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Gloria e ciofeca

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Judy Garland in Il mago di Oz.


Gloria e ciofeca

di Mimmo Barbella


Può una nullità diventare famosa e farsi ricordare per anni, forse per secoli? Ebbene sì. È possibile.

Tra i miei ricordi di gioventù spiccano certi film di poca o nessuna qualità, diventati indimenticabili per merito di un’eccellente colonna sonora o persino di una sola, bellissima canzone. Di questi film-ciofeca ne potrei ricordare moltissimi. Ne citerò ovviamente solo alcuni.

Inizio da quello che ritengo il capostipite della serie, è del 1939: Il mago di Oz. Deve la sua fama alla stupenda Judy Garland che canta alla fine del primo tempo, fuori contesto e a mo’ di intermezzo, (Somewhere) Over the Rainbow. La bellissima canzone è stata e rimane un successo mondiale. Quando avevo quattro o cinque anni, quelle note risuonavano dalla radio; le parole erano tradotte in italiano e ne ricordo solo tre: Torna l’arcobaleno. Il film, invece, arrivò tardi dall’America, negli anni ’50. A Canosa, dove abitavamo, fu programmato al Supercinema Italia assieme ad altri due di scarso valore: 3 film 10 lire. Sopportai sbadigliando il primo tempo, quindi ascoltai estasiato la versione originale di quella melodia già nota, interpretata dalla treccioluta Judy allora adolescente. Lasciai la sala subito dopo.

A metà anni ’50, un altro film fece da veicolo a un enorme successo musicale. Bulli e pupe, musical di assoluta vuotaggine, manifestò con A Woman in Love la pretesa di un ricordo perenne. La versione discografica di Frankie Laine era decisamente migliore di quella di Marlon Brando sullo schermo. In varie altre versioni, specialmente per sola orchestra, ha fatto sognare per anni i giovani e i meno giovani dell’epoca. Una vera elegia dell’amore romantico.
Jean Simmons e Marlon Brando in Bulli e pupe.

Ricordo altri film con musiche meno immortali delle precedenti ma che comunque lasciarono un’impronta nei favolosi anni 50. L’amore è una cosa meravigliosa, Scandalo al sole e L’ultima volta che vidi Parigi erano dei melò fin troppo sdolcinati, ma i relativi brani musicali – tutti e tre di grande successo – si possono ancora ascoltare con interesse.

Di certo il cinema ha fatto da carrozza a molta musica, anche con pellicole di buona fattura, come quella sulla vita di Glenn Miller. I suoi ballabili straordinari accompagnarono la fine della guerra suscitando eccitazione e speranza: si usciva dall’inferno e la gente aveva una gran voglia di ritornare alla vita e divertirsi. Ricordate In the Mood?

Due inquadrature da La storia di Glenn Miller, con James Stewart nel ruolo del grande trombettista e bandleader della swing era. In basso si riconosce Louis Armstrong.

Ho visto un paio di volte il film biografico su Cole Porter, il compositore americano. Il titolo della pellicola mi sfugge, il musicista era interpretato da Cary Grant. È degli anni ’40. La celebre composizione Begin the Beguine (scritta nel 1934) sublimava il passaggio dal vecchio al nuovo modo di comporre musica, specie se da ballo. La beguine, importata dalle Antille, si prestava splendidamente all’esecuzione per sola orchestra invitando coppie di ballerini ad esibirsi, teneramente abbracciati, al centro di grandi piste da ballo.
Cary Grant impersona Cole Porter in Night and Day, 1946. A sinistra Tom D’Angelo.

Da ricordare anche il famosissimo (ma poi dimenticato) Bellezze al bagno, realizzato in America durante la guerra ma arrivato in Italia solo all’inizio del decennio successivo. Una commedia musicale accattivante, con musiche da ballo dirette dall’eccentrico Xavier Cugat, maestro di ritmi latini. Ma il vero grande successo sonoro fu fornito da Harry James con Hora staccato, magistrale esecuzione trombettistica restata per molti anni sulla cresta dell’onda. Anche nella versione discografica del trombettista britannico Eddie Calvert.

Gran bel periodo, quello, per la musica leggera. Poi arriveranno i Beatles, ma questa è un’altra storia.

M.B.




Citati nel post

1939, “The Wizard of Oz” (Il mago di Oz) di Victor Fleming. Over the Rainbow di E.Y. Harburg e Harold Arlen, cantata dalla sedicenne Judy Garland. Versione italiana: L’arcobaleno, parole di Devilli, interprete Meme Bianchi (1940).

1944, “Bathing Beauty” (Bellezze al bagno) di George Sidney, con Red Skelton ed Esther Williams. Hora Staccatoè un pezzo virtuosistico per violino composto nel 1906 da un grande violinista rumeno, Grigoras Dinicu; nel film era arrangiato per tromba ed eseguito da Harry James and His Music Makers.

1946, “Night and Day” (Notte e dì) di Michael Curtiz, con Cary Grant nel ruolo di Cole Porter. Nel film, Begin the Beguine(composta nel 1935) è cantata dal baritono colombiano Carlos Ramírez durante un numero di danza. A Cole Porter questo blog ha dedicato un ritratto in quattro capitoli.

1954, “The Glenn Miller Story” (La storia di Glenn Miller) di Anthony Mann, con James Stewart nel ruolo del celebre direttore d’orchestra scomparso il 15 dicembre 1944 mentre sorvolava la Manica a bordo di un aereo militare diretto a Parigi.

1954, “The Last Time I Saw Paris” (L’ultima volta che vidi Parigi) di Richard Brooks, con Elizabeth Taylor e Van Johnson. La canzone eponima, con parole di Oscar Hammerstein II e musica di Jerome Kern, si ascolta nel film dalla voce di Odette Myrtil ma risale al 1940, quando Parigi, occupata dai nazisti, ispirò agli autori questo tema musicale colmo di tristezza. La prima interprete della canzone era stata Kate Smith, molto amata dagli americani per meriti artistici e simbolicamente nazionali; nel 1982 le è stata conferita la Medaglia presidenziale della libertà.
Elizabeth Taylor in L'ultima volta che vidi Parigi.
C’è anche l’insulso playboy Roger Moore, molto prima di diventare James Bond.


1955, “Guys and Dolls” (Bulli e pupe) di Joseph L. Mankiewicz. Canzoni di Frank Loesser. A Woman in Love è un duetto di Marlon Brando e Jean Simmons. Da noi la canzone circolò anche nella versione italiana intitolata Perché tu non vuoi?

1955, “Love Is a Many-Splendored Thing” (L’amore è una cosa meravigliosa) di Henry King, con Jennifer Jones e William Holden. Canzone omonima di Paul Francis Webster e Sammy Fain. Orchestra e coro diretti da Edward B. Powell. Versioni discografiche dei Four Aces, Nat King Cole, Eddie Calvert, Woody Herman e la sua Orchestra; Gino Latilla con l’Orchestra Angelini per la versione italiana.

1959, “A Summer Place” (Scandalo al sole) di Delmer Daves, con Richard Egan, Dorothy McGuire, Sandra Dee, Troy Donahue. Tema conduttore di Max Steiner. Vanno a ruba le incisioni orchestrali di Percy Faith e di Billy Vaughn.



Assi nella manica

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Kirk Douglas nel ruolo di un cronista cinico e assetato di scoop
in Ace in the Hole (L’asso nella manica) di Billy Wilder, 1951.



Reportedly

Vaprio d’Adda, ottobre 2015. Visitato da tre ladri, un uomo spara e ne uccide uno. Non si capisce bene se in casa o appena fuori: la questione riguarda gli inquirenti. Ma per motivi squisitamente e lugubremente italiani, sulla tragedia si scatenano i politici e i chiacchieroni della tv: due categorie più pericolose sia dei ladri di appartamento, sia dei loro sparatori.

In una civiltà decente un avvenimento del genere non scatenerebbe né applausi, né sciacallaggio ideologico, né sondaggi pro o contro. Né propaganda elettorale, né hard selling mediatico, né caccia alle streghe (i ladri non erano italiani: per questo la Lega Nord trabocca di entusiasmo e incita le folle all’indignazione). Il caso spetterebbe esclusivamente alla polizia, agli avvocati e ai tribunali. Stop.

La notizia andrebbe trattata con i guanti. Per esempio: «La notte del 22 ottobre il signor Tal dei Tali di Vaprio d’Adda, secondo le fonti a noi risultanti, avrebbe chiamato un’autoambulanza e una stazione dei Carabinieri per avvertirle della presenza di un uomo ferito presso la soglia del suo appartamento. Il ferito, deceduto sul colpo o nel frattempo per un colpo d’arma da fuoco, sembra rispondere al nome X Y e sarebbe di nazionalità albanese. Il signor Tal dei Tali avrebbe dichiarato di essere stato lui a sparare: per legittima difesa, dal momento che l’ucciso – probabilmente insieme a due complici non ancora identificati, fuggiti dopo lo sparo – stava per commettere, o forse già commettendo, un furto nella sua abitazione. Sono in corso indagini per accertare con esattezza la dinamica dei fatti e le responsabilità delle persone coinvolte.»

La cronaca nera non va silenziata, ma esige cautela, distacco, parsimonia emotiva e un sistematico uso del condizionale. Se non si tratta di reato politico – come il delitto Matteotti o qualsiasi altro evidente abuso di potere – l’opinione pubblica deve essere influenzata il meno possibile. Anzi, non dovrebbe esistere affatto. Talvolta le opinioni fanno più casino delle pistole.

Le parole più citate nelle pagine di cronaca dei media angloamericani sono, probabilmente, reportedly e allegedly. Con lievi sfumature di differenza stanno per «secondo quanto riportato», «secondo le dichiarazioni raccolte». Due avverbi mirabilmente cautelativi non solo dal punto di vista legale, ma anche e soprattutto etico. Un’informazione controllata e corretta deve attenersi alla semplice esposizione dei fatti accertati, evitando la tentazione di trasformare qualsiasi evento (specialmente se tragico) in un caso nazionale e, peggio ancora, in un referendum telefonico.

Le opinioni sul caso di Vaprio d’Adda non possono che essere deleterie, indipendentemente dal grado di colpevolezza dei personaggi in campo. Andrebbero spente sul nascere: ma noi abbiamo schieramenti politici sempre pronti ad attizzare il fuoco, e le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Ma anche qui la parte del cattivo spetta ai media. I nostri cronisti e le nostre croniste sono assetati di scoop come Kirk Douglas in L’asso nella manica, famoso film di Billy Wilder (1951). Peggio: al contrario di Kirk, visibilmente cinico, diabolico e beone, ostentano faccine innocenti e vocette d’angelo. Gli esponenti dei partiti e dei movimenti xenofobi dicono – come al solito – quello che gli pare, ma sono i media ad amplificare in modo acritico e smisurato le loro esternazioni. In questo momento ringrazio il cielo di non essere nato in Albania.

P.B.


La strada della fortuna

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Luglio 2015. La fotogiornalista romana Daria Addabbo ha ripercorso la Route 66 registrandone la solitudine e i silenzi. Vedi altre foto qui.



Corvi e carogne sulla strada della fortuna

«L’arteria 66 è il grande itinerario dei popoli nomadi. Infinito nastro d’asfalto gettato sul continente per allacciare regioni grigie e regioni rosse, si adatta a tutte le pieghe del terreno, serpeggia su pei fianchi delle catene montane, valica i crinali e si precipita in basso nel terribile deserto, divora il deserto e si lancia all’assalto di altre montagne, le conquista e irrompe nelle ricche vallate della California. L’arteria 66 è il calvario dei popoli in fuga, di gente che migra per salvarsi dalla polvere e dall’isterilimento della terra, dal rombo della trattrice e dall’avarizia dei latifondisti, dai venti devastatori che nascono nel Texas e dalle inondazioni che invece d’arricchire il suolo lo defraudano della poca ricchezza che ancora possiede. Son questi i malanni che i nomadi fuggono confluendo da ogni dove per strade secondarie e tratturi e sentieri sull’arteria 66, la strada maestra, la direttrice di fuga.»[1]Così John Steinbeck in Furore: romanzo del 1939 che racconta un grande dramma sull’emigrazione, e che per questo non perde e forse non perderà mai la sua dolorosa attualità.

Inaugurata nel 1926, tre anni prima del grande tracollo finanziario di Wall Street, la Route 66 — poi “derubricata” e scalzata da un imponente sistema autostradale — attraversa otto stati (Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona, California) e collega centri come Chicago, St. Louis, Springfield, Oklahoma City, Amarillo, Albuquerque, Flagstaff e Los Angeles, per un totale di 3.939 chilometri. In Furore Steinbeck racconta l’odissea di una famiglia di disoccupati dell’Oklahoma in viaggio sulla 66 per andare a cercare lavoro in California, la terra promessa, contribuendo non poco a circondare di un alone mitico questa «madre di tutte le strade».

Henry Fonda è Tom Joad in Furore di John Ford (1940), dal romanzo di Steinbeck.

«I contadini dell’Oklahoma e non solo, compresa la famiglia Joad, imboccarono la Strada Madre, come John Steinbeck ribattezzò queste due corsie di bitume, per sfuggire alla siccità che aveva trasformato la loro terra in una “tazza di polvere” e dirigersi a ovest, verso le aziende ortofrutticole della California», scrive Alex Shoumatoff in un bel libro sulle leggende del deserto americano. «Diventò una manna per corvi e altri mangiatori di carogne e inaugurò l’era del turismo motorizzato.»[2]

Il King Cole Trio nel 1946. Da sinistra: il chitarrista Oscar Moore, Nat King Cole al piano e il contrabbassista Welsey Prince. La foto è di William P. Gottlieb.

Un giorno del 1946 Bobby Troup, giovane pianista e songwriter in cerca di fortuna, è in viaggio da Chicago a Los Angeles, dove spera di realizzare i suoi sogni: sta guidando proprio lungo i due poli della storica highway, la più celebrata d’America, scenario obbligato di mille storie on the road. Nel cervello gli ronzano parole e note ispirate dal tragitto che sta compiendo. Una volta messo a punto, quell’abbozzo di jazz ballad diventerà (Get your kicks on) Route 66. Al lancio provvederà Nat King Cole col suo trio jazzistico, con un disco a 78 giri della Capitol. Seguiranno incisioni di Bing Crosby con le Andrews Sisters e di Buddy Rich con la sua band: dopo la letteratura e il cinema, anche la musica partecipa ora all’idealizzazione mitologica di quel tratto d’asfalto. Nata per i club e i cabaret, la canzone ha colpito l’immaginario di generazioni di musicisti e ascoltatori. Se ne sono occupati anche pionieri del rock come Chuck Berry, band leggendarie come i Rolling Stones e, in epoca più recente, stilisti dell’elettronica come i Depeche Mode.

P.B.





[1]John Steinbeck, The Grapes of Wrath,1939; ed. it. Furore, tr. Carlo Coardi, Bompiani, 1940.
[2]Alex Shoumatoff, Legends of the American Desert. Sojourns in the Greater Southwest, 1997; ed. it. Leggende del deserto americano, tr. Marco Bosonetto, Einaudi, Torino 2000.

I dispiaceri della carne

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Felice Boselli, Testa di manzo, 1690 circa. Galleria nazionale SMK, Copenhagen. 


I dispiaceri della carne


Com’è noto, l’International agency for research on cancer (Iarc) dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha inserito le carni rosse nella lista degli alimenti «probabilmente cancerogeni». Sempre sul fronte dell’alimentazione – tema portante dell’Expo di Milano – si apprende che «il numero di vittime della fame nel mondo è molto calato rispetto a trent’anni fa. Ma quasi un miliardo di persone è malnutrita o non mangia abbastanza, anche se il pianeta produce alimenti per sfamare dodici miliardi di persone.»[1]

Pieter Aertsen, Banco di macelleria, olio su tavola, 1551. Universitatgemalde Sammlung, Uppsala. 

La reazione dei mass media a questo genere di comunicati riflette da una parte il marketing dello scoop e dall’altra una “cultura dell’egoismo” prettamente occidentale. Ai nostri tg e talk-show non frega niente né della fame nel mondo né del fatto che l’Oms ha recentemente annunciato la fine definitiva dell’ebola in Liberia: sono più interessati al cervello e – in questo caso – alle budella dell’audience. I prudenti comunicati dell’Oms su ciò che mangiamo noidiventano campane a martello col rimbombo, come accadde per l’aviaria e si ripete periodicamente ad ogni sospetto di malanno universale, anche se non sempre l’effetto è devastante come fu per la spagnola o è tuttora per l’aids.


Fritz Tschirren, Hans Suter e Pasquale Barbella con una foto di Jean-Pierre Maurer, Le notizie del Telegiornale, pagina pubblicitaria, 1980 circa. Agenzia STZ, Milano.


Il panico è più salutare del pane?

Le speculazioni dei media nazionalpopolari sui problemi di attualità fanno talvolta più male del male annunciato. In barba alla cautela dei ricercatori istituzionali, il bla-bla mediatico (soprattutto televisivo) su carni rosse e insaccati ha già prodotto terrore alimentare e pesanti ripercussioni economiche. Subito dopo i primi colpi di cannone, la Confesercenti ha denunciato un calo del 20% sugli acquisti nelle macellerie tradizionali. La Coldiretti parla di «allarmismo ingiustificato» e dichiara che sono «a rischio 180mila posti di lavoro.» Non sono mai stato un gran divoratore di bistecche e, volendo, potrei farne definitivamente a meno senza sforzo. Ma non è questo il punto: ritengo che l’allarmismo sia detestabile in tutte le sue manifestazioni. Ci sono casi in cui il panico uccide, come quando i corpi umani si travolgono e calpestano a vicenda a causa di assembramenti esagerati o sotto choc. 

Ogni volta che sono preso dal panico, mi torna in mente una lezione di mia madre. Era già parecchio avanti con l’età quando si trovò a bordo di un battello in balia di un nubifragio spaventoso, sul lago di Como. Invece di strillare, accalcarsi e vomitare sul prossimo come facevano gli altri, continuò a rimproverare i passeggeri più a portata di voce accusandoli di scombinare i già precari equilibri dell’imbarcazione e di intralciare gli sforzi, davvero sovrumani, del personale di bordo per mantenerne il controllo. È ciò che si dovrebbe fare sempre, nelle situazioni complicate: cercare di non perdere completamente la testa. Per mia madre non era solo questione di sopravvivenza, ma anche di dignità.

Annibale Carracci, Bottega del macellaio, olio su tela, 1585 circa. Christ Church Gallery, Oxford.

L’affare “carni rosse” mi disturba, beninteso, non per le rivelazioni dell’Oms ma per il clamore con cui sono state trattate dalle tv. Ho reagito spargendo su Facebook una serie di freddure ad alto tasso di acidità. Ve le snocciolo anche qui di seguito, aggiungendo proverbi vecchi e nuovi – nel caso abbiate voglia anche voi di alleggerire il clima da talk-show terminale che ci circonda. Se volete rinunciare a qualche fetta di mortadella fatelo pure, ma sarà altrettanto salutare cambiare canale ogni volta che le faccette compunte di anchormen e anchorwomen vi parleranno di prosciutto come se si trattasse di una nuova arma del terrorismo islamico.

Jan Fyt, Natura morta con lepre ed uccelli,olio su tela, 1642 circa. Museo delle Belle Arti, Budapest.


I tg trattano ogni notizia come se fosse l’ultima prima del diluvio.

La zucca provoca allucinazioni. A questa conclusione è giunto un gruppo di studio multidisciplinare composto di esperti internazionali di dietologia sperimentale, tossicodipendenza proteica, telegiornalismo ufologico, letteratura paranormale e teoria agronomica di Halloween.

Assunto con moderazione, l’ossobuco fa bene. Specialmente il buco.

Bacco, tabacco e filetto sbattono l’uomo a letto.

Cleopatra si suicidò con un aspic.

Carolyn Drake, Interno di macelleria, fotografia, Città del Messico. © Magnum Photos. 

Del tonno di poi son piene le fosse.

Dite a Rovagnati di abbassare i prezzi.

Giosuè Carducci sarà processato come Erri De Luca per aver scritto T’amo pio bove.

Gli Alcolisti Anonimi aprono una nuova sezione dedicata alle dipendenze da proteine alimentari.

Francis Bacon, Painting, olio e pastello su lino, 1946. Museum of Modern Art, New York.

I No Steak sono sullo zampone di guerra.

L’immortalità è vegetariana.

La cicuta può provocare intolleranze ai filosofi.



Pietro Gagliardi e il suo reparto creativo con Pasquale Barbella, Creative Uprising, rivista, cover story (“Where’s the beef?”), 2001. Agenzia BGS, Torino-Milano.

Le bistecche non mi fanno impazzire. Preferisco i würstel, ma non ditelo al mio colon. Lui crede che si tratti di ostie consacrate.

Manzi e maiali in cassa integrazione.

Ne uccide più la lingua salmistrata che il pesce spada.

Non tutto il maiale vien per nuocere.

Graciela Iturbide, Los gallos, Juchitán, México, 1987. Fundación MAPFRE, Madrid.

Pane, amore e anoressia.

Conigli per gli acquisti.

Per mangiare formaggio ci vuole coraggio.

Per un tg Martin perse la trippa.

Polli e conigli annunciano manifestazioni di piazza.

Renato Guttuso, Vucciria, olio su tela, 1974. Palazzo Steri, Palermo.

Prima o poi, le patate uccidono. Non conosco nessun morto che non abbia mangiato patate, almeno una volta nella vita.

Quando il salame entra dalla porta, la salute esce dalla finestra.

«Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: da domani, anoressia.» (Lorenzo e i suoi Medici)

Risolto finalmente il problema della fame nel mondo. Nutrirsi può risultare più cancerogeno che digiunare.

Norman Rockwell, War news, olio su tela, 1943-1944. Norman Rockwell Museum, Filadelfia.

Si salvi chi Peck.

Si stava meglio ai tempi della mucca pazza.

Sopra la pancia la capra campa, sotto la capra la pancia crepa.

Speck, speck delle mie brame: chi è il più vegano del reame?

Tanto va la gatta al lardo che ci lascia l’intestino.

Fritz Tschirren, Hans Suter e Pasquale Barbella con una foto di Jean-Pierre Maurer, Illuminare, parte XVIII, doppia pagina pubblicitaria, 1983. Agenzia STZ, Milano.

Thanksgiving Day: giornata mondiale del tacchino. Sotto l’alto patrocinio dei Ministeri della sanità e delle telecomunicazioni.

Allora la donna vide che la salsiccia era buona da mangiare, gradita agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono le viscere di tutti e due e si accorsero di essere malati; raccolsero foglie di fico e se ne fecero tisane.

Una nuova esegesi della Genesi corregge in parte le interpretazioni precedenti. Eva e Adamo rifiutarono la benefica offerta della mela (che, com’è noto, toglie quotidianamente il medico di torno) e mangiarono invece carne di serpente, esponendosi così alla perdita della felicità e al rischio di mali oscuri.

Star male è semplicemente immorale. Lo sostengono compatti gli ex fumatori, i devoti della fitness e i titolari dei beauty salon.

P.B.





[1]Vedi qui le interviste a Martín Caparrós e David Rieff al Festival di Ferrara organizzato dalla rivista Internazionale.

Schindler’s Playlist. 1

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Cento canzoni per i posteri

Se non ci becca un meteorite o un nemico planetario in carne e ossa, avremo più posteri che antenati. Ma anche milioni di canzoni vecchie e nuove, se si continua a produrne a ritmo così frenetico. Che ne resterà? Le bruciamo come fiammiferi, e in cucina c’è sempre zolfo fresco anche se lo zolfo di ieri, sfregandolo un po’, funziona ancora. La fabbrica delle canzoni e la fabbrica della memoria non sono mai allineate sullo stesso viale. I tredicenni se ne fregano di Crazy, anche se è stato il tormentone di chi è appena passato dalle medie alle superiori. Una volta non era così. C’erano mezzi di diffusione assai limitati, per cui la notorietà, il consumo e l’assorbimento di una sequenza di note prendevano mesi, a volte anni. E quando quella sequenza entrava nella zucca della collettività, poteva succedere che vi s’inchiodasse per tre o quattro generazioni. Oggi l’idea di partorire un evergreen è senza speranza. Fenomeni durevoli come ’O sole mio 0 Strawberry Fields Forever sono irreplicabili. Non per carenza d’inventiva (trovo Pummarola black molto più interessante di ’O sole mio: 2000 vs. 1898), ma per eccesso di dispersione. Anche perché tendono a scomparire i supporti materici (i dischi) e tutto diventa liquidamente virtuale: onnipresente ma, al tempo stesso, precario e sfuggente.

Del Novecento – e persino di un paio di secoli addietro – qualcosa, bene o male, rimane. Ogni paese ha i suoi classici e forse riuscirà a custodirne una parte, come si fa con le rovine archeologiche. Ma il nuovo millennio è spietato. Le canzoni nascono con la data di scadenza annidata fra le note. Condividono, con i sacchetti di plastica e le siringhe, il destino della merce usa-e-getta.

Ho l’età giusta per considerarmi un conservatore. Nel senso di addetto alla conservazione, alla manutenzione della memoria: la politica non c’entra. Mi dispiace che tante canzoni finiscano nel water, alla mercé del primo sciacquone in agguato. Che siano, insomma, più effimere di una rosa o di una bistecca, oltre che del sottoscritto. Se potessi ne salverei a carrettate, anche fra quelle che non mi fanno impazzire ma in cui mi pare di cogliere l’ombra di una commozione, o le luci di una festa. Se c’è un’idea, tanto meglio. Rispetto, ma con distacco, le canzoni fatte più di parole che di musica: mi va di cullarmi, e di ballare. Ma quando il testo interloquisce con i suoni in modo poetico e intelligente, allora mi converto al concettuale e dico a me stesso: evviva i Radiohead.

Cavoli miei. Ma anche vostri, perché adesso vi infliggo anch’io una playlist. Lo fanno tutti, ma la mia è più eclettica di altre. Lasciamo perdere il ventesimo secolo: troppi amori e troppi ricordi, non me la caverei con meno di mille titoli. Qui stiamo stretti nei cento, pescati nei primi tre lustri del ventunesimo. Cento focherelli da salvare, prima che si spengano sotto l’urto tsunamico delle novità che bussano alla porta.

Vi chiederete se abbia senso subire, da un nonno con l’artrosi, consigli di funk e trip-hop, house e trance, noise e alternative rock, grunge e new age (senza escludere, visto che si producono ancora, blues e torch song, inni solenni e ballate di Nashville, sanremaggini e acutezze da cantautorato). So di non essere molto attendibile (chi lo è, in questo campo?), ma almeno sono super partes. Non mi identifico in nessun genere in particolare. Cerco di essere equidistante dal vecchio e dal nuovo. Quando i fan sono più giovani dei loro idoli, tendono istintivamente a tradirli per essere al passo coi tempi. Io invece sono persino più vecchio di Mick Jagger e Keith Richards, e gli idoli che potrei tradire si stanno diradando a velocità preoccupante. Dunque osservo la scena e ascolto o riascolto, con le cuffie Sony alle orecchie, voci e suoni di una gioventù di età variabile tra i quindici e gli over 70, come fossero compagni della stessa scolaresca o della stessa discoteca. Non sarà saggio, ma è divertente.

E adesso bando alle ciance: carte in tavola e benzina sul fuoco. Faccio come Rolling Stone: parto a ritroso, dal titolo numero 100, così vi faccio arrabbiare a poco a poco anziché al primo colpo.


Schindler’s Playlist. Parte I: 100-67.

100. Transglobal Underground: “Pomegranate”


di Godfrey Duncan. Album: Yes Boss Food Corner. Guyana, Regno Unito. Ark 21 Records, 2001.

Con la sua esultante commistione di musica da discoteca, jazz, folklore, poesia, ironia, elettronica, ritmo e immaginazione, il progetto Transglobal Underground – nato nel 1991 per iniziativa di alcuni DJ londinesi – è uno dei primi e più riusciti tentativi di assortimento multietnico in ambito musicale. Più che un gruppo stabile è un collettivo di free-lance. In Pomegranate l’ospite di turno è un performer della Guyana, Godfrey Duncan, che si fa chiamare TUUP (acrostico di The Unprecedented Unorthodox Preacher). Non è propriamente un rapper, anche se ben intonato, e nemmeno un predicatore: è uno storyteller, uno che intrattiene il pubblico narrandogli delle storie. Il tappeto musicale allestito per il suo racconto del melograno non riflette comunque né la sua origine caraibica né il suo passaporto britannico: siamo invece in pieno clima mediorientale, fra ondate ritmo-melodiche ideali per la danza del ventre. Suggestiva, oltre che sempre più attuale, l’idea di stravolgere la geografia e i cliché legati a questo o quel territorio.

Godfrey Duncan, a.k.a. TUUP.

99. Ryan Adams: “Nobody Girl”


di Ryan Adams, Ethan Johns. Album: Gold. USA. Lost Highway, 2001.

Sembra di risentire Bob Dylan da giovane, senza l’armonica. Chitarra, capelli scompigliati, country blues, amarezza e smarrimento. Qui Adams si commuove per una “ragazza nessuno”, habitué di bar notturni, un rottame da ore piccole alla mercé di tiratardi sbrigativi e indifferenti. «Ciò che normalmente suonerebbe retorico è invece modellato dal magnetismo emotivo di Adams in una sofferenza tangibile. Ci vuole la sua grande abilità per far sembrare dolce un mondo tanto grigio.» (Matthew Oshinsky in 1001 album. I capolavori della musica pop-rock internazionale, a cura di Robert Dimery, Atlante, 2014).

98. The Black Keys: “Lonely Boy”


di Dan Auerbach, Patrick Carney, Brian Burton (Danger Mouse). Album: El Camino. USA. Nonesuch, 2011.

Il vinile col single di Lonely Boy suona al contrario: la puntina deve muoversi dal centro verso la periferia. I Black Boys ci tengono a dimostrare anche così di andare controcorrente. Sono però convenzionali le parole delle canzoni, comprese quelle di Lonely Boy. Ciò non ha impedito al «ragazzo solitario» di trionfare ai Grammy Awards 2013, grazie anche a un video spartano ma molto fortunato (circa 50 milioni di visite al momento in cui scrivo, solo per vedere un tizio che canta e balla per tre minuti e quindici secondi nell’atrio di un motel). Sarà anche alternativo ma è il solito vecchio, simpatico, nevrotico rock and roll, manipolato da Danger Mouse, musicista e producer onnipresente sulla scena contemporanea dell’intrattenimento musicale.

97. The Besnard Lakes: “Disaster”


di Olga Goreas, Jace Lasek, Nicole Lizée. Album: The Besnard Lakes Are the Dark Horse. Canada. Jagjaguwar, 2007.

Non sapevo cosa fosse lo shoegaze e perciò ho dovuto chiedere l’aiuto di Wikipedia: «Tra gli elementi identificativi di questo genere, oltre che un significativo utilizzo di effetti per chitarra (perlopiù distorsore e riverbero), anche un forte senso melodico delle parti vocali che, quasi sognanti, mai enfatizzate e spesso trattate come mero strumento supplementare, combinate con il muro di feedback prodotto dalle chitarre, portano ad un risultato quasi assimilabile a certe produzioni di Phil Spector e ad una versione aggiornata e corretta (con l’utilizzo dell’elemento rumore) del suo Wall of Sound.» Vabbè. Il solista di questi Besnard Lakes è molto ispirato. Canta in falsetto di un disastro. Niente di apocalittico: il disastro sta nella mente dell’amata, una tipa misteriosa. Il sound design, fatto di suoni miagolanti, è piuttosto suggestivo.

96. Massive Attack con Sinéad O’Connor: “A Prayer for England”


di Sinéad O’Connor, Robert “3D” Del Naja, Neil Davidge, Grant “Daddy G” Marshall. Album: 100th Window. Irlanda, Regno Unito. Virgin, 2003.

Sinéad O’Connor prega lo Spirito Santo di intercedere presso il Signore affinché i bambini d’Inghilterra siano protetti da ogni forma d’abuso e da ogni contatto, anche indiretto, con la violenza. La sua voce ispirata, quasi angelica, crea un interessante contrasto acustico con l’elettronica dark dei Massive Attack. Qualcuno ha letto tra le righe accenni polemici alla chiesa, probabilmente in relazione allo scandalo dei preti pedofili («Dio, perdonaci / per aver dimenticato [i tuoi insegnamenti, ndr]. / Dio, aiutaci tu. / Abbiamo bisogno di più amore. / Guarda i maestri, /  ti rappresentano / così male / che sono rimasti in pochi a vederti ancora.») Ma perché sarebbero a rischio solo i bambini d’Inghilterra? La perorazione non dovrebbe riguardare tutti i bambini del mondo? Ho altre perplessità sul testo: un po’ troppo conventuale, anche se l’intenzione è più che condivisibile. Ma una canzone è una canzone, e questa – se non afferri al volo le parole e non t’incaponisci a tradurle nella tua lingua – è, come dire?, più bella di com’è. Il timbro di voce e i suoni sembrano parlare da soli.

Sinéad O’Connor.

95. Lana Del Rey: “Video Games”


di Elizabeth Grant (Lana Del Rey), Justin Parker. Album: Born to Die. USA. Interscope, 2012.

L’industria statunitense del pop tende, dagli anni ottanta, a sfruttare astutamente la bellezza e/o il sex appeal di certe cantanti, vere e proprie showgirl dai molteplici talenti, anche perché la promozione passa soprattutto via video. Fenomeni come Madonna, Lady Gaga e Beyoncé si moltiplicano senza sosta, grazie all’intraprendenza delle interessate e alla collaborazione di coreografi e registi sensibili all’immaginario erotico, alla moda, al glamour. Lana Del Rey, all’anagrafe Elizabeth Grant, è o è stata addirittura fotomodella di professione. Di bello e sensuale ha anche la voce. Proprio con Video Games e un video fatto in casa, caricato su YouTube e visto da milioni di persone, si è affermata come cantante e promotrice di sé stessa. La canzone è molto bella: parla di sesso, amicizie, auto sportive e raduni mondani, ma con un retrogusto amaro, come a voler sottintendere che non è tutt’oro ciò che luce. Il repertorio di Lana Del Rey sembra discostarsi dalle stucchevolezze più comuni della dance e del cosiddetto “neo soul”.

94. R.E.M.: “All the Way to Reno (You’re Gonna Be a Star)”


di Michael Stipe, Mike Mills, Peter Buck. Album: Reveal. USA. Warner Bros., 2001.

Il testo può sembrare un sequel di All the Way from Memphis dei Mott the Hoople, quasi trent’anni dopo: anche qui una riflessione amarognola sull’esistenza vagabonda e autoreferenziale del rockettaro, dalla parte però di chi il successo si limita a sognarlo e forse non lo raggiungerà mai. C’è poco da “diventare una star” se sei diretto a Reno, Nevada: Reno non è né Los Angeles né Nashville, è un non-luogo come tanti altri disseminati per l’America, buono tutt’al più per un matrimonio-lampo o per vuotare il portafoglio alla roulette. Il tema non toglie né aggiunge molto al vero valore del brano, che sta nel fascino della melodia e dell’esecuzione. Un aroma incisivamente rétro, scorrevole e nostalgico come certe pagine degli anni sessanta.

93. Jay-Jay Johanson: “Mirror Man”


di Jay-Jay Johanson. Album: Rush. Svezia. Virgin, 2005.

Eccolo qui, il mio synthpopper preferito, campione di solitudine e fragilità. Malinconico e notturno come Stoccolma d’inverno. Ma di quegli introversi che cercano di ammazzare la timidezza agitando le gambe in discoteca, dopo aver trangugiato più d’una birra. Le sue canzoni tendono al noir. Chi è quest’uomo specchio, questo Mirror Man? E dov’è finita la ragazza con i capelli o la parrucca alla Cleopatra, come Uma Thurman in Pulp Fiction? Lo specchio: sdoppiamento di personalità? Lui e lei sono la stessa persona? Lui dice di non avere tempo, di avere mille cose da sbrigare; ma prega qualcuno di dargli un colpo di telefono, nel caso che la ragazza scomparsa si facesse rivedere in giro. Nel frattempo, mentre Jay-Jay soffre, noi balliamo.

92. Green Day: “American Idiot”


di Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt, Tré Cool. Album: American Idiot. USA. Reprise Records, 2004.

«Non voglio essere un idiota americano. / Una nazione controllata dai media. / Un’epoca d’informazione isterica.» Come dargli torto? Dite ai Green Day che li capisco. Quanto a me, non voglio essere un idiota italiano. Siamo, se non nella stessa barca, almeno nella stessa flotta. Abbiamo in comune persino le rime più inquietanti: television, tension, alienation = televisione, tensione, alienazione. E allora sfoghiamoci col rock and roll, esplosivo come la granata a forma di cuore che sanguina in copertina. L’album eponimo è un unitario grido di protesta in veste di opera punk, memore degli Who di Quadrophenia. Attacco doveroso al sistema mediatico, a Bush junior che manda le truppe a far casino in Iraq, alla passività di chi si lascia rimbambire dalla propaganda.

91. The Dandy Warhols: “Bohemian Like You”


di Courtney Taylor-Taylor. Album: Thirteen Tales from Urban Bohemia. USA. Capitol, 2000.

Lo chiamano alternative rock, ma è pur sempre il vecchio, inossidabile rock and roll. Di nuovo c’è il contesto promozionale: musica per spot internazionali (Vodafone), videogame (Le Mans 24 Hours), sigle radiofoniche (il programma 606 su BBC Radio Sport Live, seguitissimo dai tifosi britannici di football). Questi Dandy di Portland, Oregon, scherzano sul nome di Andy Warhol e sui Velvet Underground, ma non erano ancora nati quando quelli pubblicarono il glorioso album con la banana. I maniaci di tag li classificano nel subgenere “neopsichedelia”. Sia quello che sia, è musica che si ascolta con spasso mentale e corporeo.

90. Elvis Costello: “When I Was Cruel No.2”


di Elvis Costello. Album: When I Was Cruel. Regno Unito. Island Records, 2002.

Songwriter tra i più prolifici, classe 1954, immaginazione irrefrenabile, Costello è in sella dal 1976 e non perde un colpo. Scrive racconti in forma di canzone, novelle sonore concentrate in pochi minuti. Qui parla di un tizio al suo quarto matrimonio. Conclusa la cerimonia, i partecipanti escono all’aperto, investiti dalla luce abbagliante, e si perdono in chiacchiere e abbracci. I pettegoli sparlano dello sposo e delle sue ex mogli, tutte presenti. Se ne ricava un bozzetto psicosociale acutamente ironico, con lo sposo che ripensa con nostalgia ai tempi in cui era più sconsiderato e cattivo. C’è anche una trovata musicale piuttosto divertente: Costello usa a mo’ di percussione, per tutta la lunghezza del brano, la sillaba «un» sparata da una voce femminile. Si riconosce, campionata e ripetuta centinaia di volte, la voce di Mina che attacca Un bacio è troppo poco, scritta da Antonio Amurri e Bruno Canfora ai tempi di Studio Uno (1965).

89. Thievery Corporation con Pam Bricker: “Lebanese Blonde”


di Rob Garza, Eric Hilton. Album: The Mirror Conspiracy. USA. Eighteenth Street Lounge Music, 2000.

Introdotta da fascinosi stilemi mediorientali, questa «bionda libanese» fa subito drizzare le orecchie all’ascoltatore distratto, catturandone l’attenzione per circa cinque minuti. Da bravi ex DJ, Garza e Hilton coltivano tutto ciò che c’è di coltivabile nell’elettronica soft (ambient, trip hop, dub, acid jazz, lounge, punk, soul, etc.), mettendoci dentro anche reminiscenze di studi classici e, all’occorrenza, il gusto di un raffinato esotismo, come in questo caso. Rob Myers suona il sitar, Rick Harris si occupa dei fiati e Roberto Berimbau delle percussioni. Suadente la voce della professoressa Bricker, vocalista jazz e docente di musica in una università di Washington prima di suicidarsi a cinquant’anni, nel 2005. La canzone risale al 1998 (disco singolo), ma il primo album in cui compare è questo.

88. Tame Impala: “Feels Like We Only Go Backwards”


di Kevin Parker. Album: Lonerism. Australia. Modular Recordings, 2012.

Stanno suscitando entusiasmi in tutto il mondo i ragazzi di Perth che si presentano come Tame Impala, «domatori di antilopi». La stampa specializzata li esalta come protagonisti del revival psichedelico, e gli assegna il gravoso compito di riscattare definitivamente l’Australia dalla condizione di colonia culturale. C’è chi ha già paragonato a John Lennon il leader del gruppo, Kevin Parker. Barba, capelli lunghissimi, posture da profeta, comunque più carino del maestro. Ma che importa? Le canzoni sono ben scritte e ben eseguite, e tanto basta. Questa è semplicemente deliziosa, con la voce adolescenziale (e ammantata di eco) che canta: «Mi sembra di muovermi a ritroso, baby / (anche se) ogni parte di me mi incita ad andare avanti...» Pathos a non finire, e godimento nell’ascolto.

Kevin Parker dei Tame Impala.

87. Franz Ferdinand: “This Fire”


di Alex Kapranos, Nick McCarthy. Album: Franz Ferdinand. Regno Unito. Domino, 2004.

Uno dei pezzi più popolari degli scozzesi Franz Ferdinand, efficaci revivalisti del punk anni ottanta. Il nome della band cita solo per gioco l’arciduca d’Austria assassinato a Sarajevo, ispirato com’è da una corsa di cavalli a lui intitolata. Il sound ricorda vagamente quello dei leggendari Clash, l’impeto è deciso e trascinante, il testo rientra senza sorprese nel tipico repertorio espressivo del ribellismo rockettaro: «C’è dentro di me un fuoco / un fuoco che brucia. / Questo fuoco è fuori controllo, / sto per bruciare questa città.» Palle; ma l’effetto è divertente. L’apparato promozionale dei FF parla di art rock, in virtù dell’iconografia – accattivante quanto incongrua – scelta per le copertine dei dischi e i video. Con reiterati riferimenti al costruttivismo russo (Rodčenko, El Lissitzky) e al dadaismo.

86. Orchestra di Piazza Vittorio: “Sahara Blues”


di Mario Tronco. Album: L’Orchestra di Piazza Vittorio. Italia, Argentina, Cuba, Ecuador, India, Regno Unito, Senegal, Tunisia, Ungheria, USA. Apollo 11, 2004.

Da Wikipedia: «L’Orchestra di Piazza Vittorio è un’orchestra multietnica nata nel 2002 all’interno dell’Associazione Apollo 11, un progetto sostenuto da artisti, intellettuali e operatori culturali che hanno voluto valorizzare il rione Esquilino di Roma, dove gli italiani sono una minoranza etnica. [...] è la prima e sola orchestra nata con l’autotassazione di alcuni cittadini che ha creato posti di lavoro e relativi permessi di soggiorno per eccellenti musicisti provenienti da tutto il mondo e promuove la ricerca e l’integrazione di repertori musicali diversi e spesso sconosciuti al grande pubblico, costituendo anche un mezzo di recupero e di riscatto per artisti stranieri che vivono a Roma talvolta in condizioni di emarginazione culturale e sociale. Il gruppo nasce da un’idea di Mario Tronco, componente della Piccola Orchestra Avion Travel, e del documentarista Agostino Ferrente che ne filma in diretta la nascita e debutta il 24 novembre 2002 con il concerto di chiusura del Romaeuropa Festival.» Iniziativa di evidente valore sociale, perfettamente riuscita anche sul piano artistico. Il primo disco, che conteneva brani molto suggestivi come Sahara Blues, si è aggiudicato nel 2005 il Preis der deutschen Schallplattenkritik (premio della critica discografica tedesca) per la sezione world music.

85. Brad Paisley: “Alcohol”


di Brad Paisley. Album: Time Well Wasted. USA. Arista Nashville, 2005.

Questa è una country song deliziosa, degna di Hank Williams e Johnny Cash. L’eroe assoluto dei saloon non è né lo sceriffo né il pistolero, né l’oste né il baro, né il mandriano né il possidente ricco e cattivo: è l’alcool, quello che manda riflessi maliziosi dalla bottiglia. Nel motivo di Brad Paisley, l’alcool parla in prima persona: «Posso far sentire migliore chiunque, / posso farti credere a qualsiasi fandonia, / posso farti attaccar briga / con qualcuno che è il doppio di te. / Sono noto per aver provocato qualche separazione, / per aver fatto nascere qualche bambino. / Posso farti stringere nuove amicizie / o farti licenziare. / Ho influenzato re e capi di stato, / ho aiutato Hemingway a scrivere come scriveva. / Scommettiamo un bicchiere o due / che ti faccio mettere in testa quel paralume. / Io sono medicina e veleno, / posso aiutarti a rimanere in piedi o a cadere. / Hai vissuto momenti felici / che non ti farò ricordare...» Eccetera, eccetera. Oltre a suonare la chitarra e a cantare bene, Brad è uno che sa scrivere.

84. Calexico: “Epic”


di Joey Burns, John Convertino. Album: Algiers. USA. City Slang, 2012.

Algeri non c’entra: questo è Algiers, il distretto di New Orleans dove i Calexico hanno registrato l’album. Il brano di apertura s’intitola Epic e crea davvero un’atmosfera epica. Credo che il testo parli di amore universale, non l’ho capito molto bene e del resto non m’interessa. Il mood invece è di una bellezza impressionante. «La voce di Burns impone il suo carattere alle canzoni – un’inquietante miscela di mistero e trepidazione temperata dal languore...» (Andy Gill sul sito di The Independent). Non si può descrivere seriamente una canzone, me ne rendo conto. Basti sapere che questo disco dei Calexico è semplicemente sublime: non solo per Epic, ma per tutte le tracce che lo compongono.

83. Nick Cave and The Bad Seeds: “As I Sat Sadly by Her Side”


di Nick Cave. Album: No More Shall We Part. Australia. Mute, 2001.

Riflessione perturbante e amarissima sul destino dell’universo: astri, pianeti ed esseri umani «sono tutti là in perenne caduta, / cadono con dolcezza e stupore.» Una coppia alla finestra si lascia andare a questi e altri pensieri malinconici (rimproverandosi, peraltro, di starsene tutta la vita alla finestra a osservare un mondo che si sgretola), mentre un tiepido gatto fa le fusa e reclama la sua dose di coccole saltando ora in grembo a lei, ora a lui. L’eterno conflitto tra impegno pubblico e pace privata, raccontato però con accenti di sincera poesia (e con struggente senso di colpa). Nick Cave stilizza con geniale maestria una canzone che “si vede”, quasi una fotografia o un dipinto iperrealistico. La melodia, i suoni, la voce (più dolente e straziata che mai) trascinano l’ascoltatore in una penombra da incubo, una stanza sospesa sull’abisso. Da annoverare tra le canzoni più intense e agghiaccianti di inizio millennio, insieme a And No More Shall We Part, che la segue a ruota sullo stesso CD.

82. Fleet Foxes: “Battery Kinzie”


di Robin Pecknold. Album: Helplessness Blues. USA. Bella Union, 2011.

Battery Kinzie è il nome di una piazzaforte marittima in disuso, compresa fra le installazioni militari di Fort Worden, a Port Townsend nello stato di Washington. Robin Pecknold, frontman dei Fleet Foxes, la usò come ritiro per scrivere in santa pace le canzoni dell’album. Questa ha un testo ermetico ma affascinante («Una mattina mi svegliai / con le dita marce, / mi svegliai come un moribondo senza speranza. / Venni alla tua finestra, / lanciai una pietra e aspettai. / Alla porta c’era uno straniero, / la sua voce non prometteva nulla di buono. / Feci dietro front e m’incamminai sul suolo ghiacciato, solo / a piedi fino a casa....»). Musica potente e – specialità dei Fleet Foxes – interventi corali da brivido. Un brano davvero suggestivo.

81. Ute Lemper: “Little Water Song”


di Nick Cave, Bruno Pisek. Album: Punishing Kiss. Australia, Germania. Decca, 2000.

Simpatici maudits del nostro tempo come Tom Waits e Nick Cave hanno rinverdito, con le loro crime songs (o murder ballads), un genere antichissimo, le narrazioni truculente dei cantastorie: che accendevano morbosità e sgomento nelle piazze cantando di tradimenti pagati con la vita, rancori esagerati e orripilanti vendette. La vittima di questa «canzonetta d’acqua» chiama rispettosamente Sir l’annegatore dalla voce suadente che le preme sul petto quella mano troppo grande; si spegne con lo stupore di Desdemona nello sguardo e la chioma di Ofelia sparsa sulle onde, «gonfia di bollicine d’argento». Dolcezza e iella da tragedia elisabettiana, languore preraffaellita e necrofilo, surrealismo alla David Lynch con il volto dell’assassino ingigantito dalla vicinanza e i pesci che lei non vede ma da cui si sente sfiorata. Lemper, artista di teatro e cabaret, è brava a simulare la grevità del respiro, la combinazione di terrore e voluttà, il risentimento dell’amante offesa, il fatalismo delle traviate, la semincoscienza delle sonnambule.

80. Wilco: “Heavy Metal Drummer”


di Jeff Tweedy. Album: Yankee Hotel Foxtrot. USA. Nonesuch, 2001.

Una delle migliori band di rock sperimentale al suo quarto album, bocciato dalla Reprise Records (etichetta del potente gruppo Warner) e pubblicato con enorme successo dalla Nonesuch. Viva la giustizia: alla faccia del marketing, la cui arroganza va di pari passo con la stupidità. Yankee Hotel Foxtrotè ormai un disco di culto fra gli appassionati di musica alternativa e Heavy Metal Drummer si distingue per una simpatica vena di rimpianto: «Mi mancano, sinceramente, quelle band heavy metal / che andavo a sentire quando arrivavano d’estate. / Lei s’innamorò del batterista...» Erano i tempi dei Kiss, gli anni settanta. La canzone vi allude rimpiangendo l’innocenza di allora, quando i ragazzi di provincia, fra uno spinello e l’altro, cercavano di imitarli suonando i loro pezzi.

79. Radiohead: “Pyramid Song”


di Thom Yorke, Jonny Greenwood, Philip Selway, Ed O’Brien, Colin Greenwood. Album: Amnesiac. Regno Unito. Capitol, 2001.

Una di quelle celebrazioni degli stati d’incoscienza (coma, amnesia, smarrimento, morte) così care ai Radiohead, la band più concettuale di questi anni. «Sono saltato nel fiume, e cosa ho visto? / Angeli dagli occhi neri che nuotavano con me, / una luna piena di stelle e automobili astrali. / Tutte le cose che mi erano familiari, / tutte le persone che ho amato erano lì con me, / tutto il mio passato e tutti i futuri; / e si andava insieme in cielo in una piccola barca a remi / senza aver nulla da temere, nulla di cui dubitare.» Le piramidi sono solo nel titolo e fanno pensare alla complessa simbologia funeraria degli antichi egizi. L’album Amnesiac riprende i temi di Kid A con risvolti un po’ più sereni. Le atmosfere allucinate di entrambi gli album e del precedente OK Computer (1997), musicalmente espresse in modo pertinente e innovativo, si possono leggere come metafore di un presente vissuto come problematico e alienante.

Mummia egizia. British Museum, Londra.

78. Ben Folds: “Annie Waits”


di Ben Folds. Album: Rockin’ the Suburbs. USA. Epic, 2001.

Ben Folds canta e suona di tutto: il piano, la chitarra, il basso e la batteria elettronica, su uno sfondo d’archi diretti da John Mark Painter. Pop di classe, un po’ alla Elton John – anche per l’incisiva presenza del pianoforte. Bella canzone sulla solitudine di Annie, che aspetta invano una telefonata dal ragazzo che ama ed è a sua volta vagheggiata da un corteggiatore altrettanto sfigato. Con fulminanti squarci poetici nel testo: «I fari salgono verso la vetta della collina, / le ombre vanno oltre uscendo dal suo campo visivo. / Annie vede i suoi sogni: / bingo il venerdì, i piccioni nel parco.» L’intero album scorre via piacevolmente, con melodie molto cantabili e ispirate, traboccanti di intelligenza e sensibilità. Folds non sarà una star da prima pagina, ma è migliore di tanti divi più acclamati di lui.

77. Cousteau: “Last Good Day of the Year”


di Davey Ray Moor. Album: Cousteau. Regno Unito, Australia, Irlanda. Naïve, 2000.

Sembra pop d’altri tempi, ma di quello buono. Sulla scia di Burt Bacharach, per intenderci. Evoluzione, citazione, imitazione ma nient’affatto passiva; venata, anzi, di ombre contemporanee, di fumo nostalgico, di un gusto aggiornato e chic. Il flicorno imbastisce un dialogo ininterrotto con la voce di Liam McKahey, irlandese: baritonale, bellissima, contro-tendenza. Robin Brown suona chitarra acustica e chitarra elettrica. Davey Ray Moor, australiano, scrive canzoni eleganti e un po’ jazzate; produce, mixa, suona piano, organo, armonica e altri strumenti (anche a fiato, come in questo caso); a volte presta la sua voce come solista in luogo di McKahey. Tutto questo nei pochi anni di attività: poi il gruppo si è disciolto e ciascuno dei suoi membri ha preso altre strade.

76. Elbow & The London Community Gospel Choir: “Ribcage”


di Guy Garvey, Mark Potter, Richard Jupp, Craig Potter, Pete Turner. Album: Cast of Thousands. Regno Unito. V2 Records, 2003.

Nell’era degli effetti speciali, dell’organic art, dell’estetica digitale, di Matrix e del raccapriccio globale, anche una felice canzone d’amore può assumere la densità materica e cromatica di uno scoppio di ketchup al tritolo. In Ribcage, una coppia di innamorati si isola durante un party per fare l’amore in una stanza: «Avevo voglia di esplodere / spalancare le costole / per far entrare il sole…» L’intero disco degli Elbow, il secondo del loro cammino, schiera un plotone di vigorose melodie all’interno di una cornice lirica traboccante di inventiva e di immagini a sorpresa. Tutte le canzoni, da Fallen Angel a Fugitive Motel, da Switching off alla grandiosa Grace under Pressure, compongono insieme un ambizioso affresco delle inquietudini contemporanee. Illusioni e disillusioni quotidiane sono sublimate da melodie ed esecuzioni che hanno il duplice potere di agganciare e allarmare chi ascolta; e da versi che sanno cogliere, con rapida immaginazione, un lampo imprevisto: angeli caduti che «trascinano le penne sulla pista da ballo»; camere di defilati motel deturpate da «buchi di sigaretta, uno per ogni anima perduta»; la ragazza che «era tutto per me, tutti i giorni, / e si è sposata a maggio». Rock umanistico, postmoderno e post-tutto, arrangiato e confezionato con generosità strumentale e corale, impreziosito da un eccellente sound design. Sempre più spesso le proposte realmente creative del pop e del rock arrivano dalle etichette indipendenti anziché dalle majors, spietatamente sensibili al marketing del successo fatuo e precotto; e non è detto che questa produzione alternativa debba necessariamente soggiacere a pesanti restrizioni di budget e di orizzonte.

75. Arcade Fire: “We Exist”


di Win Butler, Régine Chassagne, Richard Reed Parry, Tim Kingsbury, Will Butler, Jeremy Gara. Album: Reflektor. Canada. Sonovox, 2013.

Manifesto musicale contro l’omofobia, sostenuto da un video pluripremiato in cui l’attore Andrew Garfield, noto per il ruolo di protagonista nella serie The Amazing Spider-Man, interpreta un personaggio che decide di rompere il segreto sulla propria identità sessuale, si veste da donna e affronta per la prima volta l’altrui ostilità recandosi in un ritrovo di maschi ambigui e rissosi. Win Butler dice di aver tratto l’ispirazione per We Exist dalle confidenze di un ragazzo giamaicano, disperato per la difficile relazione con il padre incapace di accettare l’omosessualità del figlio. Il testo della canzone, chiaro e convincente, si basa esplicitamente sul rapporto fra omosessuali e genitori. «Si aggirano / con la testa frastornata / comportandosi come / se non esistessimo. / Si muovono nella stanza / e ti si piazzano davanti / parlando come / se non esistessimo. / Ma noi esistiamo.» Robusto e coinvolgente, come al solito, il trattamento sonoro degli Arcade Fire, band fra le più prodigiose del momento.

Andrew Garfield nel video di We Exist.

74. Tricky con Hakim Hamadouche: “Hakim”


di Adrian Thaws (Tricky) con la collaborazione del musicista e cantante franco-algerino Hakim Hamadouche. Album: Mixed Race. Regno Unito, Francia, Algeria. Domino, 2010.

Conturbante esempio di fusione tra umori occidentali e nordafricani. Hamadouche, nato a Marsiglia, sa cosa sia il raï algerino, canto spirituale e politico al tempo stesso. Non ho la minima idea sulle parole e i significati di Hakim, espressi con vibrazioni di voce e d’anima. Mi attengo al giudizio della pelle, e mi lascio trainare dall’istinto. Anche perché di Tricky e della sua multiforme cultura musicale tendo a fidarmi a occhi chiusi.

73. Lila Downs: “La línea”


di Lila Downs, Paul Cohen. Album: La línea (Border). Messico, USA. Narada World, 2001.

Lila Downs sta alla musica messicana come Graciela Iturbide alla fotografia. Due penetranti sguardi femminili sulle tracce dello spirito maya e azteco, mixteco e zatopeco, fra iguana e saguaros, aride lande e riti sciamanici. Con la collaborazione del marito musicista e producer Paul Cohen, Lila Downs è oggi una delle voci più antiche e moderne – viva l’ossimoro – della sua terra. E del confine più problematico del pianeta, la linea che separa il Messico dal sogno americano. Proprio lungo quella frontiera insidiosa nasce, in questa canzone, un bambino. «In questo recesso del mondo / non dorme la maquiladora», esordisce Lila riferendosi alle fabbriche dove si assemblano prodotti USA esentasse e a basso costo di manodopera. «Da un rifiuto di terra / il figlio del sole venne alla luce.» Una curandera (guaritrice, levatrice, sciamana) prepara intrugli d’erbe in una pezza, e con quella friziona la pelle del mulatto appena nato... Una luminosa canzone politica fatta di stupore e speranza, protesta e allegria.

Ricardo Ortega, Curandera de la madre tierra, 2008-2015. Messico.

72. White Lies: “To Lose My Life”


di Harry McVeigh, Charles Cave, Jack Lawrence-Brown. Album: To Lose My Life. Regno Unito. Fiction Records, 2009.

Amore e morte, binomio che va a nozze con lo spleen romantico. Rock cimiteriale, glorioso e scapigliato, per esaudire – a volume sparato – la voluptas dolendi delle adolescenze inquiete ed incomprese. Con un occhio all’estetica del decadentismo d’antan ed entrambe le orecchie puntate sull’indie rock. Se Rimbaud fosse vivo, sarebbe il frontman ideale di una post-punk band chiamata The Drunk Boatmen oppure A Season in Hell. I White Lies non hanno lo stampo poetico di Arthur ma suonano di sicuro meglio di lui. E il sound design è semplicemente superbo. Death, nello stesso album, è altrettanto grintosa ed esondante di pathos.

71. Beck: “Qué Onda Güero”


di Beck Hansen, Dust Brothers (Michael Simpson, John King). Album: Güero. USA. Interscope, 2005.

Nello slang messicano, güero si dice dei visi pallidi, più ancora se biondi. Beck ha l’aspetto del güero. «¿Qué onda, güero?» sta per «come ti butta, biondino?», e qui suona più come sfottò che come saluto amichevole. Parole e musica evocano scene di animazione popolare fra le strade di Pico-Union, irrequieto quartiere di Los Angeles affollato di latinos (l’85% degli insediati). Venditori ambulanti senza permesso, frastuono di clacson, musicanti mariachi, perdigiorno seduti sul marciapiede che addentano panini comprati al Burger King o sonnecchiano sotto l’effetto della birra, bulli che spavaldeggiano come galli, nonne con borse di plastica che si trascinano in chiesa ad accendere candele, chitarristi da quattro soldi col cipiglio di terroristi guatemaltechi, ubriachi che molestano le passanti, gangster affiliati alla banda transnazionale Mara Salvatrucha e poliziotti altrettanto “rassicuranti”... Un bozzetto vivace e divertente. Beck, sperimentatore accanito e in questo caso “alternative rapper”, è un rappresentante di spicco della tendenza anti-folk: uno che sovverte temi, armonie e stilemi della canzone popolare impegnata rendendoli meno carezzevoli all’udito, meno retorici e scontati, musicalmente inattesi e spigolosi.

Un murale di Kent Twitchell dedicato nel 1971 a Steve McQueen nel quartiere di Pico-Union, Los Angeles.

70. Adriano Celentano: “L’indiano”


di Paolo Conte, Gianni Bella. Album: C’è sempre un motivo. Italia. Clan Celentano, 2005.

Trentasette anni dopo Azzurro, Paolo Conte – questa volta con la complicità di Gianni Bella – scrive un’altra perla per Celentano. Che non avrà la fortuna di diventare, come la prima, una specie di inno nazionale; ma la scrittura è di una raffinatezza epica e sublime. Il testo per Celentano, pensato per il suo programma televisivo Rockpolitik, allude alla libertà di espressione: «Ehi, fatemi parlare / ehi, fatemi inventare...» e non manca di ironia nei confronti del cantante chiacchierone («Io so che parlo come fa un indiano affascinato / dal mistero fragile e solenne, / ma è così che parlo io...»). Conte la inciderà in proprio più tardi, nel 2008, con un titolo e un testo diversi (Il quadrato e il cerchio) per il suo album Psiche. Se la versione di Adriano era un omaggio alla parola, questo è un tributo alla riservatezza: «Dico del mio silenzio indiano, / un dialetto di lontani specchi e nuvole parlanti: / è così che scrivo io.» Di notevole respiro anche la musica, agganciante e contagiosa, di Gianni Bella.

69. AIR: “How Does It Make You Feel?”


di Jean-Benoît Dunckel, Nicolas Godin. Album: 10,000 Hz Legend. Francia. Source, 2001.

Questo duo di Versailles ha scelto di chiamarsi AIR in nome dell’Amore, dell’Immaginazione e del Sogno (Rêve in francese). Dunckel e Godin divorziarono l’uno dalla matematica e l’altro dall’architettura per sposare la musica elettronica e il trip hop, con risultati di onirica eleganza. How Does It Make You Feel? nasce da un sapiente uso dei sintetizzatori ma ha, come pregio aggiuntivo, una luce – molto alternativa – di spiritualità. Il video è interessante: anticipa, in un certo senso, il tema del film Lei (Her, 2013) di Spike Jonze, il cui solitario protagonista (Joaquin Phoenix) s’innamora di un sistema operativo, ammaliato dalla sua voce sintetica. Il videoclip degli Air alterna dettagli ingranditi degli impianti di registrazione a ritratti di una donna creata e assemblata dalle macchine. Una versione erotica ed angelica di Frankenstein.

68. Asha Bhosle, Kronos Quartet, Zakir Hussain, Wu Man: “Saiyan re saiyan / My Lover Came Silently”


di Anand Bakshi, Rahul Dev Burman. Album del Kronos Quartet: You’ve Stolen My Heart. India, USA, Cina. Nonesuch, 2005.

Abbasso le frontiere. Qui tutto confina con tutto: l’estremo oriente con l’estremo occidente, San Francisco con Bollywood, la frivolezza del pop più ballereccio con l’austerità del quartetto da camera. Il risultato è divertente, oltre che evocatore di superiori ideali. Asha Bhosle, idolo indiano del cinema e della canzone, ha energia da vendere sebbene abbia superato da un pezzo la sessantina. Il Kronos Quartet non è nuovo alle sperimentazioni e commistioni eclettiche. La musicista cinese Wu Man suona la pipa del suo paese, una specie di liuto a quattro corde. Con i Kronos aveva già collaborato per la Ghost Opera scritta appositamente per loro da Tan Dun, uno dei maggiori compositori cinesi di musica di ricerca e colonne sonore.

67. Depeche Mode: “Precious”


di Martin L. Gore. Album: Playing the Angel. Regno Unito. Mute, 2005.

Una delle mie band preferite. Il loro pop sintetico, nato nel remoto 1980 senza altra pretesa che di far ballare la gente, è cresciuto fino a imporsi come piattaforma di un rock inventivo e di qualità, per nulla secondario rispetto a quello dei gruppi concettualmente – e talvolta politicamente – più impegnati. Martin Gore è un melodista di valore, la voce di Dave Gahan non ha rivali. Nei loro album non c’è un solo brano che sia puramente riempitivo: è tutta merce da alta boutique. Nemmeno a distanza di decenni dall’esordio la loro musica si può dire stanca o sorpassata. Come la mitica Personal Jesus del 1989, anche Precious affronta il tema della fede, accennando all’incapacità umana di proteggere sé stessa dai propri errori: «Precious and fragile things / need special handling. / My God, what have we done to you...»

P.B. – Continua.



The last time I saw Paris

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The last time I saw Paris

A lady known as Paris, romantic and charming,
Has left her old companions and faded from view.
Lonely men with lonely eyes are seeking her in vain,
Her streets are where they were, but there’s no sign of her.
She has left the Seine.

The last time I saw Paris, her heart was warm and gay;
I heard the laughter of her heart in every street café.
The last time I saw Paris, her trees were dressed for spring
And lovers walked beneath those trees and birds found songs to sing.


I dodged the same old taxicabs that I had dodged for years,
The chorus of their squeaky horns was music to my ears.
The last time I saw Paris, her heart was warm and gay;
No matter how they change her, I’ll remember her that way.

I’ll think of happy hours, and people who shared them.
Old women, selling flowers, in markets at dawn.
Children who applauded, Punch and Judy in the park,
And those who danced at night and kept our Paris bright.
Till the town went dark.



•         Lyrics by Oscar Hammerstein II
•         Music by Jerome Kern
•         1940



Sangue e TV

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Nightcrawler

Agli appassionati di cinema raccomando di tenere d’occhio Dan Gilroy. È un californiano di 46 anni, figlio di un drammaturgo e di una scultrice, e lavora nel mondo del cinema come la moglie, l’attrice Rene Russo, e i fratelli Tony e John. Dan fa lo sceneggiatore dal 1992, quando fu accreditato insieme ad altri per Freejack – In fuga dal futuro. Il suo portfolio da screenwriter (per il cinema e la televisione) è rispettabile ma non tale da lasciare tracce indelebili nella memoria. Finché, nel 2014, non esordisce alla regia realizzando Lo sciacallo – Nightcrawler, pensato, scritto e montato di persona.
Jake Gyllenhaal sul set di Nightcrawler. In piedi il regista, sceneggiatore e montatore Dan Gilroy.

Il film si inserisce in un filone nobile e spesso avvincente, quello della critica all’etica dei mass media. È un tema ricorrente che ha prodotto, in tre quarti di secolo, lavori del calibro di Quarto potere (Orson Welles, 1941) e L’asso nella manica (Billy Wilder, 1951), Quinto potere (Sidney Lumet, 1976) e The Truman Show (Peter Weir, 1998), tanto per citare i primi titoli che vengono in mente. Il film di Gilroy, circolato in Italia quasi in sordina un anno fa, ti tiene col fiato sospeso dal principio alla fine, come se si trattasse di un thriller. Il protagonista, caratterizzato in modo superbo da uno spiritato Jake Gyllenhaal, è un ladruncolo da quattro soldi, ambizioso, loquace e psicopatico. Ha una cultura eclettica che si è formato da autodidatta navigando in internet, non ha né famiglia né amici né amanti perché odia la gente, ed è fermamente determinato a diventare un uomo di successo, in un modo o nell’altro. Ha imparato quasi a memoria i manuali di vendita, di marketing e di formazione manageriale, e ne usa formule e linguaggi in qualsiasi conversazione. Una notte si imbatte per caso in un incidente stradale e si concentra sulle mosse di un cameraman alle prese con vittime e rottami. Sarà l’esperienza che darà una svolta alla sua vita.

Gyllenhaal con Rene Russo.

Lou Bloom (questo il nome del personaggio) decide di punto in bianco di diventare il miglior fornitore di videocronaca nera ai telegiornali delle emittenti locali. Le notti di Los Angeles non sono certo avare di tragedie, e Lou ha un pelo sullo stomaco gigantesco: se ne frega delle regole, delle leggi e di qualsiasi ostacolo che possa intromettersi fra il suo sguardo e l’orrore. Non esita a compromettere la scena della disgrazia o del delitto, ad intralciare soccorsi o interventi della polizia, a riprendere volti insanguinati in primissimo piano, a violare la privacy altrui. La sua sarà un’escalation senza limiti che gli frutterà denaro e primati, grazie alla complicità con una giornalista televisiva altrettanto priva di scrupoli (bravissima Rene Russo). Non aggiungo altro per non sciupare la serata a chi non l’avesse ancora visto.

Gilroy ha scritto dialoghi di impressionante sarcasmo, ha diretto gli attori in modo mirabile, ha impresso alla storia un ritmo perfetto e una cupa atmosfera notturna (la fotografia è di Robert Elswit). Si è guadagnato una nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale e, con gli interpreti, riconoscimenti a iosa in vari altri premi importanti.

P.B.

Gyllenhaal con Riz Ahmed.


Schindler’s Playlist. 2

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La neurologa Valorie Salimpoor è una ricercatrice dell’Università di Montreal che indaga sulle reazioni cerebrali agli stimoli musicali. Con un gruppo di colleghi ha dimostrato che le sensazioni di piacere associate alla musica dipendono da un rilascio di dopamina (un neurotrasmettitore prodotto in diverse aree del cervello) nello striato (componente sottocorticale del telencefalo). Le aree anatomiche coinvolte nel processo sono le stesse che presiedono alla compulsione e all’appagamento indotti dalla tossicodipendenza. Foto: Peter Finnie.


Schindler’s Playlist. Parte II: 66-34.


Secondo segmento della playlist “Cento canzoni per i posteri”, con cui il libero arbitrio di un ascoltatore di passaggio (il sottoscritto) si prende la rivincita sulla critica specializzata e sugli esperti in generale. La prima parte è in agguato qui. I brani presi in esame riguardano il periodo 2000-2015. Sfido chiunque a indovinare la canzone numero uno, che troverete in fondo alla terza e ultima parte dell’elenco (prossimamente su questo blog). Nota: cliccando sui titoli delle canzoni si accede ai rispettivi video.


di Alex Turner, Jamie Cook, Matt Helders, Nick O’Malley. Album: Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not. Regno Unito. Domino, 2006.

Gli Arctic Monkeys sono uno dei primi gruppi emersi dal web, e il loro balzo istantaneo (boom di vendite in 5 giorni) da debuttanti a superstar la dice lunga sulla forza del passaparola sui social network. Fanno anche loro revival, sui versanti del punk e del rock psichedelico, ispirandosi a varie band britanniche degli anni settanta. I Bet You Look Good on the Dancefloor («scommetto che sulla pista da ballo fai un figurone»)è energia allo stato puro. Il testo trabocca di citazioni: il titolo, per esempio, è la parodia di una battuta ne La febbre del sabato sera, quando una ragazza chiede a Tony Manero se a letto è bravo come sulla pista da ballo. Il protagonista della canzone sembra ridersela di una tizia, incontrata in discoteca, che si aspetta di essere corteggiata: a lui interessa soltanto che lei sappia ballare l’electro-pop dance come un automa orwelliano.


di Pino Marino. Album: Acqua luce e gas. Italia. RadioFandango, 2005.

«Mi alzo col botto alle otto / ed esco col bassotto / dell’inquilino sotto. / Rientro che già piove, / mi pagano alle nove, / discuto gli arretrati...» I Lehman Brothers non sono ancora andati in vacca, ma la crisi già si fa sentire: altro che ristoranti affollati, come amava vantare il Cavaliere negazionista. Disoccupazione e precariato: c’è da costruirci sopra canzoni severe, saccenti e noiose. Questa, invece, è uno spasso: d’ironia e di musicalità.


di John Flansburgh, John Linnell, Dan Miller, Danny Weinkauf, Marty Beller. Album: The Spine. USA. Cooking Vinyl, 2004.

Un tizio fantastica sull’idea di creare un film sperimentale, assorto nella contemplazione dell’infinito in un bicchiere vuoto. Cerca di immaginarsi la storia, ma l’unica cosa di cui è certo è il finale: «È la parte in cui si vede che la tua faccia implode. / Non so ancora per quale motivo la tua faccia implode, / ma è così che finisce il film.» È una fantasia da geek rock, o da nerd rock, che sarebbero poi la stessa cosa. Un genere influenzato da fumetti, fantascienza e fantasy, nonché dai suoni prodotti da sintetizzatori e apparecchiature elettroniche. La tecnologia come fonte d’ispirazione e di linguaggio. Per cogliere meglio l’ironia che pervade la canzone, è consigliabile dare un’occhiata al suo video ufficiale.


di Adam Granduciel. Album: Lost in the Dream. USA. Secretly Canadian, 2014.

The War on Drugs sono stati considerati epigoni di Bob Dylan, Bruce Springsteen, Tom Petty, Jackson Browne, Fleetwood Mac... La critica specializzata ama andare a caccia di riferimenti come questi. An Ocean in Between the Waves è un suggestivo pezzo di rock sentimentale, vagamente onirico, che si ascolta e riascolta volentieri. Tutto qui.


di Josh Homme, Mark Lanegan, Nick Oliveri. Album: Songs for the Deaf. USA. Interscope, 2002.

L’influenza dei Nirvana si fa sentire in molti gruppi venuti dopo di loro, e la più avvertibile riguarda probabilmente i Queens of the Stone Age. Non a caso ritroviamo alla batteria Dave Grohl, ex membro della band di Kurt Cobain. L’idea di intitolare un album Canzoni per non udenti fa decisamente colpo, anche se si capisce al volo che i non udenti siamo tutti noi, in quanto bombardati in continuazione da parole e suoni privi di senso. Come quando cerchiamo di sintonizzarci su una stazione radio passando la manopola da una frequenza all’altra. Pare che l’idea sia venuta a Josh Homme proprio guidando con l’autoradio accesa, lungo un percorso che non gli permetteva di sintonizzarsi stabilmente sull’emittente preferita. Ma a proposito di ronzio e di nonsense, udite udite come lyricsfeast.com, un sito che traduce le canzoni in automatico, ricostruisce in italiano (si fa per dire) le parole di A Song for the Deaf: «Nessuno è venuta giù la sala / Nessuno fa eco nella mia testa/ Riflessione rotto, fuori di fortuna / Nessuno mai bisogno del suo / Ho ottenuto quello che era / Voglio prendere ciò che rimane / Per i non udenti / Bella sensi sono andati / Canarino in una gabbia dorata / Singin’ / Dolce, morbido e basso / Avvelenerà tutti voi / Avvicinati, corse al tuo turno.» Vi risparmio il resto.
Mark Lanegan.


di Adam Clayton, Bono, Larry Mullen Jr., The Edge. Album: Songs of Innocence. Irlanda. Island Records, 2014.

«Ogni onda che s’infrange sulla spiaggia / dice alla prossima che un’altra seguirà. / Ogni giocatore sa che perdere / è lo scopo di quello che fa...» Gli U2 non demordono: continuano a scrivere ballads di sicuro impatto, che non fanno assolutamente rimpiangere quelle per cui sono stati idolatrati negli anni ottanta e novanta. Gli ascoltatori più giovani tendono ad allontanarsi da Bono, The Edge e compagni per motivi probabilmente più generazionali e ideologici che musicali, tant’è che in molti hanno protestato per essersi trovati, gratis e senza averlo richiesto, l’album Songs of Innocence nella propria libreria iTunes. A caval donato si guarda in bocca? Io sono stato felice del dono, e ho trovato il disco per nulla inferiore a quelli dei tempi d’oro. Gli U2 continuano a piacermi anche per la loro stabilità: sotto il profilo della fedeltà reciproca non sono come i Beatles, ma come i Rolling Stones.


di Adam Clayton, Bono, Larry Mullen Jr., The Edge. Album: How to Dismantle an Atomic Bomb. Irlanda. Island Records, 2004.

Ancora loro. Vale per All Because of You quanto ho già scritto per Every Breaking Wave: sono un inguaribile fan degli U2 ed è difficile farmi cambiare idea sul valore della loro musica. Questa è una rock song dedicata ai luoghi di nascita (quartieri poveri e desolati) e a ciò che ne rimane nella memoria di chi è schizzato via e ha avuto successo. «Ti ho vista nella curva della luna, / nell’ombra proiettata in questa stanza...» Nostalgia per i luoghi e i volti che influenzano il cammino individuale. L’impegno politico che permea certi capolavori degli U2 è ciò che li ha resi famosi, ma Bono e compagni hanno sempre scritto anche d’altro, avendo cura di trattare i sentimenti con una vena di autenticità che traspare non solo dai testi ma anche dalle invenzioni melodiche e dal fascino degli arrangiamenti.


di Josh Tillman. Album: Fear Fun. USA. Sub Pop/Bella Union, 2012.

Hollywood Forever è un cimitero di Los Angeles che si può usare anche come parco per passeggiate, jogging e picnic. Vi sono sepolte celebrità dello spettacolo e persone comuni trattate come star. Appartiene a un’impresa privata che produce filmati biografici dedicati ai defunti e organizza ricevimenti in loro memoria. Particolarmente festose le repliche annuali del funerale di Rodolfo Valentino. Father John Misty non è un reverendo ma il cantante e songwriter Josh Tillman, iperattivo dal 2003 negli Stati Uniti, dove col suo vero nome si è affermato sia come solista, sia come batterista dei Fleet Foxes. Tillman ha scritto il suo primo romanzo e le canzoni di Fear Fun sotto l’effetto psicostimolante di amfetamine e funghi allucinogeni, interessato (come a suo tempo William S. Burroughs) all’esperienza degli stati di alterazione mentale e al tipo di creatività che può scaturirne. Hollywood Forever Cemetery Sings, come le altre tracce dell’album, ruota intorno alla morte e alle fantasie erotiche. Nel testo visionario non manca l’ironia (il titolo della raccolta sta per “divertimento da paura”), mentre la musica – oltre che “neopsichedelica” – è romanticamente lussureggiante. Una versione goticamente necrofila del tris sesso-droga-rock’n’roll, tra funerali e gelidi marmi, Hollywood e Halloween.

Los Angeles. Statua di Johnny Ramone nel cimitero Hollywood Forever.


di Damon Albarn, Richard Russell. Album: Everyday Robots. Regno Unito. Parlophone, 2014.

Damon Albarn cominciò la sua multiforme carriera con i Blur. Da allora ha sperimentato di tutto, progettando band e idee eterogenee come Mali Music, Gorillaz, The Good the Bad & the Queen, Monkey, DRC Music, Rocket Juice & the Moon. In Everyday Robots esordisce senza pseudonimi, avvalendosi della collaborazione di producer come Richard Russell e Brian Eno. La canzone che dà nome all’album nasce dall’osservazione della gente nelle strade e in altri luoghi pubblici, assorbita dal proprio cellulare: «Siamo robot quotidiani appiccicati al telefono, / mentre torniamo a casa, / simili a pietre che stanno in piedi / chiuse in sé stesse...» La canzone tratta il tema dell’alienazione di massa, caro ai Radiohead e ad altri musicisti, affrontandolo in modo esplicito. Un assillante effetto sonoro percorre tutto il brano, a mo’ di suoneria telefonica. Ci sono anche inserti campionati della voce di Lord Richard Buckley, un comico degli anni quaranta e cinquanta.

Una inquadratura dal video Everyday Robots di Damon Albarn, realizzato dal designer Aitor Throup.


di Ian Astbury, Adam Weissman, James Lavelle, Richard File, Chris Goss. Album: War Stories. Regno Unito. Surrender All, 2007.

Una di quelle ballate da farti il cuore a pezzi, dolenti e ritmate col martello. La voce di Ian Astbury, ex leader dei Cult, è la quintessenza del cool: emotivamente distaccata dalla disperata passione di cui canta, come se non lo riguardasse affatto o, più plausibilmente, come se il massimo della dignità consistesse nel tenere sotto controllo i propri sentimenti.


di Sergio Pizzorno. Album: Velociraptor! Regno Unito. Columbia, 2011.

Come i Coldplay, i Kasabian si sono formati nel 1997; insieme ai Franz Ferdinand, nati cinque anni dopo, costituiscono il trio di punta bitannico del pop e del rock alternativo. Le tre band hanno occupato il posto lasciato libero dagli Oasis e dai Blur e hanno assunto la guida della nuova mainstream. Un fil rougecollega retroattivamente questa musica ai Beatles, se non altro per l’esuberanza melodica dominante nelle composizioni. Days Are Forgottenè uno dei pezzi più accattivanti dei Kasabian. Sembra una presa di posizione contro i detrattori: «Di’ pure che sono un cliché, / hai perfettamente ragione. / Sarò pure un cliché del rock’n’roll / ma la cosa mi riempie di orgoglio.»


di Antony Hegarty. Album: The Crying Light. USA, Regno Unito. Rough Trade, 2009.

Nato in Inghilterra e residente a New York, Antony Hegarty non è solo un autore e cantante ma un performer di intensa presenza scenica, abituato al teatro e al cabaret. Si esibisce da travestito e usa particolari vibrazioni vocali che lo collocano al di là di ogni precisa identità sessuale. È influenzato da artisti come Boy George, Divine, Marc Almond, ma supera questi e altri modelli perché tende a sublimare le sue prestazioni colorandole di effetti misticheggianti. Daylight and the Sun riassume in modo esemplare la sua vocazione iperestetica, tendente al simbolismo lirico e alle visioni oniriche: «La luce del giorno nei campi / la luce del giorno sulle montagne / il fuoco bacia la superficie / dei laghi e crea ombre...»


di Ramón Perez Prieto, Grimaldo Del Solar, Rafael Morales, Carlos Li Carrillo. Album: Coba coba. Peru. Cumbancha, 2009.

Musica afroperuviana aggiornata con l’elettronica, il rock e i ritmi latinoamericani. Il cocktail, insolito ed effervescente, ha esposto i Novalima all’attenzione del mondo, in un momento in cui non è facile per nessuno competere con l’industria musicale di stretta matrice anglosassone. I quattro membri fissi del collettivo Novalima vivono già, del resto, in una dimensione globale: solo uno di loro sta a Lima; gli altri tre risiedono a Londra, Hong Kong e Barcellona.


di Daniel Bejar. Album: Challengers. Canada. Matador, 2007.

“Il porto delle moltitudini” (Myriad Harbour) è New York, vista dai ragazzi canadesi della band The New Pornographers provenienti da Vancouver. La canzone è un ironico autoritratto di gruppo, e scherza sull’effetto di ritrovarsi un po’ sbandati nella metropoli più altezzosa del mondo. I ragazzi si scambiano battute e impressioni alla buona, come comuni turisti, senza preoccuparsi troppo di sparare qualche stereotipo del tipo «Come saranno qui le ragazze?». Si scherza su istituzioni di culto come il MoMa PS1 (la costola del Museum of Modern Art situata a Long Island), sulla presunzione statunitense di considerare provinciali i canadesi, sulle formule di benvenuto pronunciate dai commessi dei negozi («C’è qualcosa di particolare in cui possa aiutarla?»), sui luoghi da cui bisogna assolutamente partire per ricognizioni da movida (l’angolo fra Broadway e Bleecker Street, per esempio, dove gli ingressi del metrò non sono intercomunicanti e si resta disorientati). Una canzone deliziosa, da un gruppo di musicisti molto abili nel confezionare melodie “power pop”.


di Alex Kapranos, Nick McCarthy. Album: Franz Ferdinand. Regno Unito. Domino, 2004.

«Frecciate di piacere». Durante un concerto a Praga, alcuni fan lanciarono tre frecce sul palco. Alex Kapranos si spaventò, ma continuò a cantare fino alla fine. Non saprei che altro dire di questo pezzo: avevo tredici anni quando Rock Around the Clocksconvolse le mie vedute musicali e da allora continuo ad avere tredici anni.


di Neil Hannon. Album: Regeneration. Regno Unito. Parlophone, 2001.

The Divine Comedy è soprattutto opera d’un uomo solo, il nordirlandese Neil Hannon, cultore del pop barocco, della musica di Bacharach e di chansonnier come Jacques Brel. Il testo di Mastermind s’interroga sul senso della “normalità” nei comportamenti umani: «Nell’aula ogni scolaro darà la stessa risposta se interrogato, / tutte le bocche gridano lo stesso messaggio con una voce sola, / ogni ragazza piange come un salice, ogni ragazzo piange nel cuscino, / ogni lacrima sparisce con la luce del mattino...» In gergo chiamano list songsle canzoni elencative, e la lista di Mastermind affronta in modo poetico sia gli stereotipi che omologano l’umanità, sia le pulsioni che ci rendono diversi l’uno dall’altro. La conclusione? «I sogni che facciamo sono la prova / che siamo tutti pazzi, e va bene così.»


di Adele Adkins, Paul Epworth. Album: 21. Regno Unito. XL Recordings, 2011.

Uno dei successi più clamorosi del 2011. Adele è molto giovane, ma ha un modo scafatissimo di scrivere e interpretare: ha un temperamento impetuoso, la grinta delle sue canzoni s’impone al primo ascolto. Rolling in the Deep suona come il vigoroso vaffanculo di una ragazza all’ex partner che l’ha delusa e vorrebbe ritornare con lei. Il chorus, molto ritardato rispetto alle strofe introduttive, è il picco emotivo che le orecchie aspettano impazienti.

Adele Adkins in una foto di Vogue magazine, 2012.



di Luca T. Mai, Massimo Pupillo, Jacopo Battaglia. Album: Carboniferous. Italia. Trips und Träume, 2009.

Gli Zu sono un trio romano interessato all’esplorazione di sonorità inusuali. In questo disco predomina il rock industriale (ricordate i Coil?); ad ascoltarlo sembra di sentire odori di fabbrica e miniera, e di rivedere opere di Mario Sironi e Alberto Burri. L’applicazione – sonora e ideologica – dei rumori prodotti da utensili e macchine alla composizione musicale risale ai teorici del futurismo e agli esperimenti di musica concreta anticipati nel 1948 da Pierre Schaeffer, sviluppati poi da ricercatori autorevoli come John Cage e Pierre Boulez. Carbon ha una tessitura complessa molto evocativa, e il pregio di evitare gli eccessi di cacofonia cui volentieri indulgono alcuni estremisti di area metal.

Gli Zu. Foto di Danilo Giungato.


di Robert Hardy, Alex Kapranos, Nick McCarthy. Album: Franz Ferdinand. Regno Unito. Domino, 2004.

Inutile sforzarsi di capire il senso di Jacqueline: il testo è pretestuoso e incomprensibile, almeno per me. Sono solo riuscito a indovinare che Jacqueline ha diciassette anni, probabilmente fa la commessa in un negozio ed è infastidita da uno stalker maturo, un certo Gregor. Ci sono canzoni che mi acchiappano indipendentemente da quello che dicono, e questa è una delle tante. Credo che i Franz Ferdinand mi piacerebbero anche se suonassero e cantassero la lista della spesa che mia moglie compila per me prima di spedirmi all’Esselunga.
Il gruppo Franz Ferdinand.


di Martin L. Gore. Album: Delta Machine. Regno Unito. Columbia, 2013.

Tira subito aria di blues nell’incipit di Goodbye, un lento dall’andamento felino e virale. L’addio, una volta tanto, non è alla persona amata ma al dolore e al senso di vuoto che c’erano prima di conoscerla: «Sei stata tu a prendermi l’anima / e a gettarla nel fuoco, / a domarla nell’estasi / e riempirla di desiderio. / Adesso sono puro, / adesso sono pulito, / mi sento guarito / e sereno in te...» Parole grosse, da Sanremo. La musica, invece, è da Depeche Mode: meno male.


di Habib Koité. Album: Afriki. Mali, Belgio, USA. Cumbancha/Egea, 2007.

Ghettizzato sbrigativamente nel comparto commerciale della “world music” (etichetta che non definisce niente), Habib Koité è riuscito a imporsi all’attenzione internazionale; è tuttavia improbabile che arrivi a scatenare nel mondo un’influenza paragonabile a quella di una popstar di Nashville o Liverpool, per il solo fatto di essere nato e cresciuto nel Mali. Di nuovo c’è, oltre alla genuinità della sua musica, la chance di farla ascoltare lontano dal suo paese e persino dal suo continente. Tra le sue canzoni, belle e socialmente engagé, scelgo questa perché emblematica fin dal titolo: abbraccia l’intera Africa come si abbraccia una madre, una fidanzata o una figlia. «Molti africani», ha dichiarato Koité, «preferiscono rischiare la vita nel tentativo di emigrare in Europa o in America, anziché rischiare di rimanere in Africa e cercare di sviluppare qualcosa di nuovo. Dovrebbero capire che la vita può essere davvero buona e davvero cattiva dappertutto. Anche se il Mali è un paese povero, la qualità della vita è ancora decente: se esci di casa e sorridi, qualcuno ti sorride di rimando.» Discendente da una famiglia di griot, trovatori e animatori di cui nessuna festa familiare che si rispetti potrebbe tuttora fare a meno, Koité ha fatto del suo lavoro un ideale punto di congiunzione tra l’eredità musicale della sua terra e il tempo presente. Con impressionante talento maneggia la chitarra, accordata sulla scala pentatonica e a corde sciolte, come se si trattasse di un kamele n’goni, strumento a quattro corde dei cacciatori ribelli del Wassoulou. Combina stili regionali del Mali come la danssa e il doso e tanti altri, propri dei diversi gruppi etnici presenti nell’ex colonia francese, con sapori che spaziano dal flamenco al blues e ai ritmi cubani: dimostrando che tutto ciò che di “afro” si respira nella musica globale ritorna, prima o poi, alla madre Africa.


di Jonathan Donahue, Sean “Grasshopper” Mackowiak, Jeffrey Mercel. Album: All Is Dream. USA. V2 Records, 2001.

Eccoci al dream pop dei vecchi (si fa per dire) anni novanta. Gli esperti (io no) definiscono dream pop una particolare derivazione del rock psichedelico. Molto dolce, a quanto pare. Del resto «tutto è sogno», lo dice il titolo dell’album. E forse anche il nome della band: Mercury Rev = sognatori mercuriali? Iper-romantico il tema di The Dark Is Rising, melodia esoterica, notturna, astrale. Con ondate ritmosinfoniche da grande spazio, come nelle colonne sonore dei western più epici o nei documentari sulle galassie. Suggestiva e indimenticabile.


di Kanye West, Jeff Bhasker, Malik Jones, Warren Trotter. Album: My Beautiful Dark Twisted Fantasy. USA. Roc-a-Fella, Def Jam, 2010.

Esterno notte a Las Vegas (o Los Angeles, a piacere), illuminata a giorno dalle luci di insegne e macchine della polizia, flash e semafori, in un delirio stroboscopico e intermittente in cui esplode la vitalità nelle sue forme estreme: traffico di auto veloci e di droga, movida di individui e gruppi poco raccomandabili, rock ad alto volume. Oltre a essere un notevole producer, Kanye West è il rapper più popolare del momento in America, acclamato da critica e pubblico. My Beautiful Dark Twisted Fantasy è stato uno dei suoi progetti più ambiziosi, e All of the Lights ha un cast grandioso: interventi solistici di Rihanna e Kid Cudi; Elton John al pianoforte e ai cori, ai quali offrono la voce anche John Legend, Elly Jackson, Alicia Keys, Fergie, Drake e altri protagonisti della scena pop contemporanea. In una sola canzone l’intero catalogo dei generi di moda, dall’hip hop al soul, dal rhythm and blues al neopsichedelico, dal synth pop all’electro-pop. Il video di All of the Lights ha suscitato proteste e censure per gli effetti grafici e luminosi sparati a velocità micidiale, con i colori saturati al massimo: pare che possano provocare attacchi epilettici nei soggetti fotosensibili. Non si può comunque negarne il fascino, davvero elettrizzante. Lo ha diretto Hype Williams, accusato di plagio dal regista argentino Gaspar Noé.

Un fotogramma dal video di All of the Lights.La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una “contaminazione” dei sensi nella percezione. Per alcune persone è normale associare automaticamente i suoni ai colori. Al compositore Michael Torke «i colori, fissi e costanti fin da quand’era bambino, si presentano spontaneamente e nessuno sforzo di volontà o di immaginazione può modificarli. Gli sembrano del tutto naturali e preordinati; inoltre, sono altamente specifici. Il sol minore, per esempio, non è solo “giallo” ma “ocra” o “giallo-arancio”. Il re minore  ha “il colore della selce, un color grafite”; il fa minore è del colore  “della terra o della cenere”.» (Oliver Sacks, Musicofilia, Adelphi 2008).


di Janelle Monáe Robinson, Irvin, Dr. Nathaniel Irvin II, Irvin III, Joseph II. Album: The ArchAndroid. USA. Bad Boy Entertainment, 2010.

Janelle Monáe è un’artista talmente sorprendente che mi sono chiesto a lungo se non meritasse la prima posizione in questa classifica. Poi ho optato per parametri di giudizio che l’hanno spostata un po’ in giù rispetto alla prima impressione e ad altri artisti, ma il valore di quello che fa rimane stupefacente. BabopbyeYaè il lungo brano di chiusura di un album afrofuturista ispirato a Metropolis, un’opera mista di suite e canzoni arrangiate in modo estremamente colto. Nei nove minuti di BabopbyeYa confluiscono jazz, sinfonismo e vocalismi soul: Monáe è in grado di spaziare in tutte le dimensioni della musica afroamericana, comprese le aree del funk e del rap. Il brano sembra la colonna sonora di un trailer cinematografico, per via dei frequenti cambiamenti d’umore e della varietà di stilemi magistralmente combinati fra loro. Dieci e lode.
 
Janelle Monáe.


di Zach Condon. Album: The Flying Club Cup. USA. 4AD, 2007.

Beirut: nome di formazioni cangianti il cui unico membro fisso è il cantante, autore e polistrumentista Zach Condon, nato nel 1986 a Santa Fe, New Mexico, ma interessato alla canzone francese e al folklore balcanico (la sua musica è stata definita “Balcan folk”). L’atlante musicale di Condon è un eccentrico reticolo di riferimenti incrociati, che il ragazzo tratta con apparente candore senza mai scivolare nell’ovvio o nella forzatura. Dai suoi video, giocosi e spartani, emerge una sincera inclinazione alla musica di strada, reinventata con grazia, modernità e ironia. Intrisa di euronostalgia, la Nantes di Condon è quanto di più culturalmente distante si possa immaginare da Santa Fe; ma basta un inserto di squilli tex-mex a gemellare i due mondi e ad attenuare l’accorata malinconia che permea il brano. C’è anche un inserto parlato in francese: le voci di Simone Simon e Fernand Ledoux in L’angelo del male (La Bête humaine, 1938) di Jean Renoir, quando lei rifiuta gli approcci del marito proclamandosi disgustata dagli uomini.


di Gordon Sumner (Sting), Baz Luhrmann, Craig Pearce, Mariano Mores. Dal film Moulin Rouge!di Baz Luhrmann. Regno Unito, Australia, USA, Argentina. 2001.

D’accordo, si tratta di materiali riciclati: la Roxanne dei Police risale al 1978 e il resto è addirittura di Mariano Mores, uno dei grandi specialisti di tango argentino degli anni quaranta. Ma il connubio e l’arrangiamento sono talmente attuali e inquietanti da creare un corto circuito drammaticamente divertente, se mi passate l’ossimoro. Tra decadenza, archi tzigani, milonga, discoteca e cabaret, cinque minuti di survoltato eclettismo alla Luhrmann, massima testa calda del musical postmoderno.


di Nino D’Angelo. Album: Il ragù con la guerra. Italia. Epic, 2005.

Canzone amara e toccante, episodio di un progetto – Il ragù con la guerra – imbevuto di attualità: i volontari che nella guerra di Bush vanno a morire «per campare», lo smarrimento dei poveri e dei giusti, la camorra, l’Iraq quotidiano nei sobborghi di Napoli più a rischio, l’incertezza sul presente e sul futuro, le bugie dei potenti alla tv, il funerale dei caduti a Nassiryia («viva l’Italia, viva st’Italia americana»), la miseria e le umiliazioni, la musica come speranza di unificazione. Temi grossi, da maneggiare con cautela, che Nino D’Angelo (sia benedetta Napoli) prende di petto senza scivolare nella retorica e nella saccenteria, affidandoli a un sostegno musicale di avvolgente, emozionante pertinenza. La musica di Napoli si fonde con quella del Vicino e del Medio Oriente, del Nordafrica; gli umori del Mediterraneo e, più in generale, degli indifesi convergono verso lo stesso punto con fluida naturalezza, superando le divisioni e la tracotanza di chi vuole i conflitti di culture. D’Angelo e i suoi musicisti riescono nella non facile impresa di connettere la semplice realtà di tutti i giorni (il ragù) con la storia e i suoi capricci sempre meno eccezionali (la guerra). All’indifferenza dei più, al consumo distratto di merci e di notizie, queste undici canzoni contrappongono l’immagine di un unico, dominante sfacelo: dei valori, della politica, della comunicazione di massa. Tutto suona autentico, verace, contemporaneo – e al tempo stesso fedele alla tradizione che aveva prodotto, quasi un secolo prima, Santa Lucia luntana, ’O surdato ’nnammurato, Lacreme napulitane, canzoni legate all’attualità e alle sofferenze dell’epoca (l’emigrazione, la guerra).Ancora una volta, la canzone napoletana alza la testa, si guarda intorno, respira l’aria che viviamo, dice la sua.


di Sergio Pizzorno. Album: Velociraptor! Regno Unito. Columbia, 2011.

Il titolo non allude a una fata verde ma all’assenzio, in Francia denominato La fée vertefin dagli albori dell’Ottocento. La canzone è un trip a bordo di questa o altre droghe: «Vedo Lucy nel cielo che mi dice che sono fatto», scrive Pizzorno citando i Beatles di Lucy in the Sky with Diamonds. “Kasabian” vuol dire “macellaio” in armeno, ed è anche il cognome di una tizia della banda criminale Manson. Ma la musica dei Kasabian non è affatto truculenta come questi indizi segnaletici lascerebbero supporre. Dopo un’introduzione sulfurea, La Fée Verteprende il volo con una melodia intrigante e contagiosa, anch’essa in parte influenzata dai Beatles ma corroborata da energie e sonorità da terzo millennio.


di Thom Yorke, Jonny Greenwood, Philip Selway, Ed O’Brien, Colin Greenwood. Album: In Rainbows. Regno Unito. XL Recordings, 2007.

Breve introduzione da poema sinfonico. Parte la batteria. Qualche armonia dissonante. Poi entra la voce di Thom Yorke: «Sono la prossima fermata / con le ali in attesa, / sono un animale / intrappolato nel calore della tua auto. / Sono tutti i giorni / che scegli di ignorare. / Tu sei tutto ciò di cui ho bisogno...» Soluzioni acustiche raffinatissime, effetti sonori, un’invenzione musicale a ogni rigo di pentagramma. Ingresso progressivo di strumenti: inaspettato ed emozionante quello della tastiera. La voce di Yorke che cambia posizione passando dal primo piano sonoro allo sfondo, mentre la densità strumentale cresce di volume e di corpo. Non sono semplici canzoni, quelle dei Radiohead: sono morceaux di musica colta e l’essenza della contemporaneità. All I Needva ascoltata più volte: ad ogni ascolto si scopre qualcosa che ci era sfuggito.


di Nick Cave. Album: No More Shall We Part. Australia. Mute, 2001.

Cave riesce a commuovere anche i più refrattari alla canzone sentimentale, con una linea melodica di rara nobiltà e un testo che ci ricorda quanto labile sia il confine tra la felicità e il suo contrario. Inizia con una dichiarazione di matrimonio – «i contratti sono a posto, l’anello è saldo al dito / e mai più ti scriverò lettere che cominciano / con parole di tristezza, o nel profondo dell’inverno» – e finisce con una preghiera di ambiguo significato: «Signore, stammi vicino, / non mi abbandonare, / non sarò mai libero / se non sono libero adesso.» Tre minuti di sospensione su quattro: perché solo nell’ultimo quarto della canzone entrano in campo i Bad Seeds, dopo un lungo e intenso dialogo tra voce e pianoforte. L’ingresso di Walter Ellis col suo violino sembra aggiungere luminosità e persino uno spiffero di speranza a questa agrodolce meditazione esistenziale. Un’assorta ballata da camera, nel cui intimismo si stemperano le esperienze personali e musicali di un autore tra i più inquieti e notturni della scena post-punk.
Nick Cave.


di Thomas Feiner. Album: The Opiates (Revised). Svezia. Samadhisound, 2008.

Thomas Feiner è un gigante invisibile. Talmente defilato che neanche Wikipedia si è accorta che esiste. Con gli Anywhen realizzò un album nel 2001, The Opiates, sul quale lavorò per sette anni fino a ripubblicare le stesse canzoni nel 2008, grazie all’interessamento di David Sylvian, con l’aggiunta di due sole tracce nuove. The Opiates (Revised) è un capolavoro conosciuto da pochi (tra questi Carlo Verdone, che ha inserito uno dei brani nel film Io, loro e Lara). Feiner è un musicista e crooner svedese di cupa e struggente malinconia. La sua notorietà, finora compressa, potrebbe esplodere da un momento all’altro: basta ascoltarlo una volta per rendersi conto della sua personalissima, oscura grandezza. «Porte che sbattono: si fa sera; / è inutile che me lo chiedi, rimango. / Più per questioni cardiache/ che per ragioni di cuore. / E adesso la mia forza d’inerzia, / il mio gioco preferito, / la mia macchina da demolizione / sei tu. E allora che senso ha / starti lontano? / Parole di ghiaccio / infarto / la notte insonne / le labbra screpolate; / non m’importa / averti di torno. / Ogni domani arriva / e se ne va / lasciandosi dietro / cicatrici e bicchieri...»
Thomas Feiner.


di Nicolas Jaar. Album: Space Is Only Noise. USA, Cile. Circus Company, 2011.

Un po’ cileno e un po’ statunitense, Nicolas Jaar è uno sperimentatore straordinario. L’album Space Is Only Noise trasforma suoni e rumori ambientali in qualcosa di mistico. I liquidi effetti sonori creati per una delle tracce, Être, sembrano sciogliere la musica in acqua e l’acqua in musica. Too Many Kids Finding Rain in the Dust («(ci sono) troppi bambini che cercano pioggia nella polvere») si muove invece tra crepitii secchi e desertici, all’insegna di un minimalismo musicale e vocale intensamente evocativo. Da riascoltare ad occhi chiusi per perdersi tra dune, carovane e scorpioni. Con un bicchiere d’acqua o una tazza di tè a portata di gola.


di Robin Pecknold. Album: Helplessness Blues. USA. Sub Pop/Bella Union, 2011.

Molte canzoni del nostro tempo hanno testi enigmatici, ma l’enigma di Montezuma li supera tutti, se non in cripticismo almeno in provocazione intellettuale. Perché in tanti, sedotti dal fascino incantevole della melodia e dell’esecuzione, così come dal lirismo magico delle parole, si confrontano su internet azzardando interpretazioni e sbugiardandosi a vicenda. C’è un sito, songmeanings.com, bersagliato da commenti appassionati su Montezuma. Uno prova a dimostrare, con dovizia e sottigliezza di argomenti, che si tratta di una canzone sulla crescita e sulle età dell’uomo: su come ciascuno di noi sia, nell’infanzia, completanete assorbito da sé stesso; come poi sviluppi certi ideali e sia costretto ad affrontare un conflitto interiore tra egoismo e coscienza sociale; come il primo prevalga facilmente sulla seconda, alimentato dalla bramosia di beni materiali; come anche questa fase si sfaldi al momento di morire, quando non si ha più bisogno di nulla, e si capisce che in quella circostanza è meglio vedere i volti di persone che ti amano anziché una crepa sul soffitto. Sarebbe tutto plausibile se non arrivassero, a tradimento, quei versi finali: «O uomo, che cos’ero / da Montezuma a Tripoli / o povero me.» Allora si riascolta il testo sotto tutt’altra prospettiva, di natura schiettamente politica: perché Montezuma e Tripoli sono citate insieme solo nell’inno dei marines, e forse il protagonista della canzone non è un uomo ma l’America, con i suoi sogni e i suoi ideali grandiosi e compromessi.

© P.B. (2 – Continua)




Schindler’s Playlist. 3

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Schindler’s Playlist (2000-2015). Parte III: 33-1.

Si conclude qui la playlist “Cento canzoni per i posteri”, con l’elenco (a rovescio) delle 33 prime classificate. Sono davvero migliori di quelle numerate dal 34 al 100? O delle tante tralasciate per non trasformare la lista in un’enciclopedia? Boh. Ciò che conta veramente, delle canzoni, è la testa di chi le sceglie. Questi cento titoli valgono quanto un selfie scattato col cellulare. O forse dicono di me qualcosa in più, anche se parlano d’altro. Suppongo che chi condivide il 30% di queste preferenze debba per forza assomigliarmi un po’. Di certo più di quanto non possano rivelare presunte analogie zodiacali. Se invece che semplici canzoni avessi elencato cento classici di musica colta, avrei rivelato ben poco di me, agli altri e a me stesso, perché Bach e Chopin sono più universali – e obbligatori – di Thomas Feiner o Lila Downs.

Ho costruito questo elenco con un po’ di fatica, cercando di documentarmi il più possibile su quanto offre il mercato della musica breve. In un certo senso è stato come tornare sui banchi di scuola, perché non ho più l’età per Kanye West o i Fleet Foxes. Ma a furia di ascoltare mi è parso di scoprire qualcosa che non mi aspettavo. Che questa musica mi piace almeno quanto quella dei miei tempi, e talvolta persino di più. Se volete indagare sull’intera playlist, consultate con un clic la prima e la seconda parte.


di Guy Berryman, Jon Buckland, Will Champion, Chris Martin. Album: A Rush of Blood to the Head. Regno Unito. Parlophone, 2002.

Uno dei maggiori successi commerciali dei Coldplay. In apparenza una canzone d’amore, ma il testo è ermetico e inquietante, così come è ansiogeno il riff di pianoforte che la scandisce dal principio alla fine. Gli orologi del titolo esortano a sbrigarsi: fanno la loro comparsa nel bel mezzo di una situazione dominata dalla confusione e dal panico («confusion that never stops»), e il loro incessante ticchettio avverte che presto sarà troppo tardi, perché «i muri si stanno chiudendo». Fin dall’incipit si capisce che tira aria di disastro: «Si spengono le luci e non posso salvarmi». E allora, se si dà un’occhiata alla data del disco, sorge il sospetto che l’attacco alle Twin Towers abbia lasciato qualche traccia nel songbook angloamericano, ispirando metafore apocalittiche anche all’artigianato musicale di puro intrattenimento. Del resto, il brano di apertura dell’album A Rush of Blood to the Head (“un afflusso di sangue alla testa”) s’intitola, misteriosamente, Politik. Quanto alla canzone che dà il titolo alla raccolta, trabocca di riferimenti a edifici in fiamme e ritorsioni a mano armata. Ma non sperate di cavarci il filo d’Arianna che vi aiuti a orizzontarvi nel labirinto di simboli predisposto per voi. Lasciatevi intrappolare dalla musica, non vi serve altro.

Edvard Munch, Autoritratto fra l’orologio e il letto, 1940-1943. Museo Munch, Oslo.



di Björk, Sjón Sigurdsson, Lars von Trier. Album: SelmaSongs. Islanda, Danimarca. Polydor, 2000.

Selma, operaia in terra straniera, vive sola con suo figlio ed entrambi rischiano di perdere completamente la vista per una crudele malattia congenita. Mentre si fa buio lei canta, danza e sogna una vita da musical; ma il destino è spietato e le riserva un futuro assai più tetro della cecità. Questo era Dancer in the Dark, il melò di Lars von Trier, con Björk protagonista oltre che autrice delle canzoni. La musica fungeva da consolazione e via di fuga dall’immenso squallore dell’esistenza. I’ve Seen It All, «ho visto tutto» e «non ho altro da vedere», sembra una variante del monologo finale di Rutger Hauer in Blade Runner(«Ho visto cose che voi umani...»). Selma non ha visto le navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione; ha visto – con gli occhi della mente – simboli più ordinari del mondo, come il tremolio dei salici piangenti, gli elefanti, la Grande Muraglia, la torre Eiffel, le cascate del Niagara, l’Empire State, un marito immaginario, ma anche uomini uccisi dal migliore amico e altre vite interrotte prima della scadenza, e non si fa più illusioni. Nel film, Björk cantava in duetto con Peter Stormare; nel disco, con Thom Yorke dei Radiohead. Il ritmo di questa song list elettronica è determinato dallo sferragliare di un treno sulle rotaie: la vita di Selma è un viaggio nelle tenebre cominciato in Cecoslovacchia e finito negli Stati Uniti. Ondate d’archi investono come impetuose folate di vento il tragitto ferroviario e musicale del duetto. Björk è un’avanguardista encomiabile, anche se tende a strafare con la sua voce di vetro, spiritata e pungente come filo spinato. Anche qui non ci risparmia acuminati ferimenti d’orecchio. Per fortuna gli interventi di Yorke agiscono da anestetico. La canzone, in ogni caso, ha qualcosa di magnetico.
Björk in Dancer in the Dark di Lars von Trier.



di Lhasa de Sela, Yves Desrosiers, Vincent Ségal. Album: The Living Road. USA, Canada, Francia. Audiogram, 2003.

Lhasa de Sela è morta di cancro nel 2010. A Montreal hanno intestato un parco in suo nome. È stata un’artista di frontiera e senza frontiere, muovendosi prima tra gli Stati Uniti e il Messico, poi tra il Canada e Marsiglia. Ha inciso dischi in inglese, francese e spagnolo, con una voce calda e sensuale. È partita dal folk ispanico ma lo ha modernizzato con l’elettronica. Non è improbabile che il suo mito si espanda, col tempo, anche in paesi dove è quasi sconosciuta, come il nostro. Il suo album The Living Road, etichettato superficialmente come “world music”, mette bene in evidenza la varietà dei suoi interessi musicali. Scelgo dal disco Con toda palabra perché affascinato dai classici del bolero messicano, qui aggiornato o reinventato con intelligenza.


di Matthew Bellamy, Chris Wolstenholme, Dominic Howard. Album: Absolution. Regno Unito. EastWest, 2003.

Quando il rock si fa liturgico e solenne. Qui ha quasi il respiro di un inno da chiesa, nonostante il drumming implacabile e l’enfasi da horror gotico. L’apocalisse è dietro l’angolo, ma la musica assolve i peccati e ti abbraccia con suoni di redenzione. La voce effettata con l’eco di Matthew Bellamy giustifica da sola l’etichetta di space rock, una delle specialità della band. I Muse sono fra i migliori gruppi in circolazione e non sfigurano al confronto con leggende del rock progressivo come i Pink Floyd e i King Crimson.


di Philippe Cohen Solal, Eduardo Makaroff, Christoph H. Müller. Album: Lunático. Francia, Svizzera, Argentina, Spagna, USA. XL Recordings, 2006.

Nella sua evoluzione post-Piazzolla, il tango approda a un ribaltamento non solo simbolicamente sillabico (Go-tan) ma anche e soprattutto stilistico, ritmico e rituale. Il bandoneón si fa ancora sentire, ma cede la sua tradizionale egemonia ai sintetizzatori, ai campionatori e alla programmazione elettronica. Non più musica per milongueros, ma per tribù da discoteca. E per orecchie sensibili a sonorità e fusioni imprevedibili: i Calexico, ospiti in questo brano, sono noti per la loro ricetta a base di tex-mex, folk rock e country alternativo. La voce calda e sensuale di Cristina Vilallonga, cantante e compositrice catalana che ha studiato musica a Barcellona, Boston e Parigi, presta venature di nostalgia a un contesto strumentale elegante e poliedrico, ricco di sfumature e di spezie multiculturali. Un brividino di jazz serpeggia fra le anse del sapiente arrangiamento.

Buenos Aires, 2006. Foto Gueorgui Pinkhassov/Magnum Photos.

Buenos Aires, murale. Foto: Ferdinando Scianna/Magnum Photos.



di Jay-Jay Johanson. Album: Poison. Svezia. RCA, 2000.

Nell’introduzione, un inserto di fisarmonica ci riporta al languido pathos degli organetti di strada. Johanson è la quintessenza della malinconia. Trasforma i suoni elettronici in miele avvelenato: l’album s’intitola Poison e ogni traccia fa godere e soffrire. Changed ha un testo spiazzante. Il protagonista dice che la poesia, la pittura, i puzzle, la chimica, la cucina e le auto gli occupavano tutta la vita prima di incontrare lei. L’amore ha cambiato tutto. In meglio o in peggio? Trattandosi di Johanson, non poteva che essere in peggio: «Ora che sono al sicuro / in pace in un posto tranquillo / senza sorprese né azione / mi annoio.»


di Jason Molina. Album: Didn’t It Rain. USA. Secretly Canadian, 2002.

L’album, definito «una corrente di vento artico» da Jason Nickey di All Music Guide, è stato registrato in diretta, come si faceva tanto tempo fa. Il cd e l’omonima canzone citano un vecchio gospel dallo stesso titolo; anche qui c’è un clima mistico-religioso, ma di una spiritualità raggelata dallo sconforto. Esecuzione scarna, permeata di sfumature e allusioni al country più nobile e riflessivo. Il lavoro di Molina, morto giovane per abuso d’alcool, merita di uscire dal modesto circuito di diffusione consentito dalla produzione indipendente. Su un ritmo di tre quarti, il testo parte sommesso alla ricerca dell’assoluto: «Dicono che qualcuno scruti dai confini del sereno / quel ch’è di noi quando ci siamo dentro. / Bisogna guardarsi alle spalle; / ma se fissi quella luce d’oro / che splende fino ad abbagliare, / non lasciartela sfuggire, / tienila finché puoi…» Le parole sembrano edificanti, ma la musica le contraddice con crepuscolare mestizia, come a rivelare il carattere illusorio del bene e delle umane speranze.


di Thomas Feiner. Album: The Opiates (Revised). Svezia. Samadhisound, 2008.

«La morte è solo un respiro che si allontana / ma anche la vita è così: / lo dico senza sapere / quale delle due mi spaventi di più.» Thomas Feiner è uno che non scherza, e io adoro le canzoni disperate e notturne. Voce da fantasma baritonale; pianoforte assassino, da chiaro di luna transilvano; tromba solista, o meglio solitaria; gelide ventate d’archi. Valzer lento minato da piccoli stop ritmici che ne inibiscono la fluidità, smorzando sul nascere qualsiasi abbandono consolatorio. Tutto l’album è una lugubre, insuperabile opera d’arte.


di Tom McRae. Album: Tom McRae. Regno Unito. DB Records, 2000.

Ho perso di vista (dovrei dire: d’orecchio) questo intrigante cantautore britannico emerso nel 2000, ma mi riprometto di documentarmi meglio sul suo lavoro degli ultimi anni. Ho un debole per gli artisti un po’ funerei, specialmente se ignorati dal grande pubblico. Questa pioggia di São Paulo mi aveva subito colpito per la sua malinconia, così poco brasiliana a dispetto del titolo. McRae racconta di un incubo, o di qualche brutto ricordo, con un filo di voce adolescenziale, indifeso, mentre «gli avvoltoi che si aggirano sulla main street stanno già calcolando il peso delle tue ossa». Nel sogno il carnevale si muove al rallentatore e i travestiti non ballano il samba, ma seguono cortei funebri, probabilmente in veletta nera. Una mesta fantasia tra l’erotico e il mortuario, intrisa di poesia, ermetismo e umidità.



di ’E Zezi (1995). Album: Aneme perze - Lost Souls. Italia. Real World, 2000.

Monica Pinto, cantante, e Antonio Fraioli, violinista, fondarono gli Spaccanapoli nel 1999 sulle ceneri di ’E Zezi, un collettivo formato negli anni settanta da operai dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco per un progetto di musica antiborghese. Ma se nessuno è profeta in patria, figuriamoci i metalmeccanici. Poco importa che Aneme perze sia un disco formidabile: se è uscito è solo grazie a Peter Gabriel, che è riuscito non so come a scovare questi talenti e a pubblicare l’album con la sua etichetta Real World. Ricordo che ne lessi da qualche parte, nel 2000, e che dopo ricerche infruttuose a Milano trovai il prezioso cd in un megastore di New York (sì, nel 2000 c’erano ancora negozi di dischi, e pure le due torri). Pummarola black, già pubblicata da ’E Zezi nel 1996, è un rabbioso canto di protesta degli emarginati, bianchi e neri, di Napoli e della Campania. Denuncia le condizioni ambientali nei quartieri più degradati, la sporcizia, la fame, la fatica di vivere. In una fusione strepitosa di musica partenopea e nordafricana. Non è un caso che, in Italia, sia proprio Napoli la fucina di sviluppi come questo. La sua musica popolare, che ha generato temi leggendari (dai canti duecenteschi delle lavandaie del Vomero in poi), nasce a sua volta dalla contiguità con le culture mediterranee e mediorientali, ed è stata coltivata ed elaborata nei secoli senza interruzioni. La persistenza di un dialetto e di una espressività che si adattano con naturalezza a un’ampia gamma di variazioni ha reso e rende possibile ogni forma di aggiornamento, senza alterare o tradire la specificità culturale d’origine. Paradossalmente, sono spesso le tradizioni musicali più radicate quelle che si prestano con maggiore flessibilità all’evoluzione: si pensi al blues e alla ricchezza inesauribile delle sue derivazioni. La musica napoletana è, per gli italiani del sud, l’equivalente del blues. Come insegnava Pino Daniele, «a me me piace ’o blues e tutt’e juorne aggia canta’ / pecché so’ stato zitto e mo’ è ’o mumento ’e me sfuca’».


di Amy Winehouse, Mark Ronson. Album: Back to Black. Regno Unito. Island Records, 2006.

Un’altra lapide nel cimitero musicale degli under 30, già occupato da Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Nick Drake, Tupac Shakur, Kurt Cobain... Amy Winehouse era infelice, nuova e grintosa, tre qualità che avrebbero potuto ingigantirne ulteriormente il mito, accostandolo a quello di Billie Holiday. C’è un cimitero anche nel video ufficiale di Back to Black– una tremenda profezia in bianco e nero. Lei indossa abiti vedovili e canta al funerale del suo cuore. Amy era stata appena tradita dal suo ragazzo e aveva preso la cosa malissimo, fino a concepire fantasie di morte come questa sua canzone (la più bella e famosa del suo repertorio) e la lugubre messinscena del video, diretto con eleganza da Phil Griffin. Back to Black fluisce nel grande fiume canoro delle delusioni amorose e della gelosia: una delle più intense torch songs di questi anni. Il testo contiene una metafora insolita: «La vita è come un tubo / e io sono una monetina che ci rotola dentro».


di Jeremy Gara, Régine Chassagne, Richard Reed Parry, Sarah Neufeld, Tim Kingsbury, Will Butler, Win Butler. Album: Neon Bible. Canada. Sonovox, 2007.

«Ho attraversato l’oceano / svegliandomi da un incubo. / Niente luna, neanche il più pallido riflesso. / Specchio nero, specchio nero. / So che verrà il tempo / in cui tutte le parole perderanno significato. / Specchio, specchio sul muro, / mostrami dove cadranno quelle bombe...» Perdita d’identità, disorientamento, minaccia, insicurezza. Buona parte del rock di questi anni indaga il lato oscuro dell’uomo e dell’epoca, traducendo in musica i turbamenti indotti dalla geopolitica del presente e dal brusco risveglio collettivo in un irriconoscibile “mondo nuovo”.


di William Adams (will.i.am), Allan Pineda (apl.de.ap), Jaime Gómez (Taboo), George Pajon Jr., J. Curtis, Justin Timberlake, Printz Board, Michael Fratantuno. Album: Elephunk. USA. A&M Records, 2003.

I problemi del mondo contemporaneo condensati in poco più di quattro minuti di hip hop pacifista e soul dance, superbamente prodotti e orchestrati da William Adams (will.i.am) e Ron Fair. Ce n’è per tutti: terroristi, guerrafondai, CIA, bande di strada, Ku-Klux-Klan, discriminatori, vendicatori, assassini, mentitori di stato, ipocriti, irresponsabili, affaristi, accaparratori, cattivi maestri. Bordate particolarmente polemiche sulla politica di mama America («È in corso una guerra ma le ragioni sono segrete. / Hanno spazzato la verità, l’hanno nascosta sotto il tappeto») e sull’etica dei mass media. «Padre, Padre, dov’è finito l’amore?». Interrogato, Dio tace. Se le parole grondano di buonismo, buonsenso e retorica, la confezione è semplicemente perfetta: Where Is the Love?è la quintessenza della canzone “popolare”, parla la lingua comune, è fatta per coinvolgere, commuovere, esaltare chi non ha né i mezzi né la forza di opporsi alla brutalità che la sovrasta e l’opprime. Uno dei suoi punti forti è la regia degli interventi canori, con rapper che predicano a turno e voci unite in coro al momento di rivolgersi al cielo.


di Gennaro Della Volpe (Raiz), Paolo Polcari, Roberto Vernetti. Album: Wop. Italia. Phoenix, 2004.

Un napoletano s’innamora perdutamente di una musulmana di cui riesce a scorgere soltanto lo sguardo. «Noi siamo due sponde di uno stesso mare / divisi da un muro che è fatto di parole; / la forza del mio amore lo farà crollare, / su di noi sarà sole ventiquattro ore». Scritta un decennio prima che il flusso migratorio verso l’Europa s’impennasse fino ad assumere le dimensioni di oggi, Dietro il tuo chadorè una dicharazione d’amore dai risvolti politici estremamente attuali. Raiz (Gennaro della Volpe) è un ex membro degli Almamegretta, formidabile progetto partenopeo di musica mediterranea ed etno-integrale.


di Aziza Brahim e/o autori non identificati. Album: Soutak. Sahara Occidentale, Algeria. Glitterbeat, 2014.

Nel deserto i miraggi hanno anche una voce, ed è una voce che dà i brividi. Aziza Brahim è nata in un campo profughi situato su un altopiano roccioso in territorio algerino. Il suo è il popolo sahrawi del Sahara Occidentale, territorio rivendicato dal Marocco e dal Fronte polisario (Fronte di liberazione popolare di Saguia el Hamra e del Río de Oro) dopo la cacciata dei colonizzatori spagnoli (1975). Senza patria da quarant’anni, i rifugiati e gli esuli sahrawi continuano a lottare per l’indipendenza della loro terra. La situazione è resa ulteriormente difficile dal silenzio del resto del mondo, per lo più ignaro di quanto accade laggiù. Con i suoi commoventi canti di lotta e di speranza, Aziza – in esilio in Spagna – si sta imponendo all’attenzione dei media internazionali. Riuscirà la sua musica a spianare la strada che separa la sua gente dalla patria? In Julud Aziza si rivolge alla sua ispiratrice morale, la madre lontana, maestra di dignità e diritti civili. L’intero album Soutak, vibrante di ritmi ispanici e nordafricani, risuona come un grido di libertà.
Aziza Brahim.



di Guy Berryman, Jon Buckland, Will Champion, Chris Martin. Album: Mylo Xyloto. Regno Unito. Parlophone, 2011.

Dite quello che volete: che sono facili, melodici, retrò, piacioni, pop, Brit pop e superpop. Sono semplicemente grandi. Musicalmente fantasiosi, professionali, creativi. E giovani. In questo caso con un maestro accanto, Brian Eno, che trasforma le loro idee in fuochi pirotecnici. E fa volare ogni scintilla in hit parade. Questo Mylo Xyloto, l’album, è un racconto di fantascienza in musica, un po’ orwelliano e un po’ fumettoso. La storia non m’interessa un granché. M’interessano le singole canzoni, i suoni, i cori. Paradise la suona al pianoforte uno dei miei nipotini. Come faccio a non eccitarmi, a non commuovermi? I Coldplay li sento come quattro di famiglia. Sono una delle poche band che inviterei volentieri a cena.
Capo d'Orlando (Messina).



di Teresa d’Ávila, Giuni Russo, Maria Antonietta Sisini. Album: Morirò d’amore. Italia, Spagna. Sony Music, 2003.

Giuni Russo è morta di cancro nel 2004 senza aver ottenuto neanche un decimo dei riconoscimenti che avrebbe meritato, a cominciare da una stabile popolarità. Straordinaria non solo per le doti vocali e d’interprete (probabilmente la voce femminile italiana più interessante degli ultimi trent’anni), ma anche per aver partecipato a progetti d’avanguardia (l’album Energie di Franco Battiato, 1981) e aver più tardi promosso altre notevoli innovazioni di persona, con la complicità della coautrice e produttrice Maria Antonietta Sisini. Il suo ultimo campo di ricerca è stato fortemente influenzato dalla malattia e dall’intensificazione dei sentimenti religiosi per esorcizzarla. Canzoni che traboccano di misticismo ma anche di solarità mediterranea, con la voce di Giuni – sempre in bilico fra il pop sperimentale e la lirica – che si presta in modo ardito e toccante alle contaminazioni fra sacro e profano. Moro perché non morosuona come un esplicito testamento spirituale. Nel 1994 Giuni si rivolse al monastero delle Carmelitane scalze di Milano, il convento di santa Teresa del Bambino Gesù, per avere il testo esatto della poesia Desiderio del cielo di santa Teresa d’Ávila. I versi cinquecenteschi della mistica spagnola, tradotti quasi alla lettera e convertiti con pochi accorgimenti nella metrica di una canzone moderna, sembrano scritti ad hoc per il tratto finale della biografia di Giuni Russo: «Quanto è mai lunga all’esule / quest’affannosa vita, / quanto mai duri i vincoli / che m’hanno ormai sfinita. / Per quello che ho nell’anima / che posso fare, o vita, / se non te stessa perdere / e andare in lui smarrita?» L’intero lavoro di questa cantante, apprezzato dalla critica ma con pochi boom condivisi dal pubblico (Un’estate al mare di Battiato e Giusto Pio, tormentone vacanziero del 1982, più una tardiva apparizione a Sanremo), andrebbe riscoperto per farle giustizia, e per trarne puro godimento acustico. Un primo passo è stato fatto nel 2007 con l’antologia The Complete Giuni, tre cd pubblicati – anche con qualche remix – da RadioFandango.

Pieter Paul Rubens, Teresa d’Ávila, 1615. Kunsthistorisches Museum, Vienna.



di Guy Berryman, Jon Buckland, Will Champion, Chris Martin. Album: X&Y. Regno Unito. Parlophone, 2005.

Dichiaro ufficialmente, se ancora non lo si fosse capito, che sono un fan dei Coldplay. Ho infilato in questa playlist cinque delle loro canzoni, ma solo per ritegno. Mi sono imposto di non eccedere: ci sono altri artisti che reclamano, meritevolmente, spazio. Dunque: A Message. Canzone per confortare qualcuno sopraffatto dal dolore (l’attrice Gwyneth Paltrow, all’epoca moglie di Chris Martin, era giù di corda per la morte del padre). Non sentite un vago profumo d’incenso? Testo e melodia si ispirano a un inno del ministro della chiesa d’Inghilterra Samuel Crossman, My Song Is Love Unknown, composto nel 1664 e rimaneggiato tre secoli dopo da John Ireland. Chris Martin traduce l’idea in un emozionante pezzo di pop-rock liturgico.


di Eugene Hütz, Oren Kaplan, Sergey Ryabtsev, Thomas Gobena, Yury Lemeshev. Album: Trans-Continental Hustle. USA. SideOneDummy Records, 2010.

Punk e surrealismo. Strepitosa festa gitana con tanto di fisarmonica e violino, survoltati però come si conviene a una rock band assatanata e felice. Beffardi e geniali a cominciare dal nome che si sono scelti, questi ragazzacci americani di origine ucraina saprebbero mettere di buonumore persino un convivio di zombie: «Ho visto la nave dei pazzi / affondare tra le dune / mentre mi tiravo dietro la bara legata a una corda. / Gli occhi erano puntati su di me / ma ho avuto l’aiuto che mi serviva. / La speranza è l’ultima a morire.» Il tutto preceduto e inframmezzato da slogan rivoluzionari, rappati in spagnolo. Guerra ai cliché? Puro nonsense? Può darsi. Ma forse, ridendo e scherzando, questi sono gli eredi non solo dei Clash, ma anche di Frank Zappa. Da ascoltare e, soprattutto, vedere dal vivo. Nello stesso album, altri pezzi travolgenti come Break the Spell e Pala Tute.


di Brian Burton, Thomas Callaway, Gian Franco Reverberi, Gian Piero Reverberi. Album: St. Elsewhere. USA, Italia. Downtown Music, 2006.

C’è anche aria di casa nostra in questa specie di gospel profano e incalzante, allestito con astuzia stregonesca da uno dei più influenti musicisti e producer di questi anni, Danger Mouse (al secolo Brian Burton), in combutta col rapper Cee Lo Green (alias Thomas Callaway) col quale ha formato il duo Gnarls Barkley. Crazy, tormentone universale del 2006, affonda le radici Nel cimitero di Tucson, leit-motiv di un vecchio spaghetti western con Terence Hill: Preparati la bara!, regia di Ferdinando Baldi, anno 1968, musica dei fratelli Reverberi. Gli americani hanno preso la suddetta marcia funebre tex-mex, ispirata alDegüello(tema delle bande militari messicane alla conquista della missione di Alamo, 1836), e ci hanno costruito sopra un piano rialzato fatto di nuovi mattoni tematici. Il risultato è infettivo: il chorus è così svettante che nessun orecchio può restare indifferente. Cee Lo Green sfoggia virtuosismi da grande vocalista di soul music e ritmi funk.


di Francesco Bianconi, Claudio Brasini. Album: Amen. Italia. Atlantic, 2008.

«Vorrei morire a questa età, / vorrei star fermo mentre il mondo va. / Ho quindici anni.» Charlie programma la drum machine, suona la chitarra elettrica, si fa di ecstasy e antidepressivi, si scatena con lo skateboard, scarica filmati porno, va all’oratorio e manda i grandi a farsi fottere, perché è colpa loro se si sente con le mani inchiodate (come il ragazzino nell’installazione di Cattelan intitolata, guarda caso, Charlie don’t surf). Tanto vale, dice Charlie agli adulti, che si sbarazzino di lui una volta per tutte, crocifiggendolo o sfigurandolo con una mazza da golf. Il più delizioso – e crudele – ritratto di teenager che sia mai emerso da una canzone; ma anche di una società talmente rincoglionita da fabbricare, in serie, adolescenti omologati e infelici come Charlie. Sociologia ironica e leggera, musicata in modo magistrale in chiave di rock orecchiabile e sdrammatizzante. Allo stesso modo, i Baustelle trattano la politica, l’economia, la fine delle ideologie: si ascolti, ad esempio, un altro piccolo capolavoro della serie Amen: Il liberismo ha i giorni contati. Un trio di rocker (Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi, Claudio Brasini) da annoverare fra i più brillanti che l’Italia abbia mai partorito.
Maurizio Cattelan, Charlie don’t surf, 1997. Fondazione Louis Vuitton, Parigi.



di Guy Berryman, Jon Buckland, Will Champion, Chris Martin. Album: Parachutes. Regno Unito. Parlophone, 2000.

Il giallo non è un colore simpatico, stando a una diffusa e maldicente tradizione. L’invidia, l’itterizia, i segnali di pericolo, le stelle di stoffa imposte dai nazisti agli ebrei... Non bastano né i taxi di Manhattan né la maglia vincente del Tour de France a riscattare quel povero colore dall’odore di pus che si porta appresso. Ma ecco che la musica gli viene incontro con una specie di inno sacro, proiettandolo di colpo in un olimpo che era sempre stato governato dalla tirannia dell’azzurro, del celeste e del blu. Chris Martin – uno che quando canta fa sciogliere di commozione anche il microfono – beatifica il giallo come simbolo superiore di amore fraterno, generosità e fantasia. Buonanotte e sogni d’oro al blu dipinto di blu e alle montagne verdi, addio agli squilli cromatici dell’abitudine. Ci avevano già provato i Beatles con il loro sottomarino a ingentilire il colore delle banane, ma con i Coldplay la canzone cambia definitivamente colore. Non è questione né di limoni né di sinestesia, ma del suono delle parole. Yellowè stato scelto da Martin e compagni per puri meriti eufonici: due sillabe che scorrono con limpida fluidità nella sequenza verbale e musicale, assecondando il largo maestoso della melodia e sovvertendo i diktat convenzionali dell’arcobaleno e della simbologia.


di Thomas Feiner. Album: The Opiates (Revised). Svezia. Samadhisound, 2008.

Breve introduzione d’archi, un’ouverture quasi pucciniana in miniatura. Poi è subito drumming: i colpi di batteria suonano come un avvertimento doloroso e fatale. La variante rock delle campane a morto. Thomas Feiner sta seduto sulla sponda del lago – un gelido lago del nord annidato tra i boschi, sotto le nuvole bianche di un giorno d’estate – affascinato dai canti della sirena che vorrebbe attrarlo nell’acqua. La passione si tinge vagamente di suicidio. «E lei fluttua placidamente / mentre guardo da sotto / nell’acqua più blu che abbia mai visto / il pallore del suo corpo illuminato a strisce / dal sole». Amaramente, deliziosamente dark.


di Matthew Bellamy. Album: Black Holes and Revelations. Regno Unito. Warner Bros., 2006.

Glorioso prodotto di una rockeria tendente all’elevazione, alla catalisi delle emozioni, al connubio ideale fra ipermelodia e vigoroso trattamento ritmico. Una creazione di rara astuzia commerciale e di sicurissima presa, che aggiorna il romanticismo alle luci e alle pulsioni da discoteca. Per gli adolescenti dovrebbe essere indimenticabile come il primo amore. Il testo fa pensare a un astronauta in volo per l’infinito: «Lontano, / questa nave mi ha portato lontano, / lontano dai ricordi / delle persone in ansia per la mia vita o la mia morte...» Semplicemente spaziale, in ogni senso.

Mira A, stella gigante rossa nella costellazione della Balena. Foto Nasa.



di Adele Adkins, Paul Epworth. Dal film Skyfall di Sam Mendes. Regno Unito. XL Recordings, 2012.

L’ultimo agente 007 porta la faccia di Daniel Craig, un duro che non ride mai e somiglia a Putin. Con lui, James Bond ha smesso di fare il simpaticone e quando è costretto ad ammazzare qualcuno non esita a esibirsi con raccapricciante violenza. La sigla musicale di Skyfall si inserisce a dovere nel format delle precedenti, adeguandosi specialmente allo stile grandioso di Goldfinger e Diamonds Are Forever, memorabili per l’orchestrazione rutilante e solenne. Adele è brava quanto Shirley Bassey, e in più coopera in prima persona – insieme a Paul Epworth – alla creazione del proprio repertorio, come in questo caso. I due hanno preso nota anche del temperamento più cupo di Bond e dei nuovi film della serie, e il loro brano ne accentua gli aspetti inquietanti. L’effetto è grandioso. La sigla di Skyfall ha le carte in regola per diventare un classico di prim’ordine.


di Jeremy Gara, Régine Chassagne, Richard Reed Parry, Sarah Neufeld, Tim Kingsbury, Will Butler, Win Butler. Album: Neon Bible. Canada. Sonovox, 2007.

Il lamento di Win Butler parte sul vuoto, «il mio corpo è una gabbia», poi è sfiorato da percussioni – una specie di battito cardiaco – e altri suoni sommessi. Alla terza citazione della frase, ripetuta ossessivamente nel testo, entra in azione un possente organo da chiesa, e lì si capisce che la tensione dell’ingabbiato andrà tutta in salita, dall’introspezione al dolore e dal dolore al panico. «Vivo in un’epoca / che prende il buio per luce...» Cori, effetti maestosi da «bibbia al neon», lodi da tutto il mondo. Una delle canzoni più gotiche di questo scorcio di millennio. Gli Arcade Fire mirano al sublime (art rock) e sanno come maneggiarlo.


di Damien Rice. Album: 0. Irlanda. 14th Floor, 2002.

Scritta per Juniper, band di breve esistenza con cui l’autore inizia la carriera, ma rifiutata dagli affaristi del marketing perché «troppo lenta», «poco adatta alle radio» e altre amenità di questo tenore. La canzone esce poi con l’album d’esordio di Rice cantante solista, 0. Qui Eskimo sfocia, verso la fine, in un intervento operistico affidato alla voce del mezzosoprano Doreen Curran. Struggente aria su un tempo di tre quarti, sospesa tra pioggia snervante ed enigmatiche nevrosi: «Penso al mio amico esquimese quando mi sento così a terra…» Chi è l’amico o l’amica esquimese? E perché il soprano canta la sua parte in finnico? Divertente seguire sui blog le ipotesi degli ammiratori: chi dice che l’amico è il suo cane, chi dice una droga, chi – più acutamente – suggerisce che gli esquimesi sanno sopravvivere al freddo meglio di chiunque altro, mentre il protagonista della canzone è afflitto dal gelo della solitudine. Folk-rock intimistico e violoncellato, con quella svolta finale sorprendente e teatrale che ha lasciato perplessi alcuni critici ma che conferisce al brano un respiro stralunato e straziante. Dalla nuova leva irlandese del terzo millennio ecco un autore, cantante e polistrumentista dallo charme crepuscolare e avvolgente. Un nuovo Nick Drake? Forse; ma non una inutile fotocopia. L’intero album è un distillato di personalità e talento, profusi con ricchezza nelle melodie e negli arrangiamenti.


di Jack White. Album: Elephant. USA. XL Recordings, 2003.

Erano solo in due gli White Stripes – l’eclettico cantante chitarrista pianista producer Jack White e la batterista Meg White – ma facevano rumore per cinque. Una delle band di garage rock più trascinanti d’inizio millennio. Con Seven Nation Army, il cui testo sembra alludere alla protesta no global contro i potenti della terra (in realtà, come ha dichiarato White, il titolo è una storpiatura infantile di Salvation Army, l’esercito della salvezza), la coppia di Detroit mise a segno il riff più diabolico dai tempi di Satisfaction e Smoke on the Water. Riff che per gli italiani è diventato un coro da stadio, da quando belgi e romanisti usarono le stesse note per esultare e sfottersi a vicenda ad ogni goal della partita di Coppa UEFA Roma-Bruges del 15 febbraio 2006. In seguito, Seven Nation Armyè diventato l’inno dei tifosi italiani nelle partite della Nazionale azzurra. Jack White piace più di Goffredo Mameli. Trattiamolo come un fratello d’Italia adottivo e rendiamogli onore con un bel sesto posto nella nostra classifica.


di Thomas Feiner. Album: The Opiates (Revised). Svezia. Samadhisound, 2008.

«Che vita meravigliosa, quella che fai e ti schiaccia col tuo peso.» La canzone più acre di Feiner dipinge un’umanità insensibile, protetta da alte siepi nei suoi regni suburbani, ciascuno col volto segnato da un sorriso che sembra una smorfia: «Prendi il tuo straccio d’anima, fattene una corona.» Scandita da un ritmo patibolare, All That Numbs You attacca il torpore circostante con una sincerità insolita nel filone delle canzoni moraleggianti e intrise di pessimismo. Un’accorata e sommessa marcia funebre, severa ma non impietosa: perché nell’inseguimento del falso l’uomo non fa che inciampare, cadere, esperire di persona la disillusione e il dolore. Thomas Feiner ha un brunito respiro da crooner, intinto nell’inchiostro più denso e più nero. Ed è un artista introverso e appartato, forse impopolare, il che ce lo rende ancora più caro.


di Guy Berryman, Jon Buckland, Will Champion, Chris Martin. Album: Viva la Vida, or Death and All His Friends. Regno Unito. Parlophone, 2008.

Impressionante cavalcata sonora sull’ascesa e il declino dell’uomo, o più propriamente sulla superbia del potere e sul suo inevitabile tramonto. Si canta di sovrani caduti dall’altare nella polvere, di despoti ridotti in schiavitù, di regimi rovesciati dalle rivoluzioni (non a caso, sulla copertina dell’album, campeggia il dipinto più famoso di Delacroix, La libertà che guida il popolo). Chris Martin e la sua banda hanno scritto l’inno che forse, in un futuro fuori controllo, potrebbe servirci più della Marsigliese: perché non è di armi, battaglioni e sangue che avremo bisogno, ma di una resurrezione. Già il titolo promette sensazioni in crescendo, e mantiene la promessa. Martin dice di aver letto quella frase ispiratrice su un quadro di Frida Kahlo: lo slogan Viva la vidaè scavato con punta di coltello in una sensuale fetta d’anguria, in barba a chi definisce “natura morta” la rappresentazione di oggetti in assenza d’uomo. Il pop melodrammatico dei Coldplay somiglia un po’ a quella fetta d’anguria: è fresco e invitante, fantasioso e vitale, denso e solare, commestibile ma mai banale; ricco di polpa e di succo, senza scordarsi di confinare con una verde scorza fatta di malinconia e di pathos.

Frida Kahlo dipinse Viva la vida nel 1954, otto giorni prima di morire. Olio e terra su masonite. Museo de Frida Kahlo, Città del Messico.


di Win Butler, Régine Chassagne, Richard Reed Parry, Tim Kingsbury, Will Butler, Jeremy Gara. Album: The Suburbs. Canada. City Slang, 2010.

Se andate qui, tra voli stilizzati di rondini una finestrella vi invita a digitare l’indirizzo di casa della vostra infanzia. In basso a sinistra, il sito vi avverte che state per partecipare a un esperimento realizzato con Google Chrome. Parte un suggestivo clip sulle note di We Used to Wait, “noi aspettavamo”. Si tratta di un video multiplo – composto di scene diverse che si svolgono contemporaneamente in più finestre – e interattivo, perché ciò che si vede è determinato in buona parte dall’indirizzo che avete evocato. C’è un bambino, o una bambina, che corre instancabilmente: il regista, Chris Milk, l’ha saggiamente abbigliato/a con una mantellina unisex provvista di cappuccio, in modo che ciascuno, uomo o donna, possa identificarsi nella stessa creatura. In altre finestre si muovono, viste dal satellite, immagini del luogo in cui siete cresciuti; e si popolano di alberi in crescita anch’essi, come il bambino o la bambina che continua a correre alzandosi di statura. Non ancora soddisfatti del commovente effetto, i creatori del programma vi invitano a scrivere o disegnare un messaggio da inviare al piccolo o alla piccola che siete stati: e anche questo vostro contributo, ornandosi di foglie e attraversato da uccelli in volo, diventa parte dello spettacolo riservato a voi e solo a voi: unico come è unico ciascun abitatore del mondo.E allora, se nel vostro animo siete ancora riusciti a conservare una piccola area di candore, quasi quasi vi spunta una lacrimuccia: soprattutto se il vostro luogo d’infanzia non si è nel frattempo alterato fino a diventare irriconoscibile, e se dio Google ha deciso di considerare “perfetto” l’indirizzo che avete caricato. Inutile aggiungere che la canzone è meravigliosa.


di Thom Yorke, Jonny Greenwood, Philip Selway, Ed O’Brien, Colin Greenwood. Album: Kid A. Parlophone, 2000.

Questo «inno nazionale» sarcastico, furente come un’improvvisazione di free jazz, è indisgiungibile dal resto dell’album, che va apprezzato nella sua integrità. Da OK Computer in poi, i progetti dei Radiohead suonano come ambiziosi affondi critici nell’era che attraversiamo. Le loro metafore musicali dipingono – è il caso di dirlo, grazie a una elevata capacità di generare immagini visive – una condizione collettiva in pieno sfascio. Il loro oggetto di indagine è l’umanità degli anni duemila alle prese con la dimensione globale e le sue prospettive meno incoraggianti: omologazione, perdita planetaria d’innocenza, catastrofe delle utopie… Tutto ciò non è esplicitamente dichiarato: i Radiohead non scrivono canzoni-manifesto. Sono ellittici, obliqui, talvolta ermetici. Kid Aracconta lo straniamento di un bambino clonato nel mondo che lo circonda, il nostro. Il suo smarrimento è simile a quello dell’androide paranoico di OK Computer, reduce da un incidente e da un coma profondo.
Radiohead.




di Patti Smith, Oliver Ray. Album: Trampin’. USA. Columbia, 2003.

direttamente in studio. Ho cercato di esprimere la rabbia impotente di una madre irachena la notte in cui gli americani hanno scaricato sulla città un diluvio di fuoco. Le parole sono venute da sole: la madre canta una ninnananna ai suoi figli, per celebrare la grandezza della sua terra.» Solidarietà tra madri: anche Patti ha avuto il suo momento di terrore, il fatale mattino dell’11 settembre 2001, quando – abitando a New York nel quartiere di Soho, a venti minuti a piedi dal World Trade Center – viene svegliata dal fragore della prima torre colpita dal cielo, e si precipita in strada per accertarsi che nulla sia accaduto a sua figlia. Come l’intero album di cui fa parte, Radio Baghdadè l’ennesima prova non solo della coerenza poetica e morale di Patti Smith, ma anche della straordinaria capacità del rock d’autore di penetrare, quando vuole, nelle viscere del presente.

© Pasquale Barbella (3 – Fine)



Patti Smith nel 2000. Foto: Steven Sebring/AP.



Di fede si muore

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Jacques-Louis David, La morte di Socrate, 1787. The Metropolitan Museum of Art, New York.


Salvezza eterna, secondo il cristianesimo. Verità assoluta, secondo i seguaci di qualsiasi credo. Oppio dei popoli, secondo Marx. Una cosa è certa: con le religioni siamo tutti chiamati a misurarci, volenti o nolenti. Non solo per aderirvi o negarle, ma perché si occupano di materiale infiammabile: l’idea del bene e del male, la coscienza individuale e collettiva, la storia con i suoi – spesso atroci – sbandamenti.

La ragione pone domande, la filosofia e le scienze indagano, le religioni forniscono risposte. In queste risposte c’è la loro forza, ma anche la loro debolezza. La fede è un cocktail di assenso (stavo per scrivere “assenzio”) e convinzione che delegittima il dubbio e l’eresia. Tra fede e ragione sorgono conflitti a volte insormontabili. La fede rivendica spesso la sua incompatibilità con la ricerca e le acquisizioni scientifiche.

Molte religioni esigono militanza e schieramento. Adesioni totali, o radicali opposizioni. Sono in ballo l’esistenza e il ruolo degli dèi, uno o più di uno a seconda dei tempi e delle latitudini. Esistenza inverificabile con gli strumenti, mentali e tecnologici, a nostra disposizione.

L’inverificabilità non esclude, di per sé, l’esistenza di entità trascendenti. Se non si può verificare l’esistenza di X, non si può verificare nemmeno il suo contrario. A seguire questa logica, professarsi atei è altrettanto irrazionale che professarsi fedeli.

Félix Vallotton, Giacomo Leopardi, 1895. La Revue blanche, Bibliothèque nationale de France.


Il problema irrisolto, e probabilmente irrisolvibile, sta nei limiti stessi del pensiero umano: delle sue categorie, della sua meccanica immaginativa. Ci sforziamo di visualizzare il divino, e lo facciamo applicando i parametri che ci sono familiari. Tendiamo ad attribuire al dio, esistente o inesistente che sia, non solo sembianze umane (per quanto molte religioni, specialmente le più diffuse, sconsiglino un simile arbitrio), ma soprattutto pensieri, volontà, progetti, poteri, giudizi e altre prerogative proprie della nostra forma mentis. Perché un dio, se c’è, dovrebbe essere “buono”? Perché dovrebbe prendersi la briga di premiarci o punirci? Perché mai dovrebbe “pensare” e “volere”, e addirittura “pensare” e “volere” come noi?

Le religioni nascono dal bisogno di spiegarsi e ingraziarsi l’ignoto, spesso terrificante. La loro origine e il loro sviluppo seguono percorsi di cui non è insensato intuire il processo. Obbligato a sperimentare e fronteggiare continuamente l’enormità di fenomeni fuori controllo – la malattia, la morte, la tempesta, il terremoto, l’inondazione, l’ostilità della natura e persino quella dei suoi simili – l’uomo della caverna cerca verità e scampo come può: con l’empirismo, la superstizione, la personificazione del divino (inteso come mittente e regolatore di tutto ciò che è misterioso), la fondazione di regole di comportamento. L’idea nuda del bene e del male nasce così: è bene ciò che è utile a favorire la sopravvivenza, è male ciò che la minaccia. Sopravvivere è – o dovrebbe essere – il massimo bisogno (la “priorità”, direbbero i politici) di qualsiasi individuo e di qualsiasi specie: l’umana non fa eccezione e, stando a quel poco che sappiamo immaginare, è possibile che sia – tra le specie a noi note – la più dotata di consapevolezza. Ma anche qui siamo sul friabile terreno delle congetture. Noi abbiamo un’idea della consapevolezza che è diversa da quella di un gatto o di una formica. Noi diamo valore alla consapevolezza perché fa parte delle nostre categorie di pensiero, ma ignoriamo cosa sia realmente importante – oltre alla sopravvivenza – per un lepidottero.

Giorgione, I tre filosofi, 1508. Kunsthistorisches Museum, Vienna.


Coscienza singolare e coscienza plurale.

Jorge Bergoglio (Francesco I) è un papa che si esprime in modo insolito. Il 9 settembre 2013 il quotidiano la Repubblica ospita una sua imprevista, e dunque sorprendente, lettera di risposta a una serie di quesiti dottrinali postigli da Eugenio Scalfari. Come altri gesti del pontefice, anche questo è significativo di un’apertura al dialogo con i non credenti: una volontà che non fa parte delle consuetudini tradizionali della Chiesa cattolica, se si esclude la parentesi innovativa del concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII e in vari modi ricacciato nell’ombra dai suoi successori. La lettera a Scalfari, già un evento di per sé, contiene almeno un paio di riflessioni esplosive, proprio perché provenienti dalla massima autorità del cristianesimo:

«[...] la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza.»

«[...] io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione.»

La prima dichiarazione prende atto di una separazione plausibile tra le convinzioni dogmatiche (e rituali) e la nozione di coscienza. Dice: puoi anche non riconoscerti (anche se mi dispiace) nel creazionismo, nel frutto proibito, nella verginità della Madonna, nella Trinità e in tanti altri valori oggetto di fede; ma sei dotato di coscienza, e la coscienza ti indica chiaramente ciò che è bene e ciò che è male. Il peccato, ovvero la colpa, consiste nel disattendere a una normativa interiore, stampata a chiare lettere nella coscienza di ogni singolo essere umano. Anche se pensi che non si tratti di dono divino ma di dotazione biologica, la coscienza ce l’hai tale e quale a quella di un credente, e vale per te ciò che vale per lui: hai dentro una voce che ti orienta, che ti aiuta a sistemare le azioni nel portfolio del bene o in quello del male. Attuare il bene o il male è una tua scelta; in caso di devianza sarà la tua stessa coscienza a processarti e giudicarti, almeno in primo appello.

Nutro dubbi persino sulla mia esistenza, oltre che su quella di Dio, e sono perciò l’interlocutore meno indicato del papa e del popolo dei fedeli. Posso dire, ma solo per quanto riguarda me stesso, che non ho alcuna difficoltà a condividere il set di principii costituiti dal decalogo cristiano. I dieci comandamenti coincidono con la mia idea del bene e del male. La mia coscienza non ha nulla da ridire in proposito; e, sì, mi processa e mi giudica ad ogni passo, mi rimprovera le contraddizioni in cui vado a cacciarmi, mi squaderna divieti e tabù, mi tratta con severità a volte feroce, salvo beatificarmi quando altri mettono in scena nefandezze talmente gravi da farmi sentire immacolato.

Henri Martin, Le Philosophe.

L’idea di una coscienza unica e invariabile, comune a tutti gli individui e in tutti operante allo stesso modo, è consolante ma smentita ogni giorno dai fatti. Il ragazzo che si cinge di tritolo e si fa saltare per aria insieme a una folla di sconosciuti, quali rapporti ha intessuto con la sua coscienza? Egli si reputa, non solo a parole ma nel profondo di sé stesso, “martire” al servizio di un ideale supremo; per dimostrarlo non esita a giocarsi la vita, a immolarsi insieme alle vittime del suo gesto. Non ha tradito la suacoscienza: le ha obbedito fino in fondo, ne è stato permeato in modo estremo, si è votato ad essa in via definitiva e senza ritorno. Piacerebbe pensare – e in parte è così – che la sua coscienza sia stata manipolata da terzi, influenzata da particolari congiunture politiche e culturali; che a muovere il suo atto non sia stata la coscienza originale ma un suo derivato spurio e mendace, un falso, un’imitazione, una contraffazione. Ma il fatto che la coscienza sia manipolabile, plasmabile, falsificabile alla stregua di una banconota da venti euro, la spoglia di autorevolezza: neanche di lei, insomma, ci si può fidare, perché il suo grado di autenticità può aver subìto alterazioni e avarie sotto la spinta di agenti esterni e incontrollabili. Può anche darsi che la mia adesione ai principii che dicevo, quelli del decalogo o più genericamente cristiani, non sia del tutto spontanea ma indotta, chissà in quale misura, dall’ambiente culturale in cui sono nato e cresciuto.

René Magritte, La Lampe philosophique, 1936. Collezione privata.


A meno che.

Però mi dico: quel set di principii ha anche un valore laico e civile; se tutti vi si attenessero scrupolosamente, la convivenza collettiva ne guadagnerebbe. Messi insieme costruiscono la portentosa utopia di una civitas luminosa, amichevole e immensa, senza ladri e assassini, senza prepotenti e traditori, senza guerre e sopraffazioni, senza abusi e violenze, senza bugie. Il dio che parla in prima persona, e che dice «non avrai altro dio all’infuori di me», potrebbe essere – perché no? – la coscienza stessa. Ma abbiamo detto che la coscienza parla con più di una voce, e che non ci è dato distinguere tra la voce vera e le sue simulazioni. Da qualche parte il conto non torna, e il teorema fa acqua.

A meno che non sia proprio la natura plurale delle coscienze a rivelarci qualcosa. Proviamo per un po’ a immaginare la coscienza non come un monolito immobile, un blocco singolare e massiccio di roccia infrangibile, ma come un masso che rotola dall’alto della montagna e si frantuma in mille pietre più piccole: frammenti di un’unica coscienza originaria sottoposti nella caduta a traumatici stress. Ora usciamo di metafora e concentriamoci sull’uomo primitivo e sulle forme più arcaiche di comunità. Quale doveva essere l’imperativo categorico di uomini e donne primordiali, se non di sopravvivere a costo di sacrifici e tattiche in un ambiente naturale non sempre generoso e amichevole, spesso anzi tremendamente ostile? A che gli serviva un dna, se non a insegnargli e ricordargli che nell’acqua, nel fuoco, nel precipizio si muore, così come si può morire di fame, di sete, colpiti da un fulmine, azzannati da una belva? Quegli uomini, quelle donne, quei bambini non dovettero presto imparare un’altra cosa, cioè che da soli si muore più facilmente? La coscienza atavica, la stessa che ci insegnò a non buttarci a capofitto nel burrone, ci suggerì che la solitudine ci rendeva più vulnerabili di quanto già non fossimo. E ci incoraggiò a familiarizzare con altri, a istituire famiglie e clan con cui condividere l’esistenza e le strategie di autodifesa, di approvvigionamento, di scambio. Anche ad essere soltanto in due, si ha necessità di negoziare, stabilire e condividere regole perché quegli obiettivi (autodifesa, approvvigionamento, scambio) possano essere perseguiti senza ostacoli. Allora non è difficile far combaciare i bisogni e le regole dei nostri più remoti antenati con l’idea di una coscienza collettiva, una coscienza della specie. Una coscienza elementare, trasparente, che ti sussurra: «Guardati bene dal rubare la carne secca al tuo vicino, o a mettere le mani su sua moglie, o a uccidergli il figlio, perché, se lo fai, tutto ciò che hai avuto interesse a costruire con loro, e tutti i vantaggi vitali che te ne sono derivati, si squaglieranno come neve al sole. E dovrai ricominciare daccapo il tuo impervio cammino.» I primi comandamenti non scritti, non scolpiti su alcuna lastra, dovettero imprimersi come chiodi nella “coscienza” dell’homo sapiens, o addirittura formarla, plasmarla dal nulla; e dico homo sapiens pentendomene subito, perché se quella, come sto ipotizzando, è l’origine della coscienza, non posso non ammettere che tutte le specie viventi, piante comprese, devono per forza essere state dotate di un analogo sistema operativo, mirato alla conservazione della specie. Le cicorie sanno sopravvivere come e meglio di noi e delle mosche, e l’unica differenza tra le cicorie (o le mosche) e noi sta – probabilmente – nel fatto che durante l’evoluzione l’uomo ha sviluppato capacità ulteriori, quelle del ragionamento e dell’arbitrio, talenti che gli consentono non solo di modificare a piacere l’ambiente in cui vive ma anche di sgarrare allegramente dalle regole che si è dato.

Le coscienze dell’uomo cominciano a moltiplicarsi. Prima la coscienza solitaria, non diversa da quella stampata nel nucleo primario della cicoria e della mosca; poi la coscienza sociale (già politica), quella del compromesso stipulato coi propri simili, ma ancora così grezza da non distinguerci nettamente dalle comunità di api, lupi, formiche. Che cosa può essere successo, dopo?

Vediamo. Il clan prospera felice e contento nel suo reticolo di caverne finché non succede qualcosa di scioccante. O uno di loro tradisce la compagnia per ottenere più privilegi di quelli che ha, o un’altra tribù arriva a guastare l’idillio. Cacciatori in crisi, per esempio, che non sono riusciti a mantenere dignitosamente il proprio clan, o che trovano meno faticoso rubare la carne che procacciarsela in proprio. Scontro di coscienze strutturalmente simili, ma è guerra. I vincitori hanno bisogno di giustificarsi, perché devono aver infranto qualche tabù. Hanno inventato un altro principio: mors tua, vita mea. Ma vogliono farsene una ragione. Notano che gli sconfitti avevano eretto da qualche parte, nei pressi del loro habitat, una clava a forma di pene, per ingraziarsi gli dei della fertilità. Sostengono che quella clava è un insulto ai veri dei della fertilità: questi hanno insegnato che il corretto modo di pregare è mettersi in testa una pelle di lupo, e d’ora in poi tutti gli adoratori della clava e del pene dovranno essere sterminati in nome degli dei, e tutte le risorse degli sconfitti potranno costituire un sacro bottino di guerra.

Sia come sia, le coscienze del terzo stadio – macigni franati e sbriciolati ad uso di assalitori esterni o dissidenti interni – si adattano e consolidano placidamente, oserei dire puttanescamente, ai bisogni crescenti delle supremazie di turno, vincitore dopo vincitore, fino a formare un dissonante super-habitat geopolitico di tutti contro tutti. Il processo sembra non avere mai fine. Ma sono ancora le regole d’inizio, le più antiche, a garantire – utopisticamente – la sopravvivenza della species in quanto tale. L’uomo, paradosso della natura, tende a tradire la propria specie di appartenenza, decretando la sottomissione o l’estinzione progressiva dei suoi simili per profittare più comodamente delle risorse disponibili.

Edouard Manet, Le Philosophe, 1867. Art Institute of Chicago.

Deduco, ergo sum.

Da un’analisi siffatta si possono trarre alcune deduzioni:

  1. Non si può dare per scontata l’idea di un’unica coscienza umana, regolatrice assoluta di permessi e divieti. Più ragionevole è pensare a una “trinità” di coscienze: universale (legata alla specie); tribale (influenzata da economie, patrie, territori e religioni); individuale (il codice morale della singola persona, altamente influenzabile da fattori contingenti);

  1. I principii naturali della specie (“coscienza universale”), mirati alla sua sopravvivenza e al suo equilibrio, sembrano coincidere con i principii fondamentali del cristianesimo («ama il prossimo tuo come te stesso»);

  1. Le alterazioni e derivazioni ideologiche di quei principii, mirate culturalmente alla sopravvivenza e al benessere di una parte della specie, sono all’origine della conflittualità e partecipano al suicidio della specie.


Ivan Kramskoj, Ritratto del filosofo Vladimir Solov’ëv, Museo Russo, San Pietroburgo.

Verità assolute e verità relative.

La dichiarazione del papa sull’implausibilità delle “verità assolute” suona fortemente laica, del tutto anticonvenzionale rispetto alle posizioni mantenute a oltranza dalla chiesa. Detta da lui, quella frase è una scintilla a dir poco rivoluzionaria. Un’eresia, ma di quelle buone, che possono aggiustare molti guasti del mondo. A partire dalla riduzione delle distanze tra credenti e non.

Viviamo in un momento storico in cui non esiste più la figura del “grande statista”. Probabilmente non è mai esistita, giacché nessuno è perfetto e la politica, si sa, non può fare a meno dei compromessi. Ma l’idea del grande statista è stata spazzata via dalla tecnologia, una volta che la diffusione delle informazioni ha assunto dimensioni sconfinate e che non è più possibile, per i governanti, tenere troppo nascosti i segreti, le motivazioni, i calcoli, i giochi sullo scacchiere, le mire elettorali, gli scandali, le danze diplomatiche e – soprattutto – il rapporto tra verosimiglianza e propaganda. Assange docet. I cittadini perdono la privacy, ma la perdono anche le istituzioni. Se questo è il contesto, e se le classi al potere in ogni parte del mondo continueranno a commettere errori già troppe volte compiuti, lo screditamento in corso le corroderà in modo implacabile, giustificando una massiccia crescita degli anarchismi, delle rivolte e, sì, anche delle religioni militanti, sventolate a mo’ di bandiera per accrescere la belligeranza anziché contenerla.

Che il capo di una delle principali religioni monoteiste apra una porticina laica a speranze di unificazione, uguaglianza planetaria e giustizia collettiva è cosa buona e utile, specialmente per il fatto che offre questo spiraglio a tutti, indipendentemente da fedi, convinzioni e patrie. Lo statista ideale, in questo momento, è lui. Almeno finché dura. Perché non parla in nome di uno stato, ma in nome dell’umanità. Della specie, se non trova troppo insolente questo idioma darwinista.

Ma le intenzioni e le parole di una persona, foss’anche del pontefice, vorticano nel vuoto se il contesto è assordante. Gli interessi particolari – di stati, lobby finanziarie, gruppi di potere grandi e piccoli, massonerie, mafie e persino sincere compagini di idealisti e dissenzienti – esercitano sulle opinioni pubbliche una pressione più efficace di quella praticata dalla voce di un maître-à-penser. Può sembrare paradossale, ma – nonostante l’immensa fanship di cui dispone – persino Francesco I è un intellettuale “solitario”. I suoi appelli all’apertura culturale fanno meno rumore delle esortazioni, più tradizionali e generiche, alla santità e alla carità.

Michail Nesterov, I filosofi. Ritratti di Sergej Bulgakov e Pavel Florenskij, 1917. Museo Russo, San Pietroburgo.

La propaganda è nemica della filosofia. E viceversa.

La rimozione dei preconcetti – “tabula rasa” – è il presupposto essenziale di qualsiasi speculazione filosofica di qualche valore, ma anche di qualsiasi progetto di cambiamento concreto. Questa purificazione mentale, preliminare a ogni disegno innovativo di strategia morale, economica e politica, diventa sempre meno praticabile con l’incrementarsi mediatico delle propagande (il plurale è eccentrico, ma in questo caso più appropriato del singolare). La propaganda ha un vizio congenito: semina emozioni spacciandole per informazioni, principii e necessità collettive, e trova nei media il terreno ideale per ottenere una totale “sentimentalizzazione” delle opinioni. Risultato: irresistibile ascesa dell’opinionismo popolare e del twitting, espressi con pubbliche dichiarazioni di contenuto più viscerale che razionale. Le idee circolano e si scontrano con scarso rispetto non solo della logica, ma anche della documentazione. Parlare di tabula rasa in un mondo così virtualizzato e così focoso è impresa disperata. Tutti sembrano possedere la formula magica sui fatti salienti – terrorismo, intervento militare o pacifismo, conflitto Palestina-Israele, esodi e migrazioni, crisi economica etc. – come se il mondo stesso fosse regolato da ufo e signori degli anelli, e la geopolitica altro non fosse che un immenso videogame in presa diretta. Non è un caso se il genere letterario e spettacolare di maggior successo degli ultimi decenni sia proprio il fantasy. Siamo nel pieno di una harrypotterizzazione della realtà, abitata da maghi buoni e maghi cattivi. Agli effetti speciali universali partecipano politici e media, ma anche dietrologi appassionati e manovali del bene pubblico: tutti accomunati, però, da una propensione accentuata al sentimentalismo, usato dai furbi come droga da spacciare e dagli ingenui come dose da iniettarsi.

Giorgio De Chirico, Il poeta e il filosofo, 1915. Collezione privata.

Questo fa sì che tutti alzino la voce senza sapere, volere o potere misurare la qualità delle proposte, ammesso che ce ne siano di ragionevoli. Chi non ha fede nelle chiese ha fede in qualcos’altro, pronto a prendere per dogma qualsiasi fandonia gli venga somministrata. Di fede, di fedi, si muore.

Un esempio. Ritornano in auge, nel tempo presente, teorie – proclamate talvolta imperiosamente – su un ideale ritorno alla natura. Ritorno a origini così remote da risultare anteriori persino alla pastorizia e all’agricoltura, considerate, da un certo fondamentalismo naturalista, come minacce culturali all’equilibrio originario della specie. Sono tesi più facili da esporre che da trasformare in progetto, ed è meglio così, perché l’attuazione pratica di un simile programma di decivilizzazione comporterebbe distruzioni e genocidi a catena.

Un altro tema di grande attualità è la cosiddetta crisi delle democrazie. Le democrazie tendono a contraddirsi. Se una democrazia europea varasse un referendum sull’immigrazione, è assai probabile che vinca la fazione di quelli che vorrebbero sbarrare il passo ai nuovi arrivati. In tal caso avremmo un eccesso di democrazia (il referendum) che esprime un eccesso di antidemocrazia (espellere i poveracci). Non è fantascienza: è Svizzera. E potrebbe essere Italia, o qualsiasi altro paese vi venga in mente. Esiste, da qualche parte, un metodo correttivo, possibilmente antiautoritario, per prevenire le contraddizioni delle democrazie? Probabilmente sì: sono le costituzioni nazionali. Ma funzionano solo a condizione che vengano rispettate o, se imperfette, migliorate.

© Pasquale Barbella.


Un manifesto di Harry R. Popps, 1917.


Bidone Aspiratutto

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Prossimamente Dixit Café pubblicherà una storia della STZ, agenzia pubblicitaria fondata a Milano nel 1975 da Hans-Rudolf Suter, Fritz Tschirren e Valeria Zucchini. Come anticipazione mostriamo qui una parte della campagna per l’aspirapolvere Bidone Aspiratutto, prodotto dalla Alfatec. Gli annunci fanno parte di una serie di almeno cento pagine diverse, uscite sui maggiori periodici italiani nella seconda metà degli anni settanta e nei primi anni del decennio successivo. L’art direction è di Fritz Tschirren, le illustrazioni di Roberto Molino. I testi sono di mani diverse: quelli di questa galleria li ho scritti io, talvolta con interventi di Suter. L’impostazione cita, a mo’ di parodia, le notizie di cronaca illustrate da Walter Molino e altri artisti, che caratterizzavano le copertine della Domenica del Corriere e della Tribuna Illustrata, settimanali d’altri tempi. Lo stesso stile fu applicato successivamente all’ultima pagina di Grand Hôtel, rivista alla quale a lungo collaborò Walter Molino, con copertine e romanzi illustrati, prima che la fotografia soppiantasse quasi del tutto, nei periodici per adulti, l’opera dei disegnatori.


P.B.










































Bevo Jägermeister perché

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Prossimamente Dixit Café pubblicherà una storia della STZ, agenzia pubblicitaria fondata a Milano nel 1975 da Hans-Rudolf Suter, Fritz Tschirren e Valeria Zucchini. I tre provenivano dalla GGK, agenzia che ebbe una significativa influenza sulla loro formazione. Del periodo GGK pubblichiamo qui alcuni annunci della campagna Jägermeister, che vide Suter e Tschirren coinvolti direttamente. Chiunque si riconosca in una di queste facce, o riconosca una persona a lui/lei nota, sia così gentile da postare il suo nome nel riquadro dei commenti. Chiunque disponga di altri annunci della serie farà cosa gradita postandone copia – in buona risoluzione – sulla pagina Facebook The Advertown Page.  

P.B.


Alberto Baccari.


Pasquale Barbella.

Sergio Neri Pelo.


Hans Suter.



Pia Elliott.






Paolo Zanussi.


Andrea Concato.



Enzo Baldoni.






Uomo di Panarea.








Diavoli al crocevia

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Robert Johnson, probabilmente nel 1935.


Crossroads

Cross Road Blues, noto anche come Crossroads, Crossroads Blues, Standing at the Crossroads, è il più famoso dei ventinove blues lasciatici da Robert Johnson, artista circondato da un alone di mistero e leggenda. La incise, con voce e chitarra, il 27 novembre 1936 a San Antonio, nello studio improvvisato in una camera d’albergo, sotto la supervisione di Don Law, talent scout e producer dell’American Record Corporation. L’intera discografia di Johnson si riduce a cinque sedute: tre nel novembre 1936 a San Antonio, due nel giugno 1937 a Dallas. Prima e dopo, il Delta del Mississippi da cui proveniva, e una morte da romanzo nero.

Secondo alcune versioni non si era mai spostato dall’area di Robinsonville, Mississippi, prima di essere trascinato nel Texas per quei dischi; secondo altre condusse una movimentata vita da hobo, saltando da un treno all’altro con l’inseparabile chitarra. Secondo Law, Johnson non aveva più di diciassette-diciott’anni all’epoca della prima tasferta; secondo altri, che non lo avevano però mai visto di persona, era prossimo alla trentina. Le biografie più recenti e accreditate lo danno nato nel 1911 ad Hazlehurst, Mississippi, e morto ventisette anni dopo, nel 1938, a Greenwood, nello stesso stato. Di certo c’è solo che il ragazzo aveva qualche problema (timidezza, alcool, superstizioni, ossessioni sessuali) e si cacciava nei guai con disarmante puntualità. La prima notte a San Antonio, alla vigilia dell’incisione, si fa arrestare per vagabondaggio (nonostante la promessa di non uscire dall’albergo e di farsi una bella dormita), e da quelle parti la polizia non è gentile con i neri: calci, schiaffi, manganellate. Don Law si precipita a versare la cauzione, a tirarlo fuori dalla gabbia, a riaccompagnarlo in albergo; ma è presto disturbato di nuovo, da una telefonata notturna di Robert che ora «si sente troppo solo» e gli manca un nichel per pagare la lady magicamente comparsa in camera sua.

Belzoni, Delta del Mississippi, ottobre 1939. Una foto di Marion Post Wolcott inquadra un cinematografo con l’ingresso riservato agli spettatori di colore.

Donne, diavoli e blues attraversano la vita, i testi e il canto di Robert Johnson traducendosi in una sensazione di pericolo imminente. Di tutte le sventure di cui è tessuta la stoffa del blues, quelle che lamenta lui sono impalpabili e per questo più allarmanti: si nutrono di una disperazione imprecisa, sentimentale ma spesso abbagliata da incubi e visioni da brivido.

La melodia di Crossroads ricorda quella di Straight Alky Blues di Leroy Carr (Vocalion, 1929). Ma Crossroadsè comunque «il blues forse più bello tra tutti quelli d’anteguerra» secondo Fabrizio Venturini, che ne fa un’accurata analisi mettendone in evidenza, tra l’altro, due nuclei semantici: «il desiderio di fuga di fronte alla barbarie razzista e l’impegno di farne testimonianza ai posteri.»[1]

I went to the crossroad
Fell down on my knees
I went to the crossroad
Fell down on my knees
Asked the Lord above «Have mercy, now
Save poor Bob, if you please.»
Yeeh, standin’ at the crossroad
Tried to flag a ride
Yeeh
I tried to flag a ride
Didn’t nobody seem to know me, babe
Everybody pass me by.
Standin’ at the crossroad, baby
Risin’ sun goin’ down
Standin’ at the crossroad, baby
Risin’ sun goin’ down
I believe to my soul, now
Po’ Bob is sinkin’ down.
You can run, you can run
Tell my friend Willie Brown
You can run, you can run
Tell my friend Willie Brown
That I got the crossroad blues this mornin’, Lord
Babe, I’m sinkin’ down.
And I went to the crossroad, mama
I looked East and West
I went to the crossroad, baby
I looked East and West
Lord, I didn’t have no sweet woman
Oh well, babe, in my distress.
Sono andato al crocevia
sono caduto in ginocchio
sono andato al crocevia
sono caduto in ginocchio
ho chiesto al Signore lassù: «Abbi pietà, adesso
salva il povero Bob, per favore.»
Sì, in piedi al crocevia
ho provato a rimediare un passaggio
oh, sì
ho provato a rimediare un passaggio
ma nessuno sembrava accorgersi di me
se la filavano tutti lasciandomi qui.
In piedi al crocevia, baby
sole che nasce, sole che tramonta
in piedi al crocevia, baby
sole che nasce, sole che tramonta
l’anima mia mi dice adesso, e ci credo,
che il povero Bob sta per affondare.
Puoi correre quanto vuoi
e dire all’amico Willie Brown
puoi correre quanto vuoi
e dire all’amico Willie Brown
che stamattina mi è venuto il blues del crocevia, o Signore
e adesso sto per affondare.
E sono andato al crocevia, mamma
ho guardato a est e ovest
sono andato al crocevia
ho guardato a est e ovest
Signore, non c’era nemmeno la dolcezza di una donna
a farmi compagnia nella disperazione.

Commenta Venturini: «Il brano in questione, anche se non sembra, si riallaccia al satanismo alienante del blues, di cui Robert Johnson è stato senza dubbio il massimo esponente. Nel mondo magico-misterico delle comunità contadine neroamericane, ma anche a Trinidad, a Haiti, in Brasile, in Guayana, e soprattutto in Africa Occidentale, i crocicchi rappresentavano infatti il luogo [...] favorito per le pratiche di magia nera. Se una persona desiderava esservi iniziata doveva recarsi presso un crocicchio e pregare il Diavolo almeno per nove giorni e nove notti, dopodiché il Maligno si sarebbe manifestato personalmente. In Crossroads Blues l’autore mascherò l’epifania diabolica in un sistema di attese pregevolmente costruito, che avvicina il terrorizzato protagonista a un Faust neroamericano giunto alla resa dei conti.»[2]

«[...] nella cultura degli africani americani, il crocevia è anche il luogo mitico dove, poco prima della mezzanotte, l’aspirante bluesman attendeva l’arrivo del “grosso uomo nero” (nelle origini yoruba, il dio Legba, la divinità che presiede all’indecisione e alle scelte di vita; nella versione cristiana, chissà perché?!, il diavolo), che – presagli di mano la chitarra e intonato qualche accordo – gli avrebbe insegnato a suonare. Di crossroadsè pieno il Mississippi, e soprattutto quest’area rurale che si stende a est del fiume, il cosiddetto Mississippi Delta [...]»[3]

C’è chi ha individuato il crocevia di Johnson a Clarksdale, all’incrocio tra la Highway 49 e la 61.

Clarksdale, Mississippi: il mitologico incrocio del diavolo.


Love in Vain

Peter Guralnick, nel suo bel libro su Johnson[4], sostiene che Love in Vain«è una non certo straordinaria ricopiatura di un tema di Leroy Carr e Big Bill Broonzy.» Si tratta di When the Sun Goes Down (in the Evening), incisa per la Vocalion nel 1935 da Leroy Carr, voce e pianoforte, con Francis “Scrapper” Blackwell alla chitarra, e ispiratrice di numerose varianti. Rimandi all’opera altrui non sono infrequenti nelle vicende del blues a Love in Vain si rifà vagamente, a sua volta, a una canzone di Bukka White, Sleepy Man Blues.

Greenwood, Mississippi. Cartolina d’epoca.

Rivitalizzata nel 1969 da una memorabile prestazione dei Rolling Stones (con Ry Cooder al mandolino), Love in Vainè diventata più famosa del suo pregevole modello, quello di Leroy Carr. Due amanti si danno l’addio in una stazione ferroviaria (stessa situazione di How Long, How Long Blues, altro capolavoro di Carr) per dare vita a uno dei blues più strazianti di Johnson:

And I followed her to the station
With a suitcase in my hand
And I followed her to the station
With a suitcase in my hand
Well, it’s hard to tell, it’s hard to tell
When all your love’s in vain
All my love’s in vain.
When the train rolled up to the station
And I looked her in the eye
When the train rolled up to the station
And I looked her in the eye
Well, I felt lonesome, I was lonesome
And I could not help but cry
All my love’s in vain.
When the train, it left the station
With two lights on behind
When the train, it left the station
With two lights on behind
Well, the blue light was my blues
And the red light was my mind
All my love’s in vain.
E l’ho seguita alla stazione
con una valigia in mano
l’ho seguita alla stazione
con una valigia in mano
beh, è dura a dirsi, dura a dirsi
quando tutto l’amore non serve
tutto il mio amore non serve a niente.
Mentre il treno entrava alla stazione
e la guardavo negli occhi
mentre il treno entrava alla stazione
e la guardavo negli occhi
beh, mi sono sentito solo, ero solo
e non riuscivo a frenare il pianto
tutto il mio amore non è servito a niente.
Quando il treno ha lasciato la stazione
con due luci sul retro
quando il treno ha lasciato la stazione
con due luci sul retro
beh, la luce blu era il mio blues
e la luce rossa era la mia mente
tutto il mio amore non è servito a niente.

Il treno, tema ricorrente nel blues come in tutta la canzone popolare nordamericana, non è mai stato più triste di così. Il treno e altri mezzi di trasporto segnano anche la breve esistenza di Johnson, assassinato nel 1938 a Greenwood, Mississippi, non si sa come né da chi: forse col pugnale o col veleno, forse da una donna o da un uomo tradito, forse — come volle una voce popolare — per scontare un patto col diavolo. «Dovunque andasse, in Arkansas o nel Mississippi, sulle colline o nel Delta, in città o fuori, tutti si ricordavano di lui. Viaggiava in autobus o in treno, si faceva dare passaggi dai camion e lo si poteva vedere qualche volta sdraiato sul retro dei carri per il grano tirati dai trattori. Talvolta lui e Johnny Shines (o altri più occasionali compagni) si mettevano in cammino lungo le statali oppure saltavano sui treni merci che uscivano dagli scali. Quando arrivavano in una nuova città suonavano agli angoli delle strade o di fronte ai negozi di barbiere, si sistemavano vicino a un ristorante o nella piazza principale e ristabilivano i contatti con le conoscenze locali per organizzare un party in qualche casa o una festa da ballo in una capanna nelle piantagioni fuori città.»[5]

Delta del Mississippi, anni trenta: bambini fotografati da Dorothea Lange.


Hellhound on My Trail

Secondo l’autorevole opinione di Guralnick, questo Cerbero sulle mie tracceè «il culmine dell’arte di Johnson nonché uno dei vertici universalmente riconosciuti di tutto il blues», e deriva come melodia da Devil Got My Woman di Skip James. «Per Hellhound on My Trail [...] Johnson utilizzò la caratteristica accordatura aperta in Mi di James per la prima e unica volta nel corso delle sue registrazioni. Le parole riprendono ed esplicitano la cupezza dell’accompagnamento secondo un canone emozionale che, per quanto ne so io, nessun altro bluesman ha mai cercato di riprodurre. Ecco perché, pur trattandosi del culmine artistico della carriera di Johnson, rarissimi furono i tentativi di reinterpretazione. Separate dalla musica, le parole non riescono a restituire il senso di vero e proprio terrore insito in questa canzone che, anche dopo moltissimi ascolti, pare sempre sorgere dal nulla.»[6]

I got to keep movin’
I got to keep movin’
Blues fallin’ down like hail
Blues fallin’ down like hail [...]
And the days keep on worryin’ me
There’s a hellhound on my trail
Hellhound on my trail…
Devo continuare a muovermi
continuare a muovermi
il blues viene giù come grandine
blues giù come grandine [...]
E i giorni continuano a darmi pensiero
ho un cerbero alle calcagna
un cerbero alle calcagna...

Di lì a pochi mesi il cerbero salda il conto con il braccato: Robert Johnson, bluesman vagabondo, viene tolto di mezzo a ventisette anni (ma c’è chi dice ventuno e chi di più) — probabilmente con un whisky avvelenato offertogli da un marito tradito (ma c’è chi dice da una donna) — a Three Forks, quindici miglia da Greenwood, Mississippi, e il suo nome va ad alimentare il repertorio delle leggende nere del Delta. Nel 1986 il regista Walter Hill cerca di ricostruire, in Crossroads (nell’edizione italiana Mississippi adventure), la vita incasinata di Robert Johnson, mito tra i più tenaci di tutta la storia della “musica del diavolo”. Ry Cooder provvede alla colonna sonora del film.


Discografia essenziale

Le incisioni di Robert Johnson (1936-1937) sono raccolte nel doppio album Robert Johnson: The Complete Recordings, Columbia.

Crossroads (con le sue numerose varianti) è stata ripresa, tra gli altri, da Elmore James and His Broomdusters (Flair 1954), John Hammond (Vanguard 1963), Homesick James (Sue Records 1964), Big Joe Williams (Milestone 1964), Eric Clapton and the Powerhouse (1966), Cream (Atco 1968), Derek and the Dominos (Polydor 1970), Hound Dog Taylor (Alligator 1973), Lynyrd Skynyrd (MCA 1976).

Tutte le incisioni di Leroy Carr (1928-1937) sono state raccolte e ripubblicate dalla Document Records e altre etichette specializzate. La sua versione originale di When the Sun Goes Down (in the Evening)è stata incisa con Scrapper Blackwell per la Vocalion nel 1935, e ripresa da artisti come Ella Fitzgerald (Decca 1950), Big Bill Bronzy (1951, Raretone), Leadbelly (Stinson 1952), Joe Williams con Count Basie e la sua orchestra (Clef 1954), Little Brother Montgomery (Ebony 1959), Eartha Kitt (London 1959), Champion Jack Dupree (Storyville 1960), Lou Rawls (Capitol 1962), Ray Charles (ABC-Paramount 1963), Pete Seeger (Stinson 1963), Lightnin’ Hopkins (Prestige 1964), etc. Con il titolo Love in Vain dai Rolling Stones (Decca 1969), dai Faces (Rhino 1971), da Keb Mo’ (550 Music 1998), da Peter Green (Artisan/Edel 1998) e altri.

Hellhound on My Trailè stata ripresa da Big Joe Williams (Milestone 1966), i Fleetwood Mac (Epic 1968), David Rea (Capitol 1969), Alexis Korner (Warner Bros. 1972), Sam Mitchell (Kicking Mule 1978), etc.

P.B.






[1]F. Venturini, Sulle strade del blues. Una mappa storica della musica rurale afroamericana, Gammalibri, Milano 1984.
[2]F. Venturini, Op. cit.
[3]Mario Maffi, Mississippi, Rizzoli, Milano 2004.
[4]P. Guralnick, Searching for Robert Johnson, Dutton, New York 1989; ed. it. Robert Johnson: In cerca del re del blues, Arcana, Milano 1991.
[5]P. Guralnick, op. cit.
[6]P. Guralnick, op. cit.


Polvere di stelle

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Tutte le foto qui riprodotte sono tratte dal libro David Bowie. La biografia, Fratelli Gallo Editori, Roma 1983.

Ho frequentato più concerti rock da tutore (fratello maggiore, padre) che da semplice fan. Il ruolo di guardia del corpo mi ha sempre procurato qualche apprensione, sciupando in parte il gusto dell’esperienza. Cacciarsi in uno stadio sovraffollato non è come accomodarsi alla Scala, specialmente per chi, come me, vede la folla come un nemico: l’iceberg del Titanic, la balena di Achab, Godzilla. «Mai più concerti all’aria aperta», avevo giurato a me stesso nel lontano 1966, quando all’Arena di Milano un uragano da tropici impedì a Joan Baez di andare oltre la prima canzone e per poco non annegai in piedi, investito da un tornado di rami, foglie e fango. Chiesi a mia sorella se preferisse morire calpestata o affogata. «Affogata», rispose laconicamente. C’era una sola uscita e, per non farci travolgere dal mucchio selvaggio in preda al panico, indugiammo a lungo prima di sgusciare fuori dall’apocalisse.

Il tempo, si sa, aggiusta tutto. Era il 10 giugno 1987. Mia figlia, allora adolescente, mi aveva fatto promettere con settimane d’anticipo che l’avrei accompagnata a San Siro, al concerto di David Bowie. A meno di due chilometri in linea d’aria, a Lampugnano, si esibiva Peter Gabriel. Cinque giorni prima, a San Siro c’erano stati i Duran Duran: anche di quelli mia figlia era perdutamente innamorata, ma costretta a scegliere optò per Bowie, che piaceva anche a me. Andavamo ogni tanto ai concerti rock, i miei ragazzi ed io; per me si risolvevano in una delusione, perché volevo vedere e ascoltare gli artisti senza vedere e ascoltare il pubblico danzante e urlante. Non avevo più l’età per quella liturgia, anzi non mi era mai andata giù; da giovane andavo ai concerti jazz, in teatri e club a misura di poche centinaia di spettatori, e quella era la mia dimensione preferita.

Purtroppo la serata di Bowie non fu entusiasmante. Non per colpa sua. Per stare lontano dalla ressa (65mila tifosi impazziti), ed evitare a me e a mia figlia di farci annichilire da quell’orda di baccanti, andammo a sistemarci nella parte dello stadio più lontana dal palco. La voce e i suoni della band giungevano alle nostre orecchie orrendamente distorti dal vento. Era come ascoltare l’oceano in una notte di tempesta, da un riparo situato a debita distanza dai frangenti. Ondate di suono intermittente fluttuavano ora in questa, ora in quella direzione, producendo altalene di volume e distonie tali da rendere irriconoscibili Heroes e China Girl.

Col senno di poi, e ripensando ai miei malumori di allora, credo adesso che quella dispersione spaziale si addicesse perfettamente a Ziggy Stardust. Bowie era nato per le astronavi, le levitazioni, le girandole lunari, le cronache marziane: Space Oddity, Life on Mars?, Starman, la polvere di stelle e gli Spiders of Mars, il film di Nicolas Roeg L’uomo che cadde sulla Terra....Era un rocker orbitante e senza peso corporeo, galattico anche d’aspetto. Space Oddity l’aveva scritta, a ventidue anni, subito dopo aver visto 2001: Odissea nello spazio. Il film di Kubrick lo aveva fortemente impressionato (oddity richiama foneticamente odyssey). La usò per un cortometraggio sperimentale prodotto da Kenneth Pitt, intitolato Love You Till Tuesday (come la canzone e l’album che aveva appena pubblicato senza successo). Concepito per essere venduto a qualche emittente televisiva, il filmato – una delle tante iniziative fiorite nei circuiti underground di Londra – fu rifiutato dalle tv perché troppo fuori dagli schemi correnti. Si trattava di uno spettacolo di mimo e canzoni: specialità entrambe care a Bowie, semisconosciuto ma iperattivo, che aveva preso lezioni di mimo da Lindsay Kemp e si era fatto assumere nella sua troupe. Dopo l’esperienza con Kemp, aveva fondato anche una piccola compagnia, The Feathers. Nella sequenza di Love You Till Tuesday studiata per Space Oddity, Bowie indossa una tuta da astronauta e si aggira in una capsula spaziale: quasi un anno più tardi, quando la canzone troverà un formidabile aggancio promozionale nella missione Apollo 11 e Neil Armstrong sbarcherà sulla luna, la sequenza sarà estrapolata dal cortometraggio e usata all’infinito come videoclip.

Nel luglio 1969, una settimana prima dell’allunaggio, Space Oddity esce finalmente allo scoperto con un 45 giri Philips prodotto da Gus Dudgeon e ottimamente arrangiato da Paul Buckmaster. Bowie canta e suona lo stilofono, inventato due anni prima da Brian Jarvis: una tastierina da sollecitare con la penna elettronica. Ci sono anche Herbie Flowers al basso, Rick Wakeman al mellotron, Terry Cox alla batteria e Mick Wayne alla chitarra. Ed è la canzone giusta al momento giusto. La BBC la adotta come sigla del suo programma sull’impresa di Armstrong e compagni. Le radio la trasmettono in continuazione. Sebbene il testo di Space Oddity non sia il più adatto a celebrare l’euforia della Nasa e di milioni di individui stupefatti ed esaltati da quell’impresa solenne, il brano schizza in orbita insieme all’Apollo 11 e vi rimane tenacemente abbarbicato.

Non era dunque importante, forse, ascoltare Bowie come lo si ascolta su un disco. L’aria, il vento, la Luna esigevano la loro parte, agire da protagonisti al concerto, distorcerne allegramente i suoni e creare echi sghembi sotto il firmamento, ridendosela di me. I concerti al chiuso – in quel tendone milanese ora dismesso che si chiamò PalaTrussardi, PalaVobis, PalaSharp – erano più congeniali alle mie esigenze di intimismo asociale, ma dovevo ogni volta improvvisare una tattica di autodifesa. Per Paul Simon e i sudafricani di Graceland ero riuscito a ottenere posti di tutto rispetto: in prima fila e centrali. Ma appena lo show ebbe inizio, una fiumana di teenager festanti venne ad accalcarsi sotto il palco, per poter strillare, ballare e agitare le braccia a proprio piacimento. Mi avevano rubato tutta la visuale, senza però prevedere la mia controffensiva. Fuori, per mia somma fortuna, pioveva. Avevo con me un ombrello, e con quello presi a sciabolare alla cieca la turba degli usurpatori di spazio, finché non si ricreò davanti ai miei occhi la prospettiva per cui avevo pagato. In altre occasioni ho seminato schiaffi di carta, adoperando un quotidiano come arma contundente (una versione personale della libertà di stampa). Il concerto meno traumatico per me e per chi ha avuto la ventura di venirmi tra i piedi è stato quello di Prince: straordinario sia per la performance sia per la relativa quiete in cui si svolse.

L’ultimo concerto rock fu, per me, quello dei Cure. Non ricordo l’anno. Il pubblico era composto esclusivamente di minorenni e mi sentivo terribilmente fuori luogo, anche se la musica mi piaceva un sacco. Una ragazzina, durante l’intervallo, mi fissò incredula e mi chiese se fossi un giornalista. «Perché?», domandai a mia volta, con una copia de la Repubblica in grembo (l’avevo portata per precauzione, ma non ebbi bisogno di brandirla). Rispose: «Così.» E distolse lo sguardo.

Fu allora che decisi per la seconda volta di non andare più ai concerti rock. Del resto, i miei figli non avevano più bisogno di accompagnatori adulti. Adesso, da nonno, chissà.

Ho divagato e divagato, invece di concentrarmi su David Bowie. Ma che importa? Il mondo è pieno di biografi e critici specializzati. Ci pensino loro a raccontare l’eroe e le sue imprese. Di certo c’era, c’è e ci sarà ancora un David Bowie per ogni sguardo e ogni orecchio in ascolto. Io lo vedo come una specie di Ariel dagli infiniti travestimenti, l’uomo dei changes: la “cosa” umana più vicina alla libertà, ma anche a Zelig, ai ballets mécaniques, ai dischi volanti, a tutto ciò che c’è di evaporante nell’immaginazione a colori. Se risorgesse per una sera, andrei a sbirciarlo persino a San Siro, in una notte di vento e stelle cadenti. Da solo, senza assistiti e senza dir niente a nessuno. Con l’ombrello, ovviamente. Ne ho uno un po’ sfigurato, con un paio di raggi ribelli. Ideale per i raduni musicali e le sedute spiritiche.

P.B.


Bowie attore protagonista in Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence) di Nagisa Ôshima, 1983. 


Carol, Ida e Fargo

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Rooney Mara e Cate Blanchett in Carol di Todd Haynes.


Carol

Patricia Highsmith usò uno pseudonimo (Claire Morgan) per The Price of Salt, noto anche come Carol, romanzo rifiutato dal suo editore (Harper & Bros.) e pubblicato invece da Cowan-McCann. Si era tra il 1951 e il 1952, anni difficili per l’omosessualità in America (e, a dire il vero, dappertutto). The Price of Salt era un romanzo di formazione. Therese è povera, ha meno di vent’anni, un fidanzato e delle ambizioni artistiche. Quando si imbatte in Carol, fra le due scocca il colpo di fulmine. La più giovane comincia a rendersi finalmente conto della propria identità sessuale, sulla quale ha dovuto nutrire non poche incertezze.

Trasposta sullo schermo con oltre sessant’anni di ritardo, la vicenda non sorprende né commuove. Si ammira soltanto la magistrale recitazione delle attrici: Cate Blanchett (Carol) e Rooney Mara (Therese). Anche la presa di coscienza di Therese sembra passare in secondo piano, rispetto al dramma familiare di Carol – che ha una figlia e un marito determinato a portargliela via. Todd Haynes è uno dei registi più interessanti in circolazione (Io non sono qui, 2007), ma sul tema dell’omosessualità e delle convenzioni sociali era stato più avvincente con Lontano dal paradiso(2002). Anche lì la vicenda si svolgeva negli anni cinquanta. Alle avventure clandestine di un manager (Dennis Quaid) con altri uomini, faceva da sarcastico contrappunto il mito della felicità familiare americana, reso anche visivamente con dovizia di colori pastello nella luminosa fotografia di Edward Lachman. E la moglie delusa (Julianne Moore) si metteva a sua volta nei guai, ma con più coraggio del marito, tentando di rifarsi una vita con un afroamericano (Dennis Haysbert). Insomma c’era più polpa, e lo stile di regia era superbo nell’evocazione – patinata ma ironica – dei vecchi melodrammi di Douglas Sirk.

Lillian Hellman (1905-1984) si era occupata di saffismo e perbenismo molto prima di Highsmith, con la pièce teatrale The Children’s Hour (1934!) portata ben due volte sullo schermo. Todd Haynes è certamente più aggiornato ed esplicito di William Wyler, che dal testo di Hellman trasse La calunnia nel 1936 (con Miriam Hopkins e Merle Oberon) e Quelle due nel 1961 (con Shirley MacLaine e Audrey Hepburn). La censura infierì su entrambe le versioni: specialmente sulla prima, dove il tema del lesbismo spariva del tutto. Nel secondo, un quarto di secolo più tardi, passò qualche allusione: velatissima, ma sufficiente a creare un po’ di scandalo nell’audience di allora. Se ne ricava un ovvio paradosso: Quelle due facevano più scalpore di Carol, anche se questo è decisamente più verosimile e meno ipocrita di quello.

Audrey Hepburn e Shirley MacLaine interpreti di The Children’s Hour (Quelle due) di William Wyler, 1961.

Di per sé i film sull’omosessualità femminile non sono più una novità, anche se l’argomento è tuttora considerato scabroso dai più. Nel 2013 La vita di Adele, del regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, ha conquistato la Palma d’oro a Cannes. Quanto a Cate Blanchett, era l’oggetto di desiderio di una memorabile Judi Dench in Diario di uno scandalodi Richard Eyre (2006), tratto da un romanzo di Zoë Heller.

Ida

Ida, realizzato nel 2013 dal regista polacco Pawel Pawlikowski, ha vinto nel 2015 l’Oscar come miglior film straniero. È il dramma di una novizia (l’attrice Agata Trzebuchowska), orfana allevata in un convento, che prima di prendere i voti viene esortata a entrare in contatto con l’unica parente rimastale, una zia sconosciuta (Agata Kulesza). Un tuffo nel mondo reale necessario per mettere alla prova l’autenticità della sua vocazione. Di qui scoperte terribili a non finire: la ragazza non sapeva di essere ebrea, unica sopravvissuta di una famiglia massacrata durante l’occupazione nazista della Polonia. E mentre le due donne, zia e nipote, vanno in cerca dei resti degli uccisi, il loro paese, adesso sotto il tallone di Mosca (siamo negli anni sessanta), continua ad essere sopraffatto da abusi indecenti e carenza di speranze.

Idaè un film sorprendente sul piano formale, anche se ricorre al vecchio bianco e nero per raccontarci la cupezza dei luoghi e della vicenda. I personaggi sono quasi sempre inquadrati nella parte bassa del fotogramma, in modo che risultino sovrastati dallo sfondo. Dominati quindi da edifici, spazi e oggetti che denunciano, da soli, la tetraggine del contesto. Accanto ai valori della regia e della fotografia si fa sempre più strada, nel cinema di ricerca, il ruolo narrativo, allusivo e simbolico dell’art direction, delle location, delle scenografie e dei materiali di scena.

Dawid Ogrodnik e Agata Trzebuchowska in Ida di Pawel Pawlikowski.

Fargo (serie tv)

Notevole art direction anche in Fargo, la serie televisiva prodotta dai fratelli Coen. La fotografia rimanda mirabilmente all’epoca degli accadimenti (gli episodi della seconda stagione si svolgono nel 1979) e ogni inquadratura è impaginata con un gusto del design che valorizza al massimo grado l’incombenza dell’ambiente sulla narrazione. I gelidi inverni del Minnesota sono stilizzati in modo da suggerire visivamente l’isolamento della provincia e dei suoi abitanti in una regione di grandi spazi, e al tempo stesso l’atrocità dei crimini che vi si svolgono. Il dark più dark, osservato con sguardo pittorico e raccontato con irresistibile senso dellumorismo.
 

P.B.




Nel gelido mondo di Fargo.





E

Pali e paletti

Fratture

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La morte di Ettore Scola mi riporta alla memoria il breve periodo (un anno, forse meno) in cui costeggiai, da intruso, il mondo romano del cinema. Era il 1984 quando misi piede per la prima volta nella sede della Filmauro, fondata nove anni prima da Luigi De Laurentiis (il fratello di Dino, ormai stabilitosi a Los Angeles) e suo figlio Aurelio. Adesso Filmauro è un colosso, l’impresa numero uno del cinema italiano, e Aurelio De Laurentiis ne è titolare e deus ex machina, oltre che presidente del Napoli e consigliere della Lega Calcio.

L’Aurelio che conobbi, rosso di capelli, era un impetuoso trentacinquenne in ascesa, deciso a dominare il mercato come avevano fatto gli anziani di famiglia, Dino e Luigi. Era un uomo di forte temperamento, determinato a lasciare un’impronta personale nell’industria del cinema. Rispettava tutto ciò che aveva appreso dalla generazione precedente ma, giovane com’era e attentissimo ai cambiamenti in corso, manifestava una gran voglia d’innovazione. Stava cercando, in tutto ciò che faceva, un equilibrio ideale fra continuità e aggiornamento: almeno così mi parve. Con suo padre aveva prodotto, nel 1977, Un borghese piccolo piccolo, film di Monicelli piuttosto audace per l’epoca: Alberto Sordi vi impersonava un ruolo tragico, il padre d’un ragazzo assassinato, e allestiva una vendetta di rara atrocità, tale da sconvolgere persino la propria moglie nonché madre dell’ucciso, una commovente Shelley Winters. Poi c’erano stati Io ho paura di Damiano Damiani, con Gian Maria Volonté ed Erland Josephson, una delle icone più gloriose del cinema di Ingmar Bergman; e altre opere d’impegno civile, nel solco della commedia all’italiana e delle sue varianti più moderne.

Negli anni ottanta Aurelio De Laurentiis voleva cambiare anche il tradizionale approccio alla promozione dei film, a cominciare da manifesti e locandine. Con un occhio all’America, dove il celebre zio aveva continuato da protagonista la propria carriera, Aurelio si era reso conto di quanto immutevole fosse lo stile dei poster italiani. Certo non era facile rivoluzionare un settore come quello, stretto nella morsa di convinzioni granitiche (mostrare sempre, in modo riconoscibile, gli attori; privilegiare l’illustrazione rispetto alla fotografia; preferire la descrizione diretta ai simbolismi; etc.) e costrizioni legali (non sapevo, per esempio, che la dimensione, l’ordine e la posizione dei credit fossero, in molti casi, concordati per contratto fra la produzione e i singoli aventi diritto).

L’arte del manifesto cinematografico ha precedenti illustri e indimenticabili, da Metropolis (Fritz Lang, 1927) ai geniali lavori di Saul Bass. Disegnato da Heinz Schulz-Neudamm, l’artwork originale del poster di Metropolis fu acquistato da un collezionista nel 2006 per la bella cifra di 696.000 dollari. Per decenni queste eccezioni rimasero rare: esperienze di successo avevano solidificato stilemi e codici ritenuti invariabili, in Italia come altrove. Ma tra gli anni settanta e gli ottanta in America avevano cominciato a farsi strada, anche per i film di grande presa popolare, nuove modalità di comunicazione. I film di Spielberg si facevano notare anche per l’eccentricità dei supporti promozionali. Per Lo squalo (1975) Roger Kastel aveva sostituito le facce degli attori con la grinta d’un pescecane in primo piano; non c’erano presenze né umane né animali nei poster di Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T.; e per I predatori dell’arca perduta Richard Amsel aveva disegnato Indiana Jones nello stile dei fumetti d’avventura. C’erano tanti designer e studi emergenti che provavano a rinnovare, con strepitoso impatto, il fascino del cinema americano di richiamo spettacolare: da John Alvin (E.T., Blade Runner) a Drew Struzan (La cosa), da Bill Gold (L’esorcista, Fuga da Alcatraz) all’agenzia InSync + BemisBalkind (All That Jazz, Alien).

A questo forse pensava Aurelio De Laurentiis quando mi telefonò da Roma per chiedermi se fossi interessato, da professionista della pubblicità, a sperimentare manifesti cinematografici di nuova concezione. Qualcuno gli aveva fatto il mio nome e mi aveva chiamato: era già quello un piccolo atto sovversivo, trattandosi di un’attività da sempre riservata a un modesto giro di illustratori specializzati, sempre gli stessi. Mi precipitai nella capitale animato da un fervore elettrico: fin dalla tenera età avevo idolatrato i manifesti del cinema. Erano stati i feticci della mia crescita, della mia educazione visiva, dei miei sogni rettangolari; e ora potevo metterci le mani sopra, da autore.

Tra il committente e il sottoscritto si instaurò una specie di complicità vigilata. Non sapeva se e quanto fidarsi di me, un alieno che a Milano si occupava di merci – alimentari, scooter, polizze, bibite – che nulla avevano a che fare con l’universo dello spettacolo. Però gli parlavo di cinema come ne parlano i devoti, i maniaci; lo sopraffacevo di citazioni, rimandi, memorie e giudizi, dandogli l’impressione di non essere del tutto estraneo al suo mondo. Tra un briefing e l’altro c’incontrammo a più riprese. M’invitò ogni volta che poteva a pranzare con lui e, in un empito di confidenza, arrivò persino a farmi leggere qualche sceneggiatura in anteprima per sentire cosa ne pensavo. Ma sul piano pratico non avvenne mai nulla di soddisfacente. Tutti, o quasi, i bozzetti che gli portai furono bocciati, per una ragione o per l’altra. Quasi sempre per la loro diversità, ritenuta stravagante o eccessiva. Dopo aver visto le idee e ascoltato le mie argomentazioni, poteva succedere che qualcuna non gli dispiacesse, a condizione che vi fossero apportate non poche correzioni o modifiche; in tal caso passava alla fase due. Coinvolgeva il padre Luigi. E lì partiva, preciso come il fulmine, l’anatema del vecchio presidente, contrariato nel profondo dalla mia presenza e da quei tentativi di tradimento alle sue certezze. Se Aurelio si mostrava possibilista, il padre detestava schiettamente quelle prove tecniche di rivoluzione, senza nemmeno fingere – nei miei confronti – un po’ di benevolenza. Ero un infiltrato, il fornitore piovuto da un altro pianeta per seminare scompiglio, produrre disastri. Manifestava il suo dissenso in dialetto napoletano e, più d’una volta, scoppiarono fra padre e figlio discussioni animose, per colpa mia.

Maccheroni amari

Concepivo i manifesti con l’aiuto di un collega, amico e art director di fiducia, Angelo Citterio: uno che sapeva anche disegnare molto bene. Si trattava, ovviamente, di impostazioni non definitive; erano progetti, non esecuzioni. Sebbene premettessi ogni volta questo semplice avvertimento, mi veniva regolarmente rimproverata la scarsa somiglianza dei personaggi disegnati con gli interpreti di turno. Il motivo stava nel fatto che gli specialisti di quell’artigianato usavano portare al committente il disegno definitivo, da completare solo con le scritte secondo precise istruzioni del cliente. In tutto il periodo di quella strana frequentazione, fu approvato da Filmauro uno solo dei miei manifesti, il più brutto. A Hollywood Dino De Laurentiis aveva appena prodotto un fantasy diretto da Richard Fleischer, Red Sonja, con Brigitte Nielsen nel ruolo di una specie di amazzone alle prese con una regina del male. Un Conan il Barbaro al femminile, per intenderci: non a caso nel cast figurava anche Arnold Schwarzenegger, in un ruolo secondario. La Filmauro stava per distribuire Red Sonja in Italia ma, nel timore che le gesta avventurose di una donna fossero poco appetibili per il nostro mercato, aveva deciso di ribattezzare il film con un titolo più maschio, Yado, e di valorizzare nella pubblicità la presenza di Schwarzenegger. Le proposte che portai a Roma furono bocciate senza pietà e alla fine, per liberarmi da quel film che non piaceva né a me né a loro, eseguii esattamente ciò che mi veniva richiesto: un muscoloso Schwarz in azione a tutto campo, col suo nome a caratteri cubitali. Addio Brigitte.
Materiali promozionali americani per Red Sonja.

Mi sono attardato a rievocare un episodio minore perché Yado mi cadde addosso come una persecuzione. Quando – dopo il caso Maccheroni– mi arresi alla delusione e dichiarai ad Aurelio che la nostra avventura finiva lì, lui sembrò non meno dispiaciuto di me. «Perché?», domandò. Gli risposi che il nostro era un rapporto senza costrutto, una perdita di tempo per tutt’e due. «Tant’è vero che non è andata a buon fine nessuna delle mie proposte», aggiunsi. E lui, con accoramento sincero: «Ma non è vero! Yadoè passato proprio come l’hai fatto tu!» Pensava di consolarmi così, senza sapere che detestavo quel manifesto con tutto me stesso.

Ma torniamo a Ettore Scola, il nome da cui siamo partiti per questo giro nel passato. Filmauro usciva con Maccheroni, un film d’autore da grandi aspettative, con la sorprendente accoppiata Marcello Mastroianni – Jack Lemmon. Era una storia sull’amicizia, incongrua e sincera, fra due persone e due culture diametralmente opposte: un manager americano e un impiegato napoletano, entrambi in balia di aspirazioni e guai. La sceneggiatura, firmata dallo stesso Scola insieme a Ruggero Maccari e Furio Scarpelli, metteva bene in luce il dualismo fra concezioni diverse ma complementari della vita: il razionalismo e il sentimentalismo portati alle rispettive, estreme conseguenze. Da una parte il sogno americano di carriera e successo, spesso sfociante nell’aridità, nel cinismo, nella solitudine; dall’altra il calore, la spontaneità, l’inventiva di un’Italia mediterranea e solare, a volte ingenuamente superstiziosa. Aurelio mi passò il briefing e, perché nulla potesse sfuggirmi, mi fece accompagnare a Cinecittà per una visione riservata a me solo. Il film mi piacque, ma non fino al punto di eccitarmi. Di Scola preferivo La più bella serata della mia vita (1972), Brutti, sporchi e cattivi (1976) e, sopra tutti, Una giornata particolare (1977), piccolo capolavoro politico sull’omosessualità e l’emarginazione negli anni di «libro e moschetto, fascista perfetto». Film ammirevole per la sua compattezza, ambientato dal principio alla fine in due appartamenti dello stesso condominio, mentre fuori si festeggia – fra parate ed esplosioni sguaiate di letizia – Adolf Hitler in visita a Roma. Tornai comunque a Milano carico di energie, con una gran voglia di partecipare creativamente al miglior lancio possibile di Maccheroni e della ricchezza dei suoi significati antropologici e sociali.

Con Citterio fotocopiammo nella stessa dimensione i volti di Lemmon e Mastroianni trovati sui giornali. Poi li stracciammo a metà e accostammo due mezze facce degli attori come a formare un volto solo, lacerato da una dicotomia interiore ma ricomposto nella sua unità. L’effetto era di indubbio impatto; nessuno, inoltre, avrebbe mai potuto accusarci di non aver dato la massima visibilità ai due divi. Molti anni più tardi qualcuno avrebbe fatto qualcosa di simile, ma senza lo strappo, con John Travolta e Nicolas Cage per il poster di Face/Off.

Aurelio fu affascinato dal progetto. Non lo avevo mai visto così consenziente. Persino il padre mi parve meno ostile del solito. Era fatta. «Bisogna che Ettore lo veda. Oggi stesso. Ma non c’è problema, piacerà tantissimo anche a lui.» Convocò un autista perché mi conducesse a Cinecittà, dove il regista si trovava per una proiezione privata allestita per la stampa o non so chi.

La proiezione doveva essersi appena conclusa. Scola era ancora in teatro mentre una donna delle pulizie, armata di secchio, strofinaccio e ramazza, stava già ripassando il pavimento. «Venga, venga avanti», mi disse vedendomi indugiare timidamente sulla soglia. La sala era semioscurata, appesantita da ombre che a me, appena emerso dalla bruciante luminosità del pomeriggio romano, parevano cariche di cupi presagi. Non mi aspettavo di dovergli mostrare la mercanzia in quell’avarizia di luce, per di più in piedi. In fondo alla sala, dalla parte dell’ingresso, c’era un tavolino di servizio addossato alla parete. Mi invitò a sistemarvi gli elaborati (l’idea era stata sviluppata in due o tre formati diversi): incollati su cartoncino rigido potevano starsene tranquilli in posizione verticale, visibili da ogni parte da quel giudice supremo che un po’ si avvicinava, un po’ indietreggiava, un po’ si spostava di lato reclinando il capo, perplesso. Avevo sperato in un trionfo, ma trionfo non fu. «Per essere d’impatto, è d’impatto», ammise; «ma è drammatico, ansiogeno, inadatto a una commedia. Lei l’ha visto, il film?» Certo che l’avevo visto; ed esposi, per rassicurarlo, tutti gli argomenti di cui disponevo. Scola sembrava divorato dai dubbi. «È una commedia», ripeteva, «una commedia. Quella frattura fra i due è inquietante. E poi fa pensare a un lavoro sofisticato, quando è invece un film per tutti, senza distinzioni, senza esclusioni di sorta.» E io: «Commedia sì, ma amara, con un retrogusto di malinconia.» Ripensavo soprattutto al prefinale, quando i cattivi colpivano in testa Mastroianni col calcio d’una pistola; e Lemmon, l’amico americano che aveva fatto di tutto per togliere lui e suo figlio dai guai, gli andava a comprare un gelato per consolarlo, ma al ritorno lo trovava morto.

A un certo punto Scola fece qualcosa che mi lasciò di stucco. Chiamò la donna delle pulizie, la pregò di avvicinarsi, osservare i bozzetti e dire cosa ne pensava. La povera donna tentò di sottrarsi all’ingrato compito, balbettando e scuotendo il capo, smarrita: «Non so nulla di queste cose, io, signore», andava mormorando senza posa e rossa in volto, come un innocente fermato dalla polizia. Ma lui, gentile e inflessibile, la pregò e ripregò di accostarsi, guardare senza timore, dire cosa le facessero venire in mente quelle figure.

Non ero nuovo a rituali del genere. Una mediocre agenzia per la quale avevo lavorato, NCK, era solita improvvisare sondaggi a sorpresa chiamati copy probes. Si andava nei bar o in altri locali pubblici con i layout nella borsa e s’invitavano gli astanti a formulare impressioni e giudizi su quanto veniva loro mostrato. Era un tour dal quale copywriter e art director uscivano sempre con le ossa rotte: non c’era individuo che non trovasse qualcosa da criticare, pur di non passare per stupido. E bastava veramente poco per sopprimere sul nascere un’idea, qualunque idea, perché a dirigere le danze non erano gli autori del progetto ma account executive velenosi, cresciuti a censura e conformismo. Più idee (altrui) mandavano al patibolo, più facevano carriera. Quelli della NCK adoravano i copy probe: erano la loro spada laser, la loro rivincita sul talento degli altri.
Marcello Mastroianni e Jack Lemmon in una scena di Maccheroni (1985).


Tutto mi sarei aspettato, da un artista come Scola, tranne un umiliante copy probe. Avrei preferito di gran lunga un rifiuto secco, tutto suo, senza l’intervento di ausiliari pescati a caso e spaventati. Tuttavia, nonostante le premesse, il match non si concluse in modo brutale. Il regista non approvò né bocciò: prese tempo per rifletterci sopra.

Il peggio doveva ancora venire. Per qualche motivo che non ricordo più – forse l’attesa di un autista – volle intrattenersi ancora un poco con me. Mi si sedette accanto, nell’atrio, e mi domandò cosa ne pensassi sinceramente del suo film. Enumerai una serie di punti di forza, non meno imbarazzato della donna delle pulizie. Stava tentando di fare con me ciò che aveva appena fatto con lei. Non c’era né astuzia né crudeltà in quei tentativi di sondaggio: è naturale per molti artisti dubitare, soffrire di apprensioni acute al momento di uscire allo scoperto con una nuova opera, temere il giudizio della critica e del pubblico; nel cinema e nel teatro, poi, il rischio di un insuccesso è devastante, le conseguenze di un flop potrebbero compromettere un’intera carriera. Dentro di me cominciavo a capire il nervosismo di quell’uomo e a sentire quanto poco valesse il mio: lui si giocava la reputazione e l’avvenire ad ogni film, io non avevo nulla da perdere dalla bocciatura di un manifesto. Adesso, mi stava incalzando. Non era interessato alle lodi: voleva conoscere quali, secondo me, erano gli aspetti critici di Maccheroni, le sue debolezze. «Faccia uno sforzo: mi dica cosa non funziona.» «Funziona tutto perfettamente, credo.» «Sciocchezze: il film perfetto non esiste. Anche in questo deve aver riscontrato qualcosa di migliorabile: un gesto, un passaggio, una frase...» Caddi nella sua trappola come un cinghiale nella fossa. Dopo mi sarei preso la lingua a martellate per aver sputato, come un qualsiasi avventore di bar all’epoca dei peggiori copy probe, una delle cose che mi avevano infastidito di Maccheroni(oltre ai cliché più risaputi sull’americanità e la napoletanità: ma di questo non feci parola, sarebbe stata una perfida stroncatura in diretta). Allusi a un episodio (non ricordo quale) che coinvolgeva una donna (Daria Nicolodi), che mi sembrava inserito a forza nella vicenda, senz’altra necessità se non quella di correggere un poco l’assoluta dominanza maschile nel cast; e, come a volerlo assolvere da un’accusa così ardita, cincischiai qualcosa sulle piccole concessioni che gli autori sono costretti a fare ai produttori. Non avessi mai parlato! Ettore Scola andò su tutte le furie. Balzò su dalla sedia con uno scatto, ferito a morte, gridando che mai e poi mai era sceso a compromessi con nessuno; che la sua onestà intellettuale non era in vendita; che ogni critica era per lui benvenuta, tranne quella d’essere un opportunista, un ipocrita, un mercante.

Uscii dall’incontro più distrutto di lui. Mi sentivo colpevole e incolpevole in egual misura. Carnefice e vittima. Chi diavolo credevo di essere? Come avevo osato gettare ombre sul valore di un artista del suo calibro? E perché ero stato così sprovveduto da cedere alle sue pressioni, non diversamente dalla povera inserviente coinvolta in un gioco perverso, più grande di lei?

Uno o due giorni dopo, Aurelio mi telefonò per dirmi che non tutto era perduto. Avevano trovato una soluzione “brillante”: il mio manifesto sarebbe stato esposto nelle zone centrali delle principali città, dove c’è un maggiore afflusso di cittadini colti, mentre nei centri medi e piccoli e nelle periferie sarebbe uscita la semplice riproduzione di una scena del film, quella in cui Lemmon e Mastroianni conversano seduti all’esterno di un bar nella Galleria Umberto I. Fu in quella circostanza che dichiarai il mio proposito di interrompere la collaborazione. Il manifesto con lo strappo, comunque, non l’ho mai visto affisso da nessuna parte, nemmeno nel cinema di Milano dove davano Maccheroni. Solo adesso vedo, su YouTube, che l’idea è presente alla fine del trailer, sotto i titoli di coda.


P.B.


Apocalittici e disintegrati

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Da una parte gli entusiasmi sul progresso tecnologico, dall’altra critiche e rappresaglie sempre più feroci alla civiltà che abbiamo costruito. Gli apocalittici sono tornati tra noi. Si salvi chi può. (Questo articolo è uscito sul n. 12 della rivista Bill – Un’idea di pubblicità, nel dicembre 2014).
Una confezione di caramelle alla liquirizia contro la tosse, popolarissime negli anni cinquanta del secolo scorso. Si chiamavano così perché, secondo la Gazzoni di Bologna, la ricetta era stata creata da Fra’ Giacomo il Portoghese, farmacista alla corte del Re Sole. Trilussa le gratificò di una poesia pubblicitaria: «Loreto è un pappagallo ammaestrato.Se quanno parlo co’ Ninetta mia / s’accorge ch’entra in camera la zia, / tosse e fa finta d’esse raffreddato:/ e noi che lo sapemo, appena tosse / se damo l’aria come gnente fosse. / Però la zia, ch’è furba e che capisce, / jeri se ne sortì co’ ste parole: / Je darò le Pasticche der Re Sole, / perché co’ quelle è certo che guarisce; / ma se per caso seguita a sta’ male/ è segno ch’è una tosse artificiale.»

Apocalittici e disintegrati

di Pasquale Barbella


Venditori di caramelle

La pubblicità suscita correnti d’opinione spesso negative. Da giovane ho avvertito, da certi silenzi, la commiserazione di persone care: amici talmente fiduciosi nelle mie potenzialità da giudicare un ripiego e uno spreco la mia scelta di operare in quel genere di comunicazione. E fino all’ultimo ho dovuto difendermi da mia madre, il cui dissenso aveva un movente alquanto eccentrico: giudicava i miei lavori non per ciò che dicevano o per come lo dicevano, ma dal settore merceologico di turno. Si rallegrava in caso di automobili ma si oscurava in caso di soft drink o altre merci di poco prezzo, perché questo era – secondo lei – una prova di fallimento. Se ci imbarcavamo in un’accesa discussione politica, sport in cui le piaceva trascinarmi con qualche provocazione gettata lì quasi per caso, sul più bello tagliava corto con un insulto singolare: «Sei solo un venditore di caramelle.»

Le opinioni sulla pubblicità variano nel tempo e sono indizi da non sottovalutare, perché registrano come un elettrocardiogramma le pulsazioni e il flusso dei cicli ideologici. Una delle critiche più stabili consiste nell’accusare la pubblicità – non questa o quella, ma in blocco – di essere menzognera e di istigare al consumismo. Non sempre si tratta di un giudizio coerente, a giudicare dal tenore di vita dei censori, dai loro desideri e dai loro acquisti. Lo stesso giudizio riveste un valore più razionale, invece, quando insieme al consumismo (che è un effetto forse ineliminabile del capitalismo) si prende di mira l’intero sistema economico e culturale da cui scaturisce. È ormai nota ai lettori di questa rivista la risposta di Bernbach allo storico Arnold J. Toynbee, che accusava la pubblicità di essere immorale: «L’oggetto del disprezzo di Toynbee non è la pubblicità. È l’economia dell’abbondanza o, per usare il termine che tutti conosciamo, il capitalismo. Non ci sarebbe nulla di male, se dicesse chiaramente qual è il reale obiettivo delle sue critiche. Molti aspetti del capitalismo dovrebbero essere corretti, e Toynbee farebbe un gran favore a tutta l’umanità se riuscisse a convincerci a operare queste correzioni, ma non lo farà mai se continuerà a gettare fumo negli occhi con le sue filippiche contro uno strumento che viene usato dalle grandi aziende per vendere di più.»[1]
La stilografica Aurora in un manifesto di Achille Mauzan, 1921.

Non ho mai letto Toynbee e confesso di aver dato una semplice occhiata al suo profilo wikipedico, curioso di capire da quale sponda filosofica o sociologica arrivasse il suo malcontento. L’impronta religiosa dei suoi scritti sulla nascita e il declino delle civiltà farebbe escludere una sua simpatia per il marxismo, il pensiero anarchico o altre forme di critica radicale al sistema. Posso sbagliarmi sul suo conto, lo so; ma non importa. Perché ciò che ci interessa, almeno nei limiti di questi appunti, è un altro tema: vedere a quali condizioni e con quali argomenti si può – o si deve – criticare la pubblicità senza entrare in contraddizione con sé stessi. Più in generale, vorremmo misurare – attraverso le critiche più solide e coerenti alla pubblicità e al sistema che ne fa uso – lo spessore e le eventuali conseguenze di nuove o rinnovate ideologie che si vanno formando dopo il declino quasi universale del comunismo.

Premessa necessaria: per i motivi ai quali abbiamo già alluso in partenza (la comunicazione commerciale come fenomeno inscindibile dal tipo di economia che la utilizza) sarebbe sterile riferirsi alla pubblicità nella sola accezione di advertising, cioè di quell’insieme di messaggi costruiti ad hoc per il raggiungimento di obiettivi temporanei. Parliamo invece di pubblicità in tutte le sue manifestazioni, inclusa l’architettura di edifici di rappresentanza e altre opere realizzate a scopo persuasivo. Se separiamo la Nutella dalla torre Eiffel, dall’imponenza dei palazzi aziendali e dalla Cappella Sistina perdiamo di vista il paesaggio generale, la scena in cui la civiltà della produzione (di merci, di miti, di credenze) si è andata esprimendo nei secoli o millenni fino a portarci al punto in cui siamo. L’oggetto delle critiche più feroci (e strutturate con maggiore coerenza ideologica) al sistema, da Adorno ai no global, non è la réclame di turno ma l’insieme che la comprende.
1946, manifesto ufficiale della Fiera campionaria di Milano. Studio Crix.

Era inevitabile che Adorno e Horkheimer vedessero nella pubblicità il mostro dei mostri: «La pubblicità rappresenta, oggi, un principio negativo, uno strumento di esclusione, un congegno di sbarramento: tutto ciò che non reca il suo marchio è economicamente sospetto. Dal momento che, sotto la pressione del sistema, ogni prodotto adopera la tecnica pubblicitaria, questa è penetrata trionfalmente nell’idioma, nello “stile” dell’industria culturale. La sua vittoria è così completa che essa, nei punti decisivi, non ha più nemmeno bisogno di diventare esplicita: i palazzi monumentali dei giganti, pubblicità pietrificata sotto la luce dei riflettori, sono privi di réclame, e tutt’al più si limitano a esporre, sui merli delle loro torri, fulgide e lapidarie, senza bisogno di elogi o di autoincensamenti superflui, le iniziali della ditta.»[2] Su una parte del discorso non si può non convenire: è vero, e in tal senso i due filosofi sono stati addirittura profetici, che le logiche pubblicitarie hanno stravinto su tutta la linea. Ma prendersela con l’architettura delle sedi aziendali è un pensiero da talebani. Come sparare sulle statue di Buddha o buttar giù la basilica di San Pietro: perché anche quella non scherza in fatto di propaganda.
Coppertone divenne una marca famosa in America e altrove con questa immagine del 1953. Il disegno originale andò perduto in un incendio nel 1959.  Fu poi ricreato da Joyce Ballantyne, vincitrice di un concorso internazionale per illustratori, che usò come modella la figlia Cheri. Anni dopo, Jodie Foster esordì a tre anni impersonando la bambina negli spot televisivi. In tempi più recenti l’immagine della piccola con il costume abbassato ha suscitato perplessità, grazie alla nuova sensibilità sociale relativa alla pedofilia: ora il risultato dell’azione del cagnolino è appena accennato. 

Coppertone sulle macerie

Ma prima di procedere coi pensieroni, lasciatemi sfogare un po’ con una digressione personale.

Sono nato durante la seconda guerra mondiale e sono cresciuto fino all’età adulta nell’indigenza, come molti dei miei coetanei e conterranei. Che cos’era la pubblicità, ai miei occhi, nei primi anni del dopoguerra? I manifesti dei film, prima di tutto. Ricordo specialmente un muro di Foggia, davanti alla casa dei nonni. Quartiere popolare nel centro storico, a due passi dal mercato e dal bordello. Starring Rita Hayworth, Humphrey Bogart, James Stewart. Per me quel muro era più magnetico di un ottovolante.

E poi, a passeggio qua e là, pochi cartelloni e murales che erano il Louvre dei poveri. Brill e Marga, lucidi per le scarpe. Marche per eccellenza in un mondo quasi del tutto unbranded. La domenica, borghesi e proletari calzavano tutti scarpe lucidate a specchio. Ma c’era anche il cagnolino sulla spiaggia, che inseguiva la bambina e con un morso quasi le sfilava le mutandine da bagno: per mostrare la differenza tra la carne abbronzata e quella rimasta in bianco. C’era solo una scritta: Coppertone. La parola rimase per anni un mistero assoluto per me e molti altri. «Zia, che vuol dire Coppertone?» «Non lo saccio.»
Il lucido per scarpe Marga, immesso sul mercato nel 1919 da un’azienda svizzera (Sutter) stabilitasi in Liguria nel 1910, fu largamente pubblicizzato fino agli anni cinquanta del secolo scorso, decade cui questo manifesto appartiene.

Sfogliare riviste era come lavarsi i denti dalla mattina alla sera. Binaca. Chlorodont. Gran scuola di igiene dentaria, le riviste. Giusto: in casa ti lucidavi i denti, e prima di uscire ti guardavi le scarpe per vedere se brillavano come il tuo sorriso Durban’s.

Questo era la pubblicità dopo la guerra e prima della grande ripresa. Dal bang al boom. Coppertone sulle macerie, università di igiene personale prima di fare il salto nel benessere. Se mi fosse capitato a Foggia di incontrare Vance Packard[3], lo avrei strozzato con le mie mani. Anche se nel 1957 non sapevo chi diavolo fosse, né cosa fosse l’advertising. Sapevo solo che la pubblicità era la cosa più bella che ci fosse da guardare lì, perché la città era stata quasi completamente rasa al suolo, come Dresda e Norimberga. Foggia era uno snodo ferroviario strategico, di quelli che attirano le bombe come la carta moschicida attira le mosche. A proposito: anche agli insetti molesti era stata dichiarata una guerra senza quartiere. C’era dappertutto la pubblicità del DDT (dicloro-difenil-tricloroetano), flit per gli amici. Ancora una volta la scuola d’igiene: in Sardegna, col flit avevano debellato la malaria, nel 1939.

Foto sopra: Spruzzatore-vaporizzatore a pompa per lo spargimento di flit (DDT), anni cinquanta. Il cilindro in latta litografata, contenitore ricaricabile dell’insetticida liquido, recava a un’estremità l’ugello d’uscita e all’altra uno stantuffo da azionare a mano per comprimere e spingere il prodotto. Il DDT è stato poi messo al bando per sospetta cancerosità. Sotto: Diciture murali che segnalavano lo spargimento di DDT, con relative date, risalenti agli anni ’50 del ventesimo secolo, visibili sulla parete esterna di un’abitazione nel centro storico di Bosa, in Sardegna.

Anche la pubblicità era una bomba: decorativa e, soprattutto, istruttiva. In città ce n’era di più che nei paesi di provincia, ed è forse anche – o soprattutto – per questo che i suburbani sentivano un gran desiderio di tuffarsi nella grande città, di tanto in tanto. La Fiera del Levante, a Bari, attirava moltitudini pazze di gioia. Come si fa a parlare genericamente di pubblicità (ma anche di economia e politica) senza aver vissuto – o almeno studiato – la differenza tra un prima e un dopo?

In quegli anni non aveva alcun senso, almeno in Italia, discettare sulla qualità specifica di questo o quel messaggio. Tutta la pubblicità era buona, per il solo fatto di esserci. Ci raccontava, a modo suo, cosa bisogna fare per vivere un po’ meglio. Uscivano prodotti mai visti prima: utili, ed era utile sapere della loro esistenza e funzione. Venne la Triplex con le bombole di Liquigas, e smettemmo di affumicare le cucine. Importammo il Brylcreem per andare a ballare la domenica con i capelli ancora più lucenti delle scarpe. Si videro in giro la Lambretta, la Vespa, la Seicento. Gli abiti preconfezionati. In casa il frigo, la lavatrice. La televisione. Quanto eravamo preparati a tutto questo? La pubblicità faceva da intermediaria tra noi e il futuro: cominciò a intensificare la sua presenza, diventò il manuale d’istruzioni e il maquillage della nuova era. Era il volto allegro della povertà: il sogno della riscossa.
La brillantina, una crema a base di cera vergine e oli minerali, serviva a fissare le acconciature e a creare riflessi nei capelli. Influì sul look maschile dagli anni venti ai cinquanta del Novecento, incollando pettinature come quelle di Rodolfo Valentino ed Elvis Presley. Ispirò anche Grease, musical di grande successo in teatro (1971) e sullo schermo (1978). 

Non che fosse una novità, si capisce. Tra la rivoluzione industriale e lo scoppio della seconda guerra mondiale c’era stata la fase artistica del cartellonismo, con il suo proficuo scambio di contributi fra avanguardie e réclame. Tutto ben documentato nei libri, in rete e nell’immaginario collettivo. Sebbene remoto, quel periodo – da Chéret a Cappiello, da Dudovich al primo Munari, passando per le vie e le follie del Futurismo – è più conosciuto di quello successivo, meno aristocratico, meno memorabile, alla buona ma più denso di novità, che corre dal 1945 al 1960.
Sepo (Severo Pozzati), manifesto per il panettone Motta, 1934.


Nostalgia?

Balle. Che nostalgia si potrebbe mai provare per le toppe al culo, le case diroccate, l’endemica carenza di soldi, i giocattoli mai posseduti, i nuovi oggetti che in qualche caso si potevano comprare ma solo indebitandosi, le ragazze a cui non potevi offrire neanche un gelato?

Non parlo di me per parlare di me, ma di cosa ho visto. Ho visto un mondo che aveva bisogno di pubblicità perché non aveva altro. Ne aveva bisogno come di un arredo, di una fantasia e di una speranza. Se passate attraverso uno sperduto villaggio africano e vedete un elementare invito alla Coca-Cola, tracciato a mano sul muro di una catapecchia con il tetto in lamiera, sembra un segno di energia e di cambiamento anche se avete speso la vita a lamentarvi, giustamente, delle multinazionali e del loro cinismo.

Solo o soprattutto con Bernbach si comincia ad aver coscienza che la pubblicità è uscita dalla fase dell’indistinto e merita di essere classificata in correnti. L’advertising diventa una disciplina matura, soggetta a segmentazioni ideologiche che scavalcano il puro pragmatismo per misurarsi con questioni etiche ed estetiche su cui prima si poteva in parte sorvolare.

Non a caso la rivoluzione di Bernbach coincide cronologicamente con la proliferazione delle merci, degli investimenti pubblicitari e della disponibilità al consumo. Il panorama è visibilmente cambiato. E se è cambiato negli USA, figuriamoci in Europa: dove, tra un decennio (1950) e l’altro (1960), il cambio di scena è stato davvero teatrale. In Italia, via dai campi di grano per trasferirsi nelle fabbriche della metropoli. Sofferenze urbane e panettone Motta per tutti. E le quattro ruote seguono a ruota. I bambini, che prima occupavano in massa gli spazi esterni (anche per evadere da alloggi angusti in cui si stava in troppi), spariscono a poco a poco dalle strade perché il traffico degli automezzi è aumentato a dismisura. E poi arriva Carosello che li richiama all’ordine: stop all’anarchia tra cena e mezzanotte.

Fra l’era di Cappiello e quella di Vodafone c’è un secolo di differenza che vale per due. È come se il clown del Bitter Campari, evaso dalla sua gabbia di buccia d’arancia, si fosse gonfiato come la mostruosa creatura di Alien, per ingoiare tutta la città e possibilmente il pianeta. Il mondo divorato dalla pubblicità non lascia spazio a null’altro che non sia commerciabile. Di nuovo è la quantità a dominare: prima per difetto, ora per eccesso. In un ambiente in cui la pubblicità è solo parte dello scenario, l’immaginazione è libera di varcare qualsiasi soglia, persino quella della miseria, per crearsi comunque uno spazio. Laddove l’ambiente è la pubblicità, e s’identifica con essa in qualsiasi luogo e circostanza (ho appena mandato a quel paese un tizio che cercava di spacciarmi qualcosa al telefono), si ha l’impressione di una perdita di libertà, di una distrazione continua da una varietà di valori che esulano dalla pura sfera mercantile.

Questo discorso non ha nulla a che fare con la “persuasione occulta” di packardiana memoria. Non sarà né Vodafone né Esselunga a fare di me un apocalittico. Registro soltanto la coincidenza di certi fenomeni. Ad ogni incremento quantitativo della pubblicità sembra corrispondere, per esempio, un ulteriore svuotamento della politica e, conseguentemente, della fiducia in essa. Corruzione e sprechi, sempre di più all’ordine del giorno, fanno parte di una visione ultracommerciale dell’esistenza. Ma anche la critica alla corruzione e agli sprechi – che infervora l’italiano medio assai più di quanto non facciano i missili sulla striscia di Gaza – è figlia, seppure incolpevole, della stessa visione.

L’alien pubblicitario (ma anche propagandistico, da Berlusconi in poi) è diventato talmente ipertrofico, insistente e pervasivo da modificare, in noi, la concezione dell’orrore assoluto. Si dice che le ideologie d’una volta (capitalismo e socialismo) siano crollate con la fine della guerra fredda, ma è vero solo in parte: sono state vigorosamente rimosse da chi aveva interesse a rimuoverle, per lasciare col culo a terra chiunque serbasse ancora nel cervello qualche traccia di idealismo. L’orrore assoluto – che per la destra era il comunismo e per la sinistra il capitalismo più sfrenato – è diventato qualcosa di meno grandioso: per taluni il Fisco, per altri l’Immigrato, per Tizio lo Stipendio del Manager, per Caio l’Euro. Argomenti di indiscutibile serietà, ci mancherebbe: ma che fine hanno fatto tutti quegli altri topic, non necessariamente e direttamente economici, di cui tanto si discuteva ai tempi delle ideologie?

Non c’è niente da guadagnare soffrendo per Gaza o per l’Ucraina o per l’Afghanistan o per lo sfascio ambientale, o sbattendosi per inventare qualche nuova pezza diplomatica da applicare sulle ferite del mondo. Eppure è dai mali più gravi che bisognerebbe forse partire per individuare terapie utili alla soluzione dei problemi più familiari. A tirare in ballo le ideologie si passa ormai per apocalittici (quando non per affetti da alzheimer), mentre sono proprio le impostazioni propriamente ideologiche a darci la misura delle avversità e a stimolare qualche compromesso utile (ebbene sì, sono un inguaribile integrato, a volte mi piace anche il kitsch).

La pubblicità ha un ruolo sulle cose che non vanno? No, ma le cose che non vanno hanno un ruolo – deleterio – sulla pubblicità. Che si adegua, per pochezza e tono di voce, al bla bla subpolitico nel quale siamo immersi. E lo riflette alla perfezione, traducendolo in un oceano di stonature assordanti. Chi ha il potere di cambiare qualcosa sembra aver perso la benefica prospettiva dell’orrore assoluto. Per un certo periodo, l’orrore assoluto si identificò con la bomba H, che aveva di buono il potere di spaventare tutti: destri e sinistri. Io la considero tuttora un simbolo insuperabile: perché non c’è niente di peggio che la guerra, col suo carico di morti, violenze e devastazione; e prevenire qualsiasi deriva che conduca – direttamente o indirettamente, oggi o fra trent’anni – a un simile sfascio dovrebbe essere l’imperativo categorico di una autentica democrazia.



Immagini dalla mostra Arts & Foods al palazzo della Triennale di Milano durante l’Expo 2015. Dall’alto: logo Martini (1928) di Nicolaj Diulgheroff, architetto e designer futurista bulgaro, e manifesti Campari di Leonetto Cappiello (1921) e Marcello Nizzoli (1926); un vecchio frigorifero della Kelvinator (1950 circa), industria pioniera della refrigerazione elettrodomestica; erogatori e altri materiali del merchandising Coca-Cola; una casa fatta di pane, opera dell’artista svizzero Urs Fischer (2004-2006).


Un Adorno sul comodino

Quando, nel 1964, Umberto Eco pubblicò Apocalittici e integrati, sembrò che la prima categoria evocata dal titolo del libro stesse per cedere definitivamente il posto alla seconda[4]. Al centro della ricerca di Eco c’era quel complesso sistema di fenomeni che definiamo “industria culturale” con il suo corredo di teorie e reazioni, svarianti dal rifiuto più sprezzante (Adorno docet) all’accondiscendenza acritica e passiva. Gli anni sessanta, quelli del libro, furono in parte segnati da una tale spinta all’apertura, alla scoperta, alla rimozione dei divieti e delle disuguaglianze di classe (il Sessantotto era alle porte, ma il meglio del Sessantotto era forse già successo tra il 1960 e il 1967), che fu naturale mettere in discussione le tradizionali barriere tra cultura “alta” e “bassa” ed elevare i Beatles e il fumetto, tanto per citare due esempi a caso, tra le espressioni culturali degne di attenzione e rispetto. La cultura, insomma, non più intesa come appannaggio esclusivo di un’élite intellettuale e borghese, con la puzza sotto il naso, determinata a mantenere intatta la sua egemonia; ma come risorsa trasversale e democratica, aperta all’integrazione di altre forme, anche popolari, di invenzione. La pop art, con il suo paradossale mix di ironie incrociate (la zuppa Campbell e l’Ultima cena di Leonardo allineate con la stessa evidenza nel supermarket interiore di ciascuno di noi), sancì nel modo più emblematico la svolta mentale, sociale ed estetica che andava prendendo corpo nel Nordamerica e in Europa. Fu ed è tuttora troppo facile stigmatizzare tutto questo, e altro ancora, come «funzionale al sistema»: tre parole che costituiscono – da Adorno a Casaleggio – lo slogan di protesta perfetto per tutte le stagioni, ma che diventa sterile quando chi lo pronuncia non ha, in definitiva, nessuna alternativa da opporre allo scenario vigente se non un arcadico ritorno alla natura. Non credo che si possa cambiare il mondo a colpi di musica dodecafonica (niente equivoci, per favore: adoro Schönberg, Berg e Webern); né che lo si possa migliorare con Beppe Grillo. Nessun “sistema” è abbattibile in quanto tale, a meno che qualcuno non stia idealizzando la possibilità di un genocidio di proporzioni planetarie. Le singole malefatte del sistema vanno identificate con precisione e colpite una per una con gli strumenti e gli antidoti che la stessa civiltà ha saputo escogitare: se non si fa così, si rischia di assortire bersagli talmente eterogenei da generare un caos senza ritorno.

Si può essere rivoluzionari e integrati allo stesso tempo? Parrebbe di no, almeno a prima vista. Ma non furono anche questo, almeno inizialmente, gli anni sessanta? La protesta contro la guerra nel Vietnam era, sì, contro il “sistema”; ma sarebbe arbitrario dedurne che quei milioni di manifestanti desiderassero, tutti o in larga maggioranza, rinunciare al frigorifero e accasarsi in una comune hippy. Eppure la critica sociale più severa sta tornando in auge a grandi passi e non risparmia nulla e nessuno: l’uomo è un pupazzo tra le mani di chi lo governa, il potere economico non è altro che una cospirazione ben riuscita contro l’umanità, tutto ciò che desideriamo o facciamo è funzionale a progetti di profitto orditi altrove. Ti piace un film? Non importa che sia di Vanzina o di Haneke: serve a tenerti buono, a distrarti, ad annientarti. Leggi i fumetti? Ti hanno rimbambito del tutto. L’industria culturaleè l’arma – per l’appunto industriale– messa a punto per farti un costante lavaggio del cervello e alienarti.

Pure se talvolta inconfutabili, le analisi “apocalittiche” non servono a spostare di un solo millimetro la condizione umana. Il perché ce lo fanno intuire, tra le righe, esse stesse: non c’è cultura o controcultura che possa seriamente considerarsi non illusoria. La forza del sistema sta nella sua capacità di assorbire persino il dissenso, farne spettacolo, oggetto di consumo.

Gli apocalittici hanno ripreso in pieno il sopravvento sugli integrati. E questa volta sul piano globale. I fondamentalismi religiosi e politici, le intolleranze, i verdetti di condanna totale sono la cifra attuale della storia. Non che Adorno approverebbe tutto questo: anzi. Solo che, a livello puramente psicologico, il rifiuto assoluto della concessione, del compromesso, della negoziazione è il tratto distintivo dei “duri”. Il mondo in cui viviamo si è indurito come alla vigilia dei grandi conflitti mondiali. Spiace dirlo di un intellettuale del suo calibro: ma l’adornismo non è meno “funzionale al sistema” di qualsiasi film di Walt Disney. Un Adorno sul comodino, da leggere prima di prender sonno come si legge un brano del Vangelo o una favola dei fratelli Grimm, ci fa sentire intelligenti e radicali quanto basta, il che – tutto sommato – è alquanto confortevole. Buonanotte e sogni d’oro.

Ma persino il pensiero di Adorno è stato superato e si è estremizzato nel suo stesso ambito teoretico. Si prenda un pensatore di oggi come John Zerzan, per esempio. In comune con Adorno, Zerzan ha il principio di base: il conflitto tra natura e cultura e la presunta superiorità della prima sulla seconda. Zerzan non concede nulla alla civilizzazione: la considera la madre di tutte le sciagure ed auspica un futuro primitivo, mondato da ogni tentazione di scambio commerciale, di organizzazione del lavoro, di alfabetizzazione, di tecnologia: tutto ciò produce alienazione, reificazione, violenza. La cultura ha corrotto l’umanità sostituendo alla realtà naturale una finta realtà fondata sui simboli. La profondità di tale corruzione ha fatto sì che l’uomo delle caverne si indebolisse anche fisicamente fino a perdere quasi del tutto le capacità sensoriali e il legame originale con l’ambiente. La tesi non farebbe una grinza se l’idealizzazione della natura, la cui superiorità è data per assiomatica, non fosse di per sé stessa un portato culturale (un’eco dell’Arcadia e di Rousseau, di Thoreau e dello stesso Adorno). Che l’enfant sauvage vivesse più a suo agio di Harry Potter è un teorema tutto da dimostrare. Non credo che il capriolo sia poi così tanto felice di farsi inseguire e azzannare dal leone. Così come non credo che la facoltà umana (o addirittura zoologica e fors’anche vegetale) di modificare l’ambiente per risolvere un problema a proprio favore – e quindi produrre cultura – sia una scandalosa deviazione dal corso naturale delle cose: se un antenato preistorico pensò di aguzzare una pietra per procurarsi un utensile più adatto ai suoi bisogni vuol dire che la natura lo aveva dotato di un talento inestimabile, quello di creare effetti speciali anziché continuare a subirli passivamente dal cielo, dalle stagioni e dal caso.

Le idee di John Zerzan sono estreme al massimo grado (egli considera «reazionario» Noam Chomsky perché «la sua critica è rivolta alle politiche di governo, non al governo in sé»)[5]ma, per quanto possano suonare stupefacenti alle orecchie di una generazione cresciuta in anni di precipitosa accelerazione tecnologica (quella che il maître-à-penserstatunitense vede come forma di depravazione assoluta), non passano affatto inascoltate. Da una costola di Zerzan nascono movimenti e fenomeni di protesta rivoluzionaria e terminale, tra cui le scorribande dei black bloc. Il filosofo non nasconde le sue simpatie per Theodore Kaczynski, il matematico terrorista di Chicago noto come Unabomber (nessuna relazione con l’altro Unabomber, criminale italiano mai identificato): inviava pacchi postali esplosivi in segno di protesta contro il progresso tecnologico. Che quelle azioni avessero procurato la morte di tre persone e il ferimento di altre ventitré è un danno collaterale inaccettabile, sostiene prudentemente Zerzan; ma le motivazioni di Unabomber erano più che condivisibili, anzi peccavano per difetto, perché «l’eliminazione dell’industrialismo, da sola, non sarebbe sufficiente per ritornare a un modo di vivere autonomo e privo di condizionamenti. [...] È la civiltà stessa che deve scomparire per arrivare dove vuole Unabomber. In altre parole, fu con la Rivoluzione Agricola, più che con la Rivoluzione Industriale, che l’umanità sbagliò strada.»[6]

Che la civilizzazione abbia condotto la specie umana a forme parossistiche di sopraffazione e autodistruzione è vero, ahinoi; ma che abitare sugli alberi e vivere in simbiosi con l’innocenza delle felci sarebbe stato assai preferibile, è un concetto di matrice puramente culturale.

Il paradosso finale

Ho girato intorno al tema che sta a cuore ai lettori di questa rivista – «un’idea di pubblicità» – e me ne sono discostato alquanto, applicandomi a qualche riflessione su alcuni degli argomenti usati dai critici più severi, illustri e non, di ieri e di oggi. Ne ho ricavato, a beneficio di chi opera nel marketing e nell’advertising, una constatazione paradossale: sputare in blocco sulla pubblicità, senza fare distinzioni di contenuto o anche semplicemente estetiche, aiuta a peggiorarla nel suo insieme. Anche tollerarla con snobismo come si tollera un male necessario, considerarla una risorsa utile ma secondaria e capricciosa, comunque indegna di approfondimenti e di studio, aiuta a peggiorarla nel suo insieme.

Sono appena tornato da un viaggio a Londra, dopo anni di assenza. Anche se non ho visto, sui muri, i memorabili exploit d’una volta – ricordo i manifesti straordinari di Benson & Hedges, di Heineken, dell’Economist– riconfermo la mia impressione di sempre: le affissioni fanno di quella città, soprattutto nelle stazioni della metropolitana, una specie di elegante pinacoteca. Non tutto ciò che si vede è degno di nota, naturalmente; ma l’effetto d’insieme è così civile da costituire un arredo urbano più che decoroso, mentre altrove – Italia e Grecia, tanto per non sbagliare – la pubblicità esterna (comprese le insegne di bar, pizzerie e negozi) tende a sfregiare e sfigurare l’ambiente anziché a farselo alleato. Succede che a Londra i migliori esempi di comunicazione gettano una luce rispettabile su tutta la pubblicità, anche la più banale; mentre da noi avviene il contrario: la maggior parte dei manifesti è così raffazzonata da sputtanare anche l’opera d’arte che sfortunatamente finisse incollata tra una promozione 3x2 e quella di un salone da fitness.

Nel Regno Unito le istituzioni tengono in alta considerazione l’opportunità di dialogare col cittadino attraverso gli spazi disponibili e gli strumenti tipici dell’advertising. L’underground trabocca di riproduzioni di opere d’arte per promuovere la visita – gratuita per tutti, tranne che per le esposizioni temporanee – della National Gallery, della Tate Britain, della Tate Modern, del Victoria and Albert e altri musei. Il passeggero è continuamente sollecitato, anche a bordo dei treni, da messaggi informativi ed educativi del sistema Transport for London, spesso firmati dal Mayor, il sindaco. Tutti i messaggi – spesso anche di scuse in caso di lavori in corso o altri disagi – cercano l’effetto interattivo, esortando il passeggero a dire la sua attraverso i siti web istituzionali. Ci sono inviti ed istruzioni precise su come soccorrere altri viaggiatori in caso di malore. Per visualizzare una di queste campagne educationalè stato reclutato uno street artist molto amato dai teenager. E a proposito di artisti di strada, specialmente musicisti: il Mayor of London non solo non li considera mendicanti o importuni, ma invita i cittadini a prestargli attenzione e ascolto, come si deduce da appositi avvisi nel tube.

La comunicazione, insomma, come strumento pregiato di mediazione tra l’utopia della città ideale («The Mayor wants London to be the “best big city in the world”», si legge in uno dei siti ufficiali della municipalità) e la collaborazione collettiva. Il versante “sociale” della pubblicità è così onnipresente e curato da influire positivamente anche sull’advertising commerciale. Si possono criticare ad libitum la storia e le colpe della civilizzazione, ma una pubblicità concepita come dialogo, servizio, valore, ricchezza di idee e contenuti può contribuire a rendere un po’ più vivibile un mondo già gravato da troppi altri problemi.

© P.B.







[1] In Printer’s Ink, 1962; in it. vedi “Bernbach vs Toynbee” in Bernbach pubblicitario umanista, a cura di Giuseppe Mazza, Milano: Franco Angeli, 2014.
[2] Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialektik der Aufklärung. 1947; ed. it. Dialettica dell’illuminismo, Torino: Einaudi, 1966.
[3] Il citatissimo autore de I persuasori occulti, pamphlet contro l’advertising del 1957 (ed. it: Torino: Einaudi, 1958).
[4] Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, 1964.
[5] J. Zerzan, da un articolo del 1997 ripreso nella raccolta Running on Emptiness. The Failure of Symbolic Thought, ed. it. Senza via di scampo? Riflessioni sulla fine del mondo, Roma: Arcana/Vivalibri, 2007.
[6] Da un articolo del 1995 ripreso nella stessa raccolta della nota precedente.

Capolavori furibondi: The Revenant

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Alejandro González Iñárritu è nato con un apparente svantaggio: quello di venirsi a trovare in un mondo sovraccarico di immagini, un’epoca in cui tutto è stato visto e stravisto. Eppure il suo cinema non smette di sorprenderci: persino di acchiapparci per la gola, emozionarci fino al pancreas, strapparci dal cranio lo scalpo di tutte le idee precostituite sulla tecnica e sull’arte della narrazione. Il suo ultimo lavoro, The Revenant, consiste nella superba revisione e reinvenzione di uno dei generi più popolari, il western; e ci dice quanto sia antiquata e superflua la distinzione, tuttora corrente, tra mainstream e cinema d’autore, intrattenimento e ricerca, spettacolo e contenuto. Certe sequenze – come quella, davvero impressionante, del doppio attacco degli orsi a DiCaprio ­– sono degne di irrompere nel campionario iconografico della storia del cinema, accanto alla scalinata di Odessa di Ėjzenštejn e al bagno di Anita Ekberg nella fontana di Trevi. A proposito di Ėjzenštejn: se io fossi la 20th Century Fox, arderei dal desiderio di commissionare a Iñárritu il remake di Potemkin. Chissà cosa ne potrebbe fare. E cosa ne penserebbero Fantozzi, Zalone e i carciofi.
Leonardo DiCaprio.

Si dirà: Ėjzenštejn faceva (quasi) tutto da solo, come Welles e Chaplin e altri grandi papà, mentre alle spalle di Iñárritu c’è un’industria colossale, un cantiere smisurato come quello della fabbrica d’un grattacielo. Embè? Provateci voi a dirigere la costruzione d’un monumento. Al cinema, il budget e lo spiegamento di forze possono partorire furibondi capolavori, come The Revenant; oppure kolossal di accidiosa banalità, se a comandare le danze sono capisquadra di mezza tacca, col cervello abbrustolito dal marketing e il cuore intasato dai dollari.
Tom Hardy.

I maniaci del plot troveranno da ridire sulla linearità della trama, sui tempi lunghi, sull’ovvietà del topic: massima ingiustizia subìta, adeguata vendetta in arrivo. Ma è come si sviluppa l’epos a fare la differenza. Perché la tensione non brucia solo per la ferocia dell’avventura, ma anche e soprattutto per la ricchezza critica – e spaventosamente attuale – dei temi evocati dal regista e dal suo cosceneggiatore, Mark L. Smith: dal cinismo capitalista (il business delle pelli nel cruento tragitto dal cacciatore al consumatore) alla protervia militare e mercenaria delle potenze coloniali, dal razzismo genocida contro i nativi americani alla disgustosa ignoranza che produce odio e abiezione. Altrettanto odierno, e denso di valenze antropologiche, antieroiche ed ecologiche, è il conflitto tra natura e cultura: il paesaggio invade la scena con i suoi artifici più ostili, sfodera la sua terribile bellezza contro tutto e contro tutti, intrappolando e sbattendo in ginocchio il più avido e intraprendente dei suoi figliastri e saccheggiatori, l’uomo.
DiCaprio.

In The Revenant tutto è noto ma tutto è nuovo: dall’espressionismo degli spazi naturali al livore fotografico e spietato di Emmanuel Lubezki, da annoverare tra i giganti della cinematography; dalla recitazione di DiCaprio e di Tom Hardy, che impersona lo squallido antagonista Fitzgerald, alle musiche distillate da Ryuichi Sakamoto e Carsten Nicolai come fossero voci e suoni dell’ambiente; dal montaggio di Stephen Mirrione alla perizia di truccatori, costumisti, sound designer ed effettisti d’ogni mansione.

La geografia del film sembra univoca, nordica e glaciale anche se le riprese sono state effettuate in diverse location: dalla Terra del Fuoco a Calgary e altri paradisi canadesi, dalla Sierra Madre messicana ai parchi naturali del Montana, dell’Arizona, della California. Altri avrebbero ricavato, dall’immenso patrimonio paesaggistico di quei luoghi, risapute cartoline illustrate di luminoso splendore; Iñárritu e Lubezki ne fanno teatri di dolore, di sventura, di una wilderness che sbalordisce per armonia e crudeltà.

Sembrano molto lontani i tempi delle sparatorie e delle risse stilizzate, anche dai grandi padri del western. Qui domina il realismo più cupo e rigoroso: la sofferenza è sofferenza, la morte è morte, non solo un botto d’arma da fuoco cui corrisponde, in controcampo, la caduta da cavallo d’uno stuntman. Non si sviene per un pugno alla mascella. Qui c’è il dolore in tutta la sua primordiale fisicità, senti la pelle strappata dalla carne, l’oscenità del delitto e della violenza, il lamento di chi crepa. La verosimiglianza si fa stupore, immedesimazione, storia.

Certo: al cinema anche gli outsider hanno precedenti, e The Revenant non fa che elevare al massimo grado intuizioni, sensibilità e lezioni imparate all’università del western e del duello, con testi sacri che vanno dal Ford di Sentieri selvaggi all’Altman de I compari, dal Penn di Piccolo grande uomo al Pollack di Corvo rosso, non avrai il mio scalpo! Più modernamente, Iñárritu non concede nulla al sentimentalismo, all’illusione, alla consolazione, alla simpatia. The Revenantè un film meravigliosamente cattivo. Mai didascalico, eppure (pardon per la rima) impetuosamente istruttivo.

© Pasquale Barbella



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