Cento canzoni per i posteri
Se non ci becca un meteorite o un nemico planetario in carne e ossa, avremo più posteri che antenati. Ma anche milioni di canzoni vecchie e nuove, se si continua a produrne a ritmo così frenetico. Che ne resterà? Le bruciamo come fiammiferi, e in cucina c’è sempre zolfo fresco anche se lo zolfo di ieri, sfregandolo un po’, funziona ancora. La fabbrica delle canzoni e la fabbrica della memoria non sono mai allineate sullo stesso viale. I tredicenni se ne fregano di Crazy, anche se è stato il tormentone di chi è appena passato dalle medie alle superiori. Una volta non era così. C’erano mezzi di diffusione assai limitati, per cui la notorietà, il consumo e l’assorbimento di una sequenza di note prendevano mesi, a volte anni. E quando quella sequenza entrava nella zucca della collettività, poteva succedere che vi s’inchiodasse per tre o quattro generazioni. Oggi l’idea di partorire un evergreen è senza speranza. Fenomeni durevoli come ’O sole mio 0 Strawberry Fields Forever sono irreplicabili. Non per carenza d’inventiva (trovo Pummarola black molto più interessante di ’O sole mio: 2000 vs. 1898), ma per eccesso di dispersione. Anche perché tendono a scomparire i supporti materici (i dischi) e tutto diventa liquidamente virtuale: onnipresente ma, al tempo stesso, precario e sfuggente.
Del Novecento – e persino di un paio di secoli addietro – qualcosa, bene o male, rimane. Ogni paese ha i suoi classici e forse riuscirà a custodirne una parte, come si fa con le rovine archeologiche. Ma il nuovo millennio è spietato. Le canzoni nascono con la data di scadenza annidata fra le note. Condividono, con i sacchetti di plastica e le siringhe, il destino della merce usa-e-getta.
Ho l’età giusta per considerarmi un conservatore. Nel senso di addetto alla conservazione, alla manutenzione della memoria: la politica non c’entra. Mi dispiace che tante canzoni finiscano nel water, alla mercé del primo sciacquone in agguato. Che siano, insomma, più effimere di una rosa o di una bistecca, oltre che del sottoscritto. Se potessi ne salverei a carrettate, anche fra quelle che non mi fanno impazzire ma in cui mi pare di cogliere l’ombra di una commozione, o le luci di una festa. Se c’è un’idea, tanto meglio. Rispetto, ma con distacco, le canzoni fatte più di parole che di musica: mi va di cullarmi, e di ballare. Ma quando il testo interloquisce con i suoni in modo poetico e intelligente, allora mi converto al concettuale e dico a me stesso: evviva i Radiohead.
Cavoli miei. Ma anche vostri, perché adesso vi infliggo anch’io una playlist. Lo fanno tutti, ma la mia è più eclettica di altre. Lasciamo perdere il ventesimo secolo: troppi amori e troppi ricordi, non me la caverei con meno di mille titoli. Qui stiamo stretti nei cento, pescati nei primi tre lustri del ventunesimo. Cento focherelli da salvare, prima che si spengano sotto l’urto tsunamico delle novità che bussano alla porta.
Vi chiederete se abbia senso subire, da un nonno con l’artrosi, consigli di funk e trip-hop, house e trance, noise e alternative rock, grunge e new age (senza escludere, visto che si producono ancora, blues e torch song, inni solenni e ballate di Nashville, sanremaggini e acutezze da cantautorato). So di non essere molto attendibile (chi lo è, in questo campo?), ma almeno sono super partes. Non mi identifico in nessun genere in particolare. Cerco di essere equidistante dal vecchio e dal nuovo. Quando i fan sono più giovani dei loro idoli, tendono istintivamente a tradirli per essere al passo coi tempi. Io invece sono persino più vecchio di Mick Jagger e Keith Richards, e gli idoli che potrei tradire si stanno diradando a velocità preoccupante. Dunque osservo la scena e ascolto o riascolto, con le cuffie Sony alle orecchie, voci e suoni di una gioventù di età variabile tra i quindici e gli over 70, come fossero compagni della stessa scolaresca o della stessa discoteca. Non sarà saggio, ma è divertente.
E adesso bando alle ciance: carte in tavola e benzina sul fuoco. Faccio come Rolling Stone: parto a ritroso, dal titolo numero 100, così vi faccio arrabbiare a poco a poco anziché al primo colpo.
Schindler’s Playlist. Parte I: 100-67.
di Godfrey Duncan. Album: Yes Boss Food Corner. Guyana, Regno Unito. Ark 21 Records, 2001.
Con la sua esultante commistione di musica da discoteca, jazz, folklore, poesia, ironia, elettronica, ritmo e immaginazione, il progetto Transglobal Underground – nato nel 1991 per iniziativa di alcuni DJ londinesi – è uno dei primi e più riusciti tentativi di assortimento multietnico in ambito musicale. Più che un gruppo stabile è un collettivo di free-lance. In Pomegranate l’ospite di turno è un performer della Guyana, Godfrey Duncan, che si fa chiamare TUUP (acrostico di The Unprecedented Unorthodox Preacher). Non è propriamente un rapper, anche se ben intonato, e nemmeno un predicatore: è uno storyteller, uno che intrattiene il pubblico narrandogli delle storie. Il tappeto musicale allestito per il suo racconto del melograno non riflette comunque né la sua origine caraibica né il suo passaporto britannico: siamo invece in pieno clima mediorientale, fra ondate ritmo-melodiche ideali per la danza del ventre. Suggestiva, oltre che sempre più attuale, l’idea di stravolgere la geografia e i cliché legati a questo o quel territorio.
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Godfrey Duncan, a.k.a. TUUP. |
di Ryan Adams, Ethan Johns. Album: Gold. USA. Lost Highway, 2001.
Sembra di risentire Bob Dylan da giovane, senza l’armonica. Chitarra, capelli scompigliati, country blues, amarezza e smarrimento. Qui Adams si commuove per una “ragazza nessuno”, habitué di bar notturni, un rottame da ore piccole alla mercé di tiratardi sbrigativi e indifferenti. «Ciò che normalmente suonerebbe retorico è invece modellato dal magnetismo emotivo di Adams in una sofferenza tangibile. Ci vuole la sua grande abilità per far sembrare dolce un mondo tanto grigio.» (Matthew Oshinsky in 1001 album. I capolavori della musica pop-rock internazionale, a cura di Robert Dimery, Atlante, 2014).
di Dan Auerbach, Patrick Carney, Brian Burton (Danger Mouse). Album: El Camino. USA. Nonesuch, 2011.
Il vinile col single di Lonely Boy suona al contrario: la puntina deve muoversi dal centro verso la periferia. I Black Boys ci tengono a dimostrare anche così di andare controcorrente. Sono però convenzionali le parole delle canzoni, comprese quelle di Lonely Boy. Ciò non ha impedito al «ragazzo solitario» di trionfare ai Grammy Awards 2013, grazie anche a un video spartano ma molto fortunato (circa 50 milioni di visite al momento in cui scrivo, solo per vedere un tizio che canta e balla per tre minuti e quindici secondi nell’atrio di un motel). Sarà anche alternativo ma è il solito vecchio, simpatico, nevrotico rock and roll, manipolato da Danger Mouse, musicista e producer onnipresente sulla scena contemporanea dell’intrattenimento musicale.
di Olga Goreas, Jace Lasek, Nicole Lizée. Album: The Besnard Lakes Are the Dark Horse. Canada. Jagjaguwar, 2007.
Non sapevo cosa fosse lo shoegaze e perciò ho dovuto chiedere l’aiuto di Wikipedia: «Tra gli elementi identificativi di questo genere, oltre che un significativo utilizzo di effetti per chitarra (perlopiù distorsore e riverbero), anche un forte senso melodico delle parti vocali che, quasi sognanti, mai enfatizzate e spesso trattate come mero strumento supplementare, combinate con il muro di feedback prodotto dalle chitarre, portano ad un risultato quasi assimilabile a certe produzioni di Phil Spector e ad una versione aggiornata e corretta (con l’utilizzo dell’elemento rumore) del suo Wall of Sound.» Vabbè. Il solista di questi Besnard Lakes è molto ispirato. Canta in falsetto di un disastro. Niente di apocalittico: il disastro sta nella mente dell’amata, una tipa misteriosa. Il sound design, fatto di suoni miagolanti, è piuttosto suggestivo.
di Sinéad O’Connor, Robert “3D” Del Naja, Neil Davidge, Grant “Daddy G” Marshall. Album: 100th Window. Irlanda, Regno Unito. Virgin, 2003.
Sinéad O’Connor prega lo Spirito Santo di intercedere presso il Signore affinché i bambini d’Inghilterra siano protetti da ogni forma d’abuso e da ogni contatto, anche indiretto, con la violenza. La sua voce ispirata, quasi angelica, crea un interessante contrasto acustico con l’elettronica dark dei Massive Attack. Qualcuno ha letto tra le righe accenni polemici alla chiesa, probabilmente in relazione allo scandalo dei preti pedofili («Dio, perdonaci / per aver dimenticato [i tuoi insegnamenti, ndr]. / Dio, aiutaci tu. / Abbiamo bisogno di più amore. / Guarda i maestri, / ti rappresentano / così male / che sono rimasti in pochi a vederti ancora.») Ma perché sarebbero a rischio solo i bambini d’Inghilterra? La perorazione non dovrebbe riguardare tutti i bambini del mondo? Ho altre perplessità sul testo: un po’ troppo conventuale, anche se l’intenzione è più che condivisibile. Ma una canzone è una canzone, e questa – se non afferri al volo le parole e non t’incaponisci a tradurle nella tua lingua – è, come dire?, più bella di com’è. Il timbro di voce e i suoni sembrano parlare da soli.
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Sinéad O’Connor. |
di Elizabeth Grant (Lana Del Rey), Justin Parker. Album: Born to Die. USA. Interscope, 2012.
L’industria statunitense del pop tende, dagli anni ottanta, a sfruttare astutamente la bellezza e/o il sex appeal di certe cantanti, vere e proprie showgirl dai molteplici talenti, anche perché la promozione passa soprattutto via video. Fenomeni come Madonna, Lady Gaga e Beyoncé si moltiplicano senza sosta, grazie all’intraprendenza delle interessate e alla collaborazione di coreografi e registi sensibili all’immaginario erotico, alla moda, al glamour. Lana Del Rey, all’anagrafe Elizabeth Grant, è o è stata addirittura fotomodella di professione. Di bello e sensuale ha anche la voce. Proprio con Video Games e un video fatto in casa, caricato su YouTube e visto da milioni di persone, si è affermata come cantante e promotrice di sé stessa. La canzone è molto bella: parla di sesso, amicizie, auto sportive e raduni mondani, ma con un retrogusto amaro, come a voler sottintendere che non è tutt’oro ciò che luce. Il repertorio di Lana Del Rey sembra discostarsi dalle stucchevolezze più comuni della dance e del cosiddetto “neo soul”.
di Michael Stipe, Mike Mills, Peter Buck. Album: Reveal. USA. Warner Bros., 2001.
Il testo può sembrare un sequel di All the Way from Memphis dei Mott the Hoople, quasi trent’anni dopo: anche qui una riflessione amarognola sull’esistenza vagabonda e autoreferenziale del rockettaro, dalla parte però di chi il successo si limita a sognarlo e forse non lo raggiungerà mai. C’è poco da “diventare una star” se sei diretto a Reno, Nevada: Reno non è né Los Angeles né Nashville, è un non-luogo come tanti altri disseminati per l’America, buono tutt’al più per un matrimonio-lampo o per vuotare il portafoglio alla roulette. Il tema non toglie né aggiunge molto al vero valore del brano, che sta nel fascino della melodia e dell’esecuzione. Un aroma incisivamente rétro, scorrevole e nostalgico come certe pagine degli anni sessanta.
di Jay-Jay Johanson. Album: Rush. Svezia. Virgin, 2005.
Eccolo qui, il mio synthpopper preferito, campione di solitudine e fragilità. Malinconico e notturno come Stoccolma d’inverno. Ma di quegli introversi che cercano di ammazzare la timidezza agitando le gambe in discoteca, dopo aver trangugiato più d’una birra. Le sue canzoni tendono al noir. Chi è quest’uomo specchio, questo Mirror Man? E dov’è finita la ragazza con i capelli o la parrucca alla Cleopatra, come Uma Thurman in Pulp Fiction? Lo specchio: sdoppiamento di personalità? Lui e lei sono la stessa persona? Lui dice di non avere tempo, di avere mille cose da sbrigare; ma prega qualcuno di dargli un colpo di telefono, nel caso che la ragazza scomparsa si facesse rivedere in giro. Nel frattempo, mentre Jay-Jay soffre, noi balliamo.
di Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt, Tré Cool. Album: American Idiot. USA. Reprise Records, 2004.
«Non voglio essere un idiota americano. / Una nazione controllata dai media. / Un’epoca d’informazione isterica.» Come dargli torto? Dite ai Green Day che li capisco. Quanto a me, non voglio essere un idiota italiano. Siamo, se non nella stessa barca, almeno nella stessa flotta. Abbiamo in comune persino le rime più inquietanti: television, tension, alienation = televisione, tensione, alienazione. E allora sfoghiamoci col rock and roll, esplosivo come la granata a forma di cuore che sanguina in copertina. L’album eponimo è un unitario grido di protesta in veste di opera punk, memore degli Who di Quadrophenia. Attacco doveroso al sistema mediatico, a Bush junior che manda le truppe a far casino in Iraq, alla passività di chi si lascia rimbambire dalla propaganda.
di Courtney Taylor-Taylor. Album: Thirteen Tales from Urban Bohemia. USA. Capitol, 2000.
Lo chiamano alternative rock, ma è pur sempre il vecchio, inossidabile rock and roll. Di nuovo c’è il contesto promozionale: musica per spot internazionali (Vodafone), videogame (Le Mans 24 Hours), sigle radiofoniche (il programma 606 su BBC Radio Sport Live, seguitissimo dai tifosi britannici di football). Questi Dandy di Portland, Oregon, scherzano sul nome di Andy Warhol e sui Velvet Underground, ma non erano ancora nati quando quelli pubblicarono il glorioso album con la banana. I maniaci di tag li classificano nel subgenere “neopsichedelia”. Sia quello che sia, è musica che si ascolta con spasso mentale e corporeo.
di Elvis Costello. Album: When I Was Cruel. Regno Unito. Island Records, 2002.
Songwriter tra i più prolifici, classe 1954, immaginazione irrefrenabile, Costello è in sella dal 1976 e non perde un colpo. Scrive racconti in forma di canzone, novelle sonore concentrate in pochi minuti. Qui parla di un tizio al suo quarto matrimonio. Conclusa la cerimonia, i partecipanti escono all’aperto, investiti dalla luce abbagliante, e si perdono in chiacchiere e abbracci. I pettegoli sparlano dello sposo e delle sue ex mogli, tutte presenti. Se ne ricava un bozzetto psicosociale acutamente ironico, con lo sposo che ripensa con nostalgia ai tempi in cui era più sconsiderato e cattivo. C’è anche una trovata musicale piuttosto divertente: Costello usa a mo’ di percussione, per tutta la lunghezza del brano, la sillaba «un» sparata da una voce femminile. Si riconosce, campionata e ripetuta centinaia di volte, la voce di Mina che attacca Un bacio è troppo poco, scritta da Antonio Amurri e Bruno Canfora ai tempi di Studio Uno (1965).
di Rob Garza, Eric Hilton. Album: The Mirror Conspiracy. USA. Eighteenth Street Lounge Music, 2000.
Introdotta da fascinosi stilemi mediorientali, questa «bionda libanese» fa subito drizzare le orecchie all’ascoltatore distratto, catturandone l’attenzione per circa cinque minuti. Da bravi ex DJ, Garza e Hilton coltivano tutto ciò che c’è di coltivabile nell’elettronica soft (ambient, trip hop, dub, acid jazz, lounge, punk, soul, etc.), mettendoci dentro anche reminiscenze di studi classici e, all’occorrenza, il gusto di un raffinato esotismo, come in questo caso. Rob Myers suona il sitar, Rick Harris si occupa dei fiati e Roberto Berimbau delle percussioni. Suadente la voce della professoressa Bricker, vocalista jazz e docente di musica in una università di Washington prima di suicidarsi a cinquant’anni, nel 2005. La canzone risale al 1998 (disco singolo), ma il primo album in cui compare è questo.
di Kevin Parker. Album: Lonerism. Australia. Modular Recordings, 2012.
Stanno suscitando entusiasmi in tutto il mondo i ragazzi di Perth che si presentano come Tame Impala, «domatori di antilopi». La stampa specializzata li esalta come protagonisti del revival psichedelico, e gli assegna il gravoso compito di riscattare definitivamente l’Australia dalla condizione di colonia culturale. C’è chi ha già paragonato a John Lennon il leader del gruppo, Kevin Parker. Barba, capelli lunghissimi, posture da profeta, comunque più carino del maestro. Ma che importa? Le canzoni sono ben scritte e ben eseguite, e tanto basta. Questa è semplicemente deliziosa, con la voce adolescenziale (e ammantata di eco) che canta: «Mi sembra di muovermi a ritroso, baby / (anche se) ogni parte di me mi incita ad andare avanti...» Pathos a non finire, e godimento nell’ascolto.
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Kevin Parker dei Tame Impala. |
di Alex Kapranos, Nick McCarthy. Album: Franz Ferdinand. Regno Unito. Domino, 2004.
Uno dei pezzi più popolari degli scozzesi Franz Ferdinand, efficaci revivalisti del punk anni ottanta. Il nome della band cita solo per gioco l’arciduca d’Austria assassinato a Sarajevo, ispirato com’è da una corsa di cavalli a lui intitolata. Il sound ricorda vagamente quello dei leggendari Clash, l’impeto è deciso e trascinante, il testo rientra senza sorprese nel tipico repertorio espressivo del ribellismo rockettaro: «C’è dentro di me un fuoco / un fuoco che brucia. / Questo fuoco è fuori controllo, / sto per bruciare questa città.» Palle; ma l’effetto è divertente. L’apparato promozionale dei FF parla di art rock, in virtù dell’iconografia – accattivante quanto incongrua – scelta per le copertine dei dischi e i video. Con reiterati riferimenti al costruttivismo russo (Rodčenko, El Lissitzky) e al dadaismo.
di Mario Tronco. Album: L’Orchestra di Piazza Vittorio. Italia, Argentina, Cuba, Ecuador, India, Regno Unito, Senegal, Tunisia, Ungheria, USA. Apollo 11, 2004.
Da Wikipedia: «L’Orchestra di Piazza Vittorio è un’orchestra multietnica nata nel 2002 all’interno dell’Associazione Apollo 11, un progetto sostenuto da artisti, intellettuali e operatori culturali che hanno voluto valorizzare il rione Esquilino di Roma, dove gli italiani sono una minoranza etnica. [...] è la prima e sola orchestra nata con l’autotassazione di alcuni cittadini che ha creato posti di lavoro e relativi permessi di soggiorno per eccellenti musicisti provenienti da tutto il mondo e promuove la ricerca e l’integrazione di repertori musicali diversi e spesso sconosciuti al grande pubblico, costituendo anche un mezzo di recupero e di riscatto per artisti stranieri che vivono a Roma talvolta in condizioni di emarginazione culturale e sociale. Il gruppo nasce da un’idea di Mario Tronco, componente della Piccola Orchestra Avion Travel, e del documentarista Agostino Ferrente che ne filma in diretta la nascita e debutta il 24 novembre 2002 con il concerto di chiusura del Romaeuropa Festival.» Iniziativa di evidente valore sociale, perfettamente riuscita anche sul piano artistico. Il primo disco, che conteneva brani molto suggestivi come Sahara Blues, si è aggiudicato nel 2005 il Preis der deutschen Schallplattenkritik (premio della critica discografica tedesca) per la sezione world music.
di Brad Paisley. Album: Time Well Wasted. USA. Arista Nashville, 2005.
Questa è una country song deliziosa, degna di Hank Williams e Johnny Cash. L’eroe assoluto dei saloon non è né lo sceriffo né il pistolero, né l’oste né il baro, né il mandriano né il possidente ricco e cattivo: è l’alcool, quello che manda riflessi maliziosi dalla bottiglia. Nel motivo di Brad Paisley, l’alcool parla in prima persona: «Posso far sentire migliore chiunque, / posso farti credere a qualsiasi fandonia, / posso farti attaccar briga / con qualcuno che è il doppio di te. / Sono noto per aver provocato qualche separazione, / per aver fatto nascere qualche bambino. / Posso farti stringere nuove amicizie / o farti licenziare. / Ho influenzato re e capi di stato, / ho aiutato Hemingway a scrivere come scriveva. / Scommettiamo un bicchiere o due / che ti faccio mettere in testa quel paralume. / Io sono medicina e veleno, / posso aiutarti a rimanere in piedi o a cadere. / Hai vissuto momenti felici / che non ti farò ricordare...» Eccetera, eccetera. Oltre a suonare la chitarra e a cantare bene, Brad è uno che sa scrivere.
di Joey Burns, John Convertino. Album: Algiers. USA. City Slang, 2012.
Algeri non c’entra: questo è Algiers, il distretto di New Orleans dove i Calexico hanno registrato l’album. Il brano di apertura s’intitola Epic e crea davvero un’atmosfera epica. Credo che il testo parli di amore universale, non l’ho capito molto bene e del resto non m’interessa. Il mood invece è di una bellezza impressionante. «La voce di Burns impone il suo carattere alle canzoni – un’inquietante miscela di mistero e trepidazione temperata dal languore...» (Andy Gill sul sito di The Independent). Non si può descrivere seriamente una canzone, me ne rendo conto. Basti sapere che questo disco dei Calexico è semplicemente sublime: non solo per Epic, ma per tutte le tracce che lo compongono.
di Nick Cave. Album: No More Shall We Part. Australia. Mute, 2001.
Riflessione perturbante e amarissima sul destino dell’universo: astri, pianeti ed esseri umani «sono tutti là in perenne caduta, / cadono con dolcezza e stupore.» Una coppia alla finestra si lascia andare a questi e altri pensieri malinconici (rimproverandosi, peraltro, di starsene tutta la vita alla finestra a osservare un mondo che si sgretola), mentre un tiepido gatto fa le fusa e reclama la sua dose di coccole saltando ora in grembo a lei, ora a lui. L’eterno conflitto tra impegno pubblico e pace privata, raccontato però con accenti di sincera poesia (e con struggente senso di colpa). Nick Cave stilizza con geniale maestria una canzone che “si vede”, quasi una fotografia o un dipinto iperrealistico. La melodia, i suoni, la voce (più dolente e straziata che mai) trascinano l’ascoltatore in una penombra da incubo, una stanza sospesa sull’abisso. Da annoverare tra le canzoni più intense e agghiaccianti di inizio millennio, insieme a And No More Shall We Part, che la segue a ruota sullo stesso CD.
di Robin Pecknold. Album: Helplessness Blues. USA. Bella Union, 2011.
Battery Kinzie è il nome di una piazzaforte marittima in disuso, compresa fra le installazioni militari di Fort Worden, a Port Townsend nello stato di Washington. Robin Pecknold, frontman dei Fleet Foxes, la usò come ritiro per scrivere in santa pace le canzoni dell’album. Questa ha un testo ermetico ma affascinante («Una mattina mi svegliai / con le dita marce, / mi svegliai come un moribondo senza speranza. / Venni alla tua finestra, / lanciai una pietra e aspettai. / Alla porta c’era uno straniero, / la sua voce non prometteva nulla di buono. / Feci dietro front e m’incamminai sul suolo ghiacciato, solo / a piedi fino a casa....»). Musica potente e – specialità dei Fleet Foxes – interventi corali da brivido. Un brano davvero suggestivo.
di Nick Cave, Bruno Pisek. Album: Punishing Kiss. Australia, Germania. Decca, 2000.
Simpatici maudits del nostro tempo come Tom Waits e Nick Cave hanno rinverdito, con le loro crime songs (o murder ballads), un genere antichissimo, le narrazioni truculente dei cantastorie: che accendevano morbosità e sgomento nelle piazze cantando di tradimenti pagati con la vita, rancori esagerati e orripilanti vendette. La vittima di questa «canzonetta d’acqua» chiama rispettosamente Sir l’annegatore dalla voce suadente che le preme sul petto quella mano troppo grande; si spegne con lo stupore di Desdemona nello sguardo e la chioma di Ofelia sparsa sulle onde, «gonfia di bollicine d’argento». Dolcezza e iella da tragedia elisabettiana, languore preraffaellita e necrofilo, surrealismo alla David Lynch con il volto dell’assassino ingigantito dalla vicinanza e i pesci che lei non vede ma da cui si sente sfiorata. Lemper, artista di teatro e cabaret, è brava a simulare la grevità del respiro, la combinazione di terrore e voluttà, il risentimento dell’amante offesa, il fatalismo delle traviate, la semincoscienza delle sonnambule.
di Jeff Tweedy. Album: Yankee Hotel Foxtrot. USA. Nonesuch, 2001.
Una delle migliori band di rock sperimentale al suo quarto album, bocciato dalla Reprise Records (etichetta del potente gruppo Warner) e pubblicato con enorme successo dalla Nonesuch. Viva la giustizia: alla faccia del marketing, la cui arroganza va di pari passo con la stupidità. Yankee Hotel Foxtrotè ormai un disco di culto fra gli appassionati di musica alternativa e Heavy Metal Drummer si distingue per una simpatica vena di rimpianto: «Mi mancano, sinceramente, quelle band heavy metal / che andavo a sentire quando arrivavano d’estate. / Lei s’innamorò del batterista...» Erano i tempi dei Kiss, gli anni settanta. La canzone vi allude rimpiangendo l’innocenza di allora, quando i ragazzi di provincia, fra uno spinello e l’altro, cercavano di imitarli suonando i loro pezzi.
di Thom Yorke, Jonny Greenwood, Philip Selway, Ed O’Brien, Colin Greenwood. Album: Amnesiac. Regno Unito. Capitol, 2001.
Una di quelle celebrazioni degli stati d’incoscienza (coma, amnesia, smarrimento, morte) così care ai Radiohead, la band più concettuale di questi anni. «Sono saltato nel fiume, e cosa ho visto? / Angeli dagli occhi neri che nuotavano con me, / una luna piena di stelle e automobili astrali. / Tutte le cose che mi erano familiari, / tutte le persone che ho amato erano lì con me, / tutto il mio passato e tutti i futuri; / e si andava insieme in cielo in una piccola barca a remi / senza aver nulla da temere, nulla di cui dubitare.» Le piramidi sono solo nel titolo e fanno pensare alla complessa simbologia funeraria degli antichi egizi. L’album Amnesiac riprende i temi di Kid A con risvolti un po’ più sereni. Le atmosfere allucinate di entrambi gli album e del precedente OK Computer (1997), musicalmente espresse in modo pertinente e innovativo, si possono leggere come metafore di un presente vissuto come problematico e alienante.
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Mummia egizia. British Museum, Londra. |
di Ben Folds. Album: Rockin’ the Suburbs. USA. Epic, 2001.
Ben Folds canta e suona di tutto: il piano, la chitarra, il basso e la batteria elettronica, su uno sfondo d’archi diretti da John Mark Painter. Pop di classe, un po’ alla Elton John – anche per l’incisiva presenza del pianoforte. Bella canzone sulla solitudine di Annie, che aspetta invano una telefonata dal ragazzo che ama ed è a sua volta vagheggiata da un corteggiatore altrettanto sfigato. Con fulminanti squarci poetici nel testo: «I fari salgono verso la vetta della collina, / le ombre vanno oltre uscendo dal suo campo visivo. / Annie vede i suoi sogni: / bingo il venerdì, i piccioni nel parco.» L’intero album scorre via piacevolmente, con melodie molto cantabili e ispirate, traboccanti di intelligenza e sensibilità. Folds non sarà una star da prima pagina, ma è migliore di tanti divi più acclamati di lui.
di Davey Ray Moor. Album: Cousteau. Regno Unito, Australia, Irlanda. Naïve, 2000.
Sembra pop d’altri tempi, ma di quello buono. Sulla scia di Burt Bacharach, per intenderci. Evoluzione, citazione, imitazione ma nient’affatto passiva; venata, anzi, di ombre contemporanee, di fumo nostalgico, di un gusto aggiornato e chic. Il flicorno imbastisce un dialogo ininterrotto con la voce di Liam McKahey, irlandese: baritonale, bellissima, contro-tendenza. Robin Brown suona chitarra acustica e chitarra elettrica. Davey Ray Moor, australiano, scrive canzoni eleganti e un po’ jazzate; produce, mixa, suona piano, organo, armonica e altri strumenti (anche a fiato, come in questo caso); a volte presta la sua voce come solista in luogo di McKahey. Tutto questo nei pochi anni di attività: poi il gruppo si è disciolto e ciascuno dei suoi membri ha preso altre strade.
di Guy Garvey, Mark Potter, Richard Jupp, Craig Potter, Pete Turner. Album: Cast of Thousands. Regno Unito. V2 Records, 2003.
Nell’era degli effetti speciali, dell’organic art, dell’estetica digitale, di Matrix e del raccapriccio globale, anche una felice canzone d’amore può assumere la densità materica e cromatica di uno scoppio di ketchup al tritolo. In Ribcage, una coppia di innamorati si isola durante un party per fare l’amore in una stanza: «Avevo voglia di esplodere / spalancare le costole / per far entrare il sole…» L’intero disco degli Elbow, il secondo del loro cammino, schiera un plotone di vigorose melodie all’interno di una cornice lirica traboccante di inventiva e di immagini a sorpresa. Tutte le canzoni, da Fallen Angel a Fugitive Motel, da Switching off alla grandiosa Grace under Pressure, compongono insieme un ambizioso affresco delle inquietudini contemporanee. Illusioni e disillusioni quotidiane sono sublimate da melodie ed esecuzioni che hanno il duplice potere di agganciare e allarmare chi ascolta; e da versi che sanno cogliere, con rapida immaginazione, un lampo imprevisto: angeli caduti che «trascinano le penne sulla pista da ballo»; camere di defilati motel deturpate da «buchi di sigaretta, uno per ogni anima perduta»; la ragazza che «era tutto per me, tutti i giorni, / e si è sposata a maggio». Rock umanistico, postmoderno e post-tutto, arrangiato e confezionato con generosità strumentale e corale, impreziosito da un eccellente sound design. Sempre più spesso le proposte realmente creative del pop e del rock arrivano dalle etichette indipendenti anziché dalle majors, spietatamente sensibili al marketing del successo fatuo e precotto; e non è detto che questa produzione alternativa debba necessariamente soggiacere a pesanti restrizioni di budget e di orizzonte.
di Win Butler, Régine Chassagne, Richard Reed Parry, Tim Kingsbury, Will Butler, Jeremy Gara. Album: Reflektor. Canada. Sonovox, 2013.
Manifesto musicale contro l’omofobia, sostenuto da un video pluripremiato in cui l’attore Andrew Garfield, noto per il ruolo di protagonista nella serie The Amazing Spider-Man, interpreta un personaggio che decide di rompere il segreto sulla propria identità sessuale, si veste da donna e affronta per la prima volta l’altrui ostilità recandosi in un ritrovo di maschi ambigui e rissosi. Win Butler dice di aver tratto l’ispirazione per We Exist dalle confidenze di un ragazzo giamaicano, disperato per la difficile relazione con il padre incapace di accettare l’omosessualità del figlio. Il testo della canzone, chiaro e convincente, si basa esplicitamente sul rapporto fra omosessuali e genitori. «Si aggirano / con la testa frastornata / comportandosi come / se non esistessimo. / Si muovono nella stanza / e ti si piazzano davanti / parlando come / se non esistessimo. / Ma noi esistiamo.» Robusto e coinvolgente, come al solito, il trattamento sonoro degli Arcade Fire, band fra le più prodigiose del momento.
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Andrew Garfield nel video di We Exist. |
di Adrian Thaws (Tricky) con la collaborazione del musicista e cantante franco-algerino Hakim Hamadouche. Album: Mixed Race. Regno Unito, Francia, Algeria. Domino, 2010.
Conturbante esempio di fusione tra umori occidentali e nordafricani. Hamadouche, nato a Marsiglia, sa cosa sia il raï algerino, canto spirituale e politico al tempo stesso. Non ho la minima idea sulle parole e i significati di Hakim, espressi con vibrazioni di voce e d’anima. Mi attengo al giudizio della pelle, e mi lascio trainare dall’istinto. Anche perché di Tricky e della sua multiforme cultura musicale tendo a fidarmi a occhi chiusi.
di Lila Downs, Paul Cohen. Album: La línea (Border). Messico, USA. Narada World, 2001.
Lila Downs sta alla musica messicana come Graciela Iturbide alla fotografia. Due penetranti sguardi femminili sulle tracce dello spirito maya e azteco, mixteco e zatopeco, fra iguana e saguaros, aride lande e riti sciamanici. Con la collaborazione del marito musicista e producer Paul Cohen, Lila Downs è oggi una delle voci più antiche e moderne – viva l’ossimoro – della sua terra. E del confine più problematico del pianeta, la linea che separa il Messico dal sogno americano. Proprio lungo quella frontiera insidiosa nasce, in questa canzone, un bambino. «In questo recesso del mondo / non dorme la maquiladora», esordisce Lila riferendosi alle fabbriche dove si assemblano prodotti USA esentasse e a basso costo di manodopera. «Da un rifiuto di terra / il figlio del sole venne alla luce.» Una curandera (guaritrice, levatrice, sciamana) prepara intrugli d’erbe in una pezza, e con quella friziona la pelle del mulatto appena nato... Una luminosa canzone politica fatta di stupore e speranza, protesta e allegria.
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Ricardo Ortega, Curandera de la madre tierra, 2008-2015. Messico. |
di Harry McVeigh, Charles Cave, Jack Lawrence-Brown. Album: To Lose My Life. Regno Unito. Fiction Records, 2009.
Amore e morte, binomio che va a nozze con lo spleen romantico. Rock cimiteriale, glorioso e scapigliato, per esaudire – a volume sparato – la voluptas dolendi delle adolescenze inquiete ed incomprese. Con un occhio all’estetica del decadentismo d’antan ed entrambe le orecchie puntate sull’indie rock. Se Rimbaud fosse vivo, sarebbe il frontman ideale di una post-punk band chiamata The Drunk Boatmen oppure A Season in Hell. I White Lies non hanno lo stampo poetico di Arthur ma suonano di sicuro meglio di lui. E il sound design è semplicemente superbo. Death, nello stesso album, è altrettanto grintosa ed esondante di pathos.
di Beck Hansen, Dust Brothers (Michael Simpson, John King). Album: Güero. USA. Interscope, 2005.
Nello slang messicano, güero si dice dei visi pallidi, più ancora se biondi. Beck ha l’aspetto del güero. «¿Qué onda, güero?» sta per «come ti butta, biondino?», e qui suona più come sfottò che come saluto amichevole. Parole e musica evocano scene di animazione popolare fra le strade di Pico-Union, irrequieto quartiere di Los Angeles affollato di latinos (l’85% degli insediati). Venditori ambulanti senza permesso, frastuono di clacson, musicanti mariachi, perdigiorno seduti sul marciapiede che addentano panini comprati al Burger King o sonnecchiano sotto l’effetto della birra, bulli che spavaldeggiano come galli, nonne con borse di plastica che si trascinano in chiesa ad accendere candele, chitarristi da quattro soldi col cipiglio di terroristi guatemaltechi, ubriachi che molestano le passanti, gangster affiliati alla banda transnazionale Mara Salvatrucha e poliziotti altrettanto “rassicuranti”... Un bozzetto vivace e divertente. Beck, sperimentatore accanito e in questo caso “alternative rapper”, è un rappresentante di spicco della tendenza anti-folk: uno che sovverte temi, armonie e stilemi della canzone popolare impegnata rendendoli meno carezzevoli all’udito, meno retorici e scontati, musicalmente inattesi e spigolosi.
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Un murale di Kent Twitchell dedicato nel 1971 a Steve McQueen nel quartiere di Pico-Union, Los Angeles. |
di Paolo Conte, Gianni Bella. Album: C’è sempre un motivo. Italia. Clan Celentano, 2005.
Trentasette anni dopo Azzurro, Paolo Conte – questa volta con la complicità di Gianni Bella – scrive un’altra perla per Celentano. Che non avrà la fortuna di diventare, come la prima, una specie di inno nazionale; ma la scrittura è di una raffinatezza epica e sublime. Il testo per Celentano, pensato per il suo programma televisivo Rockpolitik, allude alla libertà di espressione: «Ehi, fatemi parlare / ehi, fatemi inventare...» e non manca di ironia nei confronti del cantante chiacchierone («Io so che parlo come fa un indiano affascinato / dal mistero fragile e solenne, / ma è così che parlo io...»). Conte la inciderà in proprio più tardi, nel 2008, con un titolo e un testo diversi (Il quadrato e il cerchio) per il suo album Psiche. Se la versione di Adriano era un omaggio alla parola, questo è un tributo alla riservatezza: «Dico del mio silenzio indiano, / un dialetto di lontani specchi e nuvole parlanti: / è così che scrivo io.» Di notevole respiro anche la musica, agganciante e contagiosa, di Gianni Bella.
di Jean-Benoît Dunckel, Nicolas Godin. Album: 10,000 Hz Legend. Francia. Source, 2001.
Questo duo di Versailles ha scelto di chiamarsi AIR in nome dell’Amore, dell’Immaginazione e del Sogno (Rêve in francese). Dunckel e Godin divorziarono l’uno dalla matematica e l’altro dall’architettura per sposare la musica elettronica e il trip hop, con risultati di onirica eleganza. How Does It Make You Feel? nasce da un sapiente uso dei sintetizzatori ma ha, come pregio aggiuntivo, una luce – molto alternativa – di spiritualità. Il video è interessante: anticipa, in un certo senso, il tema del film Lei (Her, 2013) di Spike Jonze, il cui solitario protagonista (Joaquin Phoenix) s’innamora di un sistema operativo, ammaliato dalla sua voce sintetica. Il videoclip degli Air alterna dettagli ingranditi degli impianti di registrazione a ritratti di una donna creata e assemblata dalle macchine. Una versione erotica ed angelica di Frankenstein.
di Anand Bakshi, Rahul Dev Burman. Album del Kronos Quartet: You’ve Stolen My Heart. India, USA, Cina. Nonesuch, 2005.
Abbasso le frontiere. Qui tutto confina con tutto: l’estremo oriente con l’estremo occidente, San Francisco con Bollywood, la frivolezza del pop più ballereccio con l’austerità del quartetto da camera. Il risultato è divertente, oltre che evocatore di superiori ideali. Asha Bhosle, idolo indiano del cinema e della canzone, ha energia da vendere sebbene abbia superato da un pezzo la sessantina. Il Kronos Quartet non è nuovo alle sperimentazioni e commistioni eclettiche. La musicista cinese Wu Man suona la pipa del suo paese, una specie di liuto a quattro corde. Con i Kronos aveva già collaborato per la Ghost Opera scritta appositamente per loro da Tan Dun, uno dei maggiori compositori cinesi di musica di ricerca e colonne sonore.
di Martin L. Gore. Album: Playing the Angel. Regno Unito. Mute, 2005.
Una delle mie band preferite. Il loro pop sintetico, nato nel remoto 1980 senza altra pretesa che di far ballare la gente, è cresciuto fino a imporsi come piattaforma di un rock inventivo e di qualità, per nulla secondario rispetto a quello dei gruppi concettualmente – e talvolta politicamente – più impegnati. Martin Gore è un melodista di valore, la voce di Dave Gahan non ha rivali. Nei loro album non c’è un solo brano che sia puramente riempitivo: è tutta merce da alta boutique. Nemmeno a distanza di decenni dall’esordio la loro musica si può dire stanca o sorpassata. Come la mitica Personal Jesus del 1989, anche Precious affronta il tema della fede, accennando all’incapacità umana di proteggere sé stessa dai propri errori: «Precious and fragile things / need special handling. / My God, what have we done to you...»
P.B. – Continua.