ha sedotto con la sua freschezza leggende del jazz come Count Basie e Sarah Vaughan, oltre che soul singer, orchestre sinfoniche e complessi da camera. La celebre violoncellista israelo-canadese Ofra Harnoy ha dedicato ai Beatles due album assai ispirati, accompa­gnata dall’Orford String Quartet; And I love herè nel secondo, del 1996.


Yesterday

Parole e musica di McCartney, ma accreditata anche a Lennon come tutte le canzoni dell’uno e dell’altro all’epoca dei Beatles, 1965. Dall’album Help! Primo grande arrangiamento di George Martin per i quat­tro di Liverpool: si deve a lui l’idea del quartetto d’archi che accompagna la voce e la chitarra acustica di Paul. I violini sono suonati da Tony Gilbert e Sidney Sax; la viola e il violoncello rispettivamente da Kenneth Essex e Francisco Gabarro. La composizione di McCartney risale al gen­naio del 1964; il luogo è l’hotel George V di Parigi. La registrazione viene eseguita fra il 14 e il 17 giugno 1965.

È una canzone esemplare per diversi motivi: il primo connubio fra pop e musica da camera, modalità ripresa e sviluppata da Martin e i Beatles in varie occasioni succes­sive; perfetto punto d’incontro fra ballad del passato e canzone moderna; una certa aura da melodia universale, per tutti i gusti e tutti i tempi, tanto da entrare nel Guinness dei Primati per l’elevato numero di adozioni da parte di altri interpreti (non meno di duemila esecuzioni diverse). Nel 1999 è stata inco­ronata “canzone più bella del secolo” dalla BBC, in base al voto degli ascoltatori, alle vendite e al giudizio degli esperti. Al se­condo posto Stardust di Hoagy Carmichael; al terzo Bridge over troubled water di Paul Simon; al quarto White Christmas di Irving Berlin.

Yesterday
All my troubles seemed so far away,
Now it looks as though they’re here to stay.
Oh, I believe in yesterday.

«Ieri / tutti questi problemi sembravano così lontani, / ora è come averli qui per sempre. / Oh, io credo in ieri.» La letteratura è quella tipica delle torch songs, le canzoni d’amore e di sconforto: genere senza princi­pio né fine, per tutte le patrie, praticamente immortale, che ebbe forse il suo periodo di massimo splendore negli anni trenta, negli Stati Uniti. Il testo di Yesterdayè preciso come un orologio; una ripresa perfetta di quel gusto della versificazione che rese grandi i Cole Porter, gli Hoagy Carmichael. Con tutte quelle rime in –ay a rispettare gli appuntamenti melodici, a esaltarne la canta­bilità. La ballad di McCartney suona però suggestivamente insolita, per il suo melodi­smo europeo quasi classico, il respiro da canzone di corte. E dire che le prime parole venute in mente a Paul McCartney, per rive­stire la melodia concepita – a suo dire – in sogno, erano state Scrambled eggs, / Oh my darling, you’ve got lovely legs («Uova stra­pazzate, / o tesoro, che belle gambe hai»).

Innumerevoli le versioni altrui: duemila? tremila? Da ricordare: Frank Sinatra, Ray Charles, Marvin Gaye… In italiano, testo di Marcello Minerbi e Tullio Romano per la versione dei Trappers (Ieri).


In my life

Firmata da Paul McCartney e John Lennon, ma praticamente di Lennon, 1965. Dall’album Rubber soul dei Beatles, con la voce raddoppiata e la chitarra ritmica di Lennon, le armonie vocali, il basso e il piano elettrico di McCartney, la chitarra solista e le armonie vocali di George Harrison, la batteria, il tamburino e le campane di Ringo Starr, e la partecipazione di George Martin al piano elettrico. La tastiera di Martin suona come un clavicembalo barocco, effetto ottenuto accelerando il nastro registrato con il suo intervento.

Come la successiva Penny Lane, anche In my life doveva essere un omaggio a Liverpool, la città dei Beatles. Lennon comincia a buttare giù il testo di una cronaca di viaggio in autobus da un punto all’altro della città. Poi elimina tutte le citazioni dei luoghi attraversati e si concentra invece sui sentimenti: la nostalgia delle persone amate e perse di vista, il senso dell’inevitabilità degli eventi — il distacco, la perdita, la concentrazione sui nuovi affetti e le nuove emozioni che la vita ci riserva. «Meditazione sul passato e sul dolceamaro piacere di ricordarlo, In my life tocca un tema più profondo rispetto a qualsiasi altro precedente testo dei Beatles, comprendendo il pensiero della morte senza renderlo retorico», commenta Ian MacDonald; «Il suo tranquillo fatalismo conferisce a Rubber soulun peso di cui altrimenti avrebbe potuto avvertire la mancanza, nonostante l’aura di stupefatta dolcezza — prodotta dall’Lsd – che fa sì che l’album appaia più profondo dei suoi predecessori.»[2]Rubber soul contiene alcune delle invenzioni più sostanziose del quartetto: Michelle, Norwegian wood, Nowhere man.

Altre canzoni dei Beatles o del solo Lennon, come Yesterday e Imagine, vengono abitualmente indicate fra i brani più ispirati e preziosi di ogni tempo. Eppure, trentacinque anni dopo, qualcuno ha scelto In my life come la canzone più bella in assoluto del XX secolo. La rivista musicale Mojo ha assortito nel 2000 una supergiuria di esperti costituita da Paul McCartney, Brian Wilson dei Beach Boys, il paroliere e produttore degli anni Cinquanta Jerry Leiber (Jailhouse rock, Stand by me, Hound dog), il paroliere Hal David abituale collaboratore di Bacharach (Walk on by, Don’t make me over, Raindrops keep fallin’ on my head) e ha chiesto loro di compilare la lista delle dieci canzoni più belle del Novecento. Vince inaspettatamente In my life, seguita da Satisfaction dei Rolling Stones, Over the rainbow di Edgar “Yip” Harburg e Harold Arlen, Here, there and everywhere ancora dei Beatles, Tracks of my tears lanciata da Smokey Robinson and the Miracles, Thetimes they are a-changin’ di Bob Dylan, Strange fruit di Billie Holiday, I can’t make you love me di Bonnie Raitt, People get ready degli Impressions, You’ve lost thatlovin’ feelin’ di Barry Mann, Cynthia Weil e Phil Spector.


Eleanor Rigby

Accreditata ufficialmente a John Lennon e Paul McCartney, 1966. In realtà, parole e musica di Paul McCartney con lievi contributi di Lennon e, non accreditati, Ringo Starr, George Harrison e Pete Shotton all’idea e al testo. Lan­ciata dai Beatles con un 45 giri (il lato B di Yellow submarine) e poi con l’album Revolver, prodotto da George Martin. I quattro mettono via gli strumenti, Ringo è del tutto assente. Lennon e Harrison fanno da coro a Paul McCartney che canta su un tappeto d’archi concertante (un doppio quartetto costituito da quattro violini, due viole e due violoncelli); per l’arrangiamento, efficace miscela di drammaticità e leggerezza, Martin si ispira alla colonna sonora di Bernard Herrmann per il film di François Truffaut Fahrenheit 451, appena uscito sugli schermi.

Questa elegia in morte d’una donna repressa e vissuta in solitudine suscita, al suo apparire, qualche sconcerto: per il mercato del pop la morte, pur non essendo affatto una novità, era ancora tabù. Con profondità insolita nella maggior parte dei testi beatlesiani, le parole di Eleanor Rigby ritraggono un piccolo mondo fatto di emarginazione e odore d’incenso, ipocrisia e desolazione. Eleanor Rigby «scopa il riso in chiesa / dopo le funzioni matrimoniali», passa ore «in attesa alla finestra, con il volto / custodito in un barattolo presso la soglia» ­– vale a dire con l’espressione neutra, la maschera che s’indossa, una volta varcata la soglia di casa, per nascondere al prossimo i propri stati d’animo, la propria segreta disperazione. Il personaggio ricorda vagamente quello di Miss Edith Gee, protagonista nel 1937 di un un poemetto, acido e bellissimo nella sua crudeltà, di W. H. Auden: una donna casa e chiesa, esclusasi per autorepressione dalle compagnie, dall’amore, dai piaceri terreni, dalla vita sessuale, condannata a morire di cancro per non aver dato libero sfogo alle pulsioni naturali; e a finire sul tavolo di dissezione di un laboratorio di anatomia, tra i lazzi, gli sberleffi e le esercitazioni grandguignolesche di un gruppo di goliardi.

Per il funerale di Eleanor, svanita nella stessa nebbia esistenziale in cui è vissuta, il reverendo padre McKenzie rimugina svogliatamente le parole di un sermone al quale, tanto, nessuno presterà attenzione: «Guardalo come si dà da fare, come si rammenda i calzini / di notte, quando non c’è intorno anima viva; / dopotutto, che gliene importa?» Il prete è un don Abbondio stilizzato con tagliente sarcasmo; dalla tomba della defunta si allontana «scuotendosi via la terra dalle mani». Ma è anche lui, come la sfortunata bigotta, un marziano disperso e inconoscibile:

All the lonely people,
Where do they all come from?

«Tutta questa gente sola, / da dove mai arriva?»

Ma la vera innovazione sta nella parte musicale (composta nel modo dorico, scala dell’antico sistema musicale greco) e specialmente nel coraggioso arrangiamento di George Martin, il «quinto Beatle», probabilmente il più geniale di tutti – anche se l’idea degli archi, come quasi tutto in questa canzone, è di McCartney, preso da un’improvvisa, fervida passione per Vivaldi. Il rock pensato come musica da camera. Senza chitarre, senza basso elettrico, senza batteria: che è come dire il rock senza rock. Pura, aerea allusione. Sono brani come Eleanor Rigby e Strawberry Fields forever, ben più degli exploit come I want to hold your hand o la pur bellissima Yesterday, a mostrare quanto profonda fosse la svolta prodotta dai Beatles sulla musica popolare – a cominciare dalla rimozione dei generi e dei relativi schemi. E a spiegare l’interesse di estimatori insospettabili come Luciano Berio, compositore d’avanguardia, e della sua ex moglie Cathy Berberian, inimitabile mezzosoprano americano e a sua volta figura di spicco della musica contemporanea. Alle «arie» dei Beatles la Berberian dedica nel 1966 un album superbo, non solo per l’interpretazione (vertiginosa la sua Eleanor Rigby, con l’accompagnamento di un ensemble da camera diretto da Guy Boyer), ma anche per la sublime ironia profusa in alcuni brani (la vetta è Ticket to ride, dal vivo).

Se Yesterdayè diventata lo standard beatlesiano per eccellenza, anche Eleanor Rigby si è difesa bene: una canzone molto amata da musicisti di ogni tendenza. La ieratica versione di Joan Baez proietta il personaggio di Eleanor nell’area dell’impegno sociale e della contestazione: l’immagine engagé della cantante e le speciali vibrazioni della sua voce fanno dell’antieroina di McCartney un simbolo polemico della condizione femminile. Notevoli anche le versioni soul di Ray Charles e di Aretha Franklin. Fedele all’originale cameristico, già ripreso da Cathy Berberian, il tributo di Petra Magoni, specialista italiana di musica antica, accompagnata da Ferruccio Spinetti, contrabbassista degli Avion Travel.

Una Eleanor Rigby (1895-1939) è sepolta nei dintorni di Liverpool, nel cimitero della chiesa di St. Peter a Woolton, presso il sobborgo di Allerton dove McCartney era vissuto. La Rigby di McCartney è inventata di sana pianta, ma non per questo meno vera dell’altra.


Yellow submarine

Di McCartney e Lennon, 1966. Dall’album Revolver dei Beatles prodotto da George Martin, con Ringo Starr voce solista, McCartney, Lennon e Harrison che oltre a suonare e cantare in coro produ­cono schiamazzi ed effetti sonori con stru­menti improvvisati, Mal Evans alla grancassa e, a potenziare il coro, lo stesso Evans, il direttore della Apple Neil Aspinall, George Martin, Geoff Emerick, Patti Harri­son, Brian Jones dei Rolling Stones, Ma­rianne Faithfull e l’autista dei Beatles, Alf Bicknell, che scuote anche catene in una tinozza. E tutti a rumoreggiare con ciò che capita a tiro: fischietti, tubi di gomma, bic­chieri.

Stralunata marcetta, pensata da McCart­ney un po’ per i bambini e un po’ per fornire un pezzo allegro a Ringo, vagamente in­fluenzata dal successo di Rainy day women Nos. 12 & 35 di Bob Dylan. L’autore di Catch the wind, Donovan, prestò all’amico McCartney un verso per concludere il testo. Insomma uno scherzo bonario e collettivo, diventato immortale come quasi tutta la pro­duzione dei quattro di Liverpool. L’innocua tiritera del sottomarino giallo verrà tradotta in 35 lingue, latino compreso: Vivimus in navi lutea, navi lutea, navi lutea, cioè «Vi­viamo in una nave gialla, nave gialla, nave gialla», a beneficio degli scolari di alcune scuole.

Dall’inno alla favola: nel 1968 esce il lungometraggio a cartoni animati Yellow submarine, sceneggiato con la collabora­zione di Erich Segal (quello di Love story), disegnato dal tedesco Heinz Edel­mann e animato dal canadese George Dun­ning. La colonna sonora del film comprende quindici canzoni dei Beatles, da Eleanor Rigby a All you need is love, da Nowhere man a When I’m 64: tutte rimasterizzate e ristampate nel 1999, in occasione del re­stauro dello storico cartoon e di una grande festa organizzata a Liverpool, con la parte­cipazione di 180 gruppi musicali provenienti da tutto il mondo e anche, meno gradita, quella di migliaia di casinisti ubriachi e sporcaccioni.

Come in tutte le favole, anche in Yellow submarine si racconta la storia di una lotta del bene contro il male: la forza negativa è rappresentata dai Blue Meanies, i piccoli Biechi Blu, che vogliono bandire la musica e l’amore dal regno di Pepperland; ma non riusciranno nel loro intento malvagio, per­ché avranno a che fare con Ringo, John, Paul e George, eroi di un mondo sfavillante di colori psichedelici, canzoni magiche e sentimenti hippy.



All you need is love


Scritta da John Lennon ma formalmente attribuita anche a Paul McCartney, 1967. Lanciata dai Beatles con un 45 giri Parlophone che porta, sul lato B, Baby, you’re a rich man; inserita quindi nell’album Magical mystery tour. Lennon, oltre a cantare, suona banjo e clavicembalo; McCartney si occupa di basso, contrabbasso e armonie vocali; George Harrison di chitarra, violino e armonie vocali; Ringo Starr si limita alla batteria.

Alle spalle del quartetto una forma­zione di lusso con George Martin al pianoforte, quattro violini, una se­zione di fiati, una fisarmo­nica e un coro cui partecipano, fra molti altri, Mick Jagger, Keith Richards, Marianne Faithfull, Eric Clapton, Graham Nash, Keith Moon. E si capisce perché: All you need is lovenasce come inno destinato a una megaproduzione televisiva con intenti pacifisti, Our world, tra­smessa dal vivo in mondovisione dalla BBCil 25 giugno 1967. La cri­tica è ab­bastanza concorde nel giudicare il risultato una boiata: una cosetta fatta di niente, tirata giù con l’accetta e l’acido lisergico, condita con citazioni de La Marseillaise e di Johann Sebastian Bach (Inven­zione in due parti in la maggiore n. 8), capace di non sfigurare in una réclame mondiale della bontà (il concerto fu teletrasmesso in 24 nazioni con un collegamento via satellite). Nel 2000 Luciano Pavarotti, per un concerto benefico dedicato alla Cambogia e al Tibet, la intonò in coro, a Modena, con Enrique Iglesias, gli Eurhytmics, Irene Grandi, George Michael, Skunk Anansie, Tracy Chapman, Zucchero, Caetano Veloso, Biagio Antonacci, Aqua, Savage Garden, Monica Naranjo e l’intera platea.

Ma se la mente dà ragione ai critici, il cuore va dove cavolo gli pare: cioè dalla parte dei più forti, i Beatles, e quindi persino di All you need is love, pur riconoscendo che la manifattura è più cinica di quanto il testo non proclami. E questo non tanto per supina adesione da idola­tri, quanto per la scaltra attualità del brano, che in modo facile facile mette a fuoco un momento forte della storia degli anni sessanta. Per­sino la pubblicità di Benetton risultò talvolta più profonda di All you need is love; ma che importa? Il momento magico era quello: il Viet­nam, l’antimilitarismo, la protesta nei campus, l’egualitarismo, Il lau­reato, Martin Luther King, Erich Fromm, il misticismo indiano, gli hippy, le amfetamine, i raduni oceanici, il Sessantotto dietro la porta. Certo che i Beatles di All you need is love stanno ai Velvet Under­ground, ai Doors, a Jimi Hendrix (tutti esplosi in quell’ardente 1967) come l’acqua fresca sta al centerbe; per non dire che gli stessi Beatles, proprio quell’anno, produssero il meglio di sé con un intero album (Sgt. Pepper’s) e almeno un pezzo formidabile (Strawberry fields forever). Ma questo è il curioso delle canzoni: che possono schiz­zare a milioni, come spermatozoi, verso la meta; e una – non necessa­riamente la più meritevole della fanteria – raggiunge la postazione strategica. Sicché continueremo a ululare in coro All you need is love sul pullman della gita finché avremo fiato, con la sicurezza che ne sarà capace anche la catechista più stonata della parrocchia. E questo è forse il segreto della sua forza: non è una canzone dei Beatles, è una canzone di tutti, come La montanara e When the saints go marchin’ in.


I am the walrus

Scritta da John Lennon, accreditata a John Lennon e Paul McCartney, 1967. Lanciata dai Beatles con un 45 giri Parlophone (il retro di Hello goodbye). Lennon: voce raddoppiata e piano elettrico; McCartney: cori e basso; George Harrison: cori e chitarra solista; Ringo Starr: batteria; con la collaborazione di otto violinisti, quattro violoncellisti, un clarinettista, tre cornisti e i Mike Sammes Singers. Inserto radiofonico di un passaggio del King Lear shakespeariano.

La produzione di George Martin valorizza al massimo una delle canzoni più insensate e più amate di Lennon. Il testo, un’invettiva contro i bacchettoni al potere in Gran Bretagna e l’inasprirsi di censure e repressioni, sembra scritto sotto l’effetto dell’acido lisergico: una sventagliata di metafore alla maniera di Bob Dylan nei suoi esiti più sfrenati (non è da escludere un’intenzione parodistica). La satira grottesca di I am the walrus (dove il tricheco è una citazione di Lewis Carroll e del suo mondo visionario) non nasconde il fondo amaro, collerico e depresso che la genera. Pochi giorni prima della composizione è morto per overdose di psicofarmaci Brian Epstein, il manager senza il quale i Beatles non sarebbero mai esistiti. I quattro di Liverpool ondeggiano fra perbenismo e irriverenza, fra droghe leggere e aspirazioni religiose (la morte di Epstein interrompe un ritiro spirituale nel Galles al seguito del Maharishi Mahesh Yogi). Le radio-pirata vengono messe a tacere, la polizia imperversa, i Rolling Stones finiscono in cella. A un Lennon infelice e arrabbiato basta una sirena della polizia a suggerire «una ossessiva struttura musicale costruita attorno a una scala nello stile di quelle disegnate da M.C. Escher: una scala, continuamente ascendente e discendente, di tutti gli accordi in maggiore senza diesis e bemolle, che era la sequenza più eterodossa che avesse mai concepito» (così Ian McDonald nel suo esemplare saggio sull’opera dei Beatles). Altra fonte di ispirazione, oltre alla sirena poliziesca, è A whiter shade of pale, contagiosa invenzione dei Procol Harum di poco precedente.


Strawberry Fields forever

Di Lennon e McCartney, 1967. Lanciata dai Beatles con un 45 giri (Parlophone in Gran Bretagna, Capitol negli USA); Penny Lanesull’altra facciata. Arrangiamento di Lennon e George Martin. Formazione: John Lennon (voce, chitarre, pianoforte), Paul McCartney (mellotron, basso, bongo), George Harrison (chitarra, svarmandal, timpani), Ringo Starr (batteria, maracas), Tony Fisher, Greg Bowen, Derek Watkins, Stanley Roderick (trombe), John Hall, Derek Simpson, Norman Jones (violoncelli), Mal Evans (tamburino).

Forse la più bella canzone in assoluto dei Beatles, insieme a Eleanor Rigby e A day in the life. Struttura e sonorità fra le più ardite e inaspettate nella storia della musica popolare, in diretta concorrenza con i Beach Boys di Good vibrations. L’idea di Strawberry Fieldsè farina del sacco e delle nevrosi di Lennon. Un parto sofferto e complesso: si procede alla registrazione di una prima stesura, Lennon cambia idea, riprende il progetto da tutt’altro punto di vista, riaffronta con i compagni di squadra e con Martin la sala d’incisione, non è ancora soddisfatto. A questo punto, secondo l’accurata ricostruzione di Ian MacDonald, «[...] voleva che la prima parte della versione originaria fosse congiunta alla seconda parte della nuova versione: un’impresa che avrebbe richiesto di far combaciare due registrazioni effettuate a velocità diverse, e separate da un semitono di intonazione. Martin azzardò timidamente che questo sarebbe stato impossibile; ma Lennon fu irremovibile (e si scoprì che aveva ragione).»[3]Martin e Geoff Emerick, il tecnico del suono, fanno miracoli con il variatore di velocità. La combinazione di due umori contrapposti – l’uno arioso e trasparente, l’altro grave e inquietante – produce suggestioni inedite, di forte presa emotiva: forse più avanzate di quanto Lennon, a torto scontento del risultato finale, si aspettasse.

L’articolata (e in parte casuale) ingegneria di Strawberry Fields forever sta in piedi grazie anche a felici contributi di McCartney, Harrison e Starr, e a una sorprendente commistione di strumenti e di suoni: fiati e violoncelli raccordano atmosfere da camera alle insinuazioni orientali del raga, ottenute da Harrison con lo svarmandal, una cetra da tavolo indiana. Il motivo è una fantasia psichedelica sulla nostalgia dell’infanzia e della perduta innocenza. Strawberry Field, «Campo di Fragole», era il nome di un orfanotrofio di Woolton, sobborgo di Liverpool; da piccolo, Lennon andava a giocarci nelle vicinanze. Come Penny Lane, che dà il titolo alla canzone di McCartney sull’altra facciata del single, è un luogo della memoria:

Let me take you down,
’Cos I’m going to Strawberry Fields.
Nothing is real and nothing to get hungabout.
Strawberry Fields forever.
Living is easy with eyes closed
Misunderstanding all you see.
It’s getting hard to be someone,
But it all works out,
It doesn’t matter much to me...

«Lascia che ti porti con me, / vado a Strawberry Fields. / Non c’è niente di reale, niente di cui preoccuparsi. / Strawberry Fields per sempre. / È più facile vivere se chiudi gli occhi / e stravolgi il senso di tutto ciò che si vede. / Difficile è diventare qualcuno, / ma alla fine ce la fai, / e comunque non è che la cosa mi importi un granché...»

Di per sé non è grande poesia, ma con la musica e l’orchestrazione angelica e barocca il suono delle parole assume un senso implacabilmente suggestivo. Nothing is realè il rifiuto della realtà circostante; il suo fraintendimento (misunderstanding) è in parte dovuto all’ambiguità delle cose, in parte allo stato di trance prodotto da allucinogeni come l’Lsd; Strawberry Fields la fuga e il rifugio, la condizione perfetta, colore e dolcezza allo stato puro, «campi di fragole per sempre».

Nessuna relazione diretta con Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (1957), altro luogo onirico legato a uno stadio dell’età dell’uomo — in questo caso non la fanciullezza ma la senilità, che del resto non è arbitrario considerare come un ritorno della vita su sé stessa. Nessuna relazione apparente neanche con Fragole e sangue di Stuart Hagmann (The strawberry statement, 1970), il film americano sulla contestazione nei campus universitari, anche se nel finale gli studenti caricati dalla polizia scandiscono Give peace a chance: puro Lennon ’69.

Strawberry Fields forever, così come Good vibrationse l’intero album Pet sounds dei Beach Boys, segnano tappe importanti nell’evoluzione e nel significato della musica registrata. Se fino all’avvento della stereofonia la tecnologia discografica aveva come obiettivo l’alta fedeltà, cioè una qualità di riproduzione sempre più aderente all’emissione musicale dal vivo, nella seconda metà degli anni ’60 il disco comincia ad acquisire una propria autonomia artistica, fino a diventare, in molti casi, il modello sonoro del concerto anziché la sua imitazione.


Hey Jude

Di John Lennon e Paul McCartney, 1968. Lanciata dai Beatles con un 45 giri Apple prodotto da George Martin (sul retro c’è Revolution). Alla registrazione partecipano dieci violini, tre viole, tre violoncelli, due contrabbassi, due flauti, due clarinetti, un clarinetto basso, un fagotto, un controfagotto, quattro trombe, due corni, quattro tromboni e una percussione.

Come ricorda il solito Ian MacDonald, «allo scopo di non essere costretti a ripetere i laboriosi procedimenti di premixaggio richiesti dalle registrazioni orchestrali di A day in the life, i Beatles si trasferirono nei Trident Studios di Soho, uno studio a otto piste che la Apple aveva utilizzato di recente [...] Qui, giovedì primo agosto, radunarono in una piccola stanza trentasei musicisti classici di grande esperienza, perché suonassero ripetutamente quattro accordi; e chiusero la serata chiedendo loro di battere le mani e cantare in coro. Convinti da una tariffa doppia, tutti (tranne uno) accettarono.»[4]

Gli onnivori Beatles incorporano in Hey Jude il rhythm & blues e le sonorità dell’orchestra sinfonica, e dimostrano ancora una volta che si può essere neri e bianchi, esotici ed europei, colti e commerciali, ambiziosi e divertenti, con una musica capace di superare tutte le contraddizioni. Eclettismo, rifiuto delle formule e continua sperimentazione sono gli ingredienti del loro messaggio; altri scenderanno più in profondità nei contenuti, ma pochi hanno dato un calcio altrettanto energico al culo della canzone, pochi hanno incoraggiato in modo così potente la voglia collettiva di fare musica, e di farla, possibilmente, in modo nuovo.

Hey Jude (pensata originariamente come Hey Jules) è poco più che uno scherzo: una fantasia di Paul McCartney al volante della sua auto. Jude è Julian, il figlioletto di Lennon; il testo ruota intorno a un concetto modesto ma emblematico: Take a sad song and make it better, prendi una canzone triste e migliorala. Una specie di semplificazione, chissà quanto voluta o casuale, dell’impegno complessivo dei Beatles. I quali, sul migliorare una canzone, a volte litigavano di brutto. Sull’arrangiamento di Hey Jude, per esempio, George Harrison propone di rispondere a ogni frase cantata con un riff di chitarra; McCartney obietta che è meglio farlo verso la fine del pezzo, altrimenti diventa tutto troppo ovvio e meccanico; Harrison si offende e la mette giù dura, come i bambini quando dicono “non gioco più”. La faccenda si fa seria, con Lennon che propone di far suonare Eric Clapton al posto di Harrison e McCartney che difende l’unità dei Beatles. Unità, peraltro, già minata da virus sotterranei, con non pochi episodi di rivalità fra Paul e John sulla paternità delle canzoni (il 99% firmate da entrambi, ma di fatto figlie dell’uno o dell’altro).

Fra le numerose cover di Hey Jude spiccano la versione r&b di Wilson Pickett e quelle, imprevedibili, di Count Basie, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald. Talvolta, alla fine dei suoi concerti, Ella si divertiva a fitzgeraldizzare il pop del momento, reinventandolo alla sua maniera con inimitabile senso dell’umorismo. Nel 1969 registra un paio di album eccentrici, fatti di canzoni estranee al suo repertorio abituale e firmate da autori come Smokey Robinson, Randy Newman, Burt Bacharach, Harry Nilsson, Eddie Floyd, Eric Clapton e i Beatles. La sua versione di Hey Jude, arrangiata da Marty Paich e sostenuta da un’orchestra diretta da Tommy Flanagan, è un travolgente connubio di swing e rhythm and blues, di rock e di jazz; il vocalismo di Ella è una festa ironica e spiritosa, l’ennesima dimostrazione che non esiste proprio, per lei, il concetto di sad song, canzone triste.

Lady Madonna

Parole e musica di Paul McCartney accreditate anche a John Len­non, 1968. Incisa dai Beatles nel feb­braio 1968 per essere pubblicata su un 45 giri. La linea di pianoforte boogie-woogie si ispira apertamente a Bad penny blues del trombettista e direttore d’orchestra Hum­phrey Littleton, disco Parlophone della Humphrey Littleton Band prodotto nel 1956 da George Martin e Joe Meek. Anche qui il producer è Martin; il piano è suonato da McCartney e, al quartetto, si aggiungono i sassofoni di Ronnie Scott, Bill Povey, Harry Klein e Bill Jackman. La voce di Paul McCartney, che imita il vibrato di Elvis Pres­ley, è raddoppiata in fase di missaggio. È la prima volta che i Beatles si rifanno esplicitamente al blues e al rock delle ori­gini.

L’ispirazione del brano – un inno rock alla maternità – viene da una fotografia che Paul ha visto sul National Geographic. Ritrae una donna africana che allatta il suo piccolo, e il servizio è intitolato Mountain Madonna, la Madonna della montagna.


Come together

Di John Lennon e Paul McCartney, 1969. Dall’album dei Beatles Abbey Road, con voce, chitarra ritmica e chitarra solista di Lennon; armonie vocali, basso e piano elettrico di McCartney; chitarra di George Harrison; batteria e maracas di Ringo Starr; produzione di George Martin.

Uno degli inni più drogati di John Lennon, in senso letterale, estetico e ideologico: punto d’arrivo della controcultura beat, fra misticismo psichedelico e rifiuto di tutti gli schieramenti ufficiali, compresi quelli di sinistra. Su una base ritmica ostinata, ipnotica, vagamente inquietante, derivata dal blues, Lennon snoda versi fra il fumettistico e il visionario, da imagination au pouvoir, che sembrano affiorare da uno stato di allucinazione:

Here come old Flat-Top, he come groovin’ up slowly,
He got joo joo eyeball,
He one holy roller,
He got hair down to his knee,
Got to be a joker,
He just do what he please.
He wear no shoeshine, he got toe jam football,
He got monkey finger, he shoot Coca Cola,
He says I know you, you know me,
One thing I can tell you is you got to be free.
Come together right now over me...

«Arriva il vecchio Portaerei, viene arrancando a passo di danza, / al posto degli occhi ha palline da yo-yo, / è un santone che barcolla, / ha i capelli lunghi fino al ginocchio, / dev’essere matto come un clown / e fa solo quello che gli pare. / Non ha scarpe lustre, porta scarpe da football sfondate in punta, / ha le dita di una scimmia, si fa di Coca-Cola, / dice: Io so chi siete voi, voi sapete chi sono io, / l’unica cosa che posso dirvi è che dovete essere liberi. / Venite insieme, adesso, addosso a me...»

Vengono in mente precedenti come il Mr. Tambourine man di Bob Dylan (1965), e soprattutto un pezzo di Chuck Berry del 1955, You can’t catch me, che comincia addirittura con le stesse parole (Here come old Flat-Top) e che costerà a Lennon una causa per plagio: Lennon la perderà e sarà condannato a incidere l’originale di Berry, più altri due brani di proprietà della controparte, in un album del 1973, Rock’n’roll.

Come together diventa il manifesto quasi ufficiale dell’anarchismo beat e dei suoi maestri di pensiero. Scrive Ian MacDonald nel suo esemplare saggio sui Beatles: «Il protagonista archetipico dell’antipolitica controculturale, così come è proposto in Come together, è il saggio hippie maestro di “giochi della mente”: uno sbalorditivo guru-sciamano sul modello di Timothy Leary, di Ken Kesey, dell’immaginario Don Juan di Carlos Castaneda e di personaggi “gabbamondo” quali Mullah Nasruddin e i maestri Zen orientali. Un amalgama di costoro (con forse una sfumatura di Mr Natural, il personaggio satirico ideato dall’autore di fumetti Robert Crumb), il protagonista descritto nelle parole di Lennon ha “gli occhi a palla”, il che fa pensare alla copertina di Gris-Gris, l’album pseudo voodoo di Dr John . John;the Night Tripper, pubblicato nel 1968 e diventato un grande successo negli ambienti studenteschi e underground britannici.»[5]

Ma forse in Come together c’è anche un’insistente, anche se mascherata, allusività sessuale; quel “venire insieme”, con tanto di ossessive pulsazioni ritmiche, non fa pensare alla celebrazione di un’ammucchiata collettiva? Di quegli orgasmi tra il fisico e il metaforico, l’erotico e il mistico, in totale corrispondenza storica con la rivoluzione sessuale, l’utopia hippy, l’uso idealizzato delle droghe, il surrealismo un po’ naïf, le mode sgargianti della swinging London, le suggestioni indiane? Mah. Abbey Road prelude comunque alla scissione definitiva dei Beatles; all’epoca della registrazione, Lennon e la moglie Yoko Ono si danno già da fare con la Plastic Ono Band e con una tendenza sempre più orientata alla canzone-messaggio.

Something

Parole e musica di George Harrison, 1969. Lanciata dai Beatles con un 45 giri prodotto da George Martin e con l’album Abbey Road. Con Harrison (voce raddoppiata e chitarra solista), Paul McCartney (cori e basso), John Lennon (chitarra) e Ringo Starr (batteria) suonano Billy Preston (organo) e 12 violinisti, 4 violisti, 4 violoncellisti e un contrabbassista. Nella raccolta Anthology 3 pubblicata nel 1996 dalla Capitol c’è la primissima incisione di prova di George Harrison. Joe Cocker incise il brano in anticipo sui Beatles, ma prima di uscire sul mercato la sua versione dovette mettersi in coda per non precedere quella del celebre quartetto.

La stragrande maggioranza delle canzoni dei Beatles sono firmate da Lennon e McCartney. In compenso, Harrison ha scritto una delle più ispirate e indimenticabili. Somethingera dedicata alla moglie-modella Patti Boyd, che farà impazzire in seguito anche Eric Clapton: sarebbe lei la Layla dello struggente, disperato grido d’amore del chitarrista britannico.

John Lennon riconobbe pubblicamente che Something era il pezzo migliore di Abbey Road. Frank Sinatra, che pure non è mai stato troppo tenero con la rock generation, andò oltre: disse che era «la più bella canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni». Di tutte le perle dei Beatles, è quella che – subito dopo Yesterday– ha totalizzato il maggior numero di cover da parte di altri artisti. Di astrale, luminosa bellezza la versione di Shirley Bassey – una consacrazione di Something nella sfera dei classici senza tempo.


Let it be

Di John Lennon e Paul McCartney, 1970. Lanciata dai Beatles con un disco singolo (sul retro: You know my name) e poi inserita, con un mix diverso, nell’album Let it be. Padre legittimo Paul McCartney, che oltre a cantarla suona il piano e le maracas; Lennon al basso; George Harrison chitarra solista e cori; Ringo Starr batteria. Organo e piano elettrico suonati da Billy Preston, mentre è di George Martin l’arrangiamento dei fiati e dei violoncelli.

Non sarebbe una gran canzone, lacrimosa e semplice com’è; ma nella zona emotiva della nostra mente, e in particolare nell’angolino riservato ai Beatles, è talmente associata all’idea dello scioglimento del quartetto da suonare come un patetico addio. Let it be, «lascia che sia», sa di sfiorita rassegnazione, anche se il testo indulge alla preghiera (con apparizioni di Mother Mary, la Madonna, che costeggiano il kitsch) e l’organo e i cori assecondano la sua aspirazione al gospel. Ma il tutto è così scivolosamente oleoso da far pensare a sentimenti perduti in modo irrimediabile: come se i Beatles si squagliassero in una edulcorata bolla di sapone, e con loro si squagliasse un’era di strepitosa energia:

And when the broken hearted people
Living in the world agree,
There will be an answer, let it be...

«E quando le persone dal cuore infranto / che abitano il mondo troveranno un accordo, / ci sarà una risposta, lascia che sia...» A non trovare l’accordo furono proprio i quattro di Liverpool, già in tensione e in fuga l’uno dall’altro nonostante le insistenze pacificanti di Paul McCartney, l’unico ad aver fortissimamante voluto quell’ultimo album insieme.

P.B.







[1]Ian MacDonald, Revolution in the head, Londra: Fourth Estate, 1994; ed. it. The Beatles – L’opera completa, Milano: Mondadori, 1994.
[2]Ian MacDonald, op. cit.
[3]Ian MacDonald, op. cit.
[4]Ian MacDonald, op. cit.
[5]Ian MacDonald, op. cit.

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La tessera

L’amicizia di Renato Saimi aveva illuminato molti dei miei anni, giovanili e non. Era nata ai tempi dell’università, anche se eravamo iscritti a facoltà diverse: lui matematica, io lettere moderne. Fu il jazz a favorire la nostra complicità. Suonava il sax tenore a tempo perso, partecipando di tanto in tanto, in questa o quella formazione, a serate musicali nei club del Naviglio e dell’hinterland. Fu in uno di quei circoli che, durante una pausa, gli attaccai bottone. Ci scambiammo rapidi commenti sui nostri musicisti preferiti e non nascose il suo stupore per la mia competenza. Presi a frequentare con una certa assiduità i posti dove si esibiva, e presto cominciammo a vederci anche altrove, spesso accompagnati dalle ragazze che avremmo sposato.

I suoi assolo erano esperti e fantasiosi, tanto da lasciar presagire una brillante carriera artistica. Ma forse non era così determinato a perseguire quella possibilità perché preferì concentrarsi sulla matematica e sull’insegnamento, sebbene si fosse dedicato allo studio della musica fin dall’età dei calzoni corti e dimostrasse un talento innegabile.

Gli feci da testimone di nozze e, un po’ più tardi, lo scelsi per ricambiare il servizio. Insieme, noi due più Isa più Rita, condividemmo con fervore cameratesco le nostre passioni: musica, libri, teatro, politica. Stavamo spesso insieme – a cena, al cinema, talvolta persino in vacanza – finché, per ragioni indipendenti da una vera volontà, quel legame che sembrava indissolubile cominciò a cedere lentamente alla rarefazione, al rinvio, al fané. Ma non si era mai sciolto del tutto. Quando Facebook mi ricordava la data del suo compleanno, non mancavo di inviargli un’affettuosa e-mail carica di auguri, come se quel messaggio avesse la forza di riattivare magicamente un circuito di corrente interrotto.

Così feci anche nel giorno in cui compiva settant’anni. Invece di rispondermi con il solito, laconico ringraziamento, mi telefonò. La sua voce mi colse in un momento in cui ero preso da un impegno irritante – era inverno, la caldaia si era bloccata e stavo cercando di capire, senza riuscirci, la causa del problema. «Vedo che non hai ancora smesso di credere negli auguri», esordì. Non sentivo la sua voce da tempo immemorabile, ma non era cambiata. C’era una punta d’ironia nella sua frase d’apertura, una specie di rimprovero laico mosso a un bigotto irrecuperabile, tanto che sentii l’istintiva urgenza di giustificarmi: «Era solo un pretesto per risentirti», mentii. «Non ti fai più vivo», aggiunsi, ma la frase suonava come una ritorsione sleale, dal momento che neanch’io avevo tentato qualche manovra di riavvicinamento.

«Vediamoci», disse lui con una certa determinazione. La speranza che il suo invito preludesse a una rapida chiusura della telefonata mi rincuorò. Il telefono e Skype mi hanno sempre procurato più disagio di qualsiasi vis-à-vis in carne e ossa: agli scambi vocali a distanza preferisco la comodità sbrigativa di un sms o di una e-mail. Mi propose una data e un bar in cui ritrovarci a Milano, in centro, all’ora dell’aperitivo; subito dopo ci saremmo trasferiti in una trattoria che non conoscevo. Nessuno dei due abitava in città e di solito ci tornavo malvolentieri, ma per Renato era un modesto sacrificio che potevo fare.

Al momento dell’incontro ci abbracciammo sotto la pioggia come due vecchi fratelli perduti e ritrovati, prima di infilarci nel tepore del bar, sfregarci le mani come sciatori infreddoliti e sederci in un angolo. «Ti ho portato una cosetta», dissi sfoderando l’ultimo libro di Amos Oz dal suo shopper di carta. Lo piazzai sul tavolo, proprio sotto il suo naso. Lo osservò per cinque secondi e mormorò: «Un romanzo», come se quel semplice oggetto gli si fosse presentato sotto mentite spoglie. Che altro poteva essere?, mi chiedevo, quando aggiunse: «Anch’io ho qualcosa per te, ma prima brindiamo a questa reunion.» Ordinammo due Campari e, nell’attesa, gli chiesi come stessero i suoi. Disse che si era separato da Isa e che i ragazzi stavano uno a Roma e l’altro a Londra, senza specificare cosa facessero. La notizia della separazione mi colse di sorpresa. Gli chiesi da quanto tempo. «Da cinque anni, quasi sei. Credevo lo sapessi.» Non potevo saperlo perché non me l’aveva mai comunicato, in nessuna forma, e glielo feci rimarcare.

«Perché non me l’hai mai detto?», incalzai quietamente, più per superare un velo d’imbarazzo che per esprimere una protesta. Approfittò dell’arrivo della cameriera con i due Campari per esimersi da qualsiasi risposta. Sparita la cameriera, mi domandò prontamente notizie di Rita, un po’ per dovere e un po’ per tagliar corto. Gli dissi che Rita stava bene, senza accennare all’incidente d’auto in cui era stata coinvolta mesi prima e che, per fortuna, non aveva compromesso seriamente la sua salute. Renato accennò, di sfuggita, a un’operazione chirurgica che aveva dovuto subire («niente di serio», chiosò), e al riguardo fu talmente spiccio da non farmi capire di cosa si fosse trattato esattamente.

Sbrigata in quattro e quattr’otto quella scarna rassegna di aggiornamenti, mi fissò come se mi vedesse per la prima volta. Il mio aspetto doveva essere cambiato: come il suo, del resto. Era sempre lui, appesantito e invecchiato (le rughe, il colore e la quantità dei capelli), ma con qualcosa di nuovo, nel sorriso o nella postura o nell’abbigliamento, che me lo rendeva vagamente estraneo.

«Suoni ancora?», gli domandai. Era una domanda stupida: sapevo benissimo che aveva smesso di suonare secoli prima, almeno in pubblico. Ma mi frullava per la testa il personaggio interpretato da Gene Hackman in uno dei miei film preferiti, La conversazione. Non era un musicista di professione ma un maniaco del sax, e se lo suonava da solo in tutti i momenti di libertà. Renato mi guardò come si guarda un nipotino in vena di cazzate. Rispose con un semplice no, bevve un sorso e se ne uscì con una domanda più stupida della mia: «Che stai facendo di bello?». Una domanda di circostanza, rituale fra persone che non si vedono tutti i giorni, ma che mi mette sempre sul chi-va-là. Perché di bello? Che cosa si aspettano gli altri da me, ammesso che si aspettino qualcosa? Mi ero ritirato dal lavoro dieci anni prima e mi godevo, per così dire, gli incerti privilegi dell’età. In realtà facevo e continuo a fare molte cose e la giornata mi sembra più corta di prima, ma nessuna delle mie attività è così rilevante da meritare qualche forma di esibizione, o di sopravvalutazione. Renato però esigeva risposte più di quante fosse disposto a concederne, e mi sentii obbligato a elencargli una serie di impegni e hobby della cui inconsistenza ero il primo a rendermi conto, provando un vago senso di soggezione.

Mi interruppe a metà ricordandosi improvvisamente del «qualcosa per te» annunciatomi un quarto d’ora prima. Cacciò la mano nella tasca interna del giaccone, di cui non mi sfuggiva l’aspetto consunto e démodé; ne estrasse un portafoglio sfilacciato, gonfio di carte, e cominciò a cercare qualcosa che vi era custodito, prima che squillasse ad alto volume la suoneria del suo cellulare. La marcia trionfale dell’Aida esplose imperiosa come un tornado, disturbandomi nel profondo. Posò di scatto il portafoglio sul tavolo e si agitò con movimenti impacciati e convulsi alla ricerca del telefono, annidato probabilmente nella tasca sbagliata. «Sì... quando?... sei sicuro?...», andava interloquendo con aria imperturbabile, mentre ascoltava con paziente attenzione il torrente di parole che qualcuno gli stava rovesciando addosso. Chiuse la conversazione con un «D’accordo, mezz’ora al massimo» e mi guardò con aria desolata. «Mi dispiace immensamente», disse, «ma non posso venire a pranzo con te. Sarà per un’altra volta.» E concluse, imperativamente: «Ma guarda che ci conto. Ti mando un messaggio appena posso, con un paio di date.» Accompagnò la promessa puntandomi l’indice contro, come – da insegnante di liceo – doveva aver fatto milioni di volte con gli allievi recalcitrati, imponendogli un ultimatum.

Riprese a frugare nel portafoglio, mentre il mio cuore oscillava come un’altalena tra gli opposti poli della delusione e del sollievo. Finalmente trovò ciò che cercava, e me lo porse con la compunzione di chi ti sta regalando un’America. Presi con cautela il ritaglio che mi offriva e lo sollevai all’altezza degli occhiali per osservarlo meglio. Era una tessera di partito. Un piccolo partito di sinistra, l’ultimo che potesse ancora vantarsi, a tutti gli effetti, di rivendicare quel ruolo. La tessera era compilata in ogni sua parte, con cura: c’erano il mio nome e cognome, il mio codice d’iscrizione, l’indicazione di un circolo milanese, le firme del segretario del circolo e del segretario nazionale. Ero incredulo, non sapevo cosa dire. Lui, invece, diventò più eloquente di com’era stato fino a quel momento. Enunciò una serie disordinata di temi politici, ai quali mi fu difficile prestare l’attenzione che meritavano, e prima che potessi aprir bocca mi gratificò di un sorriso quasi paterno: «Ci tenevo a fartela avere. Potremmo riprendere a frequentarci come e più di prima, e con una buona causa da difendere insieme.»

«Quanto ti devo?», gli chiesi senza cattiveria, con un’ombra di sfinimento nella voce. Non si aspettava una reazione da contabile, e ne sembrò offeso. Anche se simbolico, quello era il suo regalo per me; il migliore che mi avesse mai fatto, stando alla solennità con cui aveva teso il braccio nella mia direzione, reggendo il prezioso cartoncino tra l’indice e il medio.

«Non ti sapevo militante», balbettai. «Non lo sei mai stato. Che cosa ti ha indotto a un salto esistenziale così notevole?»

«Ero un irresponsabile», esordì deciso, lanciandosi in un sermone sui doveri che ogni cittadino che si rispetti dovrebbe assumersi. Il suo incipit mi ferì: l’accusa di irresponsabilità, formulata in apparenza contro sé stesso, rimbalzava direttamente sulle mie gote come uno schiaffo. Ascoltai le sue argomentazioni, stupefatto da un’enfasi adolescenziale così tardiva e turbato dalla ricorrenza di slogan e frasi fatte, uno scivolo idiomatico che in passato avevano sempre non solo evitato, ma anche deriso. In silenzio condividevo la sostanza di quelle asserzioni, anche se enunciate in uno stile che non mi piaceva; ma non mi sentivo né adeguato ai compiti prescritti da questo o quel partito, né desideroso d’impelagarmi nella politica attiva. Non ero mai stato un habitué di assemblee e sit-in, cortei e manifestazioni di protesta, dibattiti interminabili e prese di posizione in pubblico, e per nulla al mondo avrei cambiato da un giorno all’altro la mia vita, rinunciando alla riservatezza che mi era consona. In gioventù avevo tentato, per brevi periodi e trascinato da altri, l’avventura dell’impegno diretto, ricavandone malessere e ferite: non ero fatto per la vivacità di discussioni e scontri, astuzie e strategie, conflitti interiori tra l’obbedienza a linee d’azione laboriosamente condivise e la voce della coscienza. La mia connaturata mitezza, inoltre, mi induceva a considerare bruciante e imperdonabile qualsiasi attacco personale, anche se espresso senza malizia, per pura consuetudine dialettica. Dopo quelle fugaci esperienze ho continuato a praticare il dissenso e l’indignazione per conto mio, a trasudare sfoghi e pessimismo in cerchie ristrettissime. Non ero disposto a far tardi la sera, a bere la retorica dei comizi, a scendere in piazza sbandierando ideali, furia e commozione. Non ero quel che si dice un combattente, non in quell’ambito almeno, e preferivo coltivare le mie convinzioni in modi diversi da come venivano espresse da un collettivo.

Renato mi stava sommergendo di parole come in preda a una febbre. Non lo avevo mai visto accalorarsi così. Forse stava dimenticando l’appuntamento al quale aveva sacrificato il nostro pranzo, e continuai a subire la sua irruenza verbale senza osare rammentarglielo. Ma aveva pensato a tutto, anche all’eventualità di distrarsi: aveva impostato il timer sul suo cellulare, e l’inconsapevole Giuseppe Verdi si fece sentire di nuovo con le sue false trombe d’Egitto, tagliandogli bruscamente l’arringa a metà. «Cazzo», borbottò, «devo proprio andare, perdonami.» E, alzandosi dopo aver fatto stridere fastidiosamente le gambe metalliche della sedia sul linoleum: «Sei libero di fare come vuoi, naturalmente. Non sentirti obbligato. Non ho la minima intenzione di condizionarti. Ci vediamo.» Si congedò con un abbraccio che aveva il calore di una minaccia.


Lo vidi allontanarsi curvo sotto la pioggia, senza indugi e senza ombrello. Si era scordato di Oz, e forse si stava già scordando di me. Ero troppo afflitto per alzarmi e uscire a mia volta. Ordinai un altro Campari e mi immaginai rosso in volto come l’aperitivo col quale avevo deciso di stordirmi. Che diritto aveva, quel rudere sbucato a tradimento dalla fuliggine del passato, di giudicarmi e colpevolizzarmi con tanta foga? Decisi seduta stante, incoraggiato dall’effetto euforizzante dell’alcol, di non rivederlo mai più.

Saltai il pasto e andai ad aggirarmi tra gli scaffali di un megastore, senza fretta. Ci ero già stato meno di due ore prima, per scegliere il libro che gli avevo incautamente destinato. Ed eccomi ancora lì, senza una precisa ragione, senza altro scopo se non quello di perdere tempo. Le piccole infelicità avevano sempre il potere di trasformarmi in automa. Comprai meccanicamente un altro libro e un dvd, tanto per non uscire dal negozio a mani vuote, e camminai da Cordusio a Cadorna con permalosa lentezza di passo, confortato unicamente dal fatto che non piovesse più. Mi sentivo idiota, e non era la prima volta che provavo un simile cedimento di autostima. Ripensavo a Renato serbandogli rancore, ma quel rancore si ritorceva contro di me, perché – ripassando la nostra sghemba conversazione a mo’ di replay – dovevo ammettere che non aveva detto né fatto nulla di così grave da provocare in me uno sdegno così cocente. A parte il sarcasmo – quello sì, davvero imperdonabile – con cui aveva accolto il mio regalo. Che lui aveva lasciato sul tavolo come una cosa morta, un avanzo di patatine o un tovagliolo usato, mentre io avevo passivamente intascato la sua tessera, simbolo di un’insolente e non richiesta investitura.

Non richiamò né il giorno dopo né mai, immemore dell’invito a pranzo rimasto nell’aria, e gliene fui grato. Due anni dopo andai però a trovarlo in ospedale quando Isa, la moglie separata, mi avvertì con una telefonata che Renato stava così male da avere i giorni contati. Era un relitto, privo di peso e consistenza come una torbida macchia gialla nel logoro biancore delle lenzuola; ma per quanto acquoso fosse il suo sguardo e rantolante il suo respiro, sperai che fosse ancora in grado di riconoscermi. Chiesi a Isa, che non avevo mai visto così tesa e contrariata, se Renato serbasse consapevolezza di sé stesso e degli altri. «Ci sta ascoltando e capisce tutto quello che diciamo», disse ad alta voce, con una fermezza che sapeva di compassione e, al tempo stesso, di biasimo. Immaginai che volesse infondergli un po’ di coraggio, senza concedergli tuttavia alcuno sconto sui torti di cui si riteneva vittima. Entrò un infermiere per occuparsi di lui e del compagno di stanza. Isa ed io uscimmo nel corridoio, lei con le mani affondate nelle tasche dell’impermeabile e una maschera severa stampata sul volto. Aveva evitato di truccarsi, come se il suo acido pallore fosse per lei motivo di orgoglio o prezzo di espiazione. Non sapevo cosa dirle. Biascicai qualcosa a proposito dell’impegno politico in cui Renato si era immerso negli ultimi anni. Per tutta risposta si fece uscire dalle labbra un commento sprezzante: «Si scopava una compagna di partito. Quello era il suo impegno politico.»

Uscii dall’ospedale con la certezza di aver commesso, entrandovi, un errore. Se Renato doveva morire, non era affar mio. Nessuno poteva farci niente: prima o poi si muore, che ci piaccia o no. Sarebbe presto toccato anche a me: eravamo coetanei, dopotutto. Che cosa potevo rimproverargli, o rimproverarmi? Avevamo percorso un tratto di strada insieme e a un certo punto ci eravamo incamminati in direzioni diverse. Anche da Isa si era distaccato, qualunque fosse la ragione, e se finiscono gli amori non vedo perché non possano finire le amicizie. Così andavo rimuginando nel crepuscolo, mentre un nauseante flusso di nostalgia mi saliva dalla gola fino agli occhi.

P.B.





Cinema e informazione

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In coda alla recensione di Spotlight, il film di Tom McCarthy che racconta l’inchiesta del Boston Globe sulla pedofilia dei preti cattolici negli Stati Uniti, abbiamo pubblicato una selezione filmografica sul mondo dei mass media. Till Neuburg ce ne propone un’estensione, ampliando – in casi come Le vite degli altri, Promised Land, Her – il campo di ricerca anche al tema della manipolazione condotta con mezzi diversi dal giornalismo.



Il cinema e il mondo dell’informazione. Parte seconda

di Till Neuburg

Nell’ambito tematico dell’impegno civile che si attua attraverso i media, ho scovato una settantina di altri film che vale la pena di ricordare. Intenzionalmente ho evitato di inserire film in cui l’impegno civile e i media entrano nel plot solo di striscio (es.: Roman Holiday, To Kill a Mockingbird, Chinatown, Una giornata particolare, Being John Malkovich, Magnolia, Birdman), limitandomi a quelli dove l’informazione e i mass media sono elementi narrativi scatenanti o basilari.

Praticamente tutti i polizieschi, i film a sfondo politico e i noir sono correlati al giornalismo, al cinema, alla tv. Ma per questo elenco a me premeva che i plot fossero prima di tutto improntati al tema dell’impegno – o del disimpegno – civile, sia individuale che collettivo. Per evitare uno snobistico insider trading tra due ultrà del cinema di qualità, non ho considerato tutti i film “civili” prodotti prima della Seconda guerra mondiale (leggi: di Citizen Kane), il Neorealismo, la Nouvelle Vague, i giovani arrabbiati inglesi, Der junge deutsche Film, Pier Paolo Pasolini, Francesco Rosi, Cassavetes padre, Kieslowski, i fratelli Dardenne, Mike Leigh, Ken Loach, Angelopoulos, i Polar francesi, Michael Moore... altrimenti andremmo avanti all'infinito. Peraltro, tutti questi “miei” film d’impegno civile hanno funzionato benissimo anche al botteghino.

1944, It Happened Tomorrow (Avvenne... domani). Regia: René Clair. Sceneggiatura: Dudley Nichols, René Clair, Helene Frankel, Lewis R. Foster, Hugh Wedlock Jr., da un lavoro teatrale di Lord Dunsany e un romanzo di Howard Snyder. Fotografia: Eugen Schüfftan, Archie Stout. Musica: Robert Stolz. Cast: Dick Powell, Linda Darrnell. USA, United Artists.


1947, Gentleman’s Agreement (Barriera invisibile). Regia: Elia Kazan. Sceneggiatura: Moss Hart, da un libro di Laura Z. Hobson. Fotografia: Arthur Miller. Musica: Alfred Newman. Cast: Gregory Peck, Dorothy McGuire, John Garfield. USA, 20th Century Fox.

1952, Lo sceicco bianco. Regia: Federico Fellini. Sceneggiatura: Ennio Flaiano, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Tullio Pinelli. Fotografia: Arturo Gallea, Leonida Barboni. Musica: Nino Rota. Cast: Alberto Sordi, Brunella Bovo, Leopoldo Trieste, Giulietta Masina. Italia, P.D.C.

1952, Park Row. Regia: Samuel Fuller. Sceneggiatura: Samuel Fuller. Fotografia: John L. Russell. Musica: Paul Dunlap. Cast: Gene Evans, Mary Welch. USA, United Artists.


1956, The Harder They Fall (Il colosso d’argilla). Regia: Mark Robson. Sceneggiatura: Philip Yordan, da un soggetto di Budd Schulberg. Fotografia: Burnett Guffey. Musica: Hugo Friedhofer. Cast: Humphrey Bogart, Rod Steiger, Jan Sterling. USA, Columbia Pictures.


1956, While the City Sleeps (Quando la città dorme). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Casey Robinson, da un romanzo di Charles Einstein. Fotografia: Ernest Laszlo. Musica: Herschel Burke Gilbert. Cast: Dana Andrews, Rhonda Fleming, George Sanders, Howard Duff, Thomas Mitchell, Vincent Price, Ida Lupino. USA, RKO Radio Pictures.

1957, A King in New York (Un re a New York). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Georges Périnal. Musica: Charles Chaplin, Eddy Marnay. Cast: Charles Chaplin, Maxine Audley, Dawn Addams. Regno Unito, Attica Film Company.

1960, Elmer Gantry (Il figlio di Giuda). Regia: Richard Brooks. Sceneggiatura: Richard Brooks, da un romanzo di Sinclair Lewis. Fotografia: John Alton. Musica: André Previn. Cast: Burt Lancaster, Jean Simmons, Arthur Kennedy, Dean Jagger. USA, United Artists.

1962, The Man Who Shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance). Regia: John Ford. Sceneggiatura: James Warner Bellah, Willis Goldbeck. Fotografia: William H. Clothier. Musica: Cyril Mockridge. Cast: John Wayne, James Stewart, Vera Miles, Lee Marvin, Edmond O’Brien. USA, Paramount Pictures.

1963, Shock Corridor (Il corridoio della paura). Regia: Samuel Fuller. Sceneggiatura: Samuel Fuller. Fotografia: Stanley Cortez. Musica: Paul Dunlap. Cast: Peter Breck, Constance Towers, Gene Evans. USA, Allied Artists.


1969, Z (Z - L’orgia del potere). Regia: Constantin Costa-Gravas. Sceneggiatura: Jorge Semprún, Constantin Costa-Gavras, dal romanzo di Vasilis Vasilikos. Fotografia: Raoul Coutard. Musica: Mikis Theodorakis. Cast: Yves Montand, Irene Papas, Jean-Louis Trintignant, Jacques Perrin, Charles Denner, Renato Salvatori, Magali Noël. Francia-Algeria, Valoria Films.

1970, Lettera aperta a un giornale della sera. Regia: Francesco Maselli. Sceneggiatura: Francesco Maselli. Fotografia: Gerardo Patrizi. Musica: Giovanna Marini. Cast: Daniele Costantini, Nino Dal Fabbro, Laura De Marchi. Italia, Ital-Noleggio Cinematografico.

1972, L’Attentat (L’attentato). Regia: Yves Boisset. Sceneggiatura: Jorge Semprún, Ben Barzman, Basilio Franchina. Fotografia: Ricardo Aronovich. Musica: Ennio Morricone. Cast: Jean-Louis Trintignant, Michel Piccoli, Jean Seberg, Gian Maria Volonté, Philippe Noiret. Francia-Italia-Germania, Cinema International Corporation.

1974, Professione: reporter. Regia: Michelangelo Antonioni. Sceneggiatura: Mark Peploe, Michelangelo Antonioni, Peter Wollen. Fotografia: Luciano Tovoli. Musica: Ivan Vandor. Cast: Jack Nicholson, Maria Schneider, Jenny Runacre. Italia-Francia-Spagna-USA, Compagnia Cinematografica Champion.


1974, The Sugarland Express (Sugarland Express). Regia: Steven Spielberg. Sceneggiatura: Hal Barwood, Matthew Robbins. Fotografia: Vilmos Zsigmond. Musica: John Williams. Cast: Goldie Hawn, Ben Johnson, Michael Sacks, William Atherton. USA, Universal Pictures.

1975, Die verlorene Ehre der Katharina Blum (Il caso Katharina Blum). Regia: Volker Schlöndorff, Margarethe von Trotta. Sceneggiatura: Volker Schlöndorff, Margarethe von Trotta, dal romanzo di Heinrich Böll. Fotografia: Jost Vacano. Musica: Hans Werner Henze. Cast: Angela Winkler, Mario Adorf, Dieter Laser. Germania, Bioskop Film.

1978, Capricorn One. Regia: Peter Hyams. Sceneggiatura: Peter Hyams. Fotografia: Bill Butler. Musica: Jerry Goldsmith. Cast: Elliott Gould, James Brolin, Brenda Vaccaro, Sam Waterston. USA-Regno Unito, Warner Bros.


1979, The China Syndrome (La sindrome cinese). Regia: James Bridges. Sceneggiatura: Mike Gray, T.S. Cook, James Bridges. Fotografia: James Crabe. Musica: Stephen Bishop e AAVV. Cast: Jane Fonda, Jack Lemmon, Michael Douglas, Scott Brady. USA, Columbia Pictures.

1981, Reds. Regia: Warren Beatty. Sceneggiatura: Warren Beatty, Trevor Griffiths. Fotografia: Vittorio Storaro. Musica: Stephen Sondheim, Dave Grusin. Cast: Warren Beatty, Diane Keaton, Jack Nicholson. USA, Paramount Pictures.

1982, Missing (Missing - Scomparso). Regia: Constantin Costa-Gravas. Sceneggiatura: Constantin Costa-Gavras, Donald Stewart, da un libro di Thomas Hauser. Fotografia: Ricardo Aronovich. Musica: Vangelis. Cast: Jack Lemmon, Sissy Spacek, Melanie Mayron. USA, Universal Pictures.

1983, Brainstorm (Brainstorm - Generazione elettronica). Regia: Douglas Trumbull. Sceneggiatura: Robert Stitzel, Philip Frank Messina, da un soggetto di Bruce Joel Rubin. Fotografia: Richard Yuricich. Musica: James Horner. Cast: Christopher Walken, Natalie Wood, Louise Fletcher, Cliff Robertson. USA, Metro-Goldwyn-Mayer.

1983, Silkwood. Regia: Mike Nichols. Sceneggiatura: Nora Ephron, Alice Arlen. Fotografia: Miroslav Ondrícek. Musica: Georges Delerue. Cast: Meryl Streep, Kurt Russell, Cher. USA, 20th Century Fox.


1984, The Killing Fields (Urla del silenzio). Regia: Roland Joffé. Sceneggiatura: Bruce Robinson. Fotografia: Chris Menges. Musica: Mike Oldfield. Cast: Sam Waterston, Haing S. Ngor, John Malkovich. Regno Unito, Goldcrest Films International.

1985, The Mean Season (Maledetta estate). Regia: Phillip Borsos. Sceneggiatura: Leon Piedmont, da un romanzo di John Katzenbach. Fotografia: Frank Tidy. Musica: Lalo Schifrin. Cast: Kurt Russell, Mariel Hemingway, Andy Garcia. USA, Orion Pictures.

1987, Good Morning, Vietnam. Regia: Barry Levinson. Sceneggiatura: Mitch Markowitz. Fotografia: Peter Sova. Musica: Alex North. Cast: Robin Williams, Forest Whitaker, Tung Thanh Tran. USA, Touchstone, Buena Vista Pictures.

1988, Betrayed (Betrayed - Tradita). Regia: Constantin Costa-Gravas. Sceneggiatura: Joe Eszterhas. Fotografia: Patrick Blossier. Musica: Bill Conti. Cast: Debra Winger, Tom Berenger, John Heard, Betsy Blair. USA-Giappone, United Artists.

1988, Mississippi Burning (Mississippi Burning - Le radici dell’odio). Regia: Alan Parker. Sceneggiatura: Chris Gerolmo. Fotografia: Peter Biziou. Musica: Trevor Jones.Cast: Gene Hackman, Willem Dafoe, Frances McDormand, Brad Dourif. USA, Orion Pictures.

1989, Music Box (Music Box - Prova d’accusa). Regia: Constantin Costa-Gravas. Sceneggiatura: Joe Eszterhas. Fotografia: Patrick Blossier. Musica: Philippe Sarde. Cast: Jessica Lange, Armin Müller-Stahl, Frederic Forrest.
USA, TriStar Pictures.

1992, The Public Eye (Occhio indiscreto). Regia: Howard Franklin. Sceneggiatura: Howard Franklin. Fotografia: Peter Suschitzky. Musica: Mark Isham. Cast: Joe Pesci, Richard Riehle. USA, Universal Pictures.

1993, The Pelican Brief (Il rapporto Pelican). Regia: Alan J. Pakula. Sceneggiatura: Alan J. Pakula, dal romanzo di John Grisham. Fotografia: Stephen Goldblatt. Musica: James Horner. Cast: Julia Roberts, Denzel Washington, Sam Shepard, John Heard. USA, Warner Bros.

1994, I Love Trouble (Inviati molto speciali). Regia: Charles Shyer. Sceneggiatura: Nancy Meyers, Charles Shyer. Fotografia: John Lindley. Musica: David Newman. Cast: Nick Nolte, Julia Roberts, Saul Rubinek. USA, Touchstone, Buena Vista Pictures.

1994, The Shawshank Redemption (Le ali della libertà). Regia: Frank Darabont. Sceneggiatura: Frank Darabont, da un racconto di Stephen King. Fotografia: Roger Deakins. Musica: Thomas Newman. Cast: Tim Robbins, Morgan Freeman. USA, Columbia Pictures.

1995, Safe. Regia: Todd Haynes. Sceneggiatura: Todd Haynes. Fotografia: Alex Nepomniaschy. Musica: Ed Tomney. Cast: Julianne Moore, Xander Berkeley, Dean Norris. Regno Unito-USA, American Playhouse.

1995, Sostiene Pereira. Regia: Roberto Faenza. Sceneggiatura: Roberto Faenza, Sergio Vecchio, dal romanzo di Antonio Tabucchi. Fotografia: Blasco Giurato. Musica: Ennio Morricone. Cast: Marcello Mastroianni, Joaquim de Almeida, Daniel Auteuil, Stefano Dionisi, Nicoletta Braschi, Marthe Keller. Italia-Francia-Portogallo, Mikado.

1996, The People vs. Larry Flynt (Larry Flynt - Oltre lo scandalo). Regia: Milos Forman. Sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewski. Fotografia: Philippe Rousselot. Musica: Thomas Newman. Cast: Woody Harrelson, Courtney Love, Edward Norton. USA, Columbia Pictures.

1997, L.A. Confidential. Regia: Curtis Hanson. Sceneggiatura: Brian Helgeland, Curtis Hanson, dal romanzo di James Ellroy. Fotografia: Dante Spinotti. Musica: Jerry Goldsmith. Cast: Kevin Spacey, Russell Crowe, Guy Pearce, James Cromwell, Kim Basinger, Danny DeVito. USA, Warner Bros.


1997, Mad City (Mad City - Assalto alla notizia). Regia: Constantin Costa-Gravas. Sceneggiatura: Tom Matthews, Eric Williams. Fotografia: Patrick Blossier. Musica: Thomas Newman. Cast: John Travolta, Dustin Hoffman, Mia Kirshner, Alan Alda. USA, Warner Bros.

1997, Midnight in the Garden of Good and Evil (Mezzanotte nel giardino del bene e del male). Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: John Lee Hancock, da un libro di John Berendt. Fotografia: Jack N. Green. Musica: Lennie Niehaus. Cast: John Cusack, Kevin Spacey, Jude Law. USA, Malpaso Productions, Silver Pictures, Warner Bros.

1997, O que é isso, companheiro? (4 giorni a settembre). Regia: Bruno Barreto. Sceneggiatura: Leopoldo Serran, dal romanzo di Fernando Gabeira. Fotografia: Félix Monti. Musica: Stewart Copeland. Cast: Alan Arkin, Fernanda Torres, Pedro Cardoso. Brasile-USA, Miramax.

1997, The Rainmaker (L’uomo della pioggia). Regia: Francis Ford Coppola. Sceneggiatura: Francis Ford Coppola, dal romanzo di John Grisham. Fotografia: John Toll. Musica: Elmer Bernstein. Cast: Matt Damon, Danny DeVito, Claire Danes, Jon Voight. USA, Paramount Pictures.


1998, A Civil Action. Regia: Steven Zaillian. Sceneggiatura: Steven Zaillian, da un libro di Jonathan Harr. Fotografia: Conrad L. Hall. Musica: Danny Elfman. Cast: John Travolta, Robert Duvall, James Gandolfini. USA, Touchstone, Paramount Pictures.

2000, Almost Famous (Quasi famosi). Regia: Cameron Crowe. Sceneggiatura: Cameron Crowe. Fotografia: John Toll. Musica: Nancy Wilson. Cast: Billy Crudup, Frances McDormand, Kate Hudson. USA, DreamWorks, Columbia Pictures.

2000, Erin Brockovich (Erin Brockovich - Forte come la verità). Regia: Steven Soderbergh. Sceneggiatura: Susannah Grant. Fotografia: Edward Lachman. Musica: Thomas Newman. Cast: Julia Roberts, Albert Finney, Aaron Eckhart. USA, Universal Pictures.


2000, I cento passi. Regia: Marco Tullio Giordana. Sceneggiatura: Claudio Fava, Marco Tullio Giordana, Monica Zapelli. Fotografia: Roberto Forza, Stefano Paradiso. Cast: Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano, Lucia Sardo. Italia, Istituto Luce.

2000, Thirteen Days. Regia: Roger Donaldson. Sceneggiatura: David Self. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Trevor Jones. Cast: Shawm Driscoll, Kevin Costner, Drake Cook. USA, New Line Cinema.

2001, The Shipping News (The Shipping News - Ombre dal profondo). Regia: Lasse Hallstrøm. Sceneggiatura: Robert Nelson Jacobs, da un libro di Anne Proulx. Fotografia: Oliver Stapleton. Musica: Christopher Young. Cast: Kevin Spacey, Julianne Moore, Judi Dench, Cate Blanchett. USA, Miramax.

2002, Confessions of a Dangerous Mind (Confessioni di una mente pericolosa). Regia: George Clooney. Sceneggiatura: Charlie Kaufman, da un libro di Chuck Barris. Fotografia: Newton Thomas Sigel. Musica: Alex Wurman. Cast: Sam Rockwell, George Clooney, Drew Barrymore, Julia Roberts. USA-Australia-Canada-Germania, Miramax.

2002, The Quiet American. Regia: Phillip Noyce. Sceneggiatura: Norma Moriceau, Robert Schenkkan, Christopher Hampton, Roger Ford, dal romanzo di Graham Greene. Fotografia: Huu Tuan Nguyen, Dat Quang, Christopher Doyle. Musica: Craig Armstrong. Cast: Michael Caine, Brendan Fraser, Rade Serbedzija. USA-Germania-Australia-Francia-Regno Unito, Miramax.

2003, The Agronomist. Regia: Jonathan Demme. Sceneggiatura: Jonathan Demme. Fotografia: AAVV. Musica: Wyclef Jean. USA, ThinkFilm.

Documentario. La vera storia di Jean Dominique, radiogiornalista haitiano e attivista per i diritti umani.

2003, The Life of David Gale. Regia: Alan Parker. Sceneggiatura: Charles Randolph. Fotografia: Michael Seresin. Musica: Alex Parker, Jake Parker. Cast: Kate Winslet, Kevin Spacey, Laura Linney. USA-Germania-Regno Unito, Universal Pictures.

2005, Capote (Truman Capote - A sangue freddo). Regia: Bennett Miller. Sceneggiatura: Dan Futterman, dal libro di Gerald Clarke. Fotografia: Adam Kimmel. Musica: Mychael Danna. Cast: Philip Seymour Hoffman, Allie Mickelson. USA-Canada, Metro-Goldwyn-Mayer.

2005, Where the Truth Lies (False verità). Regia: Atom Egoyan. Sceneggiatura: Atom Egoyan, Rupert Holmes. Fotografia: Paul Sarossy. Musica: Mychael Danna. Cast: Kevin Bacon, Colin Firth, Alison Lohman. Canada-Regno Unito, ThinkFilm.

2006, Blood Diamond (Blood Diamond - Diamanti di sangue). Regia: Edward Zwick. Sceneggiatura: Charles Leavitt. Fotografia: Eduardo Serra. Musica: James Newton Howard. Cast: Leonardo DiCaprio, Djimon Hounsou, Jennifer Connelly. USA-Germania, Warner Bros.

2006, Das Leben der Anderen (Le vite degli altri). Regia: Florian Henckel von Donnersmarck. Sceneggiatura: Florian Henckel von Donnersmarck. Fotografia: Hagen Bogdanski. Musica: Stéphane Moucha, Gabriel Yared. Cast: Martina Gedeck, Ulrich Mühe, Sebastian Koch. Germania, Wiedermann & Berg Filmproduktion.

2006, Scoop. Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Remi Adefarasin. Cast: Woody Allen, Hugh Jackman, Scarlett Johansson. Regno Unito-USA, BBC Films.

2007, Le Scaphandre et le papillon (Lo scafandro e la farfalla). Regia: Julian Schnabel. Sceneggiatura: Ronald Harwood, da un libro di Jean-Dominique Bauby. Fotografia: Janusz Kaminski. Musica: Paul Cantelon. Cast: Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Jean-Pierre Cassel, Max von Sydow. Francia-USA, Pathé Renn Productions.

2007, Lions for Lambs (Leoni per agnelli). Regia: Robert Redford. Sceneggiatura: Matthew Michael Carnahan. Fotografia: Philippe Rousselot. Musica: Mark Isham. Cast: Robert Redford, Meryl Streep, Tom Cruise, Andrew Garfield. USA, Metro-Goldwyn-Mayer.

2007, The Hunting Party (The Hunting Party - I cacciatori). Regia: Richard Shepard. Sceneggiatura: Richard Shepard. Fotografia: David Tattersall. Musica: Rolfe Kent. Cast: Terrence Howard, Richard Gere, James Brolin. USA-Croazia-Bosnia Erzegovina, The Weinstein Company.

2007, Zodiac. Regia: David Fincher. Sceneggiatura: James Vanderbilt, dal romanzo di Robert Graysmith. Fotografia: Harris Savides. Musica: David Shire. Cast: Jake Gyllenhaal, Mark Ruffalo, Robert Downey Jr. USA, Paramount Pictures.

2008, Milk. Regia: Gus Van Sant. Sceneggiatura: Dustin Lance Black. Fotografia: Harris Savides. Musica: Danny Elfman. Cast: Sean Penn, Emile Hirsch, Josh Brolin, James Franco. USA, Focus Features.

2009, Fortàpasc. Regia: Marco Risi. Sceneggiatura: Marco Risi, James Carrington, Andrea Purgatori. Fotografia: Marco Onorato. Musica: Franco Piersanti. Cast: Libero De Rienzo, Valentina Lodovini, Michele Riondino. Italia, Rai Cinema.


2011, The Ides of March (Le idi di marzo). Regia: George Clooney. Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov, Beau Willimon. Fotografia: Phedon Papamichael. Musica: Alexandre Desplat. Cast: Ryan Gosling, George Clooney, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Evan Rachel Wood, Marisa Tomei. USA, Columbia Pictures.

2011, The Lady (The Lady - L’amore per la libertà). Regia: Luc Besson. Sceneggiatura: Rebecca Frayn. Fotografia: Thierry Arbogast. Musica: Eric Serra. Cast: Michelle Yeoh, David Thewlis. Francia-Regno Unito, EuropaCorp.


2012, Hannah Arendt. Regia: Margarethe von Trotta. Sceneggiatura: Pamela Katz, Margarethe von Trotta. Fotografia: Caroline Champetier. Musica: André Mergenthaler. Cast: Barbara Sukowa, Janet McTeer, Julia Jentsch. Germania-Lussemburgo-Francia-Israele, Heimatfilm.

2012, Promised Land. Regia: Gus Van Sant. Sceneggiatura: John Krasinski, Matt Damon, da un racconto di Dave Eggers. Fotografia: Linus Sandgren. Musica: Danny Elfman. Cast: Matt Damon, Frances McDormand. USA-Emirati Arabi Uniti, Focus Features.

2012, The Paperboy. Regia: Lee Daniels. Sceneggiatura: Peter Dexter, Lee Daniels. Fotografia: Roberto Schaefer. Musica: Mario Grigorov. Cast: Zac Efron, Matthew McConaughey, Nicole Kidman, John Cusack, David Oyelowo, Scott Glenn. USA, Millennium Film.


2013, Her (Lei). Regia: Spike Jonze. Sceneggiatura: Spike Jonze. Fotografia: Hoyte Van Hoytema. Musica: Arcade Fire. Cast: Joaquin Phoenix, Rooney Mara. USA, Warner Bros.

2014, Selma (Selma - La strada per la libertà). Regia: Ava DuVernay. Sceneggiatura: Paul Webb. Fotografia: Bradford Young. Cast: David Oyelowo, Carmen Ejogo, Jim France. Regno Unito-USA, Paramount Pictures.








Foxcatcher

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Il vero Steve Carell.

Carell truccato in Foxcatcher.

Foxcatcher: nevrosi e manipolazione.

Ci sono attori disposti a qualsiasi travestimento pur di immedesimarsi fino in fondo nei personaggi che interpretano e magari strappare un premio. Non parlo solo di maschere posticce come i baffi, le parrucche e le tute di finto grasso, ma di autentiche manipolazioni e deformazioni corporali, talvolta persino rischiose per la salute. Christian Bale, ad esempio, è uno che passa con disinvoltura dalla normalità all’anoressia: una fisarmonica vivente. La galleria storica dei mutanti comprende ritratti indelebili come quelli di Orson Welles in Citizen Kane, Marlon Brando ne Il padrino e Apocalypse Now, Robert De Niro in Taxi Driver e Toro scatenato, Dustin Hoffman in Tootsie, Charlize Theron in Monster, Brad Pitt ne Il curioso caso di Benjamin Button, Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro, Glenn Close in Albert Nobbs – tanto per citare qualche nome a caso. Fra le metamorfosi più recenti c’è quella di Steve Carell in Foxcatcher, uno dei capolavori più sorprendenti di questi anni.

In Italia Steve Carell non è arcinoto come negli Stati Uniti, e in molti qui hanno creduto che il suo aspetto reale sia più o meno lo stesso che appare nel film. Si tratta invece di uno stupefacente artificio di makeup, che Carell asseconda con una recitazione di superba efficacia. Nel film è il rampollo malriuscito di una grande famiglia di industriali (DuPont, quelli che inventarono il nylon e tante altre fibre sintetiche). Questo DuPont è un fan psicopatico della lotta greco-romana, che gli americani chiamano wrestling, e senza badare a spese ha dotato la sua tenuta di palestra e attrezzature per l’allenamento di atleti promettenti. Ai ragazzi vengono forniti vitto, alloggio e stipendio, nonché la guida di trainer professionisti come i fratelli Schultz, detentori di record olimpici. La storia è vera, come è vero il suo sbalorditivo epilogo. 

Il vero Steve Carell.

Carell truccato in Foxcatcher.

La grandezza del film sta nella costruzione dei personaggi principali – il paternalistico e inquietante DuPont, il giovane atleta Mark Schultz (interpretato da Channing Tatum) cresciuto senza la guida di un padre e all’ombra dei successi del fratello maggiore (Mark Ruffalo) – e di una tensione costante, sempre sul punto di esplodere e sempre trattenuta e rinviata con abilità dal regista Bennett Miller e dal body language del cast. Qui si recita col corpo più che con le parole: come sul ring, come in palestra. La fisicità dello sport pervade l’intero progetto drammaturgico di Foxcatcher, gli fornisce materie prime che non hanno solo a che fare con l’azione ma anche con l’analisi psicologica e il visual design. Ogni scena sembra provenire da uno storyboard disegnato con estremo talento grafico, e Miller sa caricare di senso l’estetica degli spazi e dei corpi, degli arredi e dei colori, perché ciascun dettaglio partecipi alla stilizzazione di un dramma al tempo stesso astratto e mostruosamente reale.

Foxcatcher – Una storia americana allude a una pluralità di temi che vanno dalla competitività alla psicoanalisi, dall’analisi patologica del fascismo alla manipolazione dei deboli. Il pazzo DuPont investe le sue ricchezze in filantropismi sgraditi alla madre gelida e incombente (Vanessa Redgrave), si atteggia a missionario del patriottismo americano, plagia – e talvolta corrompe – ragazzoni muscolosi ma emotivamente vulnerabili, invidia gli eroi di cui si circonda e crede di poter comprare col denaro anche la possanza fisica che gli manca e l’esperienza di prestazioni che gli sono precluse. Una straordinaria parabola politica sul capitalismo e le sue deviazioni, espressa senza sermoni didascalici ma in forma di thriller sottile e avvincente.

Bennett Miller ha realizzato finora solo un paio di documentari e tre film, di cui due ispirati allo sport. Il suo tris rivela doti d’autore non comuni.

P.B.

Channing Tatum e Steve Carell in Foxcatcher.


Filmografia di Bennett Miller.

2005, Capote (Truman Capote - A sangue freddo). Regia: Bennett Miller. Sceneggiatura: Dan Futterman, dal libro di Gerald Clarke. Fotografia: Adam Kimmel. Musica: Mychael Danna. Cast: Philip Seymour Hoffman, Allie Mickelson. USA-Canada, Metro-Goldwyn-Mayer.

2011, Moneyball (L’arte di vincere). Regia: Bennett Miller. Sceneggiatura: Steven Zaillian, Aaron Sorkin, Stan Chervin, da un libro di Michael Lewis. Fotografia: Wally Pfister. Musica: Mychael Danna. Cast: Brad Pitt, Philip Seymour Hoffman, Robin Wright, Jonah Hill, Chris Pratt. USA, Columbia Pictures.

2014, Foxcatcher (Foxcatcher - Una storia americana). Regia: Bennett Miller. Sceneggiatura: E. Max Frye, Dan Futterman. Fotografia: Greig Fraser. Musica: Rob Simonsen. Cast: Steve Carell, Channing Tatum, Mark Ruffalo, Vanessa Redgrave, Sienna Miller. USA, Sony Pictures Classics.



Filmografia parziale di Steve Carell.

2004, Melinda and Melinda (Melinda e Melinda). Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Vilmos Zsigmond. Cast: Chloë Sevigny, Will Ferrell, Amanda Peet, Steve Carell, Chiwetel Ejiofor, Josh Brolin. USA, Fox Searchlight.

2005, The 40 Year Old Virgin (40 anni vergine). Regia: Judd Apatow. Sceneggiatura: Judd Apatow, Steve Carell. Fotografia: Jack N. Green. Musica: Lyle Workman. Cast: Steve Carell, Catherine Keener, Paul Rudd. USA, Universal.

2005, Bewitched (Vita da strega). Regia: Nora Ephron. Sceneggiatura: Nora Ephron, Delia Ephron. Fotografia: John Lindley. Musica: George Fenton. Cast: Nicole Kidman, Will Ferrell, Shirley MacLaine, Michael Caine. USA, Columbia.

2006, Little Miss Sunshine. Regia: Jonathan Dayton, Valerie Faris. Sceneggiatura: Michael Arndt. Fotografia: Tim Suhrstedt. Musica: Mychael Danna, DeVotchKa. Cast: Greg Kinnear, Toni Collette, Steve Carell, Paul Dano, Alan Arkin, Abigail Breslin. USA, Fox Searchlight.

2010, Date Night (Notte folle a Manhattan). Regia: Shawn Levy. Sceneggiatura: Josh Klausner. Fotografia: Dean Semler. Musica: Christophe Beck. Cast: Steve Carell, Tina Fey, Mark Wahlberg, Mark Ruffalo, James Franco, Mila Kunis, Olivia Munn, Ray Liotta. USA, 20th Century Fox.

2014, Foxcatcher (Foxcatcher - Una storia americana). Regia: Bennett Miller. Sceneggiatura: E. Max Frye, Dan Futterman. Fotografia: Greig Fraser. Musica: Rob Simonsen. Cast: Steve Carell, Channing Tatum, Mark Ruffalo, Vanessa Redgrave, Sienna Miller. USA, Sony Pictures Classics.

2015, The Big Short (La grande scommessa). Regia: Adam McCay. Sceneggiatura: Charles Randolph, Adam McCay, da un libro di Michel Lewis. Fotografia: Barry Ackroyd. Musica: Nicholas Britell. Cast: Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling, Brad Pitt, Marisa Tomei, Melissa Leo. USA, Paramount.

2015, Freeheld (Freeheld: Amore, giustizia, uguaglianza). Regia: Peter Sollett. Sceneggiatura: Ron Nyswaner. Fotografia: Maryse Alberti. Musica: Johnny Marr, Hans Zimmer. Cast: Julianne Moore, Ellen Page, Michael Shannon, Steve Carell. USA, Lionsgate.



Filmografia parziale di Channing Tatum.

2005, Coach Carter. Regia: Thomas Carter. Sceneggiatura: Mark Schwahn, John Gatins. Fotografia: Sharone Meir. Musica: Trevor Rabin. Cast: Samuel L. Jackson, Channing Tatum, Rob Brown. USA-Germania, Paramount.

2009, Public Enemies (Nemico pubblico - Public Enemies). Regia: Michael Mann. Sceneggiatura: Ronan Bennett, Michael Mann, Ann Biderman. Fotografia: Dante Spinotti. Musica: Elliot Goldenthal. Cast: Johnny Depp, Christian Bale, Marion Cotillard, Billy Crudup, Channing Tatum. USA-Giappone, Universal.

2010, Dear John. Regia: Lasse Hallstrøm. Sceneggiatura: Jamie Linden, dal romanzo di Nicholas Sparks. Fotografia: Terry Stacey. Musica: Deborah Lurie. Cast: Channing Tatum, Amanda Seyfried, Richard Jenkins. USA, Screen Gems.

2011, The Eagle. Regia: Kevin Macdonald. Sceneggiatura: Jeremy Brock. Fotografia: Anthony Dod Mantle. Musica: Atli Örvarsson. Cast: Channing Tatum, Jamie Bell, Donald Sutherland, Mark Strong. USA-Regno Unito, Focus Features.

2011, Haywire (Knockout - Resa dei conti). Regia: Steven Soderbergh. Sceneggiatura: Lem Dobbs. Fotografia: Steven Soderbergh. Musica: David Holmes. Cast: Gina Carano, Michael Fassbender, Ewan McGregor, Bill Paxton, Channing Tatum, Antonio Banderas, Michael Douglas, Mathieu Kassovitz. Irlanda-USA, Relativity Media.

2012, Magic Mike. Regia: Steven Soderbergh. Sceneggiatura: Reid Carolin. Fotografia: Steven Soderbergh. Cast: Matthew McConaughey, Channing Tatum, Olivia Munn, Alex Pettyfer. USA, Warner Bros.

2013, Side Effects (Effetti collaterali). Regia: Steven Soderbergh. Sceneggiatura: Scott Z. Burns. Fotografia: Steven Soderbergh. Musica: Thomas Newman. Cast: Jude Law, Rooney Mara, Catherine Zeta-Jones, Channing Tatum. USA, Open Road.

2013, White House Down (Sotto assedio - White House Down). Regia: Roland Emmerich. Sceneggiatura: James Vanderbilt. Fotografia: Anna Foerster. Musica: Harald Kloser, Thomas Wanker. Cast: Channing Tatum, Jamie Foxx, Maggie Gyllenhaal, Richard Jenkins, James Woods. USA, Columbia.

2014, Foxcatcher (Foxcatcher - Una storia americana). Regia: Bennett Miller. Sceneggiatura: E. Max Frye, Dan Futterman. Fotografia: Greig Fraser. Musica: Rob Simonsen. Cast: Steve Carell, Channing Tatum, Mark Ruffalo, Vanessa Redgrave, Sienna Miller. USA, Sony Pictures Classics.

2015, The Hateful Eight. Regia: Quentin Tarantino. Sceneggiatura: Quentin Tarantino. Fotografia: Robert Richardson. Musica: Ennio Morricone. Cast: Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Tim Roth, Bruce Dern, Michael Madsen, Channing Tatum. USA, The Weinstein Company.

2016, Hail, Caesar! (Ave, Cesare!). Regia: Ethan Coen, Joel Coen. Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen. Fotografia: Roger Deakins. Musica: Carter Burwell. Cast: Josh Brolin, George Clooney, Ralph Fiennes, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Frances McDormand, Channing Tatum. Regno Unito-USA-Giappone, Universal.







Sulle tracce di STZ

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STZ, 1982. Art: Fritz Tschirren. Copy: P. Barbella. Planner: Hans Suter.
Foto: Jean-Pierre Maurer.


Tour enogastronomico sulle tracce di STZ.

Hors-d’oeuvre.

Cominciai a lavorare in pubblicità nel 1967, dopo aver svolto attività diverse in altri settori. Una delle prime cose che mi sorpresero fu il nesso indissolubile fra pubblicità e cucina. Non solo perché la mia prima agenzia, CPV, era dotata di cucina sperimentale (vi si svolgevano test sui prodotti alimentari), ma anche per la varietà dei ruoli attribuita ai luoghi di ristoro. La loro funzione più comune, ovviamente, era quella di ospitarci durante le trasferte, piuttosto frequenti per mille ragioni. Ma presto compresi che i ristoranti fungevano anche da incentivo, da pensatoio, da ufficio di reclutamento, da rifugio, da centro terapeutico in caso di frustrazioni e salone delle feste in caso di esultanze. Intorno ai tavoli si abbozzavano calcoli imprenditoriali, progetti personali e sociali, compravendite di personale, persino campagne pubblicitarie (il mio amico e collega Neri le schizzava sui tovagliolini di carta, in una trattoria nei pressi della CPV). Ma se tutto ciò era vero per qualsiasi professionista della comunicazione e del marketing, per quelli della STZ lo era in modo speciale. La cucina (meglio se con cantina ben fornita) aveva, per loro, un grado di sacralità superiore. Lo ha tuttora, anche se hanno smesso di occuparsi di pubblicità; ma ai tempi del lavoro, l’enogastronomia deve aver svolto un compito centrale nel loro modo di intendere il mestiere. Per questo, volendo ricostruire i percorsi di Suter e Tschirren, non riesco a immaginare nulla di utile se non seduto, con loro o senza di loro, davanti a un piatto ben fatto e a una buona bottiglia di vino. Non aspettatevi, però, un itinerario ordinato o addirittura cronologico: a quello ci pensano le loro campagne, molte delle quali indimenticabili. Questo è un tour investigativo, fondato su alcuni incontri diretti e una quantità di indizi interessanti ma dispersivi: gli indizi se ne fregano della logica temporale. Se non siete né anoressici né astemi, accomodatevi. Il pranzo è servito.

3 dicembre 2015. Da Masuelli, viale Umbria 80, Milano.

In questa stagione alla trattoria Masuelli, in salute dal 1921, il giovedì è giorno di cassoeula. Era il piatto preferito di Toscanini. Ora è il piatto preferito dell’amico Fritz, che non a caso ha insistito per vederci qui proprio di giovedì sera. Ed ecco Fritz, Massimo e io, presi per incantamento e senza che il tempo rio – una scighera maschia, d’altri tempi – potesse dare impedimento al fermo proposito di convenire a questa meta. Intorno alla prima bottiglia di Ai Suma si cazzeggia a dovere; intorno alla seconda ancora di più.[1]

Volano in orbita gli anziani sulle astronavi della memoria mentre Massimo, 55 anni e quindi adolescente tra i vegliardi, ascolta rapito, godendo di amabili acciughe. Massimo non sa niente di GGK, era scolaro al tempo dei calzoni a zampa d’elefante. Era lì che Hans Suter e Fritz Tschirren si conobbero? Alla GGK di Torino? O a quella Milano? Ma no, a Basilea, che diamine. Basilesi si nasce, milanesi si diventa. Se Hans fosse con noi, preciserebbe: Basilea, da non confondere con Zurigo. Lo direbbe accentuando lievemente la smorfia di disgusto che madre natura gli ha disegnato sotto il naso, layout rivelatore di molteplici idiosincrasie. Fritz invece ostenta una bionda malignità da cherubino. Con ali, candela, stella in fronte e chioma fluente, figurò fanciullesco nella pubblicità Jägermeister; ora lo vedrei superiore all’originale in un classico di Frank Capra, La vita è meravigliosa, nei panni dell’angelo Clarence.

Fritz Tschirren, 1973 circa.

L’atlante dei ristoranti, dei bar e delle enoteche segna emblematicamente la conversione all’italianità di Hans e Fritz, elvetici eretici.[2]«Ti ricordi la Cassinetta di Lugagnano?», bisbiglia Fritz con due palpebre a mollo in vapori di nostalgia. La campagna Così fan tutti, mozartiano omaggio all’amaro Jägermeister, segna invece la loro ascesa professionale, imperniata sulla passione degli annunci seriali. Unikatskampagne vuol dire che il tuo annuncio pubblicitario deve uscire una volta sola su una rivista sola; per coprire Stern e Bunte tutto l’anno, devi inventare un centinaio di varianti. Uno spasso per autori prolifici, e fama sicura per il prodotto. A promuovere la teoria era stato, in America, il più stravagante dei copywriter, Howard Luck Gossage. «Se avete da dire qualcosa di rilevante», aveva insegnato, «non dovete rivolgervi a molte persone (basta parlare a quelle veramente interessate al messaggio), né dovete ripetervi troppo. Quante volte bisogna dirvi che sta bruciando la vostra casa? Quante volte dovete leggere un libro o una notizia o guardarvi un film? Se si tratta di una cosa interessante, basta una volta. Se invece si tratta di qualcosa di noioso, una volta è più che sufficiente.»

Fritz mostra sincero interesse per la cotenna di lardo, apocalisse palatale che ho sempre cercato di eludere. «Quella campagna l’aveva inventata Wolf Rogosky alla GGK di Düsseldorf, e la frase non era Così fan tutti ma Einer für alle, uno per tutti. Quando Karl Schmid, l’importatore di Merano, mise in gara la GGK milanese per la pubblicità in Italia, Hans stabilì che avevamo bisogno di ispirarci lontano dall’ufficio, in un ritiro spirituale adatto alla concentrazione. Fece prenotare tre camere al Danieli di Venezia, più una quarta da usare per le riunioni di lavoro, e portammo con noi Enzo Baldoni, che non era mai stato in un albergo di lusso e si sentiva in colpa. Continuava a dire che avrebbe preferito dormire in un sacco a pelo sulla riva degli Schiavoni, lì davanti. Alla fine della settimana lagunare, tutti e tre convenimmo sul fatto che non c’era bisogno di inventare nulla di nuovo, essendo il format tedesco così perfetto da potersi adattare benissimo in Italia, con una serie di annunci creati ad hoc.»

La gara fu vinta e i periodici italiani, a cominciare da L’Espresso e Panorama, cominciarono a esibire una inesauribile galleria di personaggi che bevevano Jägermeister perché. «Bevo Jägermeister perché l’ultima cassaforte che ho svaligiato era piena di bottiglie di Jägermeister», «Bevo Jägermeister perché è ora di finirla col sesso debole», «Bevo Jägermeister perché oggi ho venduto il mio primo aspirapolvere. A mia moglie», e via di questo passo.

Per quei ritratti Fritz reclutava facce dappertutto. Fissava appuntamenti nello studio del fotografo Jean-Pierre Maurer, elvetico anche lui, e dopo la prestazione ogni testimonial si vedeva consegnare un gentile assegno da lire centomila. Passavano di lì anche pubblicitari di agenzie concorrenti. È così che ci siamo conosciuti, Fritz e io. Da Maurer, dopo che qualcuno, non ricordo chi, mi aveva fatto sapere che ero finito nel cast. Io stavo in un’agenzia grande, chiamata CPV. Più tardi, quando avremmo collaborato insieme per la STZ, Fritz avrebbe preteso altre volte – un paio, credo – certe mie performance recitative da Academy Award. Non amava modelli e attori professionisti. Preferiva real people. Perché bevessi Jägermeister non ero io ad averlo deciso. «Chi scrisse quella frase sugli assistenti universitari?”, domando, più di quarant’anni dopo. Fritz non ricorda. Potrebbe essere stato Paolo Zanussi, o Enzo Baldoni, o qualcun altro. In tanti scrivevano headline per Jägermeister.

Fritz ordina un whisky. «Arriva fra cinque minuti», rispondono. Parlano in codice: invece del single malt arriva un taxi.


Milano, 1987. Fritz Tschirren, Valeria Zucchini e Pasquale Barbella a una festa dell’Art Directors Club Italiano.


1974. Cittu Bai, Via Aurelia, Ruta di Camogli.

Hans, Fritz e Valeria Zucchini lasciano GGK e aprono la loro agenzia: STZ, dai cognomi del trio. I due svizzeri si vedono spesso a Camogli, dove Fritz ha tuttora una casa e va a passeggiare nei boschi fumando sigari. Camogli è il posto ideale per imbarcarsi verso il futuro. Cittu Bai è un ritrovo delizioso, anzi era, perché ha cambiato nome, faccia e padrone: si dice che la pubblicità sia effimera, ma anche i ristoranti non scherzano. Hans ha conservato le sue vecchie agende. In quella del 1974 ha segnato «30 novembre con Fritz in via Andreani 4» (il primo indirizzo STZ, a Milano) e due appuntamenti per il 20 dicembre, «Drisaldi 10:30 e Baciga 11:30». «Poteva essere solo per comprare pagine per Amaro Jorge, il nostro primo cliente», ricorda Hans, laconico. «Iniziammo con una pessima campagna, partorita da riflessioni troppo brevi, quasi nell’arco di una sola notte» (Fritz).[3]

1975. Cantarelli, località Samboseto, Busseto (Parma).

Comincia con due stelle Michelin la saga del Bidone Aspiratutto. Tête-à-tête di Hans e Fritz, suppongo (io non c’ero: ho provato quel santuario del prosciutto, del culatello, dei tortelloni e delle invenzioni originali di Peppino e Mirella in altra occasione, legata agli andirivieni tra CPV e un cliente bolognese). Quello che Hans e Fritz non potevano immaginare è che il Bidone sarebbe durato più a lungo del miglior ristorante italiano dell’epoca: il Cantarelli chiuderà il 30 novembre 1982. La cantina era una miniera di tesori, ma mi piace immaginare che fosse il Lambrusco della casa a ispirare l’effervescenza di quella campagna.

Gli annunci del Bidone erano disegnati come le copertine della Domenica del Corriere e della Tribuna Illustrata, nonché i retro-copertina di Grand Hôtel. Quarant’anni dopo Fritz mi rivelerà che per le illustrazioni si era rivolto proprio a Walter Molino. Al telefono aveva detto di sì, ma al primo meeting storse un po’ il naso. Non gli andava di disegnare prodotti, ne andava della sua reputazione. «Ho già troppe tavole da fare, invece di aggiungerne altre preferisco giocare a golf», disse. «Se volete ho un nipote che imita bene il mio stile. Si chiama Roberto.» Roberto Molino fu prontamente arruolato per produrre un paio di tavole al mese. «Il cliente», ricorda Fritz, «comprò tutti gli originali tranne due. Me li ero portati a casa e dissi che non sapevo dove fossero andati a finire.» Se il cliente legge questo blog, spero vivamente che non mandi la polizia a casa del mio amico. Dopotutto, quei due originali se li è più che meritati.

Per il Bidone l’agenzia partorì non meno di cento pagine diverse. Persino operatori di marketing e pubblicitari scafati, soggiacendo all’insolito impatto visivo di quella realtà romanzesca, tendevano a trovarla divertente ma non sofisticata, senza percepirne gli aspetti più innovativi: l’assenza di logo, slogan e pack-shot (la classica icona fotografica del prodotto, stile catalogo), soppressi proprio da esperti di logo, slogan e pack-shot per non compromettere il senso stesso dell’idea. La campagna creò il mito di una potenza aspiratrice magica, sebbene generata da 650 modestissimi watt. Un esempio estremo di quanta incisività possa guadagnare la comunicazione liberandosi dei formalismi più comuni. Risultati: visibilità superiore alla media, salto vertiginoso della notorietà di marca e correzione degli handicap distributivi. «La campagna è riuscita a far entrare Bidone nelle grandi superfici perché un paio di agenti ci hanno creduto (e hanno fatto soldi a palate)», dirà Hans. «Prima lo vendevano solo nei canali della Vortice, grossisti di materiale elettrico, e passava inosservato nei loro outlet, del tutto inadeguati alla commercializzazione di elettrodomestici.»

28 ottobre 2015.
A Santa Lucia, via San Pietro all’Orto 23, Milano.

«Propongo il Santa Lucia che non chiude e che ci può dare due tavoli da due, di modo che abbiamo uno spazio dove mettere le cose. Un’altra possibilità sarebbe la Triennale, dove ci sono bei tavoli rotondi con tanto di WiFi.» L’incontro del 28 ottobre con Hans e Fritz, pianificato con scambio di e-mail, si svolge al ristorante A Santa Lucia, cucina napoletana, uno dei nostri covi di allora. Soprattutto di Tschirren, di casa qui perché abitò per anni in un residence prospiciente. Dopo cena, Mina ci giocava a carte fino alle ore piccole, con i suoi musicanti più fedeli. Alle pareti ritratti autografati di cantanti, musicisti, teatranti: Delia Scala, Riccardo Muti, Vittorio Gassman...

La storia dei tavoli «dove mettere le cose» non l’ho ancora capita. Mi aspettavo un mucchio di documenti squadernati sulla tovaglia, e per l’occasione avevo rispolverato una leziosa ventiquattrore che non usavo più da trent’anni. Odorava di trementina, camoscio e grasso di foca, perché se n’era stata tutto il tempo in letargo nella scarpiera. La borsa entra ed esce dal Santa Lucia con dentro un solo oggetto: una biro Bic, inchiostro nero. Per fortuna non c’è bisogno di tirarla fuori: per Fritz sarebbe uno choc. Lui vuole ricordarmi con una Tratto a punta fine, inchiostro rosso: quella che, nelle quiete riunioni in via Andreani e poi al 20 di corso di Porta Romana, usavo per annotarmi la comanda. Agivo da freelance. Ero evaso dalla CPV per improvvisa intolleranza alle gabbie. Mi ero dotato di partita Iva e intestai a STZ la terza fattura della mia vita da liberto: 22/10/1976, imponibile £ 150.000, Iva £ 18.000, ritenuta d’acconto £ 19.500. Scrissi per loro dal 1976 al 1982, ridendo. L’ufficio di via Andreani, a breve distanza da buoni ristoranti, era un austero studio notarile, penombrato e silente, idoneo alla consumazione di breakfast con Le Monde, il Corriere, il Times e la Frankfurter Allgemeine, non privo di conforti da bar allineati con garbo in un’ex dispensa di rogiti e testamenti.

Si parla di cime di rape. Hans e Fritz hanno pareri diversi su quelle del Santa Lucia. Uno è scettico, l’altro clemente. Stanno per litigare furiosamente, come coniugi sul viale del tramonto. L’unico a ordinarle sono io, pugliese incorreggibile, e le trovo eccellenti. Che vino è? Barbera, ma quale? Mi pento di non aver estratto la Bic. Hans adesso ce l’ha con Zurigo. «A Basilea, dove nasce GGK, detestano e invidiano Zurigo come i torinesi Milano. Come vedi GGK almeno questo ce l’ha in comune con Armando Testa. Per capire GGK questo fatto è importante.»

Importante per Hans, in questo momento, è il trasloco. Lascia Milano per Netro, borgo think-small in provincia di Biella. Ma per sei mesi all’anno sta in Sicilia, a Castelvetrano, dove partecipa con Nicola Clemenza alla produzione di olio extra-vergine biologico estratto da olive Nocellara, sferiche, tipiche della Valle del Belice. «Che olio producevi a Basilea? Concept extra-vergini del Reno?». Dice che faceva il writer nel reparto account, perché interessato alla scrittura. In realtà Hans poteva fare qualsiasi cosa. Un suo manoscritto letterario fu elogiato da Martin Walser. Hans scriveva di persona le presentazioni dei progetti creativi, secche e convincenti come dimostrazioni d’un teorema. La mano di Hans si riconosce al volo: scrive in modo acidulo, da scettico blu. Le campagne-stampa non erano rigorosamente unikat, ma pur sempre seriali, budget permettendo. Due annunci o venti, a misura dei soldi.

Mangio distrattamente. Cerco di capire, forchetta alla mano, se e quanto la radice svizzero-tedesca avesse influito sullo stile della STZ, eccentrico rispetto a tutto ciò che si produceva nelle agenzie italiane, multinazionali comprese. Ma ciò che emerge non è nessuna cultura nazionale: piuttosto l’impostazione della GGK, eccentrica a sua volta, e non solo in Italia. «GGK era partita nel 1959 come Gerstner + Kutter», ricorda Hans. «Markus Kutter, storico (laureato con una bella tesi su Celio Secondo Curione, ecco un altro torinese) e scrittore, figlio del pastore della cattedrale di Basilea, e Karl Gerstner, grafico, figlio adottivo di un operaio. Tutti e due molto basilesi. Con l’arrivo di Paul Gredinger, nel 1962 si creò GGK. Gredinger era architetto e compositore; nato a Coira, aveva studiato al Politecnico di Zurigo, città dalla quale non si mosse mai, anche se durante la settimana lavorava a Basilea o a Düsseldorf. Ecco la costellazione che ha fatto esplodere l’agenzia.»

Possibile che alle origini di GGK (e poi di STZ) non ci fosse una specie di imprint germanico? Fra gli anni settanta e ottanta nei reparti creativi nostrani presero a circolare gli annual prodotti dall’Art Directos Club für Deutschland, prima del tutto ignorati. Sembravano contenere roba fresca, brillante, talvolta graficamente insolita. Le labbra di Hans prendono la piega di quando non è d’accordo. E quando Hans non è d’accordo, esprime lo stesso sdegno dell’ospite d’albergo importunato da femmes de chambre refrattarie al cartellino “do not disturb”. «Di locale l’agenzia aveva niente. Era orientata lungo l’asse DDB, grazie all’esperienza di Helmut Schmidt, uno dei più grandi copywriter tedeschi. In quel periodo dirigeva il reparto pubblicità della Volkswagen (cliente storico di GGK) a Wolfsburg. Era stato lui a scegliere Bernbach, a New York. Schmidt doveva diventare socio della GGK, ma non se ne fece niente perché stava per aprire la DDB a Düsseldorf.» Eccomi sistemato.

GGK ebbe a che fare anche con Gossage, per una campagna Swissair. «L’invito di Gossage a Basilea fu l’ultimo tentativo di Kutter di conquistare l’egemonia creativa in agenzia.» Gossage venne dall’America per tenere un seminar. I creativi stavano lavorando su Swissair e imitarono lo stile dell’ospite illustre. Morale: tutte le strade della nuova creatività, in quegli anni, riconducevano agli stessi maestri.

Ma siamo arrivati al caffè – io anche al tiramisù – parlando più di GGK che di STZ. Non è umano. «Perché lasciasti la GGK?», azzardo. «Aprire la STZ fu per me una necessità, perché non sopportavo più dover rispondere a terzi di quel che facevo. Per lo stesso motivo non abbiamo venduto alla Burnett. Fare i cazzi miei era troppo importante.»

1979. La Grotta da Marino, Via Bergamini 13, Milano.

Non cercate la Grotta. Non esiste più. Al suo posto c’è un negozio di abbigliamento donna. Accanto c’è La Dolce Vita, ristorante più recente, interior design figoso, con piano bar. La zona brulica di cucine – slow e fast – per procurare adeguato sostentamento alle moltitudini della vicina Università degli Studi. Tanti dei locali frequentati da Suter, Tschirren e ospiti di turno ai tempi di STZ sono spariti: la Pantera (sommelier Raul Baronti), il primo Marchesi, il Vittoria, e altre chiese laiche a noi care. Del resto anche STZ ha smesso di esistere. Così come sono scomparsi i cinema del centro storico, la rivisteria Marco d’immensità aeroportuale, le Messaggerie di Galleria del Corso. Milano cambia i suoi simboli a frequenza mutandesca.

STZ, 1979 circa. Art: Fritz Tschirren. Copy: Pasquale Barbella. Foto: Jean-Pierre Maurer.

A Marino Bertoni, Hans e Fritz dedicarono un tributo speciale. Scelsero la Grotta per ambientarvi un breve fotoromanzo autopromozionale, da spedire ai clienti corteggiati. Dodici vignette in tutto, con S e T seduti a un tavolo da pranzo, alle prese con tagliolini ai porcini e carciofi, agnello alla griglia, Cartizze e Merlot Villa Russo. Che dicevano? Parlavano dell’incerta efficacia dei loro tentativi di direct mailing: «Tanto non lo legge nessuno». (Fritz precisa: «Il titolo era mio.») Maurer aveva già scattato centinaia di foto quando mi chiamarono. A telefonarmi era sempre Valeria, bolognese materna, di pazienza superiore; anche lei – come Walter Molino – golfista nel cuore. Mi convocava scusandosi. In STZ si occupava di molte cose: conti, fatture, acquisti (spazi media e altro), ospitalità. Andavo a trovarli con la penna rossa. Se erano le undici di mattina, Hans e Fritz si consultavano coscienziosamente sul ristorante da visitare più tardi. Era un delicato momento di ricerca scientifica. Poi mi mostravano documenti di presentazione al cliente (Hans) e schizzi di layout (Fritz). Le idee erano già impostate, bisognose di testi. Nel caso di Marino, Fritz compulsava un mazzo di fotografie in bianco e nero, tentando sequenze vincenti, da scala quaranta. Me ne feci dare un pacchetto, le portai a casa e scrissi un dialogo oggi parzialmente incomprensibile, perché c’è uno scambio di battute sullo strabismo di Katz. Armando Testa aveva fatto uscire una pubblicità di cui ricordo bene l’immagine, una faccia maschile senza collo e senza corpo, con gli occhi esageratamente divergenti. La pagina parlava di strabismo riferendosi sfottevolmente al lavoro dei suoi concorrenti milanesi, distorti nella visione, e citava un professor Katz, vero o inventato non so.


STZ, 1980. Annuncio di quattro pagine consecutive per le cucine Boffi. Art: Fritz Tschirren. Copy: Pasquale Barbella. Planner: Hans Suter. Foto: Jean-Pierre Maurer.

Scrissi microfotoromanzi anche per un paio di annunci Alfa Romeo destinati al solo Canton Ticino, e per le cucine Boffi. I rough disegnati da Fritz erano sempre pronti prima che i copywriter ci mettessero mano. In compenso, al copywriter veniva concesso un generoso spazio narrativo – spazio inteso non tanto in centimetri, quanto in libertà inventiva. Per questo non mi sono mai sentito frustrato dal fatto di non partecipare di persona alla genesi di quelle idee. Per me era come andare nella redazione d’un giornale, chiamato per scrivere un pezzo sui fatti del giorno, documentati da un dovizioso reportage d’immagini. Nei casi più eccitanti, Hans e Fritz sfoderavano dossier spiralati, contenenti una ventina di variazioni sull’argomento di turno. Il tema era sempre chiaro e inequivocabile. Per esempio: il valore di un’illuminazione progettata con competenza, per interni ed esterni (iGuzzini). Ci potevi mettere dentro di tutto: Goethe morente che chiede più luce, la lampada del terzo grado in un commissariato polveroso, le ombre cinesi, la vetrina di una macelleria, le luci di un’opera d’arte, i fanali notturni in bassifondi da Arancia meccanica. Alle foto dell’onnipresente Maurer si alternavano disegni e dipinti di Giovanni Mulazzani, compiantissimo illustratore dello Studio Ink. Campagne come quelle de iGuzzini, di Bosch, di Boffi o del Bidone sembravano tutto fuorché pubblicità. Se i lettori di Panorama e L’Espresso indovinavano facilmente la funzione pubblicitaria delle cronache di Bidone Aspiratutto, lettori di riviste più modeste prendevano per oro colato le vicende più improbabili: mele intere estratte da gole di minorenni ingordi, cacce ai topi in solaio, salassi clandestini perpetrati con l’aspirapolvere, salvataggi in extremis di incaute esploratrici insabbiate nel Sahara, il tutto grazie alla potenza aspiratrice di 650 watt e al capace diametro del tubo. Oggi è fin troppo chic parlare di storytelling applicato al marketing, ma STZ era una gloriosa fucina d’invenzioni narrative, un surreale laboratorio di short storiesillustrate. Alcune serissime, altre beffarde.

STZ, 1982. Art: Fritz Tschirren. Copy: P. Barbella. Planner: Hans R. Suter. Illustrazione: Giovanni Mulazzani.

Quando uscì un gruppo di quattro notizie pazze per un piccolo prodotto sconosciuto, il calcolatore Kosmos per bioritmi, l’impostazione imitava a tal punto i servizi editoriali della rivista ospitante da rendere arduo per chiunque smascherarne il contenuto di avvisi a pagamento. Ciascun avviso si presentava con due pagine d’apertura simulanti un’inchiesta («L’elettronica al servizio del sesso», per esempio), e il testo assecondava l’inganno; per capire che c’era in ballo un prodotto da comprare, dovevi cambiar pagina e leggere il seguito del discorso in una colonnina aggiuntiva. Per uno di questi episodi, intitolato «Questo matrimonio non s’ha da fare», Fritz mi volle nel cast, sposo inquietante in bombetta e marsina sul sagrato di San Cristoforo, un Landru all’inseguimento di Renata Prevost, sposa terrorizzata, anche lei copywriter ma in altra agenzia. Fritz e gli sposi, già abbigliati come per una cerimonia nuziale da vip, avevano raggiunto la chiesa addossati in una Diane sporca di fango fuori e piena di cianfrusaglie e trabiccoli dentro, guidata dal solito Maurer. Ma, al momento dell’arrivo, sul sagrato c’erano invitati d’un matrimonio vero, signore col cappello e l’abito a fiori, fanciulline reggivelo, testimoni in doppiopetto. Ci guardavano in cagnesco. Il prete mandò un sagrestano a cacciarci via. «Abbiamo un permesso e lo abbiamo pagato», protestò il fotografo. «Sì, ma allontanatevi e ritornate più tardi, quando la cerimonia sarà finita.» Attraversammo il ponte sul Naviglio e ci spingemmo in una bettola, in cerca di birra. Pensionati giocavano a carte, insultandosi con voci da stadio. Ma appena ci videro entrare tacquero di botto, allibiti. La sposa ordinò birra, che bevve a canna; e, già che c’era, si fece offrire e accendere un sigaro da Fritz. Il silenzio prese lo spessore del piombo.

Kosmos, calcolatori per bioritmi, 1980. Pubblicità ispirata al giornalismo. La doppia pagina d’apertura si guarda bene dal citare il prodotto, la cui descrizione è rinviata a una colonnina in altra parte della rivista. STZ. Art: Fritz Tschirren. Copy: P. Barbella. Planner: Hans Suter. Foto: Jean-Pierre Maurer.

Più tardi, quando Fritz e Jean-Pierre ci fecero correre come lepri obbligandoci a ripetere cento volte quell’inseguimento, e io già barcollavo e tossivo per il fiatone, una voce acutissima si levò dal Naviglio. Al centro del ponte un vecchio proletario, smontato dalla bici per eccesso di choc, gridava furente: «Vergugna! Vergugna!», sconvolto dal comportamento degli sposi, e specialmente dello sposo, ancora impregnato d’incenso ma già così determinato all’uxoricidio.

Nuovo n. 1, febbraio 1982. Cover story: Michael Schirner intervistato da Hans Suter.

Nuovo n. 1, febbraio 1982. Fritz Tschirren, Sandro Baldoni e Vittorio Sacco visitano i sacrari della creatività. 

Dicembre 1981. Ristorante Toscanino, Piazza Erculea, Milano.

Adesso qui, zona Missori-Porta Romana, c’è un moderno spazio intitolato a Manhattan. Vi si servono piatti mediterranei (ovviamente?) tra sagome di grattacieli e gigantografie di New York. Sulla piazza aleggia il fantasma d’un ristorante precedente, toscanaccio, amichevole: dimenticato per avversità della sorte. Morto è pure il progetto che, una sera fredda, intorno a una tavolata si andava macchinando. C’erano l’editore di Media Forum, Enrico Robbiati, in veste di proponente e investitore, e un manipolo di invitati: Sandro Baldoni (freelance), io (freelance), Daniela Frasca Polara (Circle), Till Neuburg (Camera), Emanuele Pirella (Pirella Göttsche), Fabio Ritter (Circle), Hans Suter (STZ), Giorgio Tramontini (Effetigi), Fritz Tschirren (STZ) e Marco Vecchia (CPV). Si voleva sperimentare una rivista, a dir poco trimestrale, pensata e scritta – gratis – da professionisti della pubblicità, senza giornalisti tra i piedi. Di trade magazinesce n’erano già in giro fin troppi, noiosi quanto basta, interessati solo a chiacchiere sul business. Non si era ancora arrivati al caffè e Pirella aveva già sputato il titolo della testata, Nuovo, aggettivo obbligatorio per il lancio di detersivi, dentifrici e merendine. Il primo numero uscì con la data del febbraio 1982. Impaginazione di Fritz, cover story di Hans, che per l’occasione intervista Michael Schirner, direttore creativo di GGK Düsseldorf e numero uno dei creativi tedeschi. «Una volta, a causa di un’agitazione sindacale, Stern uscì senza annunci», rivela Schirner. «In quell’occasione fece una ricerca: i lettori lo trovarono deprimente. A conferma di quello che penso da sempre: le riviste potrebbero benissimo fare a meno della redazione, ma non degli annunci...»

È un’idea che non dispiace né ad Hans né a Fritz, quella della rivista fatta solo di pubblicità, senza gli articoli. Qualche anno più tardi provvederanno a realizzare sul serio quel sogno impudico. Pubblicando STZ Special, cult magazine di 212 pagine interamente dedicate agli annunci STZ. Edito da Lupetti, in vendita alla modica cifra di lire 18.000. Ma anche Archive, data di nascita 1984, successo globale, pubblica solo annunci e – guarda caso – è un’idea tedesca: fondatore Walter Lürzer, ex TBWA di Francoforte ed ex Lürzer, Conrad – agenzia poi acquisita da Leo Burnett.

STZ Special, rivista di soli annunci pubblicitari, numero unico, prefazione di Gianni Mura. In copertina: fotogramma di uno spot ideato e diretto da Fritz Tschirren per gli stuzzicadenti Samurai.

Tornando al primo numero di Nuovo, è interessante notare l’effetto zen di un servizio intitolato «Dove nascono le idee». Concepito da Fritz Tchirren e realizzato con la complicità di Sandro Baldoni e del fotografo Vittorio Sacco, è un album dedicato ai cessi delle agenzie milanesi. Superfici levigate e sanitari immacolati suggeriscono una trasversale atmosfera da buen retiro e tabula rasa, due condizioni indispensabili alla meditazione. Quelle foto hanno anche un valore storico, perché documentano – degli anni ottanta – una fede impavida e costruttiva nelle virtù d’un mestiere, il nostro, che in anni più recenti sembra aver perduto il suo carisma, cancellato da implacabili sciacquoni economici e culturali.

Dopo pochi numeri, Hans e Fritz trovano invadenti i consigli dell’editore e abbandonano la redazione.

STZ, 1983. Art: Fritz Tschirren. Copy: P. Barbella. Planner: Hans Suter. Foto: Serge Libiszewski.


1981 o 1982. Mensa aziendale Carapelli, Firenze.

La sala meeting è un box dalle pareti trasparenti, meno di 4 metri per 4, situato nel bel mezzo di un open space pieno di impiegati al lavoro. Dall’interno del box si può seguire il traffico umano che si svolge nel grande e operoso carnaio. Dall’esterno, i manager e gli ospiti ingabbiati possono essere sorvegliati da centinaia di occhi. Hans e io siamo venuti a prendere un briefing dal top management della Carapelli. La STZ è stata invitata a una gara. Ci fanno accomodare nel box di vetro pregandoci di aspettare. Al centro della glasshouse c’è un tavolo rotondo. Sul tavolo galleggiano pozzanghere d’olio d’oliva. Deve essersi svolto un test con assaggi. In azienda sono tutti indaffarati: nessuno ha tempo di passare uno straccio dove serve.

Un giovane ed esuberante dirigente, responsabile del servizio comunicazione, ci accoglie con allegria. Ci sarà da aspettare un bel po’, promette felice, come se la cosa potesse farci esultare di letizia. Oggi è un giorno speciale. Stasera si inaugura la mensa aziendale, una novità fantastica. I vertici dell’azienda sono tutti presi dall’evento, stanno facendo gli ultimi controlli necessari. Bisogna capirli. Naturalmente alla cena d’inaugurazione siamo invitati anche noi, Hans e io. La fronte di Hans si corruga impercettibilmente. Le sue labbra pendono da un lato. «Mi dispiace», obietta; «ho un altro impegno a Firenze, per questa sera.» Dice il vero: mi aveva già annunciato di doversi fermare in città per la notte; deve incontrare una sorella che non vede da secoli. Il dirigente insiste. Fa capire che la famiglia Carapelli tiene molto a quella mensa, e che troverebbe sgarbato un rifiuto. Il volto di Hans tende a farsi cattivo. Dopotutto siamo invitati dell’ultima ora, mentre lui ha già un impegno sacrosanto. Il dirigente sorride. Adesso è ancora più esplicito: come si fa a vincere una gara dopo aver snobbato un invito a cena così esclusivo?

Tiro un po’ la manica ad Hans, dopo averlo più volte tastato con un gomito. Non è tanto il suo no a spaventarmi, quanto la sua espressione collerica. Finalmente cede. L’altro è contento, chissà perché. Adesso dobbiamo concentrarci sulla presentazione d’agenzia: slides e showreel, per raccontare ai padroni di casa cos’è la STZ, cosa ha fatto di bello per i suoi clienti e perché dovrebbe essere la scelta ideale per Carapelli. Visto che c’è da aspettare, usiamo il tempo per preparare l’occorrente. Si può asciugare il tavolo, per favore? Il dirigente va in cerca di qualcuno che provveda. Il televisore non funziona. Il proiettore di diapositive nemmeno. L’olio rimane sul tavolo per ricordarci dove siamo esattamente. L’ora d’attesa diventerà due ore. I vertici dell’azienda parlano con noi pensando ad altro. La STZ non vincerà quella gara. In compenso, la cena servita nella mensa aziendale è eccellente.

STZ, 1980. Art: Fritz Tschirren. Copy: Pasquale Barbella. Planner: Hans Suter. Foto: Jean-Pierre Maurer.


Aprile 1985. Antica Osteria del Ponte, Cassinetta di Lugagnano.

Anche questo ristorante-mito ha cambiato indirizzo e chef. Stava fuori Milano, sul Naviglio Grande, a dieci minuti da Abbiategrasso. Per alcuni mesi dell’anno era soffocato da una nebbia torva, non bastante però a scoraggiare i suoi adepti, che sfidavano il buio illuminati dal faro della guida Michelin.

Siamo ospiti di Mondadori, epoca De Benedetti. Con un giovanotto delle loro PR, dall’incoraggiante cognome (Speranza), ho architettato un premio Mondadori per la migliore pubblicità sulla stampa. Cena di gala per la giuria, nonché per i vincitori del concorso. Presenti alcuni dei massimi dirigenti della casa editrice. In giuria Francesco Alberoni, Alberto Cremona, David Deveson, Raymond Gfeller, Dario Landò, Emanuele Pirella, Gavino Sanna, Anna Scotti, Armando Testa e il sottoscritto, più tre special guest d’importazione: Jerry Della Femina (From Those Wonderful Folks Who Gave You Pearl Harbor), Ed McCabe (Perdue Farms: «It takes a tough man to make a tender chicken», Volvo: «Fat cars die young!»), copywriter e rallista della Parigi-Dakar, e il giornalista Larry Dobrow, autore di When Advertising Tried Harder. Manca David Abbott, britannico dotato ma sprezzante: invitato come giurato, ha detto no senza thanks e senza sorry. Prima di sederci indugiamo in piedi con l’aperitivo, in crocchi. Franco Tatò, vicepresidente e amministratore delegato della Mondadori, detto Kaiser Franz per le sue rudezze da rottamatore e cruento risanatore di imprese in difficoltà, si accosta ad Anna Scotti e a me. Non sospettandoci ospiti, ma solo suoi impiegati, borbotta: «Che spreco. Bisogna finirla con queste pagliacciate.»

Fritz si è piazzato al primo posto, insieme al copywriter Cesare Casiraghi, con «Il tappeto occidentale». Una serie di doppie pagine per gratificare la marca di tappeti Sisal, in antitesi con la gloria e l’aura riconosciute per comune tradizione all’artigianato d’Oriente. Nelle immagini, riprese dall’alto da Jean-Pierre Maurer, scene imprevedibili si svolgono sul Sisal: dalla preghiera musulmana alla danza del ventre.

Più o meno nello stesso periodo, in un altro ristorante dimenticato da tutti, 39 pubblicitari fondano l’Art Directors Club Italiano. Fritz Tschirren viene eletto presidente per il primo anno. L’annuncio di lancio non manca di sottolineare il paradosso di un organismo italiano nato con un presidente di Steckborn, cantone di Turgovia. E promette che il club «funzionerà come un orologio svizzero.»

© Pasquale Barbella

(Prima parte. Continua, se riesco a combinare un lunch con Fritz e/o Hans).

Per le campagne STZ, vedi anche Bevo Jägermeister, Bidone Aspiratutto, Vuoi che guidi io?, Un’avventura ferroviaria. Prossimamente su questo blog: nuove pagine con molti altri annunci dell’agenzia.

Fritz Tschirren per Abitare.

STZ. Art: Fritz Tschirren. Copy: Sandro Baldoni. Planner: Hans Suter. Foto: Jean-Pierre Maurer.




[1]La cassoeula è un piatto che i lombardi conoscono bene. Trattasi di costine, piedini, orecchie, cotenne, codini, salamini e salsiccia di maiale coinvolti in un’orgia di verze gelate dalla brina. Anche la scighera, impenetrabile nebbione di queste parti, fa tanto “albero degli zoccoli”, sebbene urbanissima e non solo campagnola. Massimo è Guastini, presidente dell’Art Directors Club Italiano al momento dell’incontro qui narrato. Ai Suma non è sake ma un eccellente Barbera d’Asti imbottigliato dalla Braida di Rocchetta Tanaro. Prosit.
[2]«A Torino mangiavo benissimo. E questo mi pare un argomento importante. Perché devo ammettere che la ragione per la quale sono rimasto in Italia non fu la cultura dell’advertising che per me è secondaria, ma il buon cibo.» (Fritz Tschirren nell’intervista pubblicata da Silvio Saffirio nel suo libro Gli anni ruggenti della pubblicità, Instar 2010).
[3]Intervista nel libro di S. Saffirio, op. cit.
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