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Charleston

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A diciotto anni, dopo lo scoppio della guerra, si arruolò per un anno nell’arsenale di Charleston, come mozzo, a lucidare ottoni. –– Francis Scott Fitzgerald, Il fannullone[1]
Charleston, South Carolina. Il New Cooper River Bridge visto dal Waterfront Park. Foto: Steve Grundy.

Charleston


Charleston, la città portuale del South Carolina dove un razzista ha ucciso in chiesa nove afroamericani il 17 giugno 2015, è famosa per almeno due motivi. Ebbe un ruolo primario nello scoppio della Guerra di secessione, perché le guarnigioni locali scatenarono subito un’offensiva militare contro il fortino unionista presente nel porto. Il secondo motivo è musicale: ha dato il nome al ballo che andò tanto di moda negli “anni ruggenti”. Non solo: nel porto di Charleston è ambientata la vicenda di Porgy and Bess, scritta da un romanziere del luogo, DuBose Heyward, e poi musicata da Gershwin.

Affacciata sull’Atlantico, la città, meta turistica molto apprezzata dagli americani, conta all’incirca 130.000 abitanti. Un quarto della popolazione ha origini africane. Il centro storico, miracolosamente risparmiato dal perfido uragano Hugo del 1989, è raccolto su una penisoletta formata dai fiumi Ashley e Cooper. Lo stragista della chiesa ha inferto un brutto colpo all’immagine moderna di questa ridente Holy City[2], amministrata fin dal 1877 – senza interruzioni – da leader democratici e apprezzata per la vivacità della  scena culturale. Gian Carlo Menotti vi ha istituito, nel 1977, un American Spoleto Festival equivalente, per contenuti d’avanguardia, al modello italiano.
Eubie Blake in un ritratto di Tom Caravaglia, 1979. Nato nel 1883, il pianista e compositore di Charleston ragè vissuto per un secolo. A quindici anni, senza il permesso dei genitori, suonava già il pianoforte all’Aggie Shelton’s, un bordello di Baltimora.

A ritmo di charleston

I neri di Charleston hanno contribuito non poco alla definizione del background culturale della musica d’America. E la musica è quanto di meno razzista esista al mondo, specialmente in un paese fondato sulla molteplicità etnica. Le tradizioni dei gullah, discendenti dagli schiavi delle piantagioni del South Carolina e della Georgia, hanno avuto profonda influenza sulle origini del jazz. Musiche e ritmi che scandivano le fatiche degli scaricatori di porto di Charleston ispirarono al pianista nero Eubie Blake, già nel 1899, Charleston rag, composizione non meno anticipatrice di quelle di Scott Joplin, pubblicata però solo nel 1915. La febbre del charleston iniziò invece con l’omonimo brano pianistico di James P. Johnson, composto nel 1913. Dieci anni dopo, il Charleston di Johnson – con parole aggiunte da Cecil Mack – arrivò sui palcoscenici di Broadway, nella rivista all-black Runnin’ wild di Flournoy Miller e Aubrey Lyles.
James P. Johnson (1894-1955), pioniere – con Jelly Roll Morton – del pianismo stride. Nel 1913 compose Charleston, il brano all’origine del popolare ballo in voga negli anni venti del secolo scorso.

Affermato compositore ed esecutore di ragtime, Johnson fu l’iniziatore del pianismo stride e si distinse, tra l’altro, come accompagnatore di Bessie Smith in varie registrazioni per la Columbia. All’inizio, Charlestonè solo una delle tante composizioni di ragtime e il titolo nasce come omaggio alla città del South Carolina. A New York, Johnson usava suonarla alle feste da ballo dei portuali immigrati da quello stato. L’arrangiamento del 1923 in Runnin’ wild e l’esuberante performance di Elisabeth Welch, coreografata da Willie Covan, fanno di Charleston il virus scatenante di una moda prima americana, poi internazionale. Welch incide il motivo accompagnata da Paul Whiteman e la sua orchestra.
Elisabeth Welch (1904-2003) lanciò il charleston in una rivista di Broadway, Runnin’ wild, nel 1923. Questo ritratto, eseguito dal grande fotografo di celebrità Carl Van Vechten, risale al 1933.

Subito dopo la prima guerra mondiale, negli Stati Uniti si diffonde una gran voglia di feste danzanti e ritmi sincopati. Il ragtime fornisce la materia prima a una serie di derivazioni atte a scatenare le orchestre da ballo, le dive del vaudeville e i muscoli della nazione. Piace la musica che impegna atleticamente le spalle, il bacino e le articolazioni con bruschi scuotimenti e torsioni, serpeggiamenti e giravolte, scatti e sobbalzi, oscillazioni e dondolii. Nel 1918 esplode la moda dello shimmy, partita da un caffè di Chicago frequentato da gente di colore e rimbalzata nei teatri di Broadway. Gilda Gray si agita a tempo di shimmy al Winter Garden su un arrangiamento di St. Louis blues, e più tardi fa impazzire gli spettatori del varietà The Ziegfeld Follies of 1922 con la sfrenata esibizione in un pezzo intitolato It’s getting dark on old Broadway. La bomba erotica Mae West si dà da fare in un’operetta di Rudolf Friml, Sometime, e la sua immagine compare sullo spartito originale di Everybody shimmies now. Bea Palmer non è da meno e si muove con I want to learn to jazz dance. Ethel Waters, prima di affermarsi come cantante meravigliosa, si fa notare come ballerina di shimmy.
Dorothy Sebastian, Joan Crawford e Anita Page nel film Le nostre sorelle di danza (Our dancing daughters, 1928) di Harry Beaumont.

La voga del charleston domina la vita sociale per un triennio. Le cronache del tempo, come ricorda David Ewen in All the years of American popular music[3], riferiscono di ragazzini che lo ballano sui marciapiedi, all’esterno dei teatri, per mendicare spiccioli; di cinquanta morti a Boston nel crollo del Pickwick Club, dovuto alle vibrazioni inferte al pavimento dalla moltitudine scalpitante; di una maratona di charleston alla Roseland ballroom di New York protrattasi per circa ventitré ore consecutive. Allo Small’s Paradise, uno dei club più in vista di Manhattan, i camerieri ballano il charleston te­nendo in equilibrio i vassoi. Nel 1925, tra le famiglie bianche altolocate in cerca di personale domestico, si diffonde il vezzo di assumere collaboratori afroamericani capaci di insegnare il nuovo ballo ai padroni. Joan Crawford, neodiva della Metro-Goldwyn-Mayer, balla il charleston in un film muto, Our dancing daughters (1928) di Harry Beaumont.
In Francia la profetessa del charleston è Josephine Baker, ballerina di Saint Louis importata da Broadway. Con la nuova danza lancia anche la moda dei capelli à la garçonne, ovvero “alla maschietta”, come sotto il fascismo si preferisce tradurre da noi. 

Era inevitabile l’espansione in Europa di quella moda così elettrica. Josephine Baker ne fa, a Parigi, la nuova attrazione delle Folies-Bergère. Cole Porter, dal canto suo, fa casino sulla Laguna. «A Venezia, nell’estate del 1926, i Porter alloggiavano a Ca’ Rezzonico, ma sentivano la mancanza di qualcosa», scrive William McBrien, uno dei suoi biografi. «Decisero che era il charleston. Allora chiesero a Bricktop {una vedette afroamericana che furoreggiava nei cabaret parigini, ndr} di venire a passare l’estate con loro. Per fortuna era libera nei mesi che i parigini trascorrono en vacances, e per di più non era mai stata a Venezia. I Porter avevano già ingaggiato Leslie Hutchinson per suonare e dirigere l’orchestra da ballo sul proprio battello, e lo trattennero per animare i party estivi. Bricktop aveva già lavorato in precedenza con la sua band, il che costituiva per lei un ulteriore richiamo.»[4] I sollazzi porteriani suscitano l’indignazione di Serge Djagilev, il leggendario impresario e direttore artistico dei Ballets Russes. Al segretario, librettista e amante Boris Kochno scrive in una lettera: «Tutta Venezia è sul piede di guerra contro Cole Porter a causa del suo jazz e dei suoi negri. Ha messo su un demenziale nightclub su un barcone ormeggiato alla Salute, e così adesso per tutto il Canal Grande sciamano proprio quegli stessi negri che ci avevano fatto scappare da Londra e da Parigi. Insegnano a ballare il charleston sulla spiaggia del Lido! È orribile. I gondolieri minacciano di massacrare tutte le vecchie americane di stanza qui. Il solo fatto di aver preso in affitto il Palazzo Rezzonico fa molto nouveaux riches[5]
Yes, Sir, that’s my baby, scritta nel 1922 per Eddie Cantor (idolatrato commediante del vaudeville) da Gus Kahn e Walter Donaldson, diventò il charleston più famoso d’Italia con il titolo Lola: «Lola, cosa impari a scuola? / Manco una parola sai di charleston», secondo i versi di Angelo Ramiro Borella. Il regime fascista proibì agli uomini in uniforme di sputtanarsi con quel ballo indecoroso.

Non solo a Venezia, ma in tutta Italia i «balli negri» spopolano, non senza scorno delle autorità fasciste e degli intel­lettuali più fedeli alle italiche virtù. Anton Giulio Bra­gaglia, uomo di teatro e intellettuale dai molti interessi, pone mano alla penna nel 1929, anno VII dell’era fasci­sta, per rivendicare perentoriamente l’urgenza di studi e sperimentazioni sulla creatività musicale e coreografica d’Italia contro il dilagare delle danze esotiche. Il libro (edito da Corbaccio) s’intitola Jazz band e tratta la «ritmica dei negri» con mal dissimulata ammirazione, sfociante qua e là in bordate di livore razzista indegne dell’autore: «L’estetica del Charleston è l’espressione più risoluta d’una dottrina estetica antiellenica, diciamo subito per in­tenderci. Ardita­mente piantando i termini d’un gusto nuovo per noi, — diverso, ep­però barbaro, come si dice qui da tre­mil’anni — si capisce che non solo non è un debito per il ballo ne­gro americano, l’essere goffo e animalesco, ma è un ca­rattere, una origina­lità, una virtù. Quanto più impone il proprio carattere violentemente, tanto più esso è virtuoso. Infatti sembrerà goffo e osceno a noi, ma per colpa della vecchia estetica greca, maestra gelosa, esclusivista, dogmatica. [...] I popoli primitivi si ispirano danzando agli spiriti maligni ed agli animali. Ecco le fondamenta del Charleston. [...] Le frenesie delle epilettiche torsioni di Char­leston sanno insieme di ginnastica sessuale e di mec­canazione della vita.»
Copertina dello spartito di una delle canzoni di Porgy and Bess, 1935.

Porgy and Bess


Porgy and Bessdebutta al Colonial Theatre di Boston il 30 settembre 1935 prima di approdare, dieci giorni dopo, all’Alvin di New York, con la regia di Rouben Mamoulian e l’orchestra diretta da Alexander Smallens. Tra le perle del primo atto: Summertime (Abbie Mitchell nel ruolo di Clara), My man’s gone now (Ruby Elzy nel ruolo di Serena). Nel secondo atto: I got plenty o’ nuttin’ (Todd Duncan nel ruolo di Porgy), Bess, you is my woman now (duetto di Todd Duncan e Anne Brown, ossia Porgy e Bess), It ain’t necessarily so (John Bubbles nel ruolo di Sportin’ Life), I loves you, Porgy (Anne Brown). Nel terzo atto: There’s a boat dat’s leavin’ soon for New York (Anne Brown). L’opera è un adattamento di Porgy, romanzo (1925) di DuBose Heyward, poi dramma teatrale (1927) dello stesso Heyward e di sua moglie Dorothy, ed è un indimenticabile — e inizialmente incompreso — tributo alla negritudine da parte di George Gershwin, ebreo bianco di origine russa.
Charleston, South Carolina. Il vecchio mercato degli schiavi, costruito nel 1859 e oggi adibito a museo.

Per Summertime, Gershwin si ispira vagamente all’inciso di St. Louis blues di W.C. Handy. Un altro ebreo bianco, Jerome Kern, aveva eretto otto anni prima — in Show boat— un analogo monumento al pathos afroamericano: Ol’ man river. La musica degli schiavi entrava nel pentagramma dei compositori bianchi, a dimostrare che non può esserci apartheid dove arte, sensibilità e intelligenza regnano sovrane. Porgy and Bessè una vasta miniera di gemme, molte delle quali, a cominciare da Summertime, brilleranno di vita propria, isolate dalle altre, adattandosi flessibilmente agli stili di esecuzione più vari: come se le arie della Turandot o della Butterfly si prestassero, senza opporre resistenza e senza suscitare scalpore fra i critici, ai virtuosismi vocali di una Fitzgerald o strumentali di un Miles Davis. Nelle intenzioni di Gershwin Porgy and Bess è, a tutti gli effetti, un’opera lirica; la differenza sta nelle matrici culturali, che qui si chiamano gospel, spiritual, Broadway e jazz. A chi gli obietta che è solo una suite di canzoni, l’autore replica che la Carmen di Bizet non è poi tanto diversa. Per noi è un magnifico esperimento di musica trasversale, di quelli che possono fiorire in America: paese che, orfano di tradizioni autoctone – quelle che c’erano erano state purtroppo spazzate via dalla violenza del colonialismo più brutale – e di radicate convenzioni estetiche, ha saputo coltivare tutti gli stimoli con entusiasmo e verginità mentale, senza complicazioni e incrostazioni accademiche.
Fuga di schiavi in una vecchia illustrazione conservata all’Old Slave Mart Museum di Charleston.

Schiavi venduti all’asta in un cartello conservato all’Old Slave Mart Museum di Charleston.

La vicenda di Porgy and Bess si svolge a Charleston, nella zona portuale di Cabbage Row ribattezzata col nome fittizio di Catfish Row, e i suoi protagonisti sono tutti neri. Heyward, l’autore della storia, era un uomo d’affari di Charleston con un sincero interesse per la letteratura realistica, e con sua moglie Dorothy aveva a lungo osservato, con occhio da antropologo, la vita e i comportamenti nei ghetti della città. La trama: Crown, scaricatore di porto, uccide un compagno di gioco dopo una partita a dadi e se la svigna, lasciando sola la sua donna, Bess. Circuita da Sportin’ Life, cinico ma simpatico spacciatore di cocaina che vorrebbe portarsela a New York, Bess preferisce rifugiarsi nel tugurio di un mendicante zoppo, Porgy, innamorato perso di lei. Ma Crown ritorna con le peggiori intenzioni; rivuole la sua amante ad ogni costo. Durante una lite, Porgy uccide il rivale con una coltellata al torace per difendere Bess. Viene arrestato e rilasciato dopo pochi giorni di detenzione, ma nel frattempo lei si è decisa a seguire Sportin’ Life a New York. Porgy non demorde: si mette in strada, con un carretto di stracci tirato da una capra, per andare a snidarla nella metropoli sconosciuta.
La Jenkins Orphanage Orchestra (foto del 1905 circa), jazz band di adolescenti fondata nell’Harleston Village di Charleston verso la fine del secolo XIX.

La storia narrata da DuBose Heyward con tre diversi mezzi espressivi (romanzo, teatro di prosa, teatro musicale) si ispira, assai liberamente, a personaggi e fatti di cronaca autentici. La figura di Porgy ricalca quella di un vero accattone di Charleston: Samuel Smalls, sciancato, lunatico e violento, che circolava per Cabbage Row, nei bassifondi della città, con la capra e il carretto; e che aveva spesso avuto guai con la giustizia, soprattutto per aggressioni e tentativi di stupro. Porgy non è pericoloso come “Goat Sammy”, Sammy della Capra, il suo modello; è solo altrettanto miserabile, brutto, deforme ed emarginato (un equivalente del Quasimodo di Notre-Dame de Paris); condizione che rende, per contrasto, eroico e sublime il suo amore per Bess.

Non mancarono dure critiche a Porgy and Bess da parte di artisti e intellettuali neri, a cominciare da Duke Ellington: accusarono Heyward e Gershwin di paternalismo e inautenticità nella loro rappresentazione stereotipata dei “poveri negri”, e considerarono velleitario e forzato il tentativo di ibridare la musica afroamericana con la cultura dei ricchi europei. Molte di quelle critiche sono state in parte ridimensionate da commentatori altrettanto autorevoli, ma in teatro Porgy and Bess ha sempre attratto in larga maggioranza spettatori bianchi. L’opera si apre con la ninna-nanna più famosa del secolo:

Summertime, and livin’ is easy,
Fish are jumpin’ and cotton is high.
Oh, your daddy’s rich
And your ma’ is goodlookin’,
So hush little baby and don’t you cry...

«Tempo d’estate, ed è facile la vita, / i pesci guizzano ed è alto il cotone. / Sì, tuo padre è ricco / e tua madre è bella, / e allora sta’ buono, piccolo, e non piangere...» Le parole rievocano il mondo dei possidenti del sud, le piantagioni, gli schiavi, le balie fedeli, insomma l’universo che di lì a un anno, nel 1936, Margaret Mitchell descriverà nel bestseller Via col vento e che nel 1939 Victor Fleming tradurrà nell’omonimo affresco cinematografico.
Clark Gable interpreta in Via col vento il personaggio di Rhett Butler, spregiudicato affarista. La vicenda si svolge ad Atlanta, ma Butler viene da Charleston e gode di pessima reputazione in tutto il South Carolina. In realtà è uno dei protagonisti meno indecenti del romanzo e del film.

My man’s gone now, cantata dal personaggio di Serena, vedova dell’uomo assassinato da Crown, corrisponde a un momento altamente drammatico del primo atto. It ain’t necessarily soè il pezzo forte di Sportin’ Life, il personaggio buffo della storia, che qui si diverte a contestare alcuni passi della Bibbia con scetticismo un po’ satanico: la melodia – in cui vengono allo scoperto modi del folklore ebraico, spesso presenti ma non sempre facilmente percepibili nella musica di Gershwin – ha un andamento ambiguo, serpentino, tentatore.
Le canzoni di Porgy and Bess nella storica incisione Verve del 1957, con le voci di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong.

La storia discografica di Porgy and Bess e delle singole arie che la compongono è pressoché infinita. Già nel 1936 esce per la Vocalion un’interpretazione imperdibile di Summertime, quella di Billie Holiday. Limpida come cristallo la versione di Ella Fitzgerald, che con Louis Armstrong e l’orchestrazione di Russell Garcia incide per la Verve, nel 1957, i momenti più emozionanti dell’opera. Altrettanto irrinunciabile la superba suite strumentale di Miles Davis con l’orchestra e gli arrangiamenti di Gil Evans. Frequenti anche i tributi dal mondo della lirica, tra i quali vanno ricordati almeno quelli di Eileen Farrell (1957), Leontyne Price (1965), Cathy Berberian (1970), Barbara Hendricks (1986), Kiri Te Kanawa (1987), Kathleen Battle (1991). Discutibile, anche se adorata da milioni di fan, la Summertime di Janis Joplin, nevroticamente sopra le righe.

Al cinema Porgy and Bessci va nel 1959: è l’ultima produzione di Samuel Goldwyn, e la regia è di Otto Preminger. Porgy è Sidney Poitier, doppiato da Robert McFerrin (padre di un altro vocalista formidabile, Bobby McFerrin). Bess è Dorothy Dandridge, doppiata – lei che pure è stata una cantante di tutto rispetto – da Adele Addison, forse per sopperire a limiti di estensione vocale. Brock Peters è Crown. Sammy Davis Jr. .;impersona Sportin’ Life, ma nel disco Columbia con la colonna sonora originale è sostituito, per problemi contrattuali, da Cab Calloway. Loulie Jean Norman doppia un’altra cantante, Diahann Carroll, nel ruolo di Clara (la balia di Summertime), mentre Ruth Attaway, doppiata da Inez Matthews, è Serena (My man’s gone now). Direzione d’orchestra e supervisione musicale di André Previn con la collaborazione di Ken Darby, entrambi premiati con l’Oscar. Anne Brown, Bess sul palcoscenico, interpreta Summertime in Rhapsody in blue di Irving Rapper, biografia romanzata di Gershwin impersonato da Robert Alda.

© Pasquale Barbella

Charleston, South Carolina, 1969. Coretta Scott King (al centro), vedova di Martin Luther King, partecipa a uno sciopero contro la discriminazione del personale di colore del Medical College Hospital. Foto: Avery Research Center.






[1]“The Jelly-bean”, comparso sul Metropolitan Magazine, ottobre 1920; poi nella raccolta Tales of the jazz age, Scribner’s, New York 1922; ed. it. “Il fannullone”, trad. Giorgio Monicelli, in Racconti dell’età del jazz, Mondadori, Milano 1968.
[2]Gli stati e le principali città degli USA amano identificarsi in uno slogan. Holy City sta a Charleston come Big Apple sta a New York.
[3]Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1977.
[4]William McBrien, Cole Porter – A biography, Alfred A. Knopf, New York, 1998.
[5]W. McBrien, ibidem.

Alla Grecia con dolore

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Atene, 2013. Foto di Alex Majoli, Magnum Photos.


Kaimós (Il dolore)

Parole di Dimitris Christodoulou
Versione italiana di Sandro Tuminelli
Musica di Mikis Theodorakis
Grecia, 1962

È un fiume amaro dentro me
il sangue della mia ferita,
ma ancor di più è amaro il bacio
che sulla bocca tua mi ferisce ancor.

Lunga è la spiaggia e lunga è l’onda,
l’angoscia è lunga, non passa mai.  
Cade il mio pianto sul mio peccato,
sul mio dolore, che tu non sai.

E tu non sai che cosa è il gelo,
cos’è la notte senza luna
e il non sapere in quale istante
il tuo dolore ti assalirà.

Lunga è la spiaggia e lunga è l’onda,
l’angoscia è lunga, non passa mai.  
Cade il mio pianto sul mio peccato,
sul mio dolore, che tu non sai.
Mikis Theodorakis a Parigi nel 1967.

La canzone fu presentata per la prima volta nella rivista Omorphi poli {La bella città} da Grigoris Bithikotsis e ripresa nel 1963 dalla sedicenne Maria Farantouri, diventata da quel momento l’interprete più rappre­sentativa delle canzoni di Theodorakis. Ver­sione italiana per Iva Zanicchi: Un fiume amaro, testo di Sandro Tuminelli molto fedele all’originale. Versioni francesi: Attendre, attendre, testo di Claude Lemesle, e L’amour brillat dans tes yeux. Tedesca: Ich hab’ die Liebe geseh’n.

Canto dell’esilio e dello struggimento di un artista, Theodorakis, perseguitato per le sue idee politiche dal regime dittatoriale im­posto in Grecia dal colpo di stato militare del 21 aprile 1967 e durato sette anni. Quando i colonnelli si impadroniscono del potere, Theodorakis è da tre anni delegato del partito di sinistra nel parlamento, oltre che presidente dell’Organizzazione giova­nile Lambrakis. La sua musica viene imme­diatamente proibita nonostante i numerosi successi conseguiti in patria e all’estero, gli studi con Messiaen, l’ammirazione di Mil­haud e le appassionate analisi teoriche ela­borate con Jannis Xenakis sulla riforma della musica greca. Finisce anche in pri­gione. Liberato nel 1970, fonda e presiede in esilio il Fronte di liberazione patriottico chiamando a raccolta tutte le forze di oppo­sizione alla giunta di estrema destra.

Un fiume amaro dentro me
è il sangue della mia ferita...

diventa molto popolare in Italia nell’interpretazione della Zanicchi, ma a molti sfugge l’esatto e doloroso senso politico di quei versi dedicati alla Grecia. Kaimósè una melodia mediterranea di respiro quasi sa­crale, intimamente legata alle radici del fol­klore ellenico, pervasa di passione e soffe­renza. Fa parte della produzione più popo­lare di un autore la cui opera spazia fra composizioni sinfoniche, oratori, teatro li­rico, musica per balletto e canzoni (circa 750).
Mosca, 1966. Maria Farantouri con Aram Khachaturian.

Selezione discografica

1962, Grigoris Bithikotsis, Paikse Grigori mou, Capitol.
1967, Mikis Theodorakis, The Greek sound, Columbia.
1970, Iva Zanicchi, Caro Theodorakis, Ri-fi.
1971, Melina Mercouri (“Attendre, attendre”), Master série, Podis/PolyGram.
1972, Vicky Leandros (“Ich hab’ die Liebe geseh’n”), Singt Mikis Theodorakis, BMG.
1995, Mikis Theodorakis, Mikis Theodorakis & Maria Farantouri: The birthday concert ’95(live), Bravo Records.
2005, Yannis Parios, O erotikos Theodorakis, EMIGrecia.

Spiazzamento

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Questo testo è stato pubblicato per la prima volta nel volume di autori vari Il dolce tuono. Marca e pubblicità nel terzo millennio a cura di Marco Lombardi, Milano: Franco Angeli, 2000. Lo ripubblico qui dopo quindici anni, con qualche correzione.

Introduzione.

Com’era prevedibile, il passaggio “magico” dal 1999 al 2000, con il suo portato di curiosità, eccitazione, spavento (il bug! la fine del mondo! il raddoppio di “mille e non più mille” di gotica memoria!) e predisposizione a una sorta di cambiamento universale e definitivo (tecnologie da fantascienza! Internet che più internet non si può! la clonazione umana! la vita su Marte!), ha generato in tutti i campi ogni sorta di bilancio e una sola domanda, che però le riassume tutte: «Dove va l’umanità?»

«Dove va la pubblicità?» è la domanda che mi viene rivolta più spesso ultimamente. Non è facile rispondere, perché non è facile nemmeno sapere con esattezza dove stia adesso, la pubblicità, o dove stesse prima del fatidico 2000. La pubblicità “sta” e non “sta”, “va” e “non va” allo stesso tempo; è statica e mobile, multiforme e capricciosa, è tutto e il contrario di tutto, e continuerà a essere tutto e il contrario di tutto, com’è giusto che sia. Ogni giorno il pianeta sforna migliaia e migliaia di messaggi commerciali, attraverso i mezzi che c’erano e i nuovi mezzi che hanno fatto irruzione nella nostra vita. Si tratta di una molteplicità che azzera la concezione del tempo e dello spazio: se si va al Festival di Cannes, per esempio, e si osservano pazientemente i cinquemila spot in programma, si scopre che il passato è più resistente di ogni possibile futuro, e che si avvicendano sullo stesso schermo gli approcci più risaputi e prevedibili con quelli che, cogliendoci di sorpresa e “spiazzandoci”, ci fanno dire: «Oh!». Il pubblico di Cannes talvolta dormicchia, talvolta si sveglia e reagisce fisicamente agli stimoli, alternando fischi di disapprovazione (molti) a ululati di soddisfazione (pochi).

Dove va la pubblicità? Si potrebbe rispondere che va dove è sempre andata: verso una speranza di sicurezza del risultato, raggiungibile, a seconda delle fazioni culturali che la esprimono, attraverso il canale prudente delle esperienze già collaudate (che palle!) o attraverso l’invenzione intelligente e inaspettata. Una delle parole più abusate del gergo professionale è “creatività”: ma che altro è “creare”, se non partorire qualcosa da zero? E che effetto produce un fenomeno “creato” da zero, se non quello di sorprendere e spiazzare chi lo osserva?

Se stiamo al gioco dei bilanci di fine secolo (lasciamo perdere il millennio, è troppo laborioso nonché arrogante presumere di affrontarlo) e delle indicazioni e previsioni e modus operandi per il prossimo futuro, scopriremo che in un universo della comunicazione sempre più complesso e sofisticato dovremo per forza di cose aguzzare il potere dell’intuizione e acuminare tutte le lame retoriche di cui già disponiamo. Una più di tutte: il paradosso, tema ricorrente di questo libro a più voci.

Proviamo a liquidare sommariamente i bilanci del Novecento. Nei suoi ultimi anni, qualcuno lanciò a più riprese una sfida agli intellettuali: con quale formula riassuntiva definire il Novecento? Cos’è che lo ha caratterizzato? Se il Settecento è stato “il secolo dei lumi”, se l’Ottocento è stato “il secolo del romanticismo”, che cavolo di secolo è stato quello appena defunto? Da qualche parte si è letto che è stato “il secolo della morte”. Giudizio crudele ma esatto: le guerre e i conflitti di ogni genere hanno prodotto nel Novecento qualcosa come duecento milioni di morti ammazzati, imbarazzante e ferocissimo record dovuto, duole riconoscerlo, alle meraviglie del progresso tecnologico e industriale. Il Novecento ha reso possibili gli sterminî di massa, laddove ammazzarsi era sempre stato un paziente, artigianale e defatigante esercizio da espletarsi corpo a corpo.

Ma “il secolo della morte” è una definizione che non può piacere a nessuno, e figuriamoci a noi della pubblicità, che per mandato istituzionale aspiriamo all’ottimismo. In parziale contraddizione con il “secolo della morte” e con le mostruose animosità che hanno determinato i massacri, il ventesimo secolo è stato anche caratterizzato dalla scoperta dell’ambiguità. Prendiamo le grandi teste pensanti del secolo, da Freud a Picasso, da Pirandello a Stravinskij, da Proust a Einstein: che cosa accomuna le loro intuizioni, le loro ricerche, le loro rivelazioni? Che non esiste una netta separazione fra gli opposti, né fra le dimensioni (il bene e il male, i buoni e i cattivi, la colpa e l’innocenza, la luce e l’ombra, il tempo e lo spazio, Dr. Jekyll e Mr. Hyde...) Tutto è relativo, persino il tempo (Einstein). Una persona è la somma di tutti i sedimenti in ebollizione nel suo inconscio (Freud). L’individuo è singolare e plurale a seconda delle circostanze (Pirandello: Uno, nessuno, centomila). Il volto umano rivela solo in minima parte ciò che si è (altro che Lombroso!), e se si vuole tentare una descrizione dell’io nascosto occorre rappresentarlo attraverso una lente deformante (Picasso). La valse di Debussy è un valzer che ha perso la sua solarità e la sua schematicità ottocentesca per farsi strada a gomitate in una foresta di dissonanze e impedimenti. Eccetera eccetera.

Arte, letteratura e scienza del XX secolo ci hanno insegnato che la realtà è assai più complicata di come si credeva. I fenomeni non seguono un percorso lineare ma si muovono a zigzag in una selva di contraddizioni.

È stato, insomma, il secolo del paradosso e dello spiazzamento, anche se all’uomo è spesso convenuto appoggiarsi alle semplificazioni del passato: Hitler che sbandiera liste ufficiali di “cattivi” (gli ebrei, gli zingari, i polacchi, gli omosessuali, gli artisti problematici e quant’altro); la guerra fredda che oppone netti schieramenti avversari (l’ovest, l’est).

A capire, accettare e indagare con intelligenza la scoperta dell’ambiguità sono soprattutto gli intellettuali e gli artisti, cioè i “creativi” per antonomasia. La narrativa e l’arte del Novecento ruotano intorno al Paradosso e alla Negazione dell’apparenza come la trottola intorno al suo perno. Ma cos’è il paradosso, e perché occupa un ruolo così centrale nella nostra trattazione? Partiamo dal Devoto-Oli: «Paradosso, s. m. Proposizione che contraddice il reale o presunto meccanismo logico ovvero l’esperienza comune: i p. degli stoici; più precisamente, in senso oggettivo, tesi apparentemente in contrasto con principî od opinioni generali, ma che all’esame critico si dimostra valida [...]; in senso soggettivo, affermazione che, indipendentemente dalla sua verità o falsità intrinseca, è presentata in forma tale da sorprendere il lettore o l’uditore [...] Nella letteratura greca, spec. dell’età ellenistica, breve narrazione di fatti straordinari o aneddoti bizzarri tratti dalla natura e dalla storia, per lo più raccolti in sillogi [...]» Non sembra, questa, la definizione di un annuncio pubblicitario particolarmente riuscito?

Lombardi (cap. 1) disserta con proprietà su paradosso e antinomia, anticonvenzionalità a ambivalenza, come di risorse irrinunciabili per lo sviluppo della comunicazione contemporanea. E sostiene una verità affascinante e assolutamente condivisibile allorché profetizza che «nel prossimo futuro la pubblicità sarà in competizione con l’industria culturale: dovrà divertire, dare spettacolo, aggiornarsi continuamente, stimolare interattività [...]» Il Grand Prix 1999, a Cannes, è stato vinto per unanime consenso da Litany, uno spot per il quotidiano The Independent, che non è solo un bell’esempio di pubblicità ma un’opera poetica di notevole valore espressivo.[1] La voce fuori campo di un poeta punk elenca, come in una litania, una lunga serie di divieti familiari, sociali e culturali che impediscono all’individuo di essere intimamente libero e indipendente: l’ultimo divieto da infrangere è «Don’t read», non leggere, e solo a questo punto compare visivamente il prodotto, il giornale, mai menzionato dalla voce fuori campo, ma il cui nome — The Independent — basta a chiudere il cerchio del teorema (chi sottovaluta il valore dell’informazione soggiace schiavisticamente ai condizionamenti altrui, senza mai afferrare in pieno il valore della democrazia e della libertà).

Hitch docet.

Marion Crane è una brava ragazza di Phoenix, Arizona. Fa la segretaria in un’agenzia immobiliare, ha trent’anni e sogna un marito e dei bambini, come milioni di altre ragazze in ogni parte del mondo. Ha anche un fidanzato, bello e simpatico, con un solo difetto: è già sposato. Lui abita in un’altra città ed è impiegato in un drugstore. Si danno frettolosi e clandestini convegni, una volta alla settimana e durante la pausa pranzo, in una sordida camera d’albergo. Siamo nel 1960, e la provincia americana non è molto tenera con chi pratica il sesso fuori dal matrimonio. Il ragazzo è ai ferri corti con la moglie; vorrebbe divorziare, ma non ha nemmeno i soldi per pagarsi l’avvocato.

Un venerdì pomeriggio Marion è incaricata dal suo datore di lavoro di depositare in banca 40.000 dollari in contanti. Una bella tentazione. Ci pensa, ci ripensa, e infine decide di fare la bravata che deciderà della sua vita. Invece di portare i soldi in banca, si mette al volante della sua auto e se la squaglia. Strada facendo, nella speranza di confondere le tracce, compra un’auto usata e dà in permuta la sua, suscitando la curiosità di un poliziotto. Si fa tardi, e la fuggitiva sceglie di pernottare nel motel più defilato della regione. Talmente defilato che tutte le camere sono libere. Il giovane gestore del motel, un certo Norman Bates, ha dei problemi con la madre malata, che abita nell’edificio accanto e lo tiranneggia senza mai uscire dal suo appartamento. Norman è carino, gentile, esageratamente introverso: la balbuzie è solo uno dei suoi molteplici tic. Impaglia uccelli per hobby. Ha anche un altro hobby: spiare attraverso un foro nella parete l’intimità dei suoi rari ospiti, specie quelli di sesso femminile. Marion si concede una doccia ristoratrice e catartica: è pentita del furto, ed è intenzionata a restituire il denaro l’indomani. Non ci sarà domani; Norman, colto da uno dei suoi raptus, la pugnala forsennatamente nella doccia.

Tutti avrete riconosciuto in questo sommario la trama di Psycho, il film più spiazzante di tutta la storia del cinema. È il capolavoro di Alfred Hitchcock, che dello spiazzamento fu maestro indiscusso. In Psycho tutto è spiazzante: non solo il finale, quando si scopre che la madre di Norman è morta e impagliata da dieci anni ed è lui, schizofrenico, a impersonare contemporaneamente il figlio matricida e la madre inesistente. È spiazzante, per esempio, la scelta del cast. Marion è Janet Leigh e il suo amante John Gavin, due attori molto popolari negli anni Cinquanta: tipica coppia di belli, innocenti e asessuati modello college, che qui sudano insieme nella penombra un po’ tetra degli alberghi a ore, e come se ciò non bastasse lei si mette anche a rubare. Spiazzante è la struttura narrativa del racconto: per quaranta minuti Hitchcock ci fa credere che Marion sia la protagonista assoluta della vicenda. La macchina da presa non la perde di vista un istante. Lo spettatore si appassiona al suo caso e trepida per lei: soffre perché si è messa nei guai, si chiede cosa farà con quei soldi, se tornerà indietro, se riuscirà a sposare il suo amante. Ma, del tutto inaspettatamente, l’eroina (o antieroina) Marion Crane viene brutalmente assassinata a metà film. Un colpo di scena di cui non si ricorda alcun precedente. Il protagonista diventa un altro, il suo carnefice (Anthony Perkins, altra faccia da bravo ragazzo); e poi via con altri colpi di scena tipici, e atipici, del noir. È atipico (e dunque spiazzante) che Norman ammazzi anche il detective Arbogast (Martin Balsam), proprio quando lo spettatore comincia a coltivare l’idea che tocchi a lui sciogliere i nodi della vicenda. Ed è atipica e beffarda l’ironia con cui Hitchcock gioca a rimpiattino con lo spettatore, spargendo qua e là indizi e presagi che tingono di humour anche il destino più nero: il cognome di Marion è Crane, che in inglese vuol dire “gru”, e il suo carnefice è un impagliatore di uccelli.

Non c’è storia senza viaggio, non c’è viaggio senza suspense.

Psycho, insomma, può essere considerato come un catalogo completo e articolato di detour narrativi.[2] Tutte le trame del mondo, da quelle di Omero a Cappuccetto Rosso, dalla Commedia di Dante a On the road di Kerouac, dall’Ulisse di Joyce ai racconti pulp, dagli endecasillabi dei cantastorie siciliani alla fantascienza, da Moby Dick alle soap opera, raccontano la storia di un viaggio. Nello spazio, come nell’Odissea o Easy rider, o nel tempo, come nella Recherche proustiana. Un viaggio che però non conduce dal punto A al punto B in modo noiosamente lineare, ma dopo una serie di interessanti deviazioni. Queste deviazioni, o “spiazzamenti”, sono ciò che rende imprevedibile, drammatico, ansiogeno, e quindi efficace, il racconto. Marion Crane se ne va on the road da Phoenix verso un luogo dove spera di rifarsi una vita con l’uomo amato; la tappa al motel esige una deviazione – in senso letterale – dalla highway. E che deviazione! Cappuccetto Rosso affronta una scorciatoia per arrivare a casa della nonna. La scorciatoia passa attraverso il bosco. Nel bosco c’è poca luce, e c’è il lupo. Che ne sarà della povera creatura indifesa? Cominciamo a fremere per la sua sorte. Il lupo è più astuto e creativo di un normale serial killer. Potrebbe liquidare subito la preda (come Norman Bates in Psycho), ma il suo senso estetico gli suggerisce di tirare in lungo: prima conviene divorare la nonna, poi, come dessert, la carne – più tenera e dolce – della nipotina.

Lo spiazzamento è la digressione, il “pensiero laterale” – per dirla alla Edward De Bono, suo teorico ufficiale[3]– che sta alla base di ogni forma di creatività. Nella comunicazione, non importa se artistica o commerciale, è un’alternativa necessaria alla banalità del ragionamento lineare, che nella maggior parte dei casi lascia indifferente chi dovrebbe prestarvi attenzione. La pubblicità, costretta in pochi secondi a emergere fra milioni di stimoli e informazioni, non può più permettersi il lusso di essere eccessivamente didascalica, ripetitiva, prevedibile. Non basta più, se non in casi di assoluta novità del prodotto o servizio presentato, allineare una sequenza di stereotipi acquisiti nel tempo e logorati dall’uso.

Volkswagen come Cappuccetto Rosso.

Lo spiazzamento consiste essenzialmente nell’introduzione di uno o più colpi di scena all’interno di un programma di informazioni, e ha la funzione di rendere più intenso il messaggio, sottolinearlo, portarlo all’evidenza estrema. C’è un vecchio spot, esemplare, per il “maggiolino” Volkswagen. Alta montagna, notte, bufera, strade impraticabili. Un maggiolino avanza sulla neve, s’inerpica per impervie pendenze, giunge miracolosamente a destinazione. L’autista lascia l’auto, spalanca il portale di un deposito ed esce in missione col gatto delle nevi. Anche questa è la storia di un viaggio, anche questo è un piccolo thriller. Lo spiazzamento è insito nella struttura stessa del racconto. La struttura narrativa è quella di una favola a rovescio: il contrario, speculare, di Cappuccetto Rosso. Nella favola c’è un’atmosfera idilliaca di partenza (la bella bambina, il cestino da portare alla nonna, l’incanto del bosco) su cui il narratore fa incombere sadicamente un senso di pericolo e di terrore (il lupo). Nello spot Volkswagen la piccola auto (Cappuccetto Rosso?) procede fra mille difficoltà in una notte di tregenda. Ma sull’itinerario oscuro e inquietante aleggia, al contrario che nelle favole del lupo cattivo, una speranza che ci tiene col fiato sospeso («Riuscirà il nostro eroe a raggiungere la méta?»)

Unico neo in tanta perfezione: una voce fuori campo ci avverte fin dall’inizio che il viaggiatore solitario è l’addetto alla manutenzione delle strade. Lo speaker chiacchierone dice: «Vi siete mai chiesti come fa l’uomo del gatto delle nevi a raggiungere il gatto delle nevi? Quest’uomo guida una Volkswagen. Perciò smettetela di porvi domande come questa.» Lo spot risale a quarant’anni fa;[4]fosse più recente e smaliziato, gli autori ci avrebbero quasi certamente risparmiato quel commento superfluo. E ci avrebbero riservato un bel colpo di scena, perché le immagini sono già costruite in funzione di una rivelazione teatrale che non ha bisogno di spiegazioni: la porta del garage è infatti il sipario che si frappone fra lo spettatore e le sue attese («Dove va quest’uomo di notte? Perché sfida le intemperie? Come va a finire la storia?»). Il sipario si apre, scopriamo il gatto delle nevi: il messaggio arriva direttamente alla testa e al cuore, e sta a dirci — meglio di mille parole — quanto efficiente, coraggiosa e sicura sia quella piccola automobile.

Rovesciare i cliché.

Un famoso spot per il quotidiano britannico The Guardian non solo ci sorprende con due colpi di scena di grande intensità drammatica, ma addirittura ne spiega l’obiettivo: lo spiazzamento, in questo caso, è esattamente il tema di cui la campagna si occupa. Il film è girato in bianco e nero per conferire un senso di reportage, quindi di verità, a ciò che si vede. Nella prima scena vediamo uno skinhead che scatta in una corsa improvvisa sul marciapiede di una strada di periferia, e ci chiediamo: «Chi è costui? Dov’è diretto?». Prima rivelazione: lo skinhead dall’aria minacciosa punta decisamente verso un signore di mezza età, e ci prepariamo a una scena di violenza. Lo aggredirà? Gli darà uno spintone per rubargli la ventiquattrore? Lo ucciderà per vendicarsi di un torto? Ed ecco la sorpresa risolutiva: il campo visivo si allarga, l’uomo anziano sta per essere investito dal crollo di un cornicione, lo skinhead è scattato per salvarlo.[5]La tesi di The Guardian ora è chiara: i giornali seri sono quelli che presentano il quadro completo della situazione, non quelli che trattano l’informazione in modo artatamente frammentario per influenzare e fuorviare l’opinione pubblica.

Gli esempi riportati mettono in luce la straordinaria capacità dimostrativa del paradosso, quando è usato con intelligenza al servizio di una tesi. È paradossale che la piccola Volkswagen risulti altrettanto affidabile di un gatto delle nevi. È una tesi iperbolica, e la struttura thrilling del racconto contribuisce ad aumentare la credibilità della promessa, perché mette lo spettatore in condizione di identificarsi emotivamente nell’autista e di simpatizzare con lui. Entriamo in un’atmosfera di avventura e di piccolo eroismo quotidiano: Volkswagen ci sta dicendo, fra le righe, che tutti siamo in grado di dominare gli eventi e di superare gli ostacoli, se solo ci attrezziamo per farlo. La pubblicità funziona quando sa suscitare emozioni.

Il paradosso di The Guardian opera a un diverso livello. Mira a rovesciare i luoghi comuni, i pregiudizi, le idee preconcette. Vediamo un punk e pensiamo subito al peggio. Vediamo un signore col cappello, il cappotto e la ventiquattr’ore e pensiamo subito che, in quel contesto, è la vittima ideale. Provate a raccontare la stessa storia mettendo un boy scout al posto del punk, e tutto diventa non solo insipidamente “normale”, ma persino sbagliato.

Vendere è un’arte.

Alcuni sostengono che la pubblicità di questo tipo sia troppo complicata, poco diretta, non sufficientemente descrittiva del prodotto. Sono quelli che dividono nettamente la “pubblicità che vende” dalla “pubblicità che vince i premi”. Essi non ricordano che anche vendere è un’arte. Quando la pubblicità moderna non era ancora nata, i venditori di piazza dovevano fare uso del proprio talento creativo personale, esattamente come oggi è necessario fare nella comunicazione attraverso i mass media. Nelle fiere di paese arrivavano gli ambulanti con la loro variegata mercanzia, e il successo era direttamente proporzionale alla loro capacità di showmen. Per valorizzare le caratteristiche di un servizio di piatti, ne lasciavano cadere uno al suolo per dimostrarne l’infrangibilità; prima di questo gesto plateale ma efficace, facevano crescere la suspense promettendo e ritardando il lancio del piatto. La linearità del discorso era continuamente interrotta da sapienti tecniche di depistaggio: aneddoti, battute, provocazioni, smorfie da commedia dell’arte; e alla fine il piatto cadeva, e se per caso si rompeva ecco un altro paradosso: è fragile perché è puro cristallo, i piatti infrangibili sono di qualità più scadente.

Del resto basta sperimentare un po’ di shopping turistico nel Nordafrica o in Medio Oriente per rendersi conto di quanto irresistibile sia la capacità creativa dei mercanti e dei loro commessi, e di quanta immaginazione occorra dispiegare in una trattativa sul prezzo della merce. Provate a visitare un bazar di Marrakech con la pura intenzione di curiosare e basta; le probabilità che riusciate ad andarvene senza aver comprato una teierina, un tappetino berbero o almeno un sasso del deserto sono davvero scarse.

Depistare con la musica.

Ma torniamo alla pubblicità e alle infinite risorse del paradosso. Le tecniche di spiazzamento sono le più varie. Uno spot per la Lufthansa[6]dimostra in modo esemplare il potenziale emotivo (e spiazzante) di una colonna sonora. Il filmato di cui parliamo è suddiviso in due parti perfettamente simmetriche. Tutto ciò che vediamo nella prima parte si ripete esattamente nella seconda: l’unica variante sta in ciò che ascoltiamo. Un uomo d’affari europeo appena arrivato a New York è diretto in taxi dall’aeroporto all’albergo. Ancora un viaggio! Un viaggio apparente lineare, dal punto A (l’aeroporto) al punto B (Manhattan). Ma ciò che il protagonista vede attraverso i vetri del taxi è una metropoli inquietante fino alla mostruosità. Un montaggio, nervoso come quello di un videoclip, ci mostra frammenti di vita insopportabile – il caos del traffico, gente che corre da ogni parte, volti e gesti minacciosi che ci ricordano un po’ lo scenario ansiogeno di Taxi driver. Al montaggio isterico si accompagna un soundtrack che non è da meno: sirene impazzite, accavallarsi di voci e rumori, sferragliamenti, insomma tutti i decibel dell’inferno. La lunga sequenza viene replicata tale e quale, senza il minimo intervento sul montaggio; ma invece dei suoni e dei rumori questa volta ascoltiamo un rasserenante segmento di musica classica, il Canone di Pachelbel. Tutto ciò che abbiamo visto e stiamo rivedendo cambia completamente di tono e significato: ecco una metropoli affascinante e ricca di stimoli vitali, un mondo magnifico da scoprire, un luogo che esprime sé stesso con la stupefacente ricchezza e varietà culturale di un teatro aperto in modo permanente. La tesi è «You see the world the way you fly»: la tua visione del mondo dipende da come voli. Lufthansa vuole dirci che la lettura di un ambiente dipende dal nostro stato d’animo: se arriviamo da un lungo viaggio stanchi e nervosi saremo portati a vedere tutto in negativo, mentre se siamo sereni e riposati vedremo ciò che ci circonda con sana e partecipe curiosità.

Lufthansa ci offre un saggio eloquente sulla potenza significante dei suoni associati alle immagini. Non si tratta solo di aumentare la temperatura emozionale o il ricordo delle scene. Né soltanto di catturare l’attenzione e affascinare l’orecchio. La musica può ancora di più: orientare il senso stesso del messaggio, fornirne la chiave di lettura risolutiva.

Lo spiazzamento musicale, cioè l’apparente contraddizione fra musica e immagini, non è un procedimento retorico del tutto nuovo (Kubrick è stato un maestro in questo senso), ma ha avuto il suo massimo sviluppo solo negli ultimi tempi. Nelle campagne Swatch del 1997-1998, lo spiazzamento (musicale e non) ha un ruolo di primo piano e si fa carico di complessi sottintesi concettuali. La campagna «Time is what you make of it» ha addirittura comportato il recupero e l’ascensione nelle hit parade europee di un motivo pop che prima era passato fra l’indifferenza generale, in Italia come altrove. Il brano si intitola Breathe ed è eseguito dal suo autore, Midge Ure, ex leader degli Ultravox. La campagna parte con uno spot introduttivo, di valore istituzionale, che appoggia la sua tesi un po’ al pensiero di Bergson e un po’ alla teoria della relatività: Quanto dura un minuto? Cos’è il tempo? È una dimensione oggettiva, o un’estensione della coscienza che muta col mutare dei nostri stati d’animo? Einstein, che oltre a essere il genio che sappiamo era anche dotato di uno spiccato senso dell’umorismo, una volta cercò di spiegare la sua teoria con queste semplici parole: «Se siete seduti accanto a una ragazza carina, un minuto volerà in un attimo. Se invece siete seduti su una stufa bollente, quel minuto vi sembrerà un’eternità. La relatività è tutta qui.»

Lo spot introduttivo della campagna Swatch parte con la domanda «Quanto dura un minuto?» e fornisce una serie di risposte diverse (dieci secondi, un’ora, una vita), in un crescendo paradossale di piccole gag e grandi emozioni. In altri episodi del ciclo la campagna si fa più schiettamente umoristica: quanto dura un minuto, se stai per farti la pipì addosso e il bagno è occupato? Quanto dura un minuto, se sei in porta e devi parare un calcio di rigore? Quanto dura l’ultimo minuto di cammino della sposa diretta all’altare, se si fa prendere dai dubbi sulla scelta del consorte? Quanto dura un minuto, se non riesci a slacciare la cerniera lampo della nuova conquista che hai portato a casa dopo cena? La canzone Breathe viene impiegata come leitmotiv dell’intera serie, non solo per una necessità di collegamento sinergico fra i differenti episodi ma anche per riaffermare, nonostante la comicità in campo, la serietà della riflessione filosofica di fondo: «Il tempo è ciò che ne fai tu» è una tesi che, persino nei momenti di spassionato divertimento, merita una segnaletica sonora di una certa dignità. Breatheè una canzone di solenne respiro melodico, del tutto “fuori luogo” rispetto a una gagcome quella dell’uomo torturato dal bisogno impellente di orinare. La dicotomia fra musica e situazione produce un effetto esilarante, anche perché il torrenziale afflato melodico, in combutta con una serie di inserti visivi su fontane, cascate e altri stimoli acquatici, rende ancora più intenso il bisogno di liberare la vescica.[7]

Spiazzamenti multipli.

C’è un’altra famosa saga sulla pipì, quella della campagna Infostrada. Com’è noto, l’avvento di questo nuovo operatore telefonico in Italia coincideva con la fine del monopolio Telecom nei servizi di telefonia fissa. Lo spot di lancio impiega almeno tre diverse tecniche di spiazzamento. La prima riguarda la struttura del racconto, con una parte iniziale volutamente difforme da quella finale (due storie in una); la seconda è un colpo di scena che rovescia i codici narrativi della pubblicità comparativa; la terza è, ancora una volta, l’uso della musica. Si comincia con un piccolo cantiere in città. Una squadra di operai, di aspetto muscolarmente ed eroicamente macho come nei film di Stallone, installa in piazza una cabina telefonica verde. La sequenza è drammatizzata da diversi ingredienti: la curiosità dei passanti, il montaggio serrato, le angolazioni “epiche” della macchina da presa, la musica di Wagner (l’ouverture di Rienzi). Ci aspettiamo che lo spot sia finito subito dopo il collaudo della cabina. E invece no: quando gli operai se ne vanno, scopriamo che accanto alla totemica cabina verde ce n’era già un’altra, identica e rossa. Il simbolo di Infostrada contro il simbolo di Telecom. Arriva un cane; Wagner, da impetuoso che era, diventa leggero come un soffio d’aria. Il cane annusa le cabine, indugia. Vuoi vedere che adesso fa la pipì sul concorrente? Macché: il cane solleva la zampa contro la cabina verde. «Finalmente siete liberi di scegliere», commenta una voce fuori campo.[8]Telecom non può offendersi. E, del resto, i cani non fanno la pipì in segno di disprezzo, ma per contrassegnare il territorio che hanno scelto. Il cane ha scelto Infostrada, a modo suo. E Wagner sottolinea la solennità dell’evento, nobilitandone la platealità con uno spruzzo di poesia.

La pubblicità, come ogni genere narrativo, gioca sull’effetto sorpresa. Si potrebbe obiettare che la sorpresa è tale solo alla prima visione. Ma quando il messaggio è veramente riuscito si torna volentieri a goderne, soprattutto quando la sua semplicità è arricchita e impreziosita da virtuosismi, sfumature, piccole allusioni. I migliori annunci, i migliori spot non stufano mai, perché ci fanno scoprire ogni volta un dettaglio che prima ci era sfuggito. La secolare favola di Cappuccetto Rosso è tuttora più viva che mai: non tanto per la parte che ci è ultranota, quanto per i segreti che forse può ancora svelare.

Conclusione.

Come sanno bene i creativi di ogni parte del mondo, il loro è un mestiere schizofrenico. Da una parte si esige da loro lo sfrenamento di una fantasia senza inibizioni; dall’altra li si frustra in continuazione, pretendendo che si adeguino al ricettario iperlogico e ripetitivo del marketing. I poveracci non sanno più da che parte voltarsi, e prima o poi si beccano una bella depressione: una ricerca condotta anni fa negli Stati Uniti sugli stress professionali indica i pubblicitari in terza posizione, dopo i poliziotti e gli agenti di cambio, nella classifica dei lavoratori più esposti alle patologie gastriche e nervose.

Il problema è spesso una conseguenza dell’incompatibilità culturale fra gli addetti alla creatività e i manager aziendali. La formazione degli uni e degli altri è terribilmente specialistica, e ciascuno tira per la sua strada e parla il suo linguaggio. Anche fuori dall’ambito strettamente professionale, gli interessi e gli hobby coltivati coincidono solo di rado, e magari in ambiti (come lo sport) non sempre direttamente correlati al lavoro quotidiano. Ci sono grandi investitori che non vanno mai al cinema, ma che devono giudicare e approvare la sceneggiatura di uno spot; così come ci sono creativi espertissimi in materia cinematografica, fotografica o musicale, ma che ignorano del tutto le problematiche del mercato, le dinamiche di marca e le policy aziendali, rendendosi inaffidabili agli occhi del committente. In più, la forte competizione fra gli operatori per assicurarsi un budget li mette talvolta in condizione di accettare compromessi che non fanno bene alla qualità del lavoro: il sistema delle gare di creatività fra agenzie concorrenti, voluto dalla maggior parte degli investitori, non sempre garantisce la vittoria dei consulenti più coraggiosi.

Se non c’è creatività senza suspense, figuriamoci se può esserci creatività senza coraggio. Lombardi scrive che sono rari i manager aziendali che accettano di buon grado di farsi spiazzare da una buona idea. È molto vero, anche se è onesto ammettere che questa non è e non può essere l’unica ragione di tutta la pubblicità scadente che si vede in giro. L’ottusità di taluni non può diventare un alibi: anche i pubblicitari hanno l’obbligo di migliorarsi, di imparare in continuazione, di esercitarsi in una costante e costruttiva autocritica, di studiare e di leggere di più. In generale, chiunque si occupi in Italia di comunicazione dovrebbe rivedere ogni giorno le proprie opinioni e mostrarsi più flessibile; le certezze assolute, i pregiudizi e l’abuso di copy test non stimolano l’innovazione, ma sanciscono lo statu quo e promuovono il déjà vu. Nei contesti internazionali l’Italia fa ancora la figura di un paese conservatore, provinciale; la nostra sembra una fabbrica di pubblicità didascalica e funzionale, con tutte le cosine spiegate per bene a un pubblico di presunti deficienti. Fare bene questo lavoro implica una dose di eroismo: bisogna combattere contro sé stessi e gli altri, dribblare con eleganza ed entusiasmo le trappole della pigrizia mentale, compiere una piccola rivoluzione ogni giorno.

© Pasquale Barbella





[1] Agenzia Lowe Howard-Spink di Londra, direzione creativa di Paul Weinberger, regia di Rob Sanders.
[2] Un testo fondamentale per approfondire non solo l’opera e lo stile di Hitchcock, ma il linguaggio del cinema e, in assoluto, i percorsi della narratività, è Le cinéma selon Hitchcock, libro-conversazione tra François Truffaut e lo stesso Hitchcock.
[3] Si veda De Bono, 1967.
[4] Le campagne Volkswagen realizzate dalla Doyle Dane Bernbach di New York negli anni Sessanta, sotto la guida geniale di Bill Bernbach, costituiscono una delle case histories più brillanti e istruttive di tutta la storia della pubblicità. Si consultino in proposito Levenson 1987 e Dobrow 1984.
[5] Lo spot per The Guardian, unanimemente riconosciuto fra i migliori di tutti i tempi, è stato ideato nel 1986 da John Webster, leggendario leader creativo della Boase Massimi Pollitt di Londra. Anche il regista, Paul Weiland, è una celebrità: entrambi hanno collezionato premi internazionali a non finire.
[6] Autori André Haimaq e Hans Jürgen Lewamdowski, agenzia Springer & Jacoby di Amburgo, regia di Lászlo Kádar e Ralph Schmerberg, 1999. Leone d’argento a Cannes.
[7] La campagna internazionale Swatch è stata progettata dall’agenzia BGS D’Arcy e prodotta dalla Filmgo. Autori Roberto Greco e Franco Tassi, direzione creativa di Pasquale Barbella e Paolo Gorini, regia di Gary Johns. Uno degli episodi ha vinto un Leone di bronzo a Cannes nel 1999.
[8] Agenzia BGS D’Arcy, soggetto e sceneggiatura di Pasquale Barbella e Paolo Gorini, produzione BRW & Partners, regia di Thed Lenssen. 

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Dizionario irregolare del cinema. A-B.

Questo lavoro è in fase di stesura. I post verranno aggiornati periodicamente.


Adattamenti

Tutte le opere di Shakespeare sono state visitate e rivisitate dal cinema, e Romeo e Giulietta in modo intensivo. Tra grande e piccolo schermo, in forma di dramma o balletto, è stata adattata non meno di 120 volte, parodie e citazioni incluse. Esempi: Giulietta e Romeo di George Cukor, 1936, con Leslie Howard e Norma Shearer; Giulietta e Romeo di Renato Castellani, 1954, con Laurence Harvey e Susan Shentall; West Side story di Robert Wise e Jerome Robbins, con Richard Beymer e Natalie Wood; Romeo e Giulietta di Riccardo Freda, 1964, con Geronimo Meynier e Rosemary Dexter; Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli, 1968, con Leonard Whiting e Olivia Hussey; Romeo & Juliet di Carlo Carlei, 2013, con Douglas Booth e Hailee Steinfeld. Elettrizzante la versione di Baz Luhrmann, Romeo + Giulietta, 1996. Dato che tra i grandi meriti di Shakespeare ci sono l’universalità e l’atemporalità, la tragedia riveduta dal regista australiano sprigiona nuovo pathos e nuove faville grazie all’ambientazione contemporanea, ai giovani Capuleti e Montecchi tradotti in teppisti dei nostri tempi, alle stazioni di benzina in fiamme, all’overdose di dinamismo musicale e visivo, al cast indovinatissimo (Leonardo DiCaprio, Claire Danes, John Leguizamo, Harold Perrineau...) Strepitosa colonna sonora a base di Garbage, Cardigans, Radiohead, Everclear e altri.
Leslie Howard e Norma Shearer, improbabili Romeo e Giulietta nel film di George Cukor del 1936. Lui aveva già 43 anni e lei 34: un po’ troppi per impersonare una coppia di adolescenti.

Amarcord

Mentre ero dal barbiere ho avuto una bizzarra discussione con un vecchio amico. Lui sosteneva (a ragione) che la Gradisca di Amarcord era Magali Noël. Io mi ostinavo a negarlo, pensando a un’attrice assai meno famosa scelta per l’immenso seno. Ovviamente ho perso la scommessa, perché confondevo i personaggi di Gradisca e della tabaccaia, entrambe giunoniche. La ragione del mio errore sta nel fatto che di Amarcord non mi è mai fregato niente. Mi deluse, anche se vinse un Oscar, perché ero un fan sfegatato di Fellini e Amarcord non mi sembrava all’altezza dei film precedenti. Ebbi la sensazione che il suo stile si fosse cristallizzato nel manierismo e nei cliché. Le sue nostalgie personali (i luoghi, le donne, le ossessioni), che fino a La dolce vita e erano state l’anima e il respiro di un potente, inedito ritratto dell’Italia nella sua contraddittoria crescita dal dopoguerra al boom, cominciavano a diventare solo ciò che erano: schizzi poetici di Fellini su Fellini. Dopo Amarcord l’evidenza del suo narcisismo continuò a crescere in modo smisurato e stucchevole, senza apportare granché alla cultura del cinema. Ciò non toglie che l’opera di Fellini, fino al 1960, abbia avuto enorme influenza sulla mia formazione di spettatore e di individuo.
Magali Noël, la Gradisca di Amarcord

Ambientazione

I luoghi fisici – città, paesaggi, cieli, stanze, persino i muri più anonimi – esigono di diventare essi stessi personaggi della narrazione. Si rifiutano di fungere da semplici sfondi; rivendicano un ruolo. Offrono all’autore opportunità informative, estetiche, simboliche, filosofiche, a condizione che egli sappia coglierle e svilupparle per approfondire la sua idea. Una prima, elementare differenza tra cinema d’arte e cinema ordinario è data dalla maggiore o minore sensibilità del regista al linguaggio degli spazi. Nei film di Orson Welles e nella fotografia dei suoi complici più dotati – Gregg Toland, Russell Metty, Stanley Cortez, Robert Krasker, Anchise Brizzi, Aldo Graziati, etc. – lo spazio non è mai un semplice sfondo: è un’entità vitale, una materia che “parla” comprimendosi, oscurandosi, dilatandosi, a volte deformandosi sotto il grandangolo, per fornire il clima voluto e suggerire allo spettatore pensieri e sentimenti forti: tensione, claustrofobia, attesa, sgomento, ammirazione, stupore. Lo spazio di Welles connota situazioni e personaggi, contribuisce a potenziarne – drammaticamente – lo spessore, la fisionomia, l’unicità. Il cittadino Kane di Quarto potere, il grasso capitano di polizia di Touch of Evilsarebbero infinitamente più deboli e meno inquietanti senza l’estremismo allucinato della macchina da presa, del contrasto, dell’inquadratura.

Ambiguità

Elisha Cook Jr. (1903-1995). Piccolino, di lana fragile e innocua. Qualcuno però ebbe la geniale idea di trasformarlo in soggetto nevrotico, inquietante, pericoloso. Il tipico gregario di boss malavitosi, pronto a uccidere ma nato per soccombere, come tutti gli ombrosi del noir. Impressionante la sua espressività drammatica. Qualche titolo: Il sergente York di Howard Hawks, 1941; Il mistero del falco di John Huston, 1941; Hellzapoppin’ di H.C. Potter, 1941; Il grande sonnodi Howard Hawks, 1946; Il grande Gatsby di Elliott Nugent, 1949; Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens, 1953; Rapina a mano armata di Stanley Kubrick, 1956; Faccia d’angelo di Don Siegel, 1957; I due volti della vendetta di Marlon Brando, 1961; Rosemary’s baby di Roman Polanski, 1968; Pat Garrett e Billy Kid di Sam Peckinpah, 1973; Electra Glide di James William Guercio, 1973; 1941: Allarme a Hollywood di Steven Spielberg, 1979.
Humphrey Bogart ed Elisha Cook Jr. in The Maltese falcon (Il mistero del falco) di John Huston, 1941.

Ambizione

Il broncio di James Dean, e quelli di Brando e Clift nei loro anni giovanili, sembravano disegnati apposta per le grandi narrazioni polemiche sul “sogno americano” e i suoi derivati più drammatici e contraddittori. Si pensi a George Eastman, protagonista – impersonato da Montgomery Clift – di Un posto al sole (A place in the sun di George Stevens, 1951), ispirato al romanzo Una tragedia americana di Theodore Dreiser. Il giovanotto arriva in città dalla provincia, in cerca di fortuna. Oltre alle capacità ha anche qualche appoggio, e la sua ascesa ai piani alti della società non sarebbe impossibile se a inchiodarlo nella condizione di proletario a vita non ci fosse il legame con un’operaia terribilmente possessiva. Tensione al massimo: ci scappa il morto e il ragazzo finisce sulla sedia elettrica. La forza di Un posto al sole sta nel fatto che lo spettatore si identifica in Clift e parteggia per lui persino quando progetta di uccidere la sua donna. Per Dean, Brando e Clift si parteggiava sempre e comunque. Perché i loro personaggi erano perdenti anche quando segnavano un goal, e ciò ispira tenerezza. Il cinema americano di quegli anni ci indicò spesso la cura per guarire dal manicheismo, grazie anche ad attori capaci di trasmettere il senso dell’instabilità e comunicare, persino col body language, quanto sia labile il confine tra il bene e il male.
Elizabeth Taylor e Montgomery Clift in Un posto al sole (A place in the sun) di George Stevens, 1951, ispirato al romanzo Una tragedia americana di Theodore Dreiser. 

Anticonformismo

Un cuoco statunitense, che conobbi a Milano, mi disse che i tipi alla James Dean (indisciplinati dallo sguardo tenebroso) appartenevano alla categoria dei ballscratchers, “grattatori di palle”. Era una bella metafora, forse coniata dal mio beffardo interlocutore, per definire l’anticonformismo e la sfrontatezza di chi si presenta ovunque senza togliersi le mani di tasca, indulgendo – in caso di necessità – a darsi in pubblico qualche scrollatina ai testicoli. Diceva il cuoco che nella piatta estensione rurale ed esistenziale della Corn Belt, sconfinata regione del mais, il conflitto tra rocciosi benpensanti e adolescenti irrequieti produceva la meglio gioventù bruciata e, talvolta, il successo di alcuni rebels without a causeche invece una causa ce l’avevano: sfondare nello show business. In effetti Dean veniva da Marion, cittadina dell’Indiana. In modo arbitrario il cuoco assortiva nella tipologia dei grattapalle anche Marlon Brando e Montgomery Clift, entrambi di Omaha, Nebraska. Ma è difficile immaginarli come autentici ballscratchers. Sì, le note biografiche di Brando comprendono l’espulsione da un’accademia militare; ma si trattava, nonostante qualche intemperanza, di un professionista rodato da studi seri e dal teatro. Quanto a Clift, sarà stato pure tormentato da un’omosessualità vissuta come una disgrazia; ma era borghese, beneducato e coltissimo.
James Dean ne Il gigante (Giant) di George Stevens, 1956.

Antiregia

Damon Wise, della rivista britannica Empire, ha definito Sogni e delitti (Cassandra’s dream, 2007), «il punto più basso della carriera di Woody Allen.» Il resto della critica non è stato, mediamente, più benevolo. Il motivo di un’accoglienza così fredda deriva probabilmente dal fatto che lo stile del film (molto alleniano, sebbene drammatico) sfugge alle classificazioni e aspettative abituali. Non è una commedia né una satira. Non è un noir, anche se imperniato su un omicidio non privo di elementi thrilling. Non è nemmeno un dramma a sfondo sociale, anche se i fratelli assassini (Colin Farrell ed Ewan McGregor) sono due proletari sfigati, l’uno carico di debiti di gioco e l’altro di ambizioni esagerate. Allen pensa alla tragedia greca più che alle categorie e convenzioni del cinema, privilegiando la dialettica fra due opposte posizioni morali rispetto all’azione. E applica anche qui i suoi esperimenti di “antiregia”, liquidando rapidamente e senza emozione i momenti di cronaca nera (delitti e suicidi) e i ruoli secondari. Allen non ha mai nascosto il suo interesse per il cinema d’autore europeo, e questo suo terzo film londinese (dopo il bellissimo Match point e il pasticcio di Scoop) si concentra sullo scontro fra due diverse coscienze del male. Notevoli la fotografia di Vilmos Zsigmond e le musiche di Philip Glass.
Ewan McGregor e Colin Farrell in Sogni e delitti (Cassandra’s dream) di Woody Allen, 2007.

Architettura

Warren Beatty è Joseph Frady, un giornalista che si mette a indagare – a proprio rischio e pericolo – sull’assassinio di un senatore, scoprendo che dietro il complotto c’è la longa manus di un’ambigua corporazione multinazionale. Perché un assassinio (The Parallax view) di Alan J. Pakula, 1974, è un thriller politico semidimenticato. Ingiustamente. Perché è un capolavoro di arte visiva, oltre che una storia nera narrata con visionario senso del cinema. Basandosi su un romanzo di Loren Singer, Pakula ha scelto un mood surreale per una meditazione sugli attentati politici degli anni sessanta (i due Kennedy, Malcolm X, Martin Luther King). Vagamente ispirato dallo stile di Antonioni, il film – girato a Seattle e dintorni – usa architetture avveniristiche, geometrie esasperate e campi lunghi per suggerirci che il mondo contemporaneo del potere è astratto, inafferrabile, lontano dalla nostra capacità di intendere e vedere. Il direttore della fotografia è il grande Gordon Willis, ma meritano un’ovazione anche i responsabili dell’art direction e della scelta delle location. Se ve lo siete perso cercate di recuperarlo.
Una scena da Perché un assassinio (The Parallax view) di Alan J. Pakula, 1974.

Artigianato

È certamente meraviglioso che in tanti, da Luis Buñuel a Orson Welles, da Akira Kurosawa a Stanley Kubrick, siano riusciti a nobilitare l’artigianato del cinema sopraelevandolo di molte spanne rispetto alla produzione corrente. Ma il cinema è anche altro: promette soddisfazione e sorpresa in molti modi, e non solo al pubblico di bocca buona. La storia del cinema è popolata di figure di talento che, pur sforzandosi di adeguarsi al volere – spesso idiota e arrogante – dei mandatari, sono riuscite non solo a mantenere nel tempo un profilo dignitoso, ma anche a piazzare, qua e là, il colpo di genio, l’idea di pregio, il racconto indimenticabile.

Attribuzioni

Ci sono film che ho visto e rivisto più dell’album di famiglia, e che fanno parte del mio sguardo come se si trattasse di lenti a contatto. Il solito Casablanca, ovviamente, ma anche Gilda e Il terzo uomo. Quest’ultimo – più ancora di Citizen Kane– ha acceso il mio culto per Orson Welles: al punto che l’ho sempre considerato in tutto e per tutto opera sua, pur sapendo che il regista era Carol Reed, che lo sceneggiatore era Graham Greene e che il direttore della fotografia era Robert Krasker.Di certo la presenza di Welles, così ambigua e magnetica, conferisce al film molta parte del suo fascino nero; né si può sottovalutare l’apporto di Anton Karas con la sua strana cetra, lo zither che suona il tema di Harry Lime – melliflua melodia da taverna viennese, innocua quanto può esserlo un’arma prima di essere utilizzata per spargere sangue.L’ammirazione per Orson Welles, tuttavia, ha sempre un po’ smussato la mia equanimità di giudizio. Carol Reed aveva temperamento da vendere, e Il terzo uomoè proprio farina del suo sacco (oltre che di Graham Greene e di Robert Krasker): fu lui a insistere per avere Welles nel ruolo di Harry Lime, contro l’insistenza del produttore David O. Selznick favorevole a Robert Mitchum o Noël Coward; così come fu lui a scoprire e reclutare Anton Karas.
Orson Welles ne Il terzo uomo (The third man) di Carol Reed, 1949.

Avanguardie

Una critica cinematografica che consideri dignitosa solo l’estrema opera d’arte, o ciò che ritiene tale, è accettabile solo se espressa da militanti: ovvero da soggetti in grado di influenzare, in prima persona o mediante una rete di connessioni attive, la ricerca e lo sviluppo di linguaggi e tendenze. Si può fare avanguardia, insomma, solo realizzando esperimenti, creando opere; il lavoro di un Godard puoi condividerlo o respingerlo, con tutte le sfumature di mezzo, ma il rispetto è doveroso anche se gli preferisci Walt Disney. Il cinema confina con l’arte, ma solo qualche volta. Arte “impura”, a detta di molti, perché di rado il risultato può dirsi opera d’un unico e solo demiurgo; e anche perché nella realizzazione convergono troppe forme d’espressione, dalla scrittura alla fotografia, dalla musica al teatro, senza che nessuna di esse possa giustificarsi autonomamente, al di fuori dell’insieme in cui è inserita. Il cinema è essenzialmente prodotto di consumo, affine per ingegneria produttiva e analogia di funzioni ad altri mezzi – la televisione, il libro, il circo, lo stadio o l’arena in cui si svolga uno spettacolo. Nessuno pretende che la Nutella sia un’opera d’arte, nessun creatore di oggetti – alimentari o culturali che siano – ha il dovere di porsi un obiettivo così altisonante. Perché dovrebbe farlo uno Spielberg o uno Scorsese?

Avanspettacolo

Hanno restaurato Un americano a Roma (1954) di Steno, uno dei film più amati dagli italiani di ieri – e non solo di ieri. Spiace dirlo, ma era ed è una boiata inguardabile. Cretinissimo nelle battute, nell’impianto, nella recitazione. Sordi ha dato il meglio di sé quando a tenerlo a bada erano Risi, Comencini, Fellini, Monicelli, Loy, Lattuada; lasciato libero di fare, come in questo caso e tanti altri, è un triste concentrato di avanspettacolo e teatrino oratoriale. So che smontare Un americano a Romaè come uccidere la mamma: persino Mereghetti, di solito severo, lo trovò «divertentissimo» e lo gratificò di tre stellette. Ma si tratta, siamo onesti, di una gran fregnaccia: farsa, caricatura, ingenuità, dilettantismo. L’umorismo vero è un’altra cosa.
Alberto Sordi in Un americano a Roma di Steno, 1954.

Azione

Torin Thatcher (1905-1981). Prima di diventare un apprezzato caratterista è stato a lungo attore del teatro britannico (anche shakespeariano) e poi statunitense. Ruoli spesso severi e in costume: senatore Gallio in La tunica (1953), Ulisse in Elena di Troia(1956). Molto presente in film d’avventura, di guerra e d’azione, preferibilmente in uniforme o in ruoli altrimenti autoritari. Ha lavorato con Hitchcock, David Lean, Henry King, Robert Siodmak, Robert Wise, Billy Wilder, Raoul Walsh, Lewis Milestone, George Roy Hill e molti altri.
Torin Thatcher.

Badanti

In sole nove settimane dopo la sua uscita, Quasi amici (Intouchables), scritto e diretto da Olivier Nakache e Eric Toledano (2011), è diventato il secondo film francese di maggior successo di tutti i tempi al botteghino del suo paese, dietro Giù al nord (2008). Il film è ispirato a una storia vera, quella di Philippe Pozzo di Borgo (autore di Le second souffle) e del suo rapporto con Yasmin Abdel Sellou, suo aiuto domestico. Ha ricevuto nove candidature ai Premi César 2012, vincendo il premio per il miglior attore con Omar Sy. Si ride (con una lacrima in bilico) per quasi due ore filate, grazie ai dialoghi spumeggianti e a un attore e personaggio strasimpatico, Omar Sy nel ruolo del badante senegalese. Una lezione di sceneggiatura, ma anche di civiltà sui rapporti con i disabili. Driss, diventato assistente senza volerlo d’un ricco tetraplegico (François Cluzet), non conosce nemmeno lontanamente il significato di politically correct: spara battute e gaffe a non finire, ma proprio per la sua spontaneità animalesca e immune da ipocrisie risulta efficacissimo nel difficile impegno che non ha scelto. Umorismo, emozione, allegria al servizio di un tema complesso, solitamente trattato in modo lugubremente drammatico. Tre stelle e mezzo, che sarebbero quattro se la fotografia non fosse così-così.
Omar Sy e François Cluzet in Quasi amici (Intouchables) di Olivier Nakache ed Eric Toledano, 2011.

Baghdad

Presto i film diventarono la geometria e la geografia della mia mente. Cos’è, dopotutto, il cinema? Un rettangolo in cui succedono delle cose. Uno spazio che include altri spazi: dunque lo spazio per eccellenza. Nel Ladro di Bagdad non c’erano solo sultani, visir, principesse, ladruncoli, mercanti, schiavi e giganti; c’era, per l’appunto, Baghdad – non quella vera, ovviamente – e pure Bassora, luoghi i cui nomi, da soli, avevano allora un potere talmente evocativo da affascinarti per sempre. E c’erano castelli, navi, cavalli meccanici, tappeti volanti e spiagge da incanto, come quella dove Abu (il ragazzo interpretato da Sabu) trova una bottiglia, la apre e subito da quella si sprigiona un genio massiccio, enorme, dal cranio pelato (l’attore Rex Ingram).
Rex Ingram è il gigante de Il ladro di Bagdad, 1940, di Ludwig Berger, Michael Powell, Tim Whelan e, non accreditati, Alexander Korda, Zoltan Korda e William Cameron Menzies.

Barocco

Il grande Gatsby di Baz Luhrmann è una delusione: di certo meno interessante della versione di Jack Clayton (1974) con Robert Redford. Ce n’è una ancora più vecchia, piuttosto modesta, di Elliott Nugent con Alan Ladd; risale al 1949. Il nuovo Gatsby è carente sul piano narrativo e visivamente irritante: l’ambizione di trasformare una storia intimista in un kolossal straripante scade nel trash di lusso, anche perché l’immagine propende a un abuso di saturazione e i colori squillano come nei più avventati esperimenti amatoriali dell’era digitale. Si potrebbe chiudere un occhio se la sceneggiatura fosse più robusta, la recitazione più intensa, la scenografia meno disneyana (il castello di Gatsby è più cartoon di quello di Biancaneve).A Luhrmann piacciono i pastiche e piacciono anche a me, ma con Gatsby il gioco non funziona. Romeo + Giulietta era geniale perché i dialoghi, dopotutto, erano di Shakespeare. Qui lo screenplay è latitante, e l’autore crede di cavarsela ricorrendo continuamente alle pagine di Fitzgerald, sotto forma di riflessioni fuori campo lette dall’io narrante. Il risultato è che Tobey Maguire e Leonardo DiCaprio (nel ruolo di Gatsby) hanno ben poco da dirsi in scena, il che rende statica e melensa la loro partecipazione. Carey Mulligan, anche lei bravissima in altri film, è una Daisy insignificante, che non giustifica l’adorazione di cui è fatta oggetto.
Quattro Gatsby. Da sinistra a destra: Alan Ladd (1949), Robert Redford (1974), Toby Stephens (2000, in un film TV) e Leonardo DiCaprio (2013).

Berlusconismo

Dopo un lungo periodo di semiletargo, il cinema italiano riprende a scavare nel presente con una rinnovata carica di vitalità allo stesso tempo polemica e spettacolare. Dopo Il caimano di Nanni Moretti, il fenomeno che per brevità definiamo “berlusconismo” comincia a diventare oggetto di rappresentazione non solo intensa ma anche esportabile. Il bergamasco Erik Gandini, da anni attivo in Svezia, ha dedicato a Berlusconi e al suo impero un documentario di culto, Videocracy, non a caso censurato dalle televisioni nostrane. Matteo Garrone, dopo il botto di Gomorra– formidabile j’accuse alla malavita organizzata, – si è concentrato sui risultati più riprovevoli della telemania, raccontando in Reality la patologica ossessione di un pescivendolo determinato a sfondare nel Grande fratello. La grande bellezza di Paolo Sorrentino, con la sua sontuosa e frastornante impaginazione iper-estetica (dieci e lode alla fotografia di Luca Bigazzi e a tutta la compagine di scenografi e tecnici), elabora visivamente il degrado civile di una società fatta di contraddizioni giunte all’estremo. E sembra dirci che in Italia non c’è più una visibile linea di demarcazione tra il bello e il brutto, l’elegante e il debosciato, il sacro e l’osceno, l’apparire e l’essere. Se c’è ancora qualche speranza è adombrata nel titolo, ironico e commosso in eguale misura.

Bianco e nero

Da quando non si usa (quasi) più, il b/n è diventato il sale della nostalgia e il lievito dell’eleganza. Prima di Biancaneve e i sette nani e Via col vento, era la norma. Una norma che già allora riluceva come un effetto speciale (la vita vera, anche la peggiore, è a colori), e che adesso, diventata eccezione, dà una leggera scossa al nostro immaginario, riaprendo la mente a sensazioni estetiche un po’ addormentate. Il ritorno del b/n si accompagna a progetti appassionati, sfiorati da rimembranze d’alta scuola, da aromi meritevoli di recupero. Sia lode a Robert Surtees per L’ultimo spettacolo (Peter Bogdanovich, 1971); Gordon Willis per Manhattan (Woody Allen, 1979), Stardust memories (Woody Allen, 1980) e Zelig (Woody Allen, 1983); Michael Chapman per Toro scatenato (Martin Scorsese, 1980); Freddie Francis per The elephant man (David Lynch, 1980); Néstor Almendros per Finalmente domenica!(François Truffaut, 1983); Stephen H. Burum per Rusty il selvaggio (Francis Ford Coppola, 1983); Carlo Di Palma per Ombre e nebbia (Woody Allen, 1991); Stefan Czapsky per Ed Wood (Tim Burton, 1994); Robby Müller per Dead man (Jim Jarmusch, 1995); Roger Deakins per L’uomo che non c’era (Joel ed Ethan Coen, 2001); Robert Elswit per Goodnight, and good luck (George Clooney, 2005); Phedon Papamichael per Nebraska (Alexander Payne, 2013)...
Jeff Bridges e Timothy Bottoms ne L’ultimo spettacolo (The last picture show) di Peter Bogdanovich, 1971.

Biografie

Da quando esiste il cinema, esistono i cosiddetti biopic (contrazione di biographic picture). Biografie complete o parziali di personaggi veri: politici e criminali, artisti e letterati, gente di sport e spettacolo, giornalisti, eroi, condottieri, monarchi, scienziati, persecutori e vittime, santi e ribelli, maghi e tecnocrati, esploratori, musicisti, uomini di pace e uomini di guerra. Racconti a volte documentati con cura, a volte deformati dall’arbitrio degli autori. Un genere, quello del biopic, che s’incrocia con altri – il western se il protagonista è Buffalo Bill, il film di guerra se si tratta del generale Patton, il musical se ci va di infilare Evita Duarte Perón nel già affollato catalogo oleografico del pop.Si può sfiorare il capolavoro o sprofondare nel kitsch, ma un minimo di interesse, almeno a priori, è garantito di default. Se sei un fan di Cole Porter, non puoi esimerti dal subire Night and day con Cary Grant o De-lovely con Kevin Kline: pazienza se in entrambi i casi sarai così deluso da ricorrere al bicarbonato di sodio per raddrizzare la digestione. Ti andrà meglio con Charlie Parker, servito da un commovente tributo di Clint Eastwood con l’ottimo Forest Whitaker (Bird, 1988).
Clint Eastwood dirige Forest Whitaker nel ruolo di Charlie Parker in Bird, 1988.

Budget

Nato per essere un backstage, Cesare deve morireè in tutto e per tutto un’opera autonoma, un’esperienza potente e collettiva, degna di iscriversi tra gli esiti più alti del “cinema povero” – povero di mezzi ma ricco di passione e di idee. Proprio la povertà dei mezzi aveva ispirato, in Italia, la nascita del neorealismo e la sua fioritura. Per Roma, città aperta non c’erano né soldi né lampade, né microfoni né Cinecittà (ancora brulicante di sfollati). Persino la pellicola scarseggiava di brutto: Rossellini dovette vendersi i pochi beni personali di cui disponeva e indebitarsi con gli amici e con le banche pur di andare avanti. C’erano solo le idee, l’équipe tecnica (al minimo), gli attori (pagati chi poco e chi niente) – e le strade di Roma, come la via Montecuccoli in cui Pina (Anna Magnani) viene uccisa dai tedeschi mentre insegue il camion che le sta portando via il marito. Il neorealismo non è stato, all’inizio, un consapevole manifesto estetico o ideologico, ma un modo di barcamenarsi senza soldi in un settore produttivo che di soldi è affamato.

© Pasquale Barbella

(Dizionario irregolare del cinema – 1. Continua)

Kinopedia/2

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Dizionario irregolare del cinema. C-D


Questo lavoro è in fase di stesura. I post verranno aggiornati periodicamente.


Camera a gas

In California la camera a gas di San Quentin tolse di mezzo, nel 1955, Barbara Graham, per aver partecipato a un omicidio a scopo di rapina. Propende all’innocentismo Non voglio morire!, uno dei lavori più asciutti di Robert Wise. Anche se il produttore (Walter Wanger) e il regista lo hanno negato, il film è un duro atto d’accusa contro la pena di morte e insiste sulla presunta innocenza dell’incriminata per rendere ancora più biasimevole la macabra istituzione. Susan Hayward, la protagonista, incassò un Oscar. La lunga sequenza finale sui preparativi e l’esecuzione fu girata su un set fittizio, ma ha un ruvido sapore documentaristico ed è un pezzo di cinema indimenticabile. Le scene alternate fra l’attesa snervante della condannata e i due operatori che si applicano con freddo mestiere alla procedura – verbali da compilare, camera stagna da montare, stetoscopio da fissare al torace della giustizianda, acido solforico da dirigere attraverso le apposite tubature, pastiglie di cianuro da far precipitare nella vaschetta dell’acido al momento giusto – sono più eloquenti di qualsiasi esplicito appello alla coscienza. Wise sospende la musica durante l’intera sequenza; il silenzio è rotto solo dai passi e dai piccoli gesti. La fotografia di Lionel Lindon partecipa – con un taglio quasi da reportage – al clima “giornalistico” di tutto il trattamento.
Susan Hayward in Non voglio morire! di Robert Wise, 1958.

Camere

Il cinema “da camera”, simile al teatro, vanta diverse applicazioni illustri. Mi vengono in mente, a botta calda, Nodo alla gola di Alfred Hitchcock (1948); La parola ai giuratidi Sidney Lumet (1957); L’impero dei sensi di Nagisa Oshima (1976). I due studenti assassini di Hitchcock (John Dall e Farley Granger) e il loro professore (James Stewart) filosofeggiano per 77 minuti nella stessa stanza in cui è nascosto il cadavere, in un finto piano-sequenza che dura dal principio alla fine. Il film di Lumet concentra dodici attori di prima grandezza, tra cui Henry Fonda, Ed Begley e Lee J. Cobb, in una stanza di tribunale riservata ai giurati d’un processo; e in quell’unico ambiente dissertano e litigano fino allo sfinimento prima di potersi accordare su un verdetto unanime. Oshima illustra l’ossessione di una coppia determinata a vivere – e morire – di soli e reiterati amplessi, e gli ambienti, gli arredi, gli oggetti sembrano saturarsi della stessa decadenza, della stessa grottesca e letale sensualità.
La parola ai giuratidi Sidney Lumet, 1957. Da sinistra: Lee J. Cobb, George Voskovec, E.G. Marshall, Robert Webber, Jack Warden, Ed Begley, Jack Klugman, Joseph Sweeney, Henry Fonda, John Fiedler, Martin Balsam, Ed Binns.

Cappa e spada

La mia generazione ricorda meglio di altre i film della sua giovinezza per un motivo molto semplice: quei film non uscivano mai definitivamente dalle sale di proiezione. Ci ritornavano in seconda, terza ed ennesima visione, specialmente se avevano avuto successo, coesistendo con le novità. Spesso potevi vederne o rivederne due al prezzo di uno. Quello che ho visto più volte credo sia stato I tre moschettieri del 1948, regia di George Sidney. Il romanzo di Dumas padre è stato portato sullo schermo diverse volte, ma quello continua ad essere il mio preferito, per via dei duelli che sembravano stupefacenti balletti acrobatici: D’Artagnan era Gene Kelly, ballerino energico e simpatico. I cosiddetti “film di cappa e spada” elettrizzavano i maschi adolescenti non meno dei western e dei film di guerra. Non era solo passione per il conflitto, ma anche bisogno viscerale di un’etica semplice fino alla stilizzazione, impellenza di schierarsi al fianco dei “buoni” contro i cattivi di turno. I ragazzi seduti in sala erano molto partecipativi e urlavano come allo stadio quando gli eroi, messi a dura prova dalla malvagità degli avversari, rimontavano da condizioni di inferiorità per sistemare i bruti e ristabilire l’ordine. Peccato che il male assoluto, ne I tre moschettieri, fosse rappresentato da una donna bella e seducente come Lana Turner, l’abominevole Lady de Winter.
Lana Turner e Gene Kelly ne I tre moschettieri di George Sidney, 1948.

Caratteristi

Capita spesso, al cinema, di rivedere facce note ma senza nome: attori e attrici in eterni ruoli secondari; indaffaratissimi, ubiqui, talvolta così specializzati da impersonare più volte lo stesso stereotipo – il gangster, il poliziotto, il politico, la svampita, la suocera, la zia, il magnate, il cowboy, la spia, l’ufficiale nazista, etc. Con l’avanzare dell’età le ricognizioni si fanno sempre più ardue: ormai dimentico anche i nomi e l’identità di facce ultranote. E fosse solo al cinema, pazienza; il guaio è che mi succede anche nella vita – quando incontro persone che dovrebbero essermi familiari e imbastisco con loro tortuose e imbarazzate conversazioni, facendo finta di ricordarmi benissimo di loro. Nella foto: Lloyd Gough (1907-1984) in uniforme da generale per la serie televisiva The Outer Limits, 1964. In Viale del tramonto (Billy Wilder, 1950) era l’agente dello sceneggiatore fallito Gillis, gigolò di un’anziana diva del muto. Tra il 1940 e il 1982 è stato sceriffo, ispettore, capitano, sergente, giocatore d’azzardo, giornalista, psichiatra, chirurgo, magistrato, giudice, senatore e tante altre cose.
Lloyd Gough.

Cattivi

Il cattivo più cattivo del West. E si capisce perché: da boy scout, si beccò da un compagno un colpo di matita nell’occhio sinistro, e lo perse. Malasorte o fortuna? Jack Elam (1918-2003), con e senza cappellaccio, si è fatto odiare sulle praterie e nei ranch di Fred Zinnemann, John Farrow, Anthony Mann, King Vidor, John Sturges, Michael Curtiz, Robert Aldrich, Howard Hawks, Sam Peckinpah. E anche tra le spaghettate di Sergio Leone (C’era una volta il West).
Jack Elam.

Censura

Estasi (Ekstase) è un film ceco-austriaco del 1933, diretto da Gustav Machatý, con «Hedy Lamarr... ripresa, da una discreta distanza, nuda fra gli alberi e nuda nell’acqua. Quando Estasi venne importato per la prima volta negli Stati Uniti nell’autunno del 1934, fu immediatamente sequestrato dalle autorità doganali. Alcuni funzionari visionarono il film e si dichiararono sconvolti non per la scena di nudo, ma per una successiva, in cui la cinepresa inquadrava il volto di Hedy Lamarr mentre presumibilmente faceva l’amore con un uomo. (In realtà, per ottenere un’espressione appassionata sul volto di lei il regista, non visto, la pungeva a tratti nella schiena con una spilla da balia.) Fu chiesto che quella scena venisse tolta; i distributori rifiutarono, così Estasi non solo venne proibito ma letteralmente bruciato. I distributori importarono un’altra copia, cercando di farle passare i controlli doganali, ma una corte federale di New York dichiarò che era “indecente... e causa di corruzione della pubblica morale.”» (Otto Friedrich, La favolosa Hollywood, Milano: SugarCo 1989).
Hedy Lamarr, nuda in Ekstase di Gustav Machatý, 1933.

Ciclismo

Anche Pechino ha avuto i suoi ladri di biciclette. Ne rubano una a Guei, povero adolescente che la usa per il suo lavoro di pony express, in Le biciclette di Pechino di Xiao-shuai Wang, 2001. Le affinità con il capolavoro di Vittorio De Sica (1948) non finiscono qui: nel film c’è uno sfondo urbano da moderno neorealismo cinese. La bici continua ad avere i suoi momenti di gloria cinematografica. Prestandosi spesso, con la sua semplicità, alla rappresentazione degli strati sociali più umili, come nelle storie dei postini Jacques Tati e Massimo Troisi – il primo in Giorno di festa (Jour de fête, 1949); il secondo ne Il postino di Michael Radford (1994). Premiato con un Oscar, All American boys (Breaking away) di Peter Yates, 1979, è una commedia agrodolce dai risvolti sportivi e sociali: in una cittadina dell’Indiana un giovane ciclista (Dennis Christopher) idealizza l’Italia e la sua cultura perché affascinato dai nostri eroi su due ruote, ma incassa un’amara delusione quando si trova a pedalare con una cinica squadra della Cinzano. Anche i thriller d’azione hanno scoperto le risorse spettacolari dell’inseguimento in bicicletta. Senza freni (Premium rush) di David Koepp, 2012, mette in scena l’avventura di un pony express (Joseph Gordon-Levitt ) che deve consegnare una busta dal contenuto scottante e diventa, per questo, oggetto di una incalzante caccia all’uomo.

Colori

Rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco, violetto, bianco. Sono le otto dominanti cromatiche usate da Vittorio Storaro per scandire in capitoli cromo-filosofici la vita di Pu Yi, L’ultimo imperatore (Bernardo Bertolucci, 1987). Il rosso, dice, primo colore dello specchio cromatico, è il colore dell’ingresso alla vita. L’arancio sta per la terra e il tepore familiare. Il giallo è simbolo della pubertà: essendo anche il più solare dei colori, si presta bene a rappresentare il potere divino del giovane imperatore. Poi viene la conoscenza, il verde: l’arrivo del tutore inglese trabocca di simboli di questo colore (l’auto, la bicicletta). Blu è la libertà: la vita di Pu Yi si tinge di blu quando, da giovane adulto, si concede spassi da playboy. A quarant’anni subentra l’indaco, una specie di spegnimento del blu: la ragione reclama i suoi diritti, anzi i suoi doveri, che sono la maturità e il pragmatismo. Ma è solo nell’età del violetto, secondo Storaro, che la sensibilità si allarga e si accende la consapevolezza dei propri errori. Dopo non c’è che il bianco: «la somma di tutte le esperienze, di tutte le età e di tutte le emozioni.» E fuori nevica. – L’ultimo imperatoreè stato il terzo Oscar di Vittorio Storaro. Gli altri sono Apocalypse now (Francis Ford Coppola, 1979) e Reds (Warren Beatty, 1981).
L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, 1987.

Colpa

In Idolo infranto (Carol Reed, 1948, da un racconto di Graham Greene) l’indissolubile binomio innocenza-colpevolezza non tormenta solo gli adulti ma anche i bambini. Il protagonista è Philippe, nove anni (l’attore Bobby Henrey), figlio di un ambasciatore francese a Londra. I genitori sono spesso assenti e Philippe è affidato alle cure del maggiordomo Baines (Ralph Richardson) e dell’orribile moglie (Sonia Dresdel). Baines è diventato un idolo per il bambino: per farlo addormentare gli ha spesso raccontato di sé esperienze avventurose che più tardi si riveleranno del tutto immaginarie. L’adorato maggiordomo ha una relazione extraconiugale con Julie (Michèle Morgan). Quando sua moglie lo scopre, scoppia un litigio furibondo tra i due coniugi e la donna muore accidentalmente, precipitando da un davanzale interno all’immenso atrio dell’ambasciata. A questo punto, Philippe aggiunge una tonnellata di bugie a quelle già prodotte da Baines e da Julie, nel tentativo disperato di salvare il suo idolo dalle grinfie della polizia. La cosa interessante è che il bambino, come la polizia, crede nella colpevolezza del maggiordomo – e lo ammira anche per aver fatto secca la moglie cattiva. Quando scopre non solo la sua innocenza, ma anche l’assoluta banalità della sua biografia, la delusione è totale.

Comici

In Italia, più che altrove, è invalsa la pratica di subordinare il cinema alla bravura e alla popolarità dei comici. Tanto che i più intraprendenti – da Alberto Sordi a Roberto Benigni, da Carlo Verdone al meraviglioso e compianto Massimo Troisi – diventarono senza problemi registi di sé stessi. Ma non tutti i comici sono Charles Chaplin, la cui versatilità nasceva da una curiosità onnivora e da una multiforme competenza. Il Sordi di Fellini (Lo sceicco bianco, 1952; I vitelloni, 1953) ha un valore universalmente riconosciuto, mentre il Sordi regista può piacere solo ai suoi fan più fedeli. Quanto a Benigni, doppio Oscar per La vita è bella, non saprei cosa dire: lo amo al punto di essere felice per il suo exploit, ma non sono convinto che tra le sue virtù ci sia anche quella del regista sublime. I suoi film sono indubbiamente divertenti, ma più adatti al piccolo schermo che alla sala. Idem per Troisi, diretto da un regista vero (Michael Radford) solo ne Il postino.

Commedia all’italiana

La fortuna e la diffusione di un cinema basato sulla sola presenza di popolari attori comici, sostenuta da una regia di puro servizio, non nasce solo da mere considerazioni commerciali (previsioni di successo, spesso fondate), ma anche dalla tradizione della commedia dell’arte, nata e sviluppatasi in Italia per un paio di secoli abbondanti a partire dal Cinquecento. Tipiche di quel teatro erano l’assenza di canovacci e la recitazione a braccio: improvvisazione pura. Bisognò aspettare Carlo Goldoni per dare scrittura e pianificazione alla commedia italiana; ma l’attitudine all’improvvisazione e alla farsa permase a lungo nello spettacolo di varietà del Novecento, e il palcoscenico popolare divenne spesso il trampolino di lancio dei comici nel cinema. La cosiddetta “commedia all’italiana”, che tanta fortuna ha avuto dagli anni Cinquanta in poi, e tantissimo ha inciso sul comune sentire degli italiani, non è che la naturale continuazione della commedia dell’arte prima e dell’avanspettacolo poi.

Connessioni

Rivisti a distanza di quarant’anni e più, Il braccio violento della legge(William Friedkin, 1971) e Il braccio violento della legge n. 2 (John Frankenheimer, 1975) mantengono ancora oggi il pregio di una singolarità stilistica che li distingue dagli altri film d’azione americani, vecchi e nuovi. Il gioco sta nell’ibridazione col cinema francese di quegli anni, e non solo per via dell’ambientazione marsigliese del sequel e dei traffici del clan di Marsiglia a New York nel primo episodio. Gli stessi titoli originali – The French Connection e French Connection II– sembrano rimandare a connessioni che non sono solo quelle della malavita. Friedkin e Frankenheimer devono essersi studiati la nouvelle vague ma, soprattutto, i noir di Jacques Becker, Henri Verneuil, Jean-Pierre Melville... Degli europei adottano il ritmo, più lento, realistico e ricco di dettagli di quello hollywoodiano, e l’attenzione alla psicologia degli scalmanati di turno. Buona parte del fascino dipende dal contrasto tra l’eroe, un poliziotto americano dalla testa ai piedi, volgarotto, ignorante, animalescamente coraggioso (superbo Gene Hackman), e il capo dei narcotrafficanti, intellettuale elegante e allusivo, ruolo affidato con un colpo di genio a Fernando Rey, una delle icone più ironiche del cinema di Buñuel. Blockbuster anni settanta, ma di una raffinatezza insolita, sperimentale.
Fernando Rey (1917-1994). Spagnolo. Grande carriera internazionale con Luis Buñuel (Viridiana, Tristana, Il fascino discreto della borghesia, Quell’oscuro oggetto del desiderio), Orson Welles (Falstaff), Robert Altman (Quintet), Francesco Rosi (Cadaveri eccellenti), etc.

Corea del Nord

The Interview (2014), il film che ha fatto arrabbiare il leader nordcoreano Kim Jong-un e scatenato minacce agli USA e attacchi di hacker alla Sony, è un prodotto di incontrollata bruttezza. Peccato, perché l’idea era divertente: l’animatore e il producer di un talk-show ottengono di intervistare il tremendo dittatore asiatico, e la CIA li istiga ad approfittare dell’occasione per avvelenarlo. Ma sceneggiatori e registi incapaci di misurare gli ingredienti e le dosi della comicità esagerano col grottesco, rendendo indigesto uno svolgimento già scombinato di per sé. Anche l’assurdo necessita di regole, e gli autori di The Interview avrebbero dovuto studiare Il grande dittatore di Chaplin per imparare qualche sottigliezza che li salvasse da una volgarità puerile a base di vomito, buchi di culo, diarree e smorfie a volontà. James Franco, che interpreta il presentatore televisivo coinvolto nel complotto, è un attore simpatico ma da tenere a freno. Quanto a Evan Goldberg e Seth Rogen, che firmano script e regia (il secondo recita nel ruolo del producer), hanno toppato in pieno. Gli unici a strappare un sorriso sono Eminem e Rob Lowe, intervistati anch’essi da James Franco. Paradossalmente, Kim Jong-un (l’attore Randall Park) ne esce come il solo personaggio umano del film. Il vero Kim avrebbe dovuto dire grazie, invece di prendersela a morte.

Crac

Margin call. Primo lungometraggio di J.C. Chandor, regista e sceneggiatore. Il crollo di un impero finanziario nel fatidico 2008. Tutto in una notte, più la mattina dopo. Dialoghi che ti tengono incollato alla poltrona. Montaggio asciuttissimo. Cast formidabile. Un film che spiega il presente con un ritmo da thriller. Margin call, 2011. Con Kevin Spacey, Paul Bettany, Jeremy Irons, Zachary Quinto, Demi Moore, Stanley Tucci, Penn Badgley, Simon Baker, Mary McDonnell.

Creative writing

Lo scettico Germain, professore di lettere frustrato dal fallimento come scrittore, assegna agli studenti il tema “Come ho trascorso il weekend”. Uno dei ragazzi, Claude, lo sorprende con uno svolgimento non banale. Scrive di aver fatto visita a un compagno di classe, Rapha, e descrive l’ambiente di quella casa, e le persone che la abitano, con un’ironia che costeggia la critica sociale. L’insegnante fiuta indizi di talento e aiuta il ragazzo a sviluppare le sue capacità. Lo incuriosisce specialmente l’ultima parola del tema: «Continua», come se Claude avesse stabilito di spiare a oltranza quella casa e quella famiglia e di narrarne le vicende quotidiane.Così avviene. L’esistenza altrui diventa materia di morbosa curiosità non solo per lo scrivente, ma anche per i suoi lettori, ovvero il professore e consorte. Istigato dal docente, che crede – non senza ipocrisia – di poter mantenere il gioco entro i limiti della decenza, Claude spinge la sua spudorata missione fino a livelli pericolosi. Dans la maison di François Ozon (2012, titolo italiano Nella casa) ti tiene sulla corda dal principio alla fine. Un piccolo saggio sul creative writing e sulla cattiveria necessaria ad ogni scrittore che si rispetti. Il liceo di Germain e di Claude si chiama Flaubert, e flaubertiana è la visione letteraria del prof che, per interposta persona, dirige una Éducation sentimentale dei giorni nostri.
Ernst Umhauer e Fabrice Luchini, allievo e maestro in Dans la maison di François Ozon, 2012. Luchini interpreta un professore che tiene il profilo basso ma cela dentro di sé l’anima di Mefistofele. Impagabili le sue critiche al giovane allievo come quando, storcendo la bocca insoddisfatto di certi passaggi, lo accusa di essere pronto a far carriera come scrittore di sceneggiati tv o, peggio, di cataloghi d’arte.

Critici

Mi capita, a volte, di leggere giudizi sprezzanti su film che hanno conquistato il mio favore o addirittura suscitato il mio entusiasmo. Non parlo di quei colpi di machete che sibilano in gagliarda e sanguinaria allegria nei social network; ma di elucubrazioni dotte, firmate da sovrani della critica ufficiale, come ad esempio il Vincent Canby che per decenni pontificò sul New York Times. Mi è bastato imbattermi in una sua sentenza alla paprica su Alamo Bay, film americano di Louis Malle (1985) da me sommamente apprezzato, per farmi arrivare a questa conclusione sentimentale: preferisco Malle a Canby e, in generale, gli autori ai critici. Anche gli autori meno titolati di Malle, i tanti artigiani dell’intrattenimento senza soverchie ambizioni artistiche ma devoti alla cura del mestiere, alla “chiave a stella” onorata dal libro di Primo Levi; anche chi allestisce manufatti di chiara impronta commerciale, o persino apertamente propagandistici, è degno della mia attenzione, purché non giochi troppo sporco o non spacci fetente spazzatura con la scusa che le folle non desiderano o non meritano niente di meglio.

Croupier

Marcel Dalio (1900-1983), nome d’arte di Israel Moshe Blauschild. Parigino, infilò una promettente carriera nel cinema francese lavorando con registi del calibro di Robert Bresson, Julien Duvivier, Jean Renoir (La grande illusione, La regola del gioco). Scoppiata la guerra dovette rifugiarsi in America, per sfuggire alle persecuzioni antisemite. A Hollywood fu spesso impiegato in ruoli di stranieri melliflui. Il suo curriculum è sterminato. Era anche in Casablanca, come croupier del Rick’s Café Américain.
Marcel Dalio in Casablanca.

Cult

Quando, nel 1982, uscì Blade Runner, in molti pensammo che quel film, ispirato a un romanzo di Philip K. Dick, sarebbe rimasto impresso nella memoria dei posteri. Errore. Solo quindici anni più tardi mi scappò di citarlo in un’aula universitaria scoprendo che nessuno degli studenti presenti (una cinquantina) lo aveva mai sentito nominare. L’esperienza si è ripetuta altrove: sul blog del master in art direction e copywriting del PoliDesign milanese leggo una nota scritta dagli allievi: «Film che ci dobbiamo vergognare di non aver ancora visto. 1. Blade Runner - 1982, diretto da Ridley Scott: citato da tutti, direttori creativi compresi!» La cosa curiosa è che i film vengono dimenticati molto più in fretta che in passato, nonostante la disponibilità di strumenti (DVD) e canali (social network) che, almeno in teoria, dovrebbero prolungarne la sopravvivenza. Se neanche Blade Runner riesce a mobilitare nozioni ed emozioni nella gioventù, vuol dire che Quarto potere e Casablancadevono essersi già estinti da tempo. Per dirla con il replicante Roy Batty (Rutger Hauer): «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.»

Delazione

Le giornaliste di gossip Louella Parsons (1881-1972) ed Hedda Hopper (1885-1966) non sarebbero dispiaciute a Goebbels. «Oggi è quasi impossibile comprendere il potere esercitato a quei tempi» da siffatte canaglie, «ma negli anni quaranta queste due donne presuntuose e ignoranti tiranneggiavano Hollywood», ricorda Otto Friedrich in City of nets – A portrait of Hollywood in the 1940’s. La prima, assoldata dal magnate della stampa Hearst, fece di tutto per boicottare l’uscita e l’accoglienza di Quarto potere. La seconda si distinse come zelante delatrice prima, durante e dopo gli anni bui segnati dal maccartismo. Nel 1952, quando a Charles Chaplin – in viaggio su una nave per Londra – fu revocato a tradimento il permesso di rientrare negli Stati Uniti, dove da tanti anni aveva la sua casa e i suoi beni, Hopper scrisse che il talento dell’artista «non gli dava il diritto di combattere i nostri costumi, di aborrire ciò in cui noi crediamo... di gettarci in faccia la nostra ospitalità... Io odio ciò che lui rappresenta.» (Friedrich, op. cit.). Pensieri e dichiarazioni di questo tipo, musica per le orecchie di politici, burocrati e persecutori senza cervello e senza scrupoli, ammorbarono la democrazia americana del secondo dopoguerra, riducendola alla più ipocrita delle finzioni.
Buster Keaton e Charles Chaplin in Luci della ribalta (Limelight, 1952) di Chaplin.

Deviazioni

Psycho, il capolavoro di Hitchcock, può essere considerato come un catalogo completo di detournarrativi. Tutte le trame del mondo, da quelle di Omero a Cappuccetto Rosso, dalla Divina Commedia a On the road di Kerouac, dall’Ulisse di Joyce alla fantascienza, da Moby Dick alle soap operas, raccontano la storia di un viaggio. Nello spazio, come nell’Odissea o Easy Rider, o nel tempo, come nella Rechercheproustiana. Un viaggio che però non conduce dal punto A al punto B in modo lineare, ma dopo una serie di deviazioni. Queste deviazioni sono ciò che rende imprevedibile, ansiogeno, e quindi efficace, il racconto. Marion Crane se ne va on the road da Phoenix verso un luogo dove spera di rifarsi una vita con l’amato; la tappa al motel esige una deviazione – in senso letterale – dalla highway. E che deviazione! Cappuccetto Rosso affronta una scorciatoia per arrivare nel modo più lineare possibile a casa della nonna. La scorciatoia passa attraverso il bosco. Nel bosco c’è poca luce, e c’è il lupo. Che ne sarà della povera creatura indifesa? Cominciamo a fremere per la sua sorte. Il lupo è più astuto e creativo di un normale serial killer. Potrebbe liquidare subito la preda (come Norman Bates in Psycho), ma il suo senso estetico gli suggerisce di tirare in lungo: prima conviene divorare la nonna, poi, come dessert, la carne – tenera e dolce – della nipotina.
Anthony Perkins in Psycho.

Dialoghi

I dialoghi sciatti e prevedibili assecondano le peggiori intenzioni e rovinano irrimediabilmente le migliori. Da una sola frase, e senza guardare lo schermo, puoi capire che la tv sta trasmettendo una soap opera italiana delle più corrive. Al polo opposto certi dialoghi letterari, troppo ricercati e carichi di sottintesi, possono sciupare dei capolavori potenziali. La notte (1961) e Il deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni guadagnano molti punti se li si guarda con l’audio spento, anche se alle parole hanno messo mano Ennio Flaiano per il primo e Tonino Guerra per entrambi. Insuperabili per intelligenza e ironia i dialoghi di Billy Wilder e I.A.L. Diamond. Quanto al terzo millennio, credo che i migliori sceneggiatori siano in gran parte impegnati nel cinema d’animazione per bambini. Per esempio la trilogia di Toy Story (1995-2010): John Lasseter, Pete Docter, Andrew Stanton, Joe Ranft, Joss Whedon, Joel Cohen, Alec Sokolow, Ash Brannon, Lee Unkrich, Michael Arndt; L’era glaciale e relativi sequel (2002-2012): Peter Ackerman, Michael Berg, Michael J. Wilson, Peter Gaulke, Gerry Swallow, Jim Hecht, Jason Fuchs, Mike Reiss; Alla ricerca di Nemo (2003): Andrew Stanton, Bob Peterson, David Reynolds; Cars(2006): Dan Fogelman, John Lasseter, Joe Ranft (morto prima dell’uscita del film), Kiel Murray, Phil Lorin, Jorgen Klubien.

Diamanti

Diamonds are forever– parole di Don Black, musica di John Barry – è il tema conduttore del film omonimo di Guy Hamilton (in Italia Agente 007 - Una cascata di diamanti), introdotto dalla voce di Shirley Bassey. Film e canzone devono aver fatto la felicità della De Beers, la società che commercializza i diamanti sul mercato mondiale. Melodia, orchestrazione e vocalismo scintillanti, sontuosa commistione di tonante e thrilling, secondo la sperimentata formula delle colonne sonore per la serie James Bond. Americano di nascita ma attivo soprattutto nel Regno Unito, Barry ha collezionato Oscar (per Nata libera e Il leone d’inverno) e candidature (per Maria Stuarda regina di Scozia). Ha coltivato uno stile personalissimo e visivamente efficace: epico, elegante, drammatico ma ricco di glamour, potente combustibile emotivo del cinema in costume e di quello d’azione. I temi per l’Agente 007 (Dalla Russia con amore, Goldfinger, Operazione tuono, Si vive solo due volte, Al servizio segreto di Sua Maestà, Octopussy - Operazione piovra, Una cascata di diamanti) sono perfette trascrizioni in musica di atmosfere da jet set, minacciate però da incombenti pericoli di dimensione planetaria. Shirley Bassey sta a John Barry come Dionne Warwick sta a Bacharach: voci avvolgenti e sexy per canzoni di lusso, da mandar giù come martini o champagne.

Dignità

Il discorso del re di Tom Hooper (2010) si svolge alla vigilia della seconda guerra mondiale, concentrandosi su un problema personale del duca di York prima, durante e subito dopo il suo insediamento al trono. Giorgio è introverso e soffre di balbuzie e agorafobia. Handicap pesanti per un monarca, per di più incoronato proprio in uno dei momenti più malsani della storia, quando c’è più bisogno della sua presenza e della sua parola. Il mezzo più moderno per appellarsi ai sudditi è, in quegli anni, la radio; gli Hitler che scombussolano la pace di Giorgio sono dunque due: Adolf e il microfono. Il male sembra incurabile finché il re non s’imbatte in un improvvisato logopedista, un attore australiano fallito. L’uomo dei miracoli impone al regale cliente le proprie regole, tutte in stridente contrasto con l’etichetta di Buckingham Palace: lo tratta da compagno d’osteria e non esita a strapazzarlo come si strapazza un allievo riluttante e indisciplinato. Il difficile rapporto fra i due (strepitose le interpretazioni di Colin Firth e Geoffrey Rush) si svolge tra conflitti e riavvicinamenti, conquiste e ricadute, umilianti espedienti e risultati non sempre incoraggianti. Una storia non banale sulla nascita di un’amicizia fra personalità incongrue ma complementari. Perché questo film dovrebbe entrare nelle scuole? Perché tocca un tema gigantesco e fuori moda: la dignità.

Diplomazia

All’indomani dell’attacco giapponese Nelson Rockefeller, che era tra i maggiori azionisti della RKO, chiese – per conto del governo – di mandare un cineasta di valore in Brasile, a occuparsi di un film che promuovesse le buone relazioni tra gli USA e l’America Latina nel timore che questa subisse pressioni dalla Germania nazista e uscisse dalla neutralità. Orson Welles partì di buon grado, anche perché aveva per la testa un nuovo progetto al quale sarebbe servito un po’ di esotismo. Per tutto il periodo della guerra Hollywood fu mobilitata a scopo patriottico. Una parte dei tanti film di propaganda dell’epoca mirava a rinsaldare l’amicizia tra le due Americhe, esaltando lo scambio culturale e turistico. Persino Paperino partecipò alla solenne missione diplomatica.I cartonisti della Walt Disney assemblarono in fretta e furia Saludos amigos, un collage di short a base di samba, Ande e sombrero, da esportare a sud seduta stante; e più tardi allestirono, sempre a scopo di relazioni pubbliche, I tre caballeros. Le sorelle brasiliane Aurora e Carmen Miranda, quest’ultima famosissima per i monumentali turbanti alla frutta inalberati nei numeri musicali, sambeggiarono in diverse commedie musicali hollywoodiane prima e durante gli anni di fuoco.

Diritti civili

In Muhammad Ali’s greatest fight (tv, 2013), nove giudici della Corte suprema devono esprimersi sulla causa intentata da Muhammad Ali (Cassius Clay) contro gli Stati Uniti per evitare la galera (era stato accusato di renitenza alla leva perché non gli era stato riconosciuto il diritto di obiezione di coscienza). Stephen Frears dirige uno strepitoso cast di anziani, tra cui Christopher Plummer, Frank Langella e Danny Glover, nei panni degli illustri e boriosi custodi della legalità. La questione è spinosa: non ci sono in ballo solo la fama e le idee del pugile, i suoi diritti negati di cittadino e sportivo (gli fu tolto il titolo di campione del mondo e proibito di proseguire la carriera sul ring), ma anche le pressioni politiche, la protesta contro la guerra del Vietnam, la presidenza di Nixon, il colore della pelle, la Nation of Islam, il conflitto tra vecchia guardia e nuove generazioni...Un giovane assistente (l’attore Benjamin Walker) riesce miracolosamente a smuovere i pregiudizi e la sicumera del suo potente capo, il giudice Harlan; e il summit giudiziario si converte gradualmente a favore di Muhammad Ali, dopo conflitti dialettici in appassionante crescendo.Esaltanti e commoventi gli inserti d’epoca con dichiarazioni pubbliche del grande boxeur. Ali/Cassius parla quasi in musica, e il suo è il più bel rap sui diritti civili che si sia mai ascoltato.
Muhammad Ali (Cassius Clay) nel 1964.

Divismo

Nel mondo d’oggi, miti come Dean o Brando sarebbero irreplicabili. I parametri del divismo sono cambiati perché ciò che rendeva atipiche certe personalità di allora – l’ambiguità, il mistero, il dark side– scompare sotto la costante luce dei riflettori. Il gossip generalizzato, l’occhio sempre acceso dei media, la stessa illusione di essere potenzialmente tutti delle star grazie ai reality show e ai social network escludono che l’interesse per un personaggio pubblico si trasformi in permanente e religiosa adorazione. Il tentativo di Francis Ford Coppola di fabbricare un manipolo di cloni di James Dean fallì già nel 1983, quando uscirono contemporaneamente I ragazzi della 56a Strada (The outsiders) e Rusty il selvaggio (Rumble fish). Tom Cruise, Matt Dillon, Emilio Estevez, C. Thomas Howell, Rob Lowe, Ralph Macchio, Mickey Rourke, Patrick Swayze... Per quanto ottimi professionisti nessuno di loro, nemmeno l’amatissimo Swayze morto prematuramente, finirà stampato sulla T-shirt di un fan.

Django

Quentin Tarantino si è ispirato agli spaghetti western per creare un capolavoro dello spasso, Django unchained, e io mi sono ispirato a Tarantino per rivalutare gli spaghetti western. Negli anni sessanta avevo un’idea un po’ talebana del cinema e questo genere di cose non mi attraeva granché. La mia tolleranza non andava molto più in là di Per un pugno di dollari. Invecchiando indulgo più volentieri al piacere del bang-bang, purché intelligente: forse perché la realtà contemporanea, in primis quella italiana, mi sembra di gran lunga più irragionevole e grottesca dei plot di Tarantino. Che qui si conferma epico e debordante narratore di avventure: persino storicamente istruttive, senza risparmio di impegno critico e civile sugli orrori del razzismo e dello schiavismo. Strepitosi i dialoghi, superbe le performance di Christoph Waltz (Oscar per il suo Doktor Schultz, personaggio comico di geniale originalità); Leonardo DiCaprio, divertentissimo nella contraddizione tra volto angelico e ripugnante sadismo; Samuel L. Jackson, tarantinista veterano, nei panni del maggiordomo nero totalmente asservito ai padroni bianchi. Il soundtrack è un’antologia imperdibile, a cominciare dal recupero di Django– leitmotiv del vecchio film italiano dovuto a Luis Bacalov e alla voce di Rocky Roberts.

Duttilità

Teatro. Televisione. Molto cinema indipendente (tre colpi da maestra in una sola edizione di Sundance). Amica intima e ficcanaso (Lontano dal paradiso), titolare di ristoranti (Sapori e dissapori) o agenzie di spionaggio industriale (The East), madre eccentrica o disperata, suocera ingombrante (Basta che funzioni), fedifraga romantica (Cairo Time)... Con un registro ironico adattabile a tutto, dal drammone (eroinomane in High Art) alla commedia brillante (Woody Allen e altri). È Patricia Clarkson, la “supporting actress” più ricercata del momento. Sul grande schermo dai tempi di The Untouchables (Brian De Palma, 1987), dov’era la moglie di Kevin Costner.
Patricia Clarkson.




© Pasquale Barbella

(Dizionario irregolare del cinema – 2. Continua)

Kinopedia/3

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Dizionario irregolare del cinema


Questo lavoro è in fase di stesura. I post verranno aggiornati periodicamente.

Impegno

Per molti della mia generazione, curiosi di cinema ma anche di storia, di realtà, di narratologia (oggi si dice storytelling), Francesco Rosi è stato un maestro grande e necessario. Gli dobbiamo l’intensità dello sguardo; la determinazione – spesso scomoda per malavitosi e potenti – allo smascheramento degli inganni; la denuncia del malaffare e dei nostri peggiori costumi. Argomenti che hanno alimentato il miglior cinema italiano degli anni sessanta e settanta, non solo il suo; ma a lui si deve il rigore dell’indagine, la lucidità fredda, l’asciuttezza quasi documentaria dello stile. Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei sono tra i capisaldi di un cinema-inchiesta italiano nei contenuti, ma universale per vigore narrativo. Rosi ha raccontato mafia, camorra, trame e connivenze malapolitiche con audacia da investigatore e poeta, traducendo i segreti più torbidi in allarme sociale e in superiore calligrafia. È stato artista e detective, attento a non deprimere l’estetica con i contenuti e i contenuti con l’estetica. Deciso a non fidarsi delle versioni ufficiali, incaricò un giornalista, Mauro De Mauro, di cacciare il naso in certi ambienti siciliani sul mistero della morte di Enrico Mattei, avvenuta per un incidente aereo estremamente sospetto. De Mauro scomparve a Palermo il 16 settembre 1970, mentre stava lavorando per Rosi, e il suo corpo non è mai stato ritrovato.
America oggi.

Incipit

Certi film cominciano a bruciarmi dentro fin dai titoli di testa, come se già la prima immagine, la prima scritta, il primo suono mi dicessero: rilassati e apri bene la mente, sta per succederti qualcosa di speciale, molto speciale. Ne cito qualcuno, a memoria e in ordine cronologico. Fellini: La dolce vita. Due signore bene, un po’ stronze, prendono il sole su una terrazza romana. Nel cielo sopra di loro, passa un elicottero con una statua di Cristo appesa alla corda. Hitchcock: Psycho. Saul Bass spacca tutti i credits con linee orizzontali, musica inquietante di Bernard Herrman, zoom verso una persiana chiusa, anche quella ha le linee orizzontali. Chissà cosa sta succedendo lì dentro. Orson Welles: L’infernale Quinlan. Schizza un tema di Henry Mancini sul piano sequenza più spericolato e più ricco di colpi di scena che uno possa immaginare. Coppola: Apocalypse now. Non ricordo bene l’inizio: c’erano elicotteri anche lì? Robert Altman: America oggi. Ancora elicotteri, solo elicotteri, senza Cristi appesi e senza odore di napalm. Eppure la gente, me compreso, si mette ad applaudire preventivamente, in preda a una misteriosa febbre collettiva (OK, il clima è particolare, siamo alla mostra di Venezia).

Ingenuità

Si capisce subito e da lontano, in M. Butterfly di David Cronenberg (1993), che la cantante d’opera cinese è un travestito (l’attore John Lone, bravissimo). Ciò nonostante, il diplomatico francese (Jeremy Irons) s’innamora follemente di lui credendolo donna per anni, e accetta senza batter ciglio la panzana di averlo messo incinto. Il film è interessante ma questa stortura lo rovina. Com’è possibile che un uomo si lasci ingannare sull’identità sessuale del suo/della sua amante? Poi si è colti dal dubbio, si consulta Wikipedia e si apprende che la storia è vera. Il diplomatico si chiama Bernard Boursicot ed è stato processato nel 1986 per aver passato all’amante cinese informazioni top secret. Cronenberg è bravo a mescolare le carte (ambiguità sessuali, amour fou, pregiudizi occidentali, colonialismo, trame pucciniane revisionate, etc.), ma Irons ha l’aria troppo scafata per fare credibilmente la parte del cretino.
Gary Cooper solo contro tutti in High noon.

Ingratitudine

Tra i tanti classici del western, Mezzogiorno di fuoco (High noon, 1952), diretto da Fred Zinnemann, spicca per la calibrata economia di mezzi espressivi usati per condurre il dramma al suo climax. Gary Cooper è lo sceriffo uscente di un villaggio che, durante il suo mandato, è stato ripulito dalle bande che lo infestavano e promosso alla legalità e alla sicurezza. Ma proprio nel giorno dell’addio, che è anche quello del suo matrimonio, si sparge la voce che un famigerato bandito, da lui catturato in passato, è stato rilasciato anzitempo dalla prigione ed è in arrivo con i suoi uomini per vendicarsi. Invece di lasciare il villaggio per sempre, come aveva programmato di fare, e andarsene in viaggio di nozze con la sposa (Grace Kelly), lo sceriffo rimane per affrontare i cattivi, il cui leader è atteso col treno di mezzogiorno. Invano cerca di formare una squadra di agenti giurati: i cittadini gli voltano le spalle. Abbandonato e tradito, dovrà sbrigarsela da solo contro quattro farabutti. Ce la farà, ma che vittoria amara! Pochi elementi essenziali – le case di legno, il saloon, la stazione, uno stuolo di caratteristi formidabili, la fotografia in bianco e nero di Floyd Crosby (forti contrasti, inquadrature elegantissime), una indimenticabile canzone di Dimitri Tiomkin cantata da Tex Ritter. E l’attesa che il fato si compia, man mano che crescono la delusione e l’angoscia dell’eroe solitario.

Ironia

«Nessuna buona azione rimane impunita.»
«Premi e onorificenze sono come le emorroidi: prima o poi capitano a qualunque stronzo.»
«Quando fu inventato lo schermo panoramico furoreggiava l’otto volante, e il cinema cercò la propria salvezza in vertiginose corse in automobile per monti e per valli.»
«Per quanto stupido possa essere il singolo spettatore, come pubblico, insieme a mille altri individui, è un genio. Ha sempre ragione.»
«Se il cinema riesce a trasformare il singolo in pubblico, se riesce a fargli dimenticare per un paio d’ore di aver lasciato la macchina in sosta vietata, scordato di pagare la bolletta del gas o litigato con il capufficio, allora il cinema ha raggiunto il suo scopo.»
«Quello che più odio negli austriaci, è che non riesco a odiarli.»
Le citazioni sono tratte dal libro Billy Wilder. Un viennese a Hollywood di Hellmuth Karasek, 1992; ed. italiana Mondadori, 1993. Il lavoro è il risultato di una lunga serie di interviste di Karasek a Wilder, ed è una lettura godibile non solo per chi ama Wilder, ma per chi ama il cinema. Ma forse Wilder e il cinema sono la stessa cosa.

Luoghi

I luoghi sono talmente importanti da comparire spessissimo già nei titoli: migliaia di titoli. Cito a caso e alla rinfusa: Il ladro di Bagdad, Casablanca, La signora di Shanghai, Roma, città aperta, Miracolo a Milano, L’uomo di Laramie, Morte a Venezia, Fuga da Alcatraz, Zabriskie Point, C’era una volta il West... Ma anche La finestra sul cortile, La strada, Gruppo di famiglia in un interno, West Side Story, 2001: Odissea nello spazio, Cotton Club... In tutti questi film, come in molti altri e indipendentemente dai titoli, i luoghi – reali o ricostruiti dagli scenografi – hanno una valenza drammaturgica di primo piano; in altri sono sfondi banali e intercambiabili, trattati con negligenza, indifferenza o manifesta insensibilità: come se bastassero solo la trama e gli attori, per quanto bravi, a rendere la complessità dell’esistenza in tutte le sue sfumature. Paradossalmente è più incisivo ed eloquente il piccolo e anonimo ambiente che circonda Anna Magnani nel famoso monologo de L’amore tratto da La voix humainedi Jean Cocteau e filmato da Roberto Rossellini (1948), che le squillanti cartoline turistiche a colori della serie Vacanze di Natale (in America, sul Nilo, in India, a Miami, a New York, in crociera, a Rio, a Beverly Hills, in Sudafrica, a Cortina...) illustrate da registi da box office come Carlo Vanzina e Neri Parenti.

Maestri

Il cinema di Francesco Rosi s’incrocia spesso con la letteratura d’impegno civile: da soggetti e testi di Emilio Lussu, Leonardo Sciascia, Carlo Levi, Andrej Platonov, Gabriel García Márquez, Edmonde Charle-Roux e Primo Levi sono nati, rispettivamente, Uomini contro, Cadaveri eccellenti, Cristo si è fermato a Eboli, Tre fratelli, Cronaca di una morte annunciata, Dimenticare Palermo, La tregua. Prima di esordire come regista in proprio, Rosi si distinse come sceneggiatore; mise mano anche a un capolavoro di Visconti, Bellissima. Da aiuto-regista, si fece le ossa su esperienze memorabili come La terra trema (Luchino Visconti, 1948), Bellissima (Visconti, 1952), Camicie rosse(Goffredo Alessandrini, 1952), I vinti (Michelangelo Antonioni, 1953), Senso (Visconti, 1954), collaborando inoltre con Raffaello Matarazzo, Luciano Emmer, Mario Monicelli, Vittorio Gassman. È stato anche regista di teatro; tra il 2003 e il 2008 ha portato in scena la sua versione di tre capolavori di Eduardo De Filippo: Napoli milionaria, Le voci di dentro, Filumena Marturano. Rosi deve essere ricordato: è un must. Munitevi di DVD e guardate e riguardate i suoi film. In C’era una volta... (1967) la sua mano si riconosce poco, ma tutti gli altri non hanno perso alcunché della forza d’origine.
Al Pacino e James Caan.

Mafia

La potenza della mafia non sta nella sua immoralità, ma in un’etica alternativa talmente condivisa dai suoi adepti da risultare più solida e coesa della morale civile. Questo, almeno, è quanto si evince dai primi due capitoli della trilogia Il padrino (Francis Ford Coppola, 1972-1974), e l’irregolarità dell’assunto contribuisce non poco a renderli così attraenti. Quando, nel terzo e deludente episodio (1990), Michael Corleone si pente dei suoi crimini, la grande epopea sfocia nell’ordinario. I personaggi di Coppola e Mario Puzo non possono permettersi cedimenti, perché appartengono a un mondo più simile all’Olimpo e al Valhalla che al nostro. Sono dèi e guerrieri di mitologie modernizzate, soggetti a leggi spaventose ma osservate con impegno ferreo. La storia di Giove-Odino Corleone e della “famiglia” ha la solennità, il fatalismo e la crudeltà delle grandi narrazioni tragiche: con Coppola, il cinema ha mostrato di aspirare a vette che solo il teatro, la letteratura e la musica erano riuscite a raggiungere. Indimenticabile il cast, a cominciare da Marlon Brando, Robert De Niro, Al Pacino, Robert Duvall, John Cazale e James Caan; la fotografia di Gordon Willis; le musiche di Nino Rota.

Maldicenza

Il libro A pranzo con Orson riporta una serie di conversazioni tra Orson Welles e un amico di venticinque anni più giovane, Henry Jaglom, meno famoso ma anche lui regista, attore e sceneggiatore. Già dalle prime righe si capisce che Welles e Jaglom non stanno a raccontarsi l’arte del cinema come Hitchcock e Truffaut. Sono due alleati che si vedono a pranzo – dal 1983 al 1985, anno della morte di Welles – al Ma Maison di West Hollywood e, ogni volta che sistemano le gambe sotto il tavolo, fanno a pezzi l’universo. Welles ha acconsentito alla registrazione dei dialoghi, purché il registratore stia nascosto in una borsa: non vuole vederlo. Non parlano solo di cinema ma anche di teatro, politica, cibo, o di qualsiasi altro argomento gli passi per la testa: resistenza, collaborazionismo, De Gaulle, maccartismo, delazione, CIA, Sessantotto, Castro, Guevara. Henry fa da spalla ed è bravo a provocare il maestro, che è un torrente dai percorsi imprevedibili. Orson spara un paradosso dopo l’altro, immune dal politically correct e dalle buone maniere: il dialogo fra i due, che ha trovato in Peter Biskind l’editor ideale, attinge a vette di crudeltà e surrealismo semplicemente meravigliose. Certi giudizi così acuminati da diventare aforismi: «Per me i sessi sono sempre stati tre: uomini, donne e attori. Gli attori riuniscono le peggiori qualità degli altri due.»

Melancholia

Melancholia (2011) è un terrificante film di fantascienza, ma te ne accorgi a poco a poco, perché la prima metà (che dura ben 136 minuti) è la cronaca di una festa di matrimonio nella clubhouse di un campo da golf. Festa per modo di dire: la limousine degli sposi arriva con due ore di ritardo, ospiti e parenti si lasciano andare a dichiarazioni imbarazzanti, la madre di lei innesca una scenata, il boss di un’agenzia pubblicitaria pretende dalla sposa – che lavora per lui – uno slogan seduta stante, ed eroga promozioni e licenziamenti tra un brindisi e l’altro. Ma chi le fa più grosse è proprio la sposa (Kirsten Dunst, premiata a Cannes): si assenta spesso, accusa malesseri ambigui, si sottrae alle attenzioni del povero marito (Alexander Skarsgård). Oscilla tra esaltazione e depressione, suscitando reazioni di vario genere: iperprotettiva la sorella (bravissima Charlotte Gainsbourg), infastidito il cognato (un Kiefer Sutherland da dieci e lode), disgustata – e disgustosa – la madre (Charlotte Rampling in un paio di scene che lasciano il segno). Comportamenti tutti sopra le righe, com’è nella vena di Lars von Trier, ma raccontati con grazia sulfurea e interrotti da sequenze all’aperto in cui la natura, il cielo, il paesaggio sembrano condividere – e forse orientare – il delirio dei personaggi. Lo sguardo di von Trier tende al sublime, ma non lascia spazi alla speranza.

Neorealismo

«Non è che un giorno ci siamo seduti a un tavolino di via Veneto, Rossellini, Visconti, io e gli altri, e ci siamo detti: adesso facciamo il neorealismo. Addirittura ci si conosceva appena. Un giorno mi dissero che Rossellini aveva ricominciato a lavorare: “Un film su un prete”, dissero, e basta. Un altro giorno vidi lui e Amidei seduti sul gradino d’ingresso di un palazzo di via Bissolati. “Che fate?”, domandai. Si strinsero nelle spalle: “Cerchiamo soldi. Non abbiamo soldi per tirare avanti il film...” “Che film?” “La storia di un prete. Sai, don Morosini, quello che i tedeschi hanno fucilato...” (Vittorio De Sica, in L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1935-1959, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Milano: Feltrinelli, 1979). I luoghi, gli ambienti, le strade, gli spazi disponibili diventavano una delle cifre espressive, una delle poche risorse affidabili su cui contare. La mancanza di soldi ha portato i cineasti a girare all’aperto, nei luoghi veri, e dalla povertà – più che dalla teoria – è nato un cinema di inusuale, innovativa potenza.

Odio

...E ora parliamo di Kevin (We need to talk about Kevin), UK/USA 2012. L’odio come accidente biologico, con tanti saluti alla psicoanalisi. Fin dalla nascita Kevin (interpretato da un lattante e un paio di attori tra cui un impagabile Ezra Miller) odia la madre (Tilda Swinton), la famiglia, il mondo intero e sé stesso. Inquietante la tesi, formidabile la messa in scena, con le luci, le ombre, gli spazi, gli arredi e gli oggetti d’uso comune che partecipano tutti allusivamente alla tragedia. Una lezione magistrale di cinema, recitazione, art direction e suspense, in cui nulla è lasciato al caso: anche l’avanti-indrè temporale, che in altri film è spesso un vezzo arbitrario e saccente, qui si giustifica in pieno come tecnica di depistaggio, gestione scaltrissima degli indizi e delle emozioni, sapiente costruzione psicologica dei personaggi. Da tenere d’occhio la regista, Lynne Ramsay, scozzese di Glasgow, non più giovanissima (è del 1969), con precedenti soprattutto nel cortometraggio. Il film ha vinto premi e nomination a iosa, ma ne avrebbe meritati di più. Jonny Greenwood dei Radiohead, autore della colonna sonora, si conferma tra i musicisti più interessanti della sua generazione. Altrettanto straordinario il suo contributo a Il petroliere di Paul Thomas Anderson, 2007.

Open space

La riduzione, la reinvenzione e la negazione dello spazio sono state oggetto di ricerca e di esperimenti a volte interessanti, a volte meno. Uno dei tentativi più cerebrali lo ha compiuto Lars von Trier con Dogville (2003), eliminando dalla scena qualsiasi elemento architettonico, qualsiasi muro, qualsiasi quinta: un intero villaggio, quello del titolo, ridotto a una semplice serie di contorni perimetrali tracciati col gesso su un pavimento neutro, come in una planimetria o una proiezione cartografica. I personaggi si muovono in un open space più spoglio di un palcoscenico teatrale sprovvisto di scenografie. Geniale: ma dopo i primi dieci minuti l’artificio conduce irrimediabilmente allo sbadiglio.

Orologi

A quali film ti fanno pensare gli orologi? A me vengono subito in mente Preferisco l’ascensore (Fred C. Newmeyer e Sam Taylor, 1923), con Harold Lloyd appeso al grande orologio sporgente da un grattacielo; Lo straniero (Orson Welles, 1946), con la lancetta che trapassa il corpo di un criminale nazista; Il posto delle fragole (Ingmar Bergman, 1957), con Victor Sjöström ossessionato dall’incubo dell’orologio senza lancette; Hugo Cabret (Martin Scorsese, 2011), con il gigantesco meccanismo nella stazione parigina degli anni trenta. E poi ci sono le battute celebri, come quella di Orson Welles ne Il terzo uomo (1949) di Carol Reed: «In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù.» (L’attribuzione agli svizzeri era comunque inesatta). Nella scena più drammatica de La strada (Federico Fellini, 1954), quando Zampanò (Anthony Quinn) ammazza di botte il Matto (Richard Basehart), questi muore ridendo e le sue ultime parole sono: «Mi hai rotto l’orologio.»

Perdenti

Città amara (Fat city) di John Huston, 1972, sembrerebbe nato oggi se non fosse per la pellicola un po’ sbiadita dal tempo. Asciuttissima storia di sfigati, che in America si chiamano losers. Qui si sbattono sul ring e si fanno quasi ammazzare per cento dollari, sempre che riescano a vincere un match: cosa che accade raramente, cioè solo a condizione di incontrare uno più malmesso di loro. Abbrutimenti da knockout, da alcool e da iella; non si salva nessuno, nemmeno il giovanissimo Jeff Bridges – astemio ma “flaccido dentro”, come gli dice l’amico Stacy Keach alla fine. Gran film di un grande Huston. Drammatico e tesissimo, senza mai scivolare nel melò.

Perversioni

Fa quasi tenerezza la scena in cui Sterl (l’attore Jonathan Watton), completamento nudo e illuminato dalla faccia ai piedi, si masturba seduto in poltrona davanti alla mdp: è il momento più rilassato di Maps to the Stars di David Cronenberg (2014). Il resto comprende, in ordine alfabetico: Aggressioni paterne a figlia psicolabile, Assassinio mediante spaccamento di cranio, Commercio di feci, Coprofilia, Coprolalia, Deiezioni, Incesti multipli, Matricidio, Matrimonio tra consanguinei, Pedofilia, Peto, Piromania, Sesso a tre, Sfruttamento minorile, Spargimento volontario di liquido mestruale su divano da 18.000 dollari, Stalking, Strangolamento, Tossicodipendenza infantile, Trattamenti psicoterapeutici a base di sadomasochismo, Turpiloquio spinto, Urlo di gioia per annegamento di bambino. Non c’è dubbio che Cronenberg morisse dalla voglia di épater le bourgeois. Ci è riuscito, ma così sono capaci tutti. Date a un regista visionario tutto ciò che vuole (un cast formidabile, un cinematographer come Peter Suschitzky) e il risultato non può che spaccare: non succede mica tutti i giorni di vedere Julianne Moore seduta sul cesso mentre strapazza una torbida assistente dal volto ustionato (Mia Wasikowska), o Evan Bird (tredici anni all’epoca delle riprese) che commette più trasgressioni di quante possa averne catalogate il Doktor Freud.

© Pasquale Barbella

(Dizionario irregolare del cinema – 3. Continua)

In piscina

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David Hockney, A bigger splash, acrilico su tela, 1967. Tate, Londra.


«Figo il tuo bikini», disse Max prima di mettersi di nuovo a succhiare dalla cannuccia la sua bibita verde. Sull’acqua del pomeriggio scintillavano guizzi di luce. Intorno c’erano più occhiali da sole che corpi umani.

Maila pensò, ma solo per un attimo, che il suo semplice bikini color fango non giustificasse apprezzamenti particolari. Forse Max si stava complimentando con ciò che stava dentro e intorno al costume. In effetti sapeva anche lei che, a dispetto dell’età, la linea aveva conservato un che di adolescente. Sapeva anche, però, che a ben guardare si potevano notare le prime grinze. Ma quegli accenni di cellulite stavano nella zona posteriore delle cosce e al riparo da sguardi indiscreti, dal momento che lei era seduta, di fronte a Max, su un asciugamano bianco di spugna e su una di quelle sedie pieghevoli di legno, a fasce verniciate di bianco.

Gli chiese come andassero gli affari, non perché le interessassero davvero ma tanto per distoglierlo da eventuali tentativi di incursione nella sua intimità. E anche per non prolungare il silenzio: Maila non si era mai fidata dei silenzi degli uomini. Specialmente di quelli che rivedi dopo secoli di distacco.

«Sto perdendo soldi a palate a causa di quei pagliacci», rispose Max tranquillamente. Era capace di tenere invariato il tono di voce e restare immobile anche quando gli toccavi un nervo scoperto. Si mosse, e bruscamente, solo quando una vespa prese a ronzargli intorno. Posò il bicchiere sul tavolino bianco, dal quale prese la sua copia ripiegata del Financial Times; e con quella cercò di colpire l’insetto importuno. Maila gli chiese a quali pagliacci alludesse, anche se in cuor suo un’idea ce l’aveva.

«A quelli che non solo non pagano i debiti, ma ti prendono anche per il culo, e nel frattempo tirano giù le borse.» Mentre lo diceva dovette spostarsi di scatto sul lato sinistro, investito a destra dallo schizzo sollevato dal tuffo improvviso di un ragazzino. «Che stronzo», mormorò senza sorridere.

«Come stanno i bambini?», domandò Maila, come per un riflesso condizionato.

«Li vedo poco. Stanno con Gaia.»

Che stessero con l’ex moglie era un’ovvietà. Con chi altri dovevano stare?

«Li vedi o non li vedi?»

«Qualche volta», ammise Max. Ma si capiva che quello non era tra i suoi argomenti preferiti. Almeno quel giorno, e a quell’ora.

Maila bevve un po’ della sua acqua frizzante. Notò che Max aveva messo su un rotolino di grasso sui fianchi. Era comunque ancora quel che si dice un bell’uomo, di quelli che hanno cura di sé e frequentano le palestre fino alla morte.

«Che combinazione incontrarsi dopo tanto tempo in un posto come questo.»

Si ripeteva, pensò Maila. L’aveva già detto tre o quattro volte. Ma neanche lei si sarebbe mai aspettata di vederlo comparire proprio lì, a ore e ore di volo dalle città in cui vivevano.

«È tuo marito?», le domandò a bruciapelo.

«Chi?»

«Il tizio con cui sei arrivata.»

«No», rispose lei laconicamente. Non voleva avventurarsi in nessuna conversazione che riguardasse la propria vita privata. Ma conosceva l’insistenza di Max, quando ci si metteva.

«Che lavoro fa?»

«Il medico.»

«Dov’è adesso?»

«In camera che riposa». E sentì il dovere di aggiungere: «Fa una vita stressante. Ha bisogno di uno stacco.» Ma si pentì subito di essersi lasciata sfuggire una confidenza così stupida. Approfittò del cameriere di passaggio per chiedergli un’altra Schweppes al limone, anche se non aveva più sete. Già che c’era, Max ordinò una birra. «Ben ghiacciata, mi raccomando», aggiunse in tono perentorio. «E metta tutto sul mio conto.»

«Leggi sempre molto», disse poi a Maila, accennando al libro sul tavolino che le stava accanto. In effetti stava leggendo quando lui, sfilandosi l’accappatoio, era andato a sedersi proprio lì.

Volle sapere che cosa stesse leggendo. Invece di parlare, lei gli mostrò la copertina del libro. «Non sapevo che ti piacessero i gialli», commentò Max. E lei: «Non che mi piacciano particolarmente. È un libro come un altro. L’ho preso a caso, all’aeroporto.»

La vespa di prima si rifece viva con aria petulante. Questa volta, il giornale di Max non sbagliò. Spiaccicò lintrusa sul tavolino, al primo colpo. Per reazione, il bicchiere che aveva contenuto la bibita verde perse lequilibrio ed esplose sulle lastre color avorio del pavimento. Quando il cameriere ricomparve con la tonica e la birra, Max gli indicò con una smorfia i vetri rotti, ordinandogli tacitamente di rimuoverli. Fu Maila ad aggiungere «per favore».

«Che medico è?», domandò Max dopo un po’, tanto per non mollare la presa. Gli rispose che era un urologo e faceva il primario in ospedale. «Allora non ho bisogno di lui», commentò lui, quasi senza pensarci. Maila pensò a una battuta. Una di quelle battute che abbondano sulle labbra delle persone prive di spirito.

«Dicevi della borsa». Se proprio si era costretti a parlare di qualcosa, pensò Maila, meglio tenersi sul vago. E non c’è nulla di più vago dell’attualità.

«Sai come sono i soldi. Vanno e vengono», sentenziò Max altrettanto vagamente. Mentre lo diceva, a lei parve di cogliere un’ombra fugace nel suo sguardo. Max non aveva mai imparato a perdere.

Una creola di mezza età in camice bianco venne a spazzare i frammenti di vetro. Max dovette alzarsi e spostarsi per consentirle di compiere l’operazione con cura. Prima di andarsene con i suoi attrezzi, la donna chiese scusa due volte – prima e dopo l’intervento. Maila la ringraziò, con un sorriso di complicità.

«Fino a quando pensate di trattenervi?», domandò Max, quando ebbe ripreso il suo posto sulla sedia.

«Non lo so, dipende dai suoi impegni.» Maila sapeva benissimo che avevano prenotato per una settimana, ma quella risposta le venne d’istinto. Forse la sua reticenza lo ferì, perché si alzò e, lasciando la birra a metà, annunciò che avrebbe fatto un altro bagno. Prima di tuffarsi in piscina, le chiese se anche lei avesse voglia di darsi una rinfrescata. Lei scosse il capo, con un lieve sorriso a fior di labbra.

Bevve un po’, col libro aperto sul grembo, ma non poté fare a meno di starlo a guardare. Nuotava speditamente, da campione, una vasca dopo l’altra. Quando ne ebbe abbastanza, uscì dall’acqua turchese e venne a riprendersi l’accappatoio. Lo indossò, si sfregò il corpo a dovere e, subito dopo essersi liberato dell’indumento, fece due o tre movimenti scomposti, portandosi le mani alla gola. Tossì come se abbaiasse e si accasciò pesantemente sulla sedia, con un’espressione di terrore dipinta sul volto. Faticava a respirare. Rantolava e tremava. Il pomeriggio era di un bianco abbacinante.

***

Ora Max si sentiva meglio. L’adrenalina che gli avevano iniettato quelli dell’autoambulanza aveva fatto il suo effetto, ma era rimasto un bel pezzo sotto choc e solo adesso vedeva Maila con chiarezza. Indossava un abituccio di cotone azzurro. Aveva le braccia incrociate e lo stava guardando dall’alto, senza nascondere un po’ d’apprensione.

«Roby è andato a sentire il medico», disse lei in tono rassicurante. «Sarà qui tra poco. Forse ti rilasciano subito.»

«Chi è Roby?»

«Te l’ho presentato stamattina, non ricordi? Il mio compagno.»

Cercò di tirarsi su per scendere dal lettino d’emergenza, ma lei gli bloccò il torace con una mano e lo costrinse dolcemente a riassumere la posizione supina. «Prima sentiamo cosa hanno da dire», sussurrò.

Max sorrise. «Adesso sembri mia madre», disse. «Mi sento maledettamente ridicolo. Che ci faccio in costume da bagno in un ospedale?»

«Roby deve averti portato qualcosa da metterti addosso. Non ti agitare.»

«Roby, Roby. Che nome idiota.»

«Cerca di stare un po’ quieto.»

«Mi sento prudere dappertutto. Ho la nausea. Sto per vomitare.»

Maila si scostò dal lettino e andò in cerca dun infermiere.

Più tardi, Max stava decisamente meglio. Roby confermò che si era trattato di uno shock anafilattico causato da puntura d’insetto. Erano lì da qualche ora quando il medico di turno, dopo un’ultima visita di controllo, lo autorizzò a lasciare il pronto soccorso. Maila e il suo uomo erano rimasti lì tutto il tempo. Gli passarono una polo e un paio di bermuda e lo accompagnarono fuori. Presero un taxi per ritornare in albergo.

«Cosa faccio adesso?», mormorò Max quando l’autista, chiuse le portiere, montò a bordo e avviò il motore. Maila non aveva mai visto tanto smarrimento sulla faccia di Max. Roby si cacciò una mano nella tasca dei calzoni e ne trasse un foglio spiegazzato. «Niente paura, è tutto passato. Le hanno prescritto qualcosa per sicurezza, a mo’ di prevenzione. È solo un’allergia, basta qualche precauzione.» Chiese al tassista di fare tappa alla prima farmacia.

La sera, sul tardi, si ritrovarono tutti e tre a bordo piscina. Max era lì da un pezzo, con aria afflitta. Per prudenza aveva saltato la cena ed evitato liquori. Sorseggiava il solito drink alla menta. Roby, invece, era alle prese con un whisky on the rocks e Maila si era accesa una sigaretta.

«Facciamo un patto», propose Max con lo stesso tono che usava con i camerieri. «Non una parola sull’incidente di oggi. Non ne voglio sentir parlare.»

«D’accordo», concesse Roby facendo tintinnare il ghiaccio nel bicchiere. «Di cosa parliamo?»

«Non sapevo che fumassi», fece Max rivolgendosi a Maila.

«Una ogni tanto».

«Glielo dica anche lei», interferì Roby. «Le consiglio ogni giorno di smettere, ma non mi ascolta.»

«Dobbiamo proprio darci del lei?», domandò Max, senza gentilezza. Più che un invito a darsi del tu, sembrava una specie di protesta.

Roby passò al tu senza problemi. «Come ti sembra questo posto? L’isola, intendo, non l’albergo.»

«Non ho visto niente. A parte l’albergo e quella clinica del...»

Stava per dire «del cazzo», ma si trattenne. Chi era quell’individuo, dopotutto? Si conoscevano da poche ore, ma solo in superficie e perché uno scherzo del caso aveva voluto così. Non c’era alcun bisogno di mostrarsi espansivi, e tanto meno di usare un linguaggio cameratesco. Anche perché Maila se ne stava sulle sue e, chissà se per bisogno di nicotina o per provocare il prossimo, si era accesa unaltra sigaretta, subito dopo la prima.

«Hai provato quella elettronica?», le domandò Max, forse nella speranza di escludere – per qualche minuto – Roby dalla conversazione. Maila si limitò a dire di no, senza aggiungere nulla che potesse avviare qualche forma di dialogo. Max osservò la coppia in silenzio. Roby aveva il cranio completamente a nudo e lineamenti d’una certa durezza. Nel suo campo, pensò Max, doveva godere di una certa autorità. Provò a sondarlo, con un pretesto qualsiasi.

«Fai sport?»

«Solo un po’ di jogging, la mattina presto.»

«Vai allo stadio?»

«No, preferisco lautomobilismo.»

«Vai a Monza?»

«A settembre. Da più di vent’anni. Non posso mancare, caschi il mondo.»

«A casa ho una Testarossa», dichiarò Max trionfalmente.

«Allora siamo cugini. Ho una Daytona del ’69.»

Max trasalì impercettibilmente. «Una Daytona? E dove diavolo l’hai trovata?»

«A Miami, anni fa. Avevo avuto una dritta da un amico, uno che importa macchine da collezione.»

«Guadagnano bene, gli urologi. Spyder o coupé?»

«Spyder.»

«Fammi un prezzo. La compro.»

«Non se ne parla nemmeno», rise Roby. Poi fece un cenno al cameriere vestito di bianco e gli ordinò un altro scotch. Maila si alzò e annunciò di sentirsi un po’ stanca.

«Vado a dormire», disse. Max continuò ad avvertirne il profumo anche quando la vide sparire nell’edificio, al di là della piscina. Una fragranza leggera, di fiori d’arancio. Ma forse era solo un’impressione.

© Pasquale Barbella

La cucaracha

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Periplaneta americana.




No hay revolución sín canciones.

– Slogan del movimento della Nueva Canción Chilena, 1970 circa.



La cucaracha


(Lo scarafaggio), tema popolare ispanico di incerta origine, elaborato in infinite varianti comico-satiriche e politiche. La versione a noi più nota, concepita tra il 1913 e il 1916 e incisa nel 1917 dalla Conway’s Band (Victor) e nel 1920 dal baritono Claudio García Cabrera (Pathé), infesta in lungo e in largo gli eventi della rivoluzione messicana insieme a numerosi altri corridos e ranche­ras, tipiche ballate folk messicane tra cui, popolarissime, quelle dedicate alle soldade­ras Adelita e Valentina.

Nel 1818 lo scrittore messicano José Joa­quín Fernández de Lizardi, nella novella La Quijotita y su prima, parla della canzone azzardando un’ipotesi sulla sua presenza in Messico:

Un capitano di marina
giunto con una fregata
tra varie canzoncine
portò quiLa cucaracha.

Nella raccolta Cantos populares españoles, quattro volumi pubbli­cati a Siviglia nel 1882 e nel 1883, Franci­sco Rodríguez Marín riporta una versione de La cucaracha il cui testo fa riferimento ai conflitti con i musulmani (probabilmente alla guerra del 1859-1860 contro il Ma­rocco):

Con le basette di un moro
voglio fare una scopa,
perché possa spazzare il fortino
la fanteria spagnola.
Con la pelle del re moro
voglio fare un sofà,
per farci accomodare
il Comandante Generale.
Con le costole di un moro
voglio costruire un ponte,
per farci passare la Spagna
col suo esercito valoroso.
Litografia di Antonio Venegas Arroyo pubblicata nel 1915, su cui è stampato il testo de La cucaracha.

Tracce parallele dello Scarafaggio si ri­trovano continuamente in Spagna e in Mes­sico, dove si diffonde inizialmente nello stato di Chihuahua. La filastrocca beffarda e trasformista è di solito associata a eventi politici, sociali e militari, generalmente dalla parte di chi – non importa se progressista o reazionario – si oppone al potere. Talvolta per cucaracha s’intende l’aborrito nemico; altrove, più cameratescamente, il popolo guerrigliero, che come l’indomito blattoideo si muove senza soste e tra mille difficoltà, alla riconquista di tierra y libertad. Nelle Asturie, nuovi versi – adottati dai nostalgici filo-borbonici, i carlisti – incitano all’insurrezione contro Amedeo di Savoia, asceso al trono nel 1870 e scalzato, in capo a tre anni, per far posto a una prima repub­blica di ancor più effimero respiro:

Con la pelle di Amedeo
voglio fare uno stivale
che Don Carlos possa riempire
di vino per la truppa.
Con le ossa di Amedeo
voglio costruire un ponte
per farci passare Don Carlos
con la sua armata valorosa.

Il ruolo della blatta è simbolico: ci vogliono zampette come le sue per spostarsi e com­battere agilmente fra le asperità della re­gione. Nel frattempo (1876), in Messico, il generale di origine india Porfirio Díaz rove­scia con un colpo di mano il governo liberale instaurato dopo la cattura e l’ese­cuzione dell’arciduca-imperatore Massimi­liano d’Asburgo (1867). La rivolta di Díaz e dei suoi fedeli è accompagnata, manco a dirlo, dal solito inno opportunamente rima­neggiato.

Ma l’instabile insetto, pronto a schierarsi con tutti contro tutti, avrà i suoi momenti di più frenetica eccitazione tra il 1910 e il 1928, gli anni della turbolenta rivoluzione messicana. Nel 1913 il bacherozzo in carica è Victoriano Huerta, generalaccio partito alla controffensiva contro il governo demo­cratico di Francisco Madero, propugnatore del suffragio universale. Accordatosi segretamente con le forze di Félix Díaz, nipote dell’ex dittatore Porfirio, Huerta fa assassi­nare Madero e s’impadronisce della capitale. Sordido nell’aspetto quanto nell’animo, più spesso ubriaco che sobrio e quindi caracol­lante nel passo, avido fumatore di cannabis, l’usurpatore Huerta sembra giustificare appieno i versi a lui dedicati:

La cucaracha, la cucaracha
ya no puede caminar;
porque no tiene, porque le falta
marijuana que fumar.

«Lo scarafaggio, lo scarafaggio / non rie­sce a camminare; / perché non tiene, perché gli manca / marijuana da fumare.»
Emiliano Zapata Salazar (1879-1919), uno dei leader della rivoluzione messicana.

Avanzano contro l’odiatissimo Huerta le truppe costituzionaliste di Venustiano Car­ranza e Álvaro Obregón, di Francisco “Pan­cho” Villa ed Emiliano Zapata. Nel 1914 Huerta è costretto all’esilio.

Ya murió la cucaracha
ya la llevan a enterrar
entre cuatro zopilotes
y un ratón de sacristán.
Un panadero fue a misa,
no encontrando qué rezar,
le pidió a la Virgen pura
marijuana pa’ fumar.

«È morto lo scarafaggio / e lo portano a seppellire / tra quattro avvoltoi / e un ratto di sagrestano. / Un panettiere andò alla messa / e non sapendo di che pregare / chiese alla Vergine immacolata / marijuana da fumare.»
Marlon Brando nei panni di Emiliano Zapata, qui con Jean Peters in Viva Zapata! di Elia Kazan, 1952.

Al governo provvisorio di Carranza si oppongono Villa e Zapata, che rifiutano di deporre le armi; a fianco di peones, campe­sinos e vaqueros continuano fino alla morte la loro avventura rivoluzionaria, anarchica e sempre più radicale. Durante l’intero svol­gersi di quei subbugli tutte le fazioni in campo, nessuna esclusa, riscrivono La cuca­racha a modo loro. Ci sono cucarachas vil­liste e zapatiste, carranziste e persino huertiste. Nello stato di Morelos, a partire dal 1915, i descamisados di Zapata intonano una protesta contro l’ingiustizia sociale, il carovita e la carestia:

Oigan con gusto estos versos,
escuchen con atención:
ya la pobre cucaracha
no consigue ni un tostón.
Todo se ha puesto muy caro
con esta Revolución;
venden la leche por onzas
y por gramos el carbón.

«Apprezzate questi versi, / ascoltateli con attenzione: / ormai per il povero scarafaggio / non c’è più neanche una briciola. / Tutto è diventato più caro / con questa Rivoluzione; / il latte lo vendono a once / e a grammi va il carbone.» Nel frattempo si arriva alla rottura definitiva fra i due ex alleati, Carranza e Za­pata; i seguaci di quest’ultimo prontamente adeguano La cucaracha alla nuova situazione. Ai molti versificatori improvvisati sembra unirsi Pancho Villa (al secolo Do­roteo Arango Arámbula) in persona, leader dellaGran División del Norte:

Con las barbas de Carranza
voy a hacer una toquilla
pa’ ponérsela al sombrero
de su padre Pancho Villa.
Francisco (Pancho) Villa, pseudonimo di Doroteo Arango Arámbula (1878-1923). Guerrigliero messicano, eroe popolare della rivoluzione del 1910-1911.

«Con la barba di Carranza / farò una bella guarnizione / da mettere intorno al sombrero / di suo padre Pancho Villa»: l’allusione parentale è un eufemismo per dare all’avversario del figlio di mala madre, nonché una vanteria maschilista sui molti figli naturali attribuiti a Pancho stesso. Dopo l’agguato a El Parral, che nel 1923 costa la vita a Villa, un autore di corridos, Miguel N. Lira, dedica questi versi al generale:

Pobre Pancho Villa...
Fue muy triste su destino;
morir en una emboscada
a la mitad del camino.
Iba dejando Parral
manejando su carcacha
el valiente general
autor de La cucaracha.

«Povero Pancho Villa… / Che tristezza il suo destino; / morire in un’imboscata / a metà del cammino. / Stava lasciando Parral / al volante del suo catorcio / l’eroico gene­rale / autore de La cucaracha
Wallace Beery nel ruolo di Pancho Villa in Viva Villa! di Jack Conway, 1934.

Nella discografia della Cucaracha spicca, oltre alla versione jazzistica di Char­lie Parker (1952), la moderna rilettura della cantante messicana Lila Downs. Attualiz­zata nel testo dalla stessa Downs e nell’arrangiamento dal marito, il sassofoni­sta statunitense Paul Cohen, la vecchia fila­strocca viene depurata da ogni deformazione caricaturale e dai facili cliché tra il bandi­stico e il mariachi per assumere un’identità decisamente contemporanea e multicultu­rale. La pasionaria Downs, timbro da con­tralto, vocalismo spiazzante e personalità tra le più interessanti della world music speri­mentale (è anche studiosa di musicologia e antropologia culturale), e il complice di prim’ordine Paul Cohen, si avvalgono di strumentisti di varia origine: cubani, cileni, brasiliani, messicani, nordamericani, persino giapponesi come il percussionista Satoshi Takeishi. La loro Cucaracha, dal piglio po­lemico e universalista, viaggia fra suoni acustici, trame ritmiche elettroniche, varia­zioni armoniche e inserti melodici di nuova invenzione; e sfiora il reggae e persino il rap passando attraverso suggestioni non solo latinoamericane ma anche mediorientali e balcaniche, senza mai perdere il filo che tiene insieme un simile assortimento di in­fluenze.

© P.B.
La compositrice e cantante messicana Lila Downs. Oltre che in inglese e spagnolo, ha inciso canzoni in diverse lingue indigene tra cui il mixteco, lo zatopeco e il maya.

Selezione discografica

Anno
Artista

Album

Etichetta




1917
Conway’s Band

Victor
1920
Claudio García Cabrera

Pathé
1934
Bert Ambrose and His Orchestra

Decca
1934
Harry Roy and His Orchestra

Parlophone
1934
Louis Katz­man & Los Castilians

Decca
1935
Louis Armstrong and His Orchestra
Rhythm saved the world
Decca
1938
Gertrude Niesen con i Lecuona Cuban Boys
My best wishes
Vintage Jazz Band
1941
Glenn Miller and His Orchestra
Stone’s throw from heaven
Magic
1941
Shep Fields New Ripplin’ Rhythm

Bluebird
1948
Freddy Martin and His Orchestra
Rhythms from Latin America
RCA Victor
1949
Xavier Cugat and His Orchestra
Dance parade
Columbia
1952
Charlie Parker Sextet
Charlie Parker plays South of the border
Mercury
1954
The Woody Herman Band
The Woody Herman Band!
Capitol
1956
Ferrante & Teicher
Soundblast
Westminster
1957
Percy Faith and His Orchestra
Viva! The music of Mexico
Columbia
1959
Members of the Pérez Prado Orchestra
Prado mania
Crown
1960
Trío Los Panchos
Trío Los Panchos
CBS Sony
1961
Larry Adler
Around the world with a harmonica
Concert Hall
1961
Los Machucambos
Baile con los Machucambos
Decca
1962
The Champs

London
1964
Big Walter Horton
Shakey Horton: The soul of blues harmonica
Chess
1964
The Mills Brothers
Say sí sí
Dot Records
1965
Edmundo Ros and His Orchestra
Latin melodies old and new
Decca
1965
Milva
Canti della libertà
Cetra
1968
Maurice Jarre
Pancho Villa
Stateside
1969
Los Muchachos
Fie­sta in Acapulco
Europa
1972
Jo Ment’s Happy Sound
Viva señor Jo!
Joy Records
1974
Gabriella Ferri
Remedios
RCA Italiana
1976
Momo Yang
Starting
Frog
1978
Lyda Zamora
Monserate solista
Columbia
1978
Nino Velásquez
Mambo disco cha
Barclay
1985
Los Hermanos Zai­zar
Cantares de la Revolución
Balboa
1991
Barry Adamson
Delusion: Film soundtrack
Mute
1999
Los Originales de San Juan
Cantos de la Revolución
WEA Latina
2000
Helmut Lotti
Latino classics
Musicor
2004
Lila Downs
Una sangre
EMI Narada

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Dizionario irregolare del cinema

Questo lavoro è in fase di stesura. I post verranno aggiornati periodicamente.
Nascita di una nazione, 1915.

Pionieri

«D.W. Griffith influenzò tutti noi», ha dichiarato John Ford nel 1966. «Se non fosse per lui il cinema non sarebbe mai uscito dall’infanzia. È stato il promotore di tutto, è stato lui a inventare il primo piano e a fare un sacco di cose cui nessuno aveva mai nemmeno pensato prima. È stato lui a fare del film un’arte, sempre che lo si possa definire arte. Quel che è certo è che ne ha fatto qualcosa di valido. Griffith io lo conoscevo, ma non intimamente. All’epoca ero appena un ragazzo e soltanto un suo grande ammiratore. Eppure lui era molto affabile con me. Mi dava pacche sulla schiena. Quando fui licenziato dalla Universal, dove facevo il secondo aiutotrovarobe, mi trovò una parte tra gli uomini del Ku Klux Klan in Nascita di una nazione. Ero quello con gli occhiali. Cavalcavo con una mano sola, perché con l’altra mi tenevo il cappuccio. Se no, non vedevo più niente. Quello stramaledetto coso mi scivolava sempre sugli occhiali. Sì, posso dire che eravamo amici. E quando invecchiò, lo diventammo ancora di più.» (In John Ford di Franco Ferrini, Milano: Il Castoro, 1975).

Plot

Boyhood, il film che Richard Linklater ha pensato e girato in un arco di tempo di dodici anni mostrandoci “dal vero” la crescita di un bambino e dei personaggi-attori che gli fanno da comprimari, non è un romanzo ma un saggio. Non puoi guardarlo come si guarda un film, ma come si osserva la vita che scorre. Non deve né piacerti né non piacerti, ma solo suggerirti qualcosa e lasciarti pensare, come farebbero persone che ti è capitato di incrociare a scuola, al lavoro o nel vicinato. Se accetti queste condizioni, e apprezzi l’inconsuetudine del progetto, Boyhood non può lasciarti indifferente.Se è vita che scorre, non può esserci una trama vera e propria. La nostra vita non è un plot. Non lo è neanche la vita di Napoleone, né quella di un homeless. I plot sono progettati e costruiti come si progetta e costruisce un edificio, una scatola, una città, un oggetto a più dimensioni. Le vite vere sono invece dei tracciati ferroviari – anche se capricciosi e sorprendenti, come può esserlo il binario che ogni tanto svolta di qua o di là, senza preavviso, procurandoti stupori e sbandamenti. Ci sono solo episodi, psicologie ed eventi ordinari: ordinari anche quando l’esperienza si fa drammatica. Ciò che conta, ciò che si descrive in Boyhood è la condizione umana degli individui osservati, con i suoi mutamenti nel tempo e lo sviluppo di vecchie e nuove interrelazioni.
Saul Bass: titoli di testa per Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, 1959.

Popcorn time

«È stato Saul Bass a rivoluzionare lo stile dei titoli di testa, cambiandone radicalmente la funzione e rendendoli parte integrante del film. Fino alla metà degli anni ’50, nella maggior parte dei cinema americani i titoli di testa, elenchi convenzionali di nomi, venivano proiettati sul sipario, che solo all’inizio della prima scena si sarebbe aperto a rivelare lo schermo. Lo scorrimento dei credits sui tendoni veniva percepito come una fase estranea al film, una specie di prolungamento del popcorn time.Otto Preminger, regista scrupoloso e perspicace, non sopportava il fatto che i film cominciassero in quel modo balordo e casuale, privo di qualsiasi attrattiva. Chiamò Saul Bass a collaborare con lui. In un’intervista rilasciata a Pat Kirkham per Sight and Sound(1994), Bass spiega: “Mi dispiaceva per quei poveri ragazzi che si facevano il culo a gestire il sipario mentre il proiezionista aspettava il momento per loro drammatico – la dissolvenza sulla prima scena. Allora e solo allora, senza sbagliare, dovevano spalancare le cortine. Quando Otto si rese conto che L’uomo dal braccio d’oro sarebbe incorso nello stesso trattamento, si assicurò che ogni copia della pellicola fosse accompagnata da una nota al proiezionista, con la raccomandazione di far partire il proiettore solo a sipario rimosso.”» (Olivia Barbella, Saul Bass a Hollywood).
Gene Hackman ne La conversazione di Francis Ford Coppola, 1974.

Privacy

Nel 1974, fra Il padrino e Il padrino, parte II, Francis Ford Coppola infila un thriller intimista, La conversazione, che andrebbe annoverato fra i capolavori del cinema. Il meccanismo rimanda, per certi aspetti, a Blow-up di Michelangelo Antonioni; l’influenza del regista italiano si avverte anche nel senso di totale straniamento e isolamento del protagonista, un meticoloso esperto di intercettazioni acustiche interpretato in modo memorabile da Gene Hackman. Ficcanaso di professione, questo detective privato è ossessionato dalla propria privacy, che difende fino al punto di rinunciare a qualsiasi coinvolgimento sentimentale. La sua solitudine oscilla fra due poli: l’esemplare competenza tecnologica di cui è campione e l’hobby del saxofono, che suona sempre e soltanto da solo, accompagnato da dischi di sottofondo. Due passioni coltivate entrambe in modo quasi mistico. Ma quando qualcuno gli affida il compito di registrare una conversazione dal contenuto assai sospetto, le inquietudini represse e le emozioni che ha sempre evitato gli piombano addosso come il più macabro degli incubi, sconvolgendogli l’esistenza. Coppola amministra la suspense in modo magistrale; al confronto, La finestra sul cortile di Hitchcock sembra una favola per bambini.

Psicoanalisi

Se fossi Sigmund Freud e avessi dei poteri soprannaturali, manderei all’inferno tutti i registi che hanno abusato della psicoanalisi. A cominciare da uno dei miei preferiti, sir Alfred Hitchcock. Che si è servito della scienza per barare a modo suo, riducendola a una serie di aneddoti superficiali e, soprattutto, falsi. Norman Bates (Anthony Perkins in Psycho, 1960) soffre d’un insopprimibile complesso di Edipo che lo ha portato alla schizofrenia; ma i sintomi della malattia sono totalmente inverosimili. Norman non solo usa due voci diverse per imbastire finte conversazioni con sua madre, ma riesce a modularle anche per simulare distanze di almeno cinquanta metri l’una dall’altra. Hitchcock si diverte a ingannare lo spettatore con i trucchi più balordi, compiendo il miracolo di trarre capolavori dalla balordaggine. Se fossi Freud punirei Hitchcock tre volte: per aver ridicolizzato la psicoanalisi; per avermi preso continuamente per il culo; e, soprattutto, per aver fatto di me lo spettatore più felice della terra.

Reclusione

Si potrebbe dire, parafrasando Marshall McLuhan, che l’ambiente è il messaggio. È il caso di Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani (2012), girato nel carcere romano di Rebibbia dove i detenuti recitano, sotto la guida del regista teatrale Fabio Cavalli, il Giulio Cesare di Shakespeare. Il film si concentra quasi interamente sulle prove di recitazione, individuali e collettive, all’interno del penitenziario; la fotografia in bianco e nero accentua l’aspetto documentaristico del film ma anche la tetraggine dell’ambiente e della condizione dei detenuti. Solo quando gli improvvisati attori sono finalmente sul palcoscenico, la fotografia è a colori: cruda, povera, antiestetica, televisiva ma – dato il contesto – funzionale. Nella scena finale uno dei detenuti si prepara un caffè in cella e mormora con amarezza: «Da quando ho conosciuto l’arte, ’sta cella è addiventata ’na priggione.» L’idea di portare quella tragedia tra le mura di un carcere, e farla recitare – nei rispettivi accenti e dialetti – dai suoi stessi ospiti, è bella e commovente. La prigione fa sì che Bruto, Cassio, Cesare, Marco Antonio, Decio e Lucio, impersonati dai reclusi, superino per intensità drammatica i corrispondenti personaggi interpretati da James Mason, John Gielgud, Louis Calhern, Marlon Brando, John Hoyt e John Hardy nella pur notevole trasposizione di Joseph L. Mankiewicz del 1953.
Manifesto per il remake di Sabrina, 1995.

Remake

I remake sono quasi sempre deludenti, e quelli apparentemente più fedeli all’originale lo sono ancora di più. Uno dei motivi che giocano a sfavore della replica dipende dal fatto che chi la realizza, anche nei casi in cui sia mosso dalle migliori intenzioni, non tiene affatto conto della cosiddetta “aura”, cioè di quell’alone immateriale che circonda il film originale o parte di esso. Non puoi presumere di sostituire impunemente Audrey Hepburn con Julia Ormond e Humphrey Bogart con Harrison Ford, perché lo specifico carisma dei modelli è incompatibile con quello di chi li sostituisce. Anche se Sydney Pollack è un regista di tutto rispetto, la sua Sabrina (1995) sta a quella di Billy Wilder (1954) come il surrogato sta al cioccolato. Lo Psycho (1998) di Gus Van Sant sembra la fotocopia di quello di Hitchcock (1960), eppure non rende nemmeno un millesimo dell’originale: non solo per il cast ma anche per la diversa percezione del sesso e delle nevrosi nella provincia americana nei due periodi di realizzazione. L’unica utilità dei remake, per chi ne possa o voglia approfittare, interessa le scuole di cinematografia. La comparazione analitica fra due trattamenti diversi della stessa storia può avere un’efficace funzione didattica per gli studenti che aspirano a una carriera nella regia, nella sceneggiatura, nella produzione.
Bogart in Casablanca di Michael Curtiz, 1942.

Resurrezioni

Herman Hupfeld è un nome che non dice niente a nessuno. Americano ma tedesco di origine, aveva studiato da piccolo il violino in Germania. Crebbe e morì nel New Jersey, senza far parlare troppo di sé. Scrisse delle canzoni. L’unica che abbia fatto breccia nel cuore del mondo è As time goes by, «Col tempo che passa».Diventò famosa grazie a uno dei film più amati di tutti i tempi, Casablanca di Michael Curtiz, realizzato nel 1942. Uno degli anni più tristi del XX secolo, a causa della guerra. Humphrey Bogart faceva il titolare del Rick’s Café Américain. Sam, il pianista del club, ogni tanto doveva riesumare quelle note, che ricordavano a Rick e Ilsa Lund (Ingrid Bergman) un vecchio amore nato e interrotto in Europa per cause superiori. Arthur “Dooley” Wilson, il Sam del Rick’s Café, cantava con la sua voce ma era doppiato al piano da Elliot Carpenter.Per intima costituzione, e per il ruolo che svolge nel film, As time goes byè una delle ballads più struggenti uscite dalle fucine musicali d’America. Ma senza Casablanca sarebbe finita nel cimitero delle melodie perdute. All’epoca era già stata rottamata: qualcuno però ebbe la buona idea di dissotterrarla, giacché sembrava fatta apposta per quel film e la precarietà dell’amore in tempo di guerra. Hupfeld l’aveva scritta per un dimenticato musical del 1931, Everybody’s welcome di Lambert Carroll.
James Dean.

Ribellismo

La filmografia di James Dean fu breve e fulminea come la sua vita. Una manciata di serial TV e, al cinema, se si fa pulizia di qualche comparsata irrilevante, tre titoli e basta. Ma privilegiati da regie eccellenti: Elia Kazan per La valle dell’Eden(East of Eden, 1955), Nicholas Ray per Gioventù bruciata (Rebel without a cause, 1955) e George Stevens per Il gigante (Giant, 1956). Tre ruoli da ribelle, quasi sempre per colpa di mamma e papà o di un establishment poco aperto alle istanze dei giovani, specialmente se di classe considerata inferiore. La ribellione dei personaggi interpretati da Jimmy si esplica nei modi più vari, dalle turbolente bravate di branco ai più ostinati progetti di ascesa sociale. Ne La valle dell’Eden, tratto dal romanzo di Steinbeck, il giovane Cal non esita a speculare sulla guerra per trarne guadagno e ripianare i fallimenti finanziari del padre; la sua condotta è riprovevole e al tempo stesso commovente, perché animata dal sincero impulso di conquistare la riconoscenza e l’affetto di un genitore che non lo stima. Nel Gigante, melodramma texano dal romanzo di Edna Ferber, James Dean è Jeff Rink, bracciante incupito dalle differenze di classe; la fortunata scoperta di un giacimento sotto un piccolo appezzamento di terreno ricevuto in regalo lo proietta di colpo nel mondo dei magnati del petrolio. Ma nemmeno così sarà in pace con sé stesso.
Rex Ingram ne Il ladro di Bagdad, 1940.

Sabu

Il Cinema Moderno Mancini, il Supercinema Italia, il Cine Teatro Lembo, il Cinema Strippoli, l’Arena Fiore e qualche altro sito che ho dimenticato sono stati i luoghi del mio apprendistato come cinefago, dai tempi dell’asilo al liceo. Le sale che ho citato stavano a Canosa di Puglia e le ho frequentate fino a consumarne gli schermi con lo sguardo, l’aria col fumo delle sigarette e le scomode poltrone con le natiche. La mia iniziazione non è avvenuta con Walt Disney ma con Il ladro di Bagdad, del 1940 ma già un classico quando ho potuto vederlo io. Era il risultato dei migliori effetti speciali praticabili all’epoca (Oscar ai tecnici Lawrence W. Butler e Jack Whitney). C’erano ben sei autori – non tutti ufficialmente accreditati – dietro tanta meraviglia: Ludwig Berger, Michael Powell, Tim Whelan, Alexander Korda, Zoltán Korda e William Cameron Menzies. Per non contare gli sceneggiatori, Miles Malleson e Lajos Biró. Il mio primo eroe di celluloide si chiamava Sabu ed era un indiano di Mysore: un Mowgli in carne e ossa. Aveva 13 anni quando Robert J. Flaherty lo arruolò come elephant boy per La danza degli elefanti, 16 ai tempi del Ladro di Bagdad, 18 quando – era ora! – impersonò Mowgli nel Libro della giungla di Zoltán Korda e 39 quando morì d’infarto in California.
Sterling Hayden e Joan Crawford in Johnny Guitar di Nicholas Ray, 1954.

Saloon

Johnny Guitar(1954), diretto da Nicholas Ray, è un western eccentrico e sperimentale, magnificamente fotografato da Harry Stradling senior in colori rossobruni e viscerali di grande effetto pittorico. Ne sono protagonisti Joan Crawford nel ruolo di una proprietaria di saloon costretta a difendere il suo locale da allevatori di bestiame che vorrebbero raderlo al suolo, e Sterling Hayden nei panni di un pistolero redento e pacifista, che ha rimpiazzato il revolver con una chitarra. A mettere in azione la trama, le pistole, le vendette, i linciaggi e gli incendi questa volta non sono i cowboy ma le donne, una delle quali, interpretata da una strepitosa Mercedes McCambridge, è tra le figure più detestabili che si siano mai viste sullo schermo. Un sanguigno melodramma freudiano di malamore, frustrazione sessuale, gelosia, odio collettivo e avidità terriera, addolcito solo dai brevi passaggi di una suggestiva ballata fra il country e il bolero messicano, Johnny Guitar per l’appunto, anch’essa un po’ al femminile (le parole sono di Peggy Lee, la musica di Victor Young) e quindi controcorrente rispetto alle roboanti cavalcate vocali di Frankie Laine nei western dello stesso periodo.
Benedict Cumberbatch in The imitation game di Morten Tyldum, 2014.

Scienze

Nel 2014 sono usciti in contemporanea i biopic dedicati a due geni britannici della logica, l’astrofisico e cosmologo Stephen Hawking e il matematico e crittoanalista Alan Turing. Il primo è famoso per gli studi sulla termodinamica dei buchi neri e l’origine dell’universo; il secondo per aver violato i cifrari tedeschi durante la seconda guerra mondiale e aver dato il via agli sviluppi dell’informatica. Il film su Hawking, La teoria del tutto di James Marsh, ha fruttato un Oscar al protagonista Eddie Redmayne, che era in lizza contro lo “scienziato rivale” Benedict Cumberbatch nei panni di Turing in The imitation game di Morten Tyldum. Curiosamente, Cumberbatch aveva a sua volta interpretato Hawking dieci anni prima, in un film televisivo. La cosa più difficile, nei film di argomento scientifico, è dare un ruolo drammaturgico alle scoperte o invenzioni di cui si parla. Mentre Tyldum riesce a spettacolarizzare il lavoro di Turing alle prese con la macchina elettromeccanica concepita per decifrare i codici della macchina tedesca Enigma, La teoria del tutto sorvola sui buchi neri per concentrarsi sulla vita sentimentale del matematico affetto da atrofia muscolare progressiva, con esiti più stucchevoli che commoventi. Bravi i due attori, soprattutto Cumberbatch, abilissimo nella stilizzazione delle nevrosi di Turing.

Scuola

I cliché della commedia all’italiana non hanno impedito ad autori di alto spessore tecnico e artistico di ricavarne risultati a volte strepitosi. Il Monicelli de I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959), L’Armata Brancaleone (1966); il Dino Risi di Una vita difficile (1961) e Il sorpasso (1962); il Luigi Comencini di Tutti a casa (1960) e Lo scopone scientifico (1972); il Pietro Germi di Signore & Signori (1966), tanto per citare i primi nomi e titoli che balzano in mente, hanno fatto molto di più che tenerci di buonumore: hanno descritto con acume, senza risparmiare la sferza, i piccoli e grandi difetti dell’italiano medio, con uno stile che castigat ridendo mores. Il cinema italiano tra il secondo dopoguerra e gli anni settanta, spaziando in diversi generi oltre che nella commedia, ha contribuito notevolmente alla formazione civile di una o due generazioni. È stato la nostra scuola di storia del Novecento (le due guerre, il fascismo, la Resistenza, la ripresa, il boom economico), di informazione critica (la criminalità organizzata, le deviazioni del potere, gli abusi edilizi), di sociologia (le contraddizioni e la decadenza della borghesia, gli ideali delusi, le crisi di identità). C’è chi considera il cinema alla stregua di un mezzo di evasione, di fuga dalla realtà: il cinema è forse anche questo, ma per fortuna non solo e non sempre.

Solitudine

Roberto Rossellini: L’amore, 1948. Anna Magnani, un telefono, una lampada, una porzione di camera da letto – cuscino e lenzuola – con porta aperta sul bagno; ti sembra di percepire l’odore di chiuso, la sciattezza che ti circonda nell’intimità, soprattutto quando hai pensieri gravi; e il pensiero grave della protagonista, che domina la scena mentre la macchina da presa si concede pochi e lenti movimenti intorno a lei, riguarda il fatto che in quel letto è destinata a rimanere sola, perché l’amante al telefono ha deciso di svignarsela nonostante i vani tentativi della donna di recuperare il rapporto. La simbiosi fra Magnani al telefono e quella stanza è totale: trasmettono entrambe, con naturalezza e verosimiglianza, l’incombenza di quella malattia che ci toglie il respiro e chiamiamo solitudine. Ciò che interessa agli autori e allo spettatore è la vicenda della donna, il suo stato emotivo, la sua crescente disperazione; l’ambiente deve starsene, per così dire, in disparte; evitare di interferire, di sovrapporsi, di fagocitare la scena, di distrarre lo sguardo. Ma anche la riduzione o rimozione dello spazio va pensata, costruita con intelligenza; deve servire al raggiungimento di un obiettivo; non può essere data per scontata; richiede quintali di talento. Al cinema, il trattamento dello spazio è come la musica: a volte bisogna avere il coraggio di farne a meno.

Sopravvivenza

L’alba della libertà, bel film di Werner Herzog del 2006, è la storia (vera) di un aviatore statunitense, Dieter Dengler,spedito in Laos per una missione sporca: uno dei bombardamenti segreti voluti dalla CIA tra il 1964 e il 1973, in violazione agli accordi ginevrini sulla neutralità del Laos. Questo il retroscena politico. Ma presto la narrazione si concentra sulla prigionia del protagonista (ottimo Christian Bale) e di altri cinque militari, catturati dai guerriglieri locali. Torture, fame e tentativi di fuga da una baracca di canne nel bel mezzo della giungla. Il paesaggio – meraviglioso e ostile – è il vero antagonista di Dieter e dei suoi compagni di sventura. Lo spazio fisico assume la stessa rilevanza della vicenda che vi si svolge. Qui è così invivibile e incombente da mettere a dura prova la resistenza umana; ma l’aviatore, lui solo, ce la farà.Non perché sia un Rambo, ma perché il suo rapporto con la natura è di specie singolare. Il suo spirito di adattamento alle avversità nasce da un legame autentico e profondo con la terra, l’aria, l’acqua, gli animali, la vegetazione, il cielo, il fuoco. Il personaggio sembra dirci che la civilizzazione ci ha snaturati e indeboliti in modo quasi irreparabile, ma che nei recessi del nostro corpo e della nostra mente esistono ancora residui di risorse primigenie, indispensabili – quando le condizioni si fanno estreme – alla sopravvivenza.

Spazio

La natura quadrangolare della creatività (v. la voce “Geometria”) ha un senso più profondo e influente di qualsiasi teoria razionale. Sarà pure ovvio che alla base di tanto rettangolarismo ci sono banali questioni di praticità, ma la forma pura ed essenziale che ci è dato di riempire – il foglio, il fotogramma, la tela – ci suggerisce il rispetto dello spazio in generale e ci ispira idee che lo rendano espressivo, significante, sempre nuovo. L’opera – che sia film, romanzo, dipinto, progetto urbanistico o partitura – non può che interagire dialetticamente con i limiti in cui si iscrive o, se il supporto adottato ha solo una funzione preparatoria, con lo spazio ideale, effettivo o metaforico al quale è destinata nella sua forma definitiva. La qualità della concezione spaziale dell’autore determina il valore del suo lavoro. Ciò è vero, a maggior ragione, nel cinema: che è movimento per antonomasia, e non c’è movimento senza lo spostarsi di qualcuno o di qualcosa da un punto all’altro dello spazio.

Stroncature

Non mi piace la spocchia di chi liquida a priori i film “di genere” trattandoli come merce avariata; meno ancora condivido il puntiglio togato, il rigore permaloso, l’impulso al dileggio e alla stroncatura applicato a opere d’ingegno, create da progettisti la cui serietà sia fuori discussione persino in caso di imperfezione. In certi processi alle intenzioni, i killer in agguato rivelano un’artificiosa quanto sgradevole attitudine alla competizione; più autorevole è la vittima, più cresce l’orgoglio dell’affossatore. E pazienza; anche a me è capitato di sparare su qualche cineasta che venero; ma l’ho fatto solo sull’onda di una delusione totale e senza provarne alcun piacere. La verità, che qualsiasi recensore dovrebbe tener presente, è che fare un film è più difficile e creativo che stroncarlo. La critica è dunque inutile, sterile, assurda? Me lo chiedo spesso, da quando le recensioni d’una volta, articolatissime, sono scomparse dai nostri giornali, sostituite da fulminei resumé corredati da pareri o allusioni meno consistenti d’un sospiro. No, non credo che la critica sia superflua o, peggio, bugiarda e dannosa. La rispetto, e moltissimo, quando è anche informazione incline ai raccordi storici, quando esprime teorie e metodologie controverse ma anche illuminanti, quando ravvisa e rivela correlazioni tra il materiale esaminato e il multiforme groviglio di radici da cui deriva.

© Pasquale Barbella.

(Dizionario irregolare del cinema – 4. Continua)


Sweet home Sirmione

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Dream. Opera di Yoko Ono su una spiaggetta di Sirmione.


Di giorno, le pattuglie in sandali e bermuda sfidano il luglio più rovente degli ultimi 136 anni trascinandosi tra le ombre del borgo antico. Le cartilagini, le mucose e i respiri più scontrosi si dirigono di buonora alle Terme, per ricavare dallo zolfo, dal sodio, dal bromo e dallo iodio – profusi dalle acque incanalate dalla sorgente Boiola – il sollievo di cui hanno bisogno. Altri corpi in ebollizione prendono d’assedio le gelaterie che qui abbondano: penso che, a metterla insieme, la produzione giornaliera di gelato locale possa tranquillamente competere, in volume, con l’intero Castello Scaligero. I più bisognosi di fresco puntano senza indugi alle spiaggette disseminate tra il Castello e i canneti di Punta Staffalo. Le gambe stanche, o semplicemente curiose, montano a bordo del trenino elettrico che s’inerpica fino alle Grotte di Catullo, che non sono grotte ma resti di una sontuosa domus romana che si dice appartenuta al poeta.

In cerca di panchine si va nel parco, e il parco si chiama Callas come molti altri punti d’interesse della penisoletta, perché la Callas ha abitato qui. (Se fosse stata un tenore, nessuno si sarebbe mai sognato di chiamarlo il Callas). A perenne memoria di lei, smartphone e fotocamere non esitano a inquadrare il condominio giallo di sette appartamenti che un tempo costituirono la sua villa sul Garda, donatale non da Onassis ma dal primo marito, il re dei laterizi veronese Giovanni Battista Meneghini. Anche Bastianini, il baritono, ha abitato a Sirmione, trascorrendovi gli ultimi giorni della breve vita in una palazzina color avorio al n. 61 di via XXV Aprile, con vista sul lago. Nel 2007 si svolse qui una cerimonia celebrativa in sua memoria; a organizzarla non furono le autorità locali, ma il Centro studi Ettore Bastianini di Osaka.

New Babylon. Installazione di Dorothy Bhawl nel Parco Callas di Sirmione.

Nel parco Callas si ergono minacciose due installazioni d’arte contemporanea, parte di una rassegna intitolata CiboMente. Quella dell’artista bresciano Stefano Bombardieri, intitolata Energia a costo zero, è una trivella per l’estrazione del petrolio che propone in forma paradossale il ritrovamento dell’oro nero a Sirmione da parte di un colosso industriale cinese, la Rhino Petrol Company. Implicita ma trasparente la polemica contro lo strapotere – finanziario ed ecologicamente distruttivo – di vecchi e nuovi manipolatori globali. Bresciano anche l’artista e fotografo che si fa chiamare Dorothy Bhawl, autore di New Babylon: un truce pannello sul quale campeggiano slogan cattivissimi («World is the will to power», «Brain drain») e maialesche rappresentazioni fotografiche delle perversioni d’una civiltà intorpidita dal lavaggio dei cervelli.

Più etereo e decisamente minimale il contributo di Yoko Ono, fotografatissimo dai turisti: un grande pannello bianco in riva al lago, con la parola DREAM stampata in cubitali maiuscole nere. Ciascuno è libero di immaginarsi quello che vuole, compresi i messaggi sbandierati dalle altre installazioni.

Sirmione, 11 luglio 2015. Vittorio Storaro all’inaugurazione della mostra Scrivere con la luce. Doppie impressioni tra fotografia e cinematografia.

In piazza Carducci, nel Palazzo Callas situato proprio di fronte allo storico Caffè Grande Italia, c’è Scrivere con la luce, una mostra di Vittorio Storaro. Il cinematographer di Apocalypse now e Il conformista, in partenza per New York dove lo aspetta Woody Allen per la realizzazione di un film tutto in digitale ambientato negli anni trenta, espone inquadrature sovrapposte tratte dalla sua sontuosa filmografia. Nella conferenza inaugurale, Storaro ha parlato dell’influenza della grande pittura italiana sulla sua concezione estetica (Caravaggio docet) e della simbologia – tra l’onirico e il filosofico – che ispira la sua scelta delle dominanti cromatiche: ce n’è una diversa per ogni età de L’ultimo imperatore.

Vittorio Storaro: immagine composita da L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci (particolare).

Agita et rota

Sirmione non è né Venezia né Kassel: non ci si va né per la Biennale né per Documenta. Ma sfodera, come altre località turistiche, piccole e medie occasioni culturali che contribuiscono in modo efficace alla divulgazione e all’ingentilimento di frotte di visitatori italiani e stranieri. Si può sempre essere impressionati da qualcosa, girando per il borgo: non solo dai monumentali gelati, dagli ulivi secolari, dal profumo di Lugana e dalle attrazioni storiche, ma anche dall’intraprendenza degli operatori turistici e delle istituzioni locali.

Sirmione, luglio 2015. Concerto di Titti Castrini e la sua band in piazza Flaminia.

Di sera, dopo cena, si va a caccia di musica. C’è una romantica piazzetta sul lago, intitolata ai Catari per risarcire (si fa per dire) un’intera comunità di eretici rifugiatasi a Sirmione e arrostita in un rogo collettivo nell’Arena di Verona, nel 1279. Qui vengono a esibirsi, da qualche anno, scolaresche britanniche organizzate in gruppi corali o orchestrali, più spesso in torrenziali big band i cui membri, talvolta, superano di numero gli spettatori. Nelle cosiddette “notti bianche” – che di notturno hanno solo il nome dostoevskijano: i residenti del centro storico non tollerano clamori dopo mezzanotte – le street band del Garda furoreggiano in tutti gli slarghi disponibili. Così può capitare di imbattersi in artisti di limitata notorietà ma di sicuro piglio spettacolare come Titti Castrini, Alan Farrington, Olivia Thissen e altri che, da soli, potrebbero formare il cast di una Woodstock o di una Newport quasi all’altezza degli originali. Ci sono bluesman elettrizzanti come quello, di cui ignoro purtroppo il nome, che rifà il repertorio del Delta leccando le corde della chitarra con la lingua e azzannandole con i denti. E percussionisti dalle mani d’acciaio come il barbuto che ho sentito picchiare, cantare e reinventare genialmente – in trio con chitarra e violoncello, e in altra occasione con chitarra e violino – folk regionale e mediterraneo: mirabili e tarantolate le cover di Cicerenella e Tammurriata nera.

Sirmione, luglio 2015. Alan Farrington live in piazza Carducci.

Alan Farrington è un inglese che più italiano non si può, irresistibile vocalista e showman che spazia dal jazz al rhythm and blues coadiuvato da un eccellente manipolo di attaccanti: Roberto Soggetti alle tastiere, Marco Cocconi al contrabbasso, Riccardo Biancoli alla batteria e un chitarrista non identificato. Con i primi tre, Farrington forma il No Smoking Quartet, ma ciascuno dei membri fa parte anche di altre formazioni attive nell’area. Che Alan non fumi né sigari né whisky sembra improbabile, a giudicare dalla verve che ostenta nel suo show improntato al più sfrontato maledettismo bohémien: è come se Chuck Berry, Charles Bukowski e Screamin’ Jay Hawkins si fossero reincarnati nella stessa persona.

Sirmione, luglio 2015. Concerto di Alan Farrington e del No Smoking Quartet in piazza Carducci. 
Nella foto: il tastierista Roberto Soggetti e il contrabbassista Marco Cocconi.

Titti Castrini, che ha suonato anche con Vinicio Capossela e indossa come lui un eterno cappello, è popolare tra il Mantovano, il Garda e dintorni. Canta e suona la fisarmonica a bottoni, folgorato nell’infanzia dal più grande fisarmonicista jazz che l’Italia abbia mai avuto, Gorni Kramer. Compone anche canzoni in proprio: il suo ultimo album è intitolato La ballata degli amici sparsi. Ha eccitato con una delle sue band gli ospiti dei bar, alberghi e ristoranti che si affacciano su piazza Flaminia, dove io sto quasi di casa perché sono un habitué dell’Hotel Catullo. Con lui si esibivano un sulfureo e stralunato violinista a piedi scalzi, Daniele Richiedei, e altri complici di prim’ordine, Mauro Sereno (contrabbasso) ed Emanuele Maniscalco (batteria). Hanno concluso il concerto con una tragicomica, sfilacciata e strepitosa versione di Vecchio frac, in omaggio a Domenico Modugno.
Titti Castrini in piazza Flaminia.

Olivia Thissen non ha bisogno di inventarsi un nome d’arte, perché il suo è già da riflettori. Bionda di soave dolcezza quando sta ferma, si trasforma in navigata belva da Grammy Award quando spara Sweet home Chicago o Message in a bottle. La assecondano con brio tre surriscaldati martelli da riff esili come chiodi, a colpi di chitarra (Ludovico Banali), basso (Alessio Masserdotti) e batteria (Andrea Cola). Mitragliamento di cover fulminanti, con tributi agli AC/DC, a Lady Gaga e a tutto ciò che ci sta in mezzo. A pochi metri di distanza, la faccia di bronzo di Catullo tende l’orecchio e forse medita di annegare Lesbia nel Benaco retrostante e fare un po’ di casino nella sua villa romana con l’agita et rota (rock and roll) di Olivia e la sua gang.

A sentire cosa si suona nelle piazze, Sirmione sembra meno callasiana di come si dichiara. Ma c’è posto anche per la lirica, e il livello è altissimo. Sara Mingardo, famoso contralto veneziano che i Grammy li ha vinti davvero (e non solo quelli), ha diretto un corso di canto nell’ambito del Garda Lake international music master e ha presentato una rosa di notevoli allieve in una serata all’Arena Callas, spazio per spettacoli estivi allestito nel Parco Callas. La canadese Orla Brundrett, giovanissima interprete di Se tu m’ami (Pergolesi), si è aggiudicata una borsa di studio. Ji-youn Park, sudcoreana residente a Parigi, ha affrontato brillantemente una delle trappole più impervie del vocalismo barocco, Agitato da fiere tempeste dall’Oreste di Händel. Bravissime anche Lea Desandre, Isabel Lombana, Chiara Milini, Filomena Pericoli e Vinciane Soille alle prese con arie di Gounod, Mozart, Verdi, Rossini e Vivaldi. Chiusura magistrale con due pagine (Händel e Monteverdi) interpretate in modo sublime da Sara Mingardo.
Sirmione letteraria.

Giosuè e le lavandaie

Da Catullo in poi, Sirmione attira poeti, scrittori e artisti come il miele attira le mosche. Nella hall dell’Hotel Catullo potete trovare un volumetto, Sirmione in love, in cui il giornalista Roberto Denti passa in rassegna – con dovizia di amabili aneddoti – le celebrità che in ogni tempo hanno transitato nel «fiore de le penisole»[1] per lasciarvi un’impronta. Il lungo elenco comprende, tra gli altri, Arrigo Boito, Byron, gli onnipresenti Carducci e D’Annunzio, Simone de Beauvoir, Foscolo, Gide, Goethe, Hemingway, Ibsen, Joyce, Kafka, Lawrence, Thomas Mann, Pound, Rilke, Sanguineti, Sartre, Shelley, Stendhal.

«Esser beati è questo. Sciolti da cure / E all’attiva coscienza sottratti / Dopo lontane fatiche ritornare / Stremati al nostro Lare / Su un letto amato riposo pigliare». Traduzione di Guido Ceronetti (Einaudi, 1969) del carme di Catullo Paene insularum, Sirmio, insularumque, affrescato, con molti altri versi del poeta, sulle pareti dei corridoi dell’Hotel Catullo a Sirmione.

Dietro l’Hotel Catullo c’è un albergo più piccolo gestito oggi dalla stessa famiglia, il Pace. Nel 1920 vi soggiorna Ezra Pound, talmente su di giri che scrive di getto una lettera d’invito a James Joyce: «Non so quali possano essere i vostri impegni a Trieste o se abbiate la salute necessaria per il viaggio, ma vorrei trascorreste una settimana qui con me (“a mio carico”, come mio ospite, o comunque si dica). Il luogo vale il viaggio in treno. Avete la garanzia di Catullo e la mia.» Joyce accetta con entusiasmo. Fa il bagno al lido delle Bionde ed è costretto a ritornare in albergo nudo come un pesce, derubato degli abiti e delle scarpe. Si spera che un giorno, su eBay, qualcuno metta all’asta le sue mutande perdute.

Carducci imperversa all’ingresso dell’Hotel Villa Cortine.

Carducci ingombra il lago con la penna quasi quanto D’Annunzio lo ingombra col Vittoriale. Alcuni suoi versi sono scolpiti sui marmi esterni all’ingresso del Cortine, un cinque stelle in stile neoclassico che fu la villa del conte Kurt von Koseritz, ministro del Ducato germanico di Anhalt; nel 1859 ospitò il quartier generale di Napoleone III. Ma se lì fa sfoggio di metafore paesaggistiche («Baldo, paterno monte, protegge la bella da l’alto / co ’l sopraciglio torbido»)[2], altrove dedica una prosa – a dir poco paternalistica – alle lavandaie che sgobbano sulle zattere ancorate alle rive: «Per voi il Benaco, lavandaie, è un gran catino, e il cielo uno sciugatoio... Io vi guardo, serie, silenziose, solenni lavoratrici e penso.» Anche lui, dice il pensatore, risciacqua: non panni ma idee vecchie e nuove, e gli «riescono dalle mani a ogni insaponatura più torbe e chiazzate di prima.»

© P.B.











[1]Da una delle Nuove odi barbare(Zanichelli, 1882) di Giosuè Carducci: «Ecco: la verde Sirmio nel lucido lago sorride, / fiore de le penisole.»
[2]Ibidem.

Articoli ed artigli

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Seoung-won Won, Dreamroom, 2003. Korean Art Museum Association.


Articoli ed artigli

Nella Terra degli Articoli, caro lettore, Giuseppe è il Giuseppe, Maria la Maria, Alberto l’Alberto e Lucia la Lucia. A qualcuno capita di presentarsi disarticolato: in tal caso è un forestiero. Se, oltre a mancare di articolo, scarseggia anche di nome proprio, allora il forestiero viene da oltremare. Ma non voglio confonderti le idee e perciò mi limiterò, in questo racconto talmente immaginario da sembrare credibile, a inventare non più di quattro o cinque personaggi, tutti in regola con l’articolo determinativo. Quanto al contesto, pensaci tu: non mi va di dilungarmi più del necessario.

Per i protagonisti ho scelto due nomi con la E: l’Elsa e l’Edoardo, così si capisce al volo che sono due soggetti indissolubili. Non aspettarti né biografie né descrizioni fisiche: sono, per così dire, cazzi loro. Di tutta la loro esistenza, m’interessano solo i sette o dieci giorni successivi al viaggio nei Caraibi, la loro prima – e forse ultima – crociera. Erano abbronzati e soddisfatti, anche se avrebbero fatto volentieri a meno di certe escursioni. Giamaica, che delusione: «un popolo di straccioni». I tassisti messicani, «fannulloni e ladri». La visita al sito archeologico sotto la pioggia: «ma non lo guardano il meteo?». I voli per Miami e ritorno erano stati terribilmente stancanti, ma la nave, partita dalla Florida, li aveva sedotti («un paradiso, la fine del mondo») e già si ripromettevano di ripetere l’esperienza: quale che fosse la destinazione, purché l’itinerario non comportasse lunghi trasferimenti in aereo. A casa, però, li attendevano insidie inaspettate. Nella cassetta della posta, ingolfata di stampati pubblicitari, stava in agguato una lettera che mandò in bestia l’Edoardo. «Senti questa!», gridò alla moglie, furente. L’Elsa non poteva udirlo perché il suo primo impulso era stato di correre a pesarsi, in camera da letto. Se ne stava china e ansiosa sulla bilancia, indugiando immobile nella stessa posizione come se il responso potesse cambiare da un momento all’altro.

«Ho messo su altri due chili», annunciò gravemente al marito quando lo raggiunse nel tinello. Ma il suo sconforto era niente al confronto di quello del coniuge. Floscio sulla sedia come un sacco, l’Edoardo compulsava tre o quattro fogli squadernati sul tavolo, passandoli e ripassandoli con un’aria da killer dipinta sul volto. Il comune reclamava tasse arretrate sui rifiuti domestici, con l’aggiunta di sanzioni, e invitava il «gentile contribuente» a rivolgersi all’ufficio tributi in caso di dubbi o contestazioni.

Dopo una notte passata a dormir male, si alzò di buonora per andare ad affrontare il drago, ma trovò la sala d’aspetto municipale intasata di cittadini ancor più mattinieri e più tetri di lui. Già che c’era, si unì al coro di chi biasimava a gran voce le pretese tributarie e il colore politico della lista al potere. Alle undici, proprio quando stava per arrivare il suo turno, squillò il cellulare. Era l’Elsa e sembrava allarmata. «Di’, hai dato un’occhiata al giardino stamattina? Hai visto cosa è successo al bosso?»

«No, non ho visto cosa è successo al bosso. Ne parliamo a casa, piccola. Adesso non è il momento.» La chiamava con tenerezza – piccola, carao tesoro– quando era in esplicito disaccordo con lei. Chiuse senza aggiungere altro e s’incollò alla porta dell’ufficio, pronto a farvi irruzione non appena scattasse il segnale di via libera.

Se la cavò con molto meno del temuto, ma a casa scoprì che l’agitazione della consorte aveva un suo perché. Le due file di bosso ai bordi della gradinata sul pendio, nella parte di giardino situata dietro la casa, versavano in uno stato miserevole. Scomparso il fogliame, sfigurato e decomposto il legno, quel che restava dei bassi filari somigliava a due serpenti morti e verminosi, avvolti in un viscido, ripugnante velario di bava. Cortine trasparenti, della stessa immonda materia, penzolavano dai rami e dalle tettoie. Mosse da un vento discreto, sembravano una trappola viva, pronta a catturare e imbalsamare l’intero giardino e chiunque lo attraversasse. L’Edoardo ne abbatté quante poteva a colpi di scopa, imprecando. Poi si svestì alla svelta per una doccia catartica: aveva l’impressione di sentirsi addosso, su ogni centimetro di pelle, l’abbraccio untuoso di quel lenzuolo di morte, non più consistente d’una ragnatela ma umidiccio e nauseante. E soprattutto sconosciuto, dunque più minaccioso del palpito d’una medusa o d’una pioggia di ceneri vulcaniche.

«Piralide», sentenziò il Vanni con un perfido sorriso sulle labbra. Si erano autoinvitati, lui e la Vanessa, per un aperitivo prima di cena. Le due E accolsero le due V con abbracci e baci, pensando più o meno la stessa cosa: «Fine della festa. Ecco qua gli allegri ippopotami.» Le due coppie, quattro pensionati accomunati da una solitudine astiosa (i figli se n’erano andati in terre lontane, dove avevano perso l’articolo ma conquistato, in cambio, lavori seri e ben remunerati), avevano da raccontarsi un sacco di novità. I resoconti e le istantanee di vacanza erano tuttavia passati in secondo piano: le anomalie riscontrate dai padroni di casa al loro rientro – tasse a tradimento e devastazioni botaniche – avevano preso il sopravvento sulle consuete chiacchiere di fine stagione. Il Vanni spiegò che un parassita asiatico, chiamato piralide, aveva imperversato in tutta la regione a caccia di bosso, ingoiando intere siepi in meno di una settimana. C’era qualcosa, nella sua dissertazione sui crimini della piralide, che disturbava l’Elsa. Un surplus di vanità professorale, forse: il Vanni era stato proprietario d’un modesto negozio di mercerie, prima di fallire, ma amava esprimersi col petto in fuori anche su argomenti che non gli erano congeniali, ostentando l’autorevolezza ruspante degli autodidatti. L’Edoardo gli versò da bere per la terza o quarta volta, sperando di smorzarne con l’alcool il fervore didattico e le ridondanze. Stavano seduti a due passi da quei rimasugli di bosso vilipeso e digerito, quando la Vanessa, a braccio teso e col dito puntato, indicò alla padrona di casa una pattuglia di arboscelli di fico in libera uscita lungo il confine inferiore dell’orto. «Dovresti sradicarli», raccomandò maternamente, «se non vuoi che ti invadano tutto il terreno. Fanno in fretta a crescere.»

L’Elsa osservò quella rigogliosa esplosione di vita vegetale con aria perplessa. Era quasi certa di avere, se non estirpato, almeno ridimensionato a colpi di cesoie l’esuberanza dei virgulti indesiderati. E questo solo poche ore prima, quando, con l’aiuto del marito, aveva ripulito a fondo il piccolo eden dalle libertà che madre natura si era presa in loro assenza.

«Non siamo mai riusciti a eliminare del tutto l’onnipresenza dei fichi», si lamentò con la Vanessa, ricordandole i due maestosi esemplari abbattuti quasi vent’anni prima. C’erano state buone ragioni per sacrificarli: lo sviluppo ipertrofico, minaccioso per i tetti della legnaia e della dépendance; la sporcizia prodotta in autunno, un molle e colloso tappeto di frutti marci squarciati nella caduta, attrazione irresistibile per le mosche; per non dire del progressivo inselvatichimento, che rendeva i frutti sempre più piccoli e avari di sapore. «Passavano direttamente dall’acerbo al marcio, ormai, come certe zitelle che conosciamo. Comunque, da allora continuano a spuntare nipoti e pronipoti di quelle due piante, come se non fossero mai morte.»

La Vanessa prese lo spunto fornitole con quella frase sulle zitelle per cambiare discorso. Il giardino dell’amica era troppo grazioso per piacerle: lei e il Vanni abitavano in un modesto appartamento d’affitto, e la familiarità con i gerani del balcone li rendeva alquanto saccenti sulle piante degli altri. Le due donne trassero linfa abbondante dalla cronaca di quartiere per fare a pezzi le «zitelle» di loro conoscenza, una coppia di gay senza diritto d’articolo, ascrivendo a una condotta viziosa e sciagurata il loro precoce decadimento fisico.

Anche gli uomini avevano presto messo da parte l’insolenza della piralide per protestare contro dispiaceri più stabili e sicuri: la pressione fiscale, la pressione arteriosa, la pressione dei greci sull’Europa, la pressione dei migranti alle frontiere. Sciolsero nel vino tutte le pressioni finché, rinfrancati a sufficienza, s’infervorarono sulle cantonate degli arbitri e sulle ingiustizie patite dalla squadra di calcio alla quale avevano giurato eterna fedeltà.

Il giorno dopo, l’Elsa si svegliò col fermo proposito di smontare alla radice la rivolta dei fichi parassiti. Spinse l’Edoardo ad armarsi di zappa per costringere i clandestini alla resa definitiva. Non era un’impresa ordinaria, ma una vera e propria campagna in difesa del territorio. Le piante nemiche, durante la notte, si erano sollevate di altri venti centimetri: una crescita offensiva. Insieme sbaragliarono gli intrusi e, una volta rimosse dal suolo le vittime della battaglia, l’Elsa telefonò a uno dei nipoti più odiati, giardiniere di professione. Il giovane accolse con scetticismo l’accorata relazione sull’esuberanza dei fichi. «Venti centimetri? Hai misurato male, zia: non è possibile. Quanto alla piralide, hai ragione tu: ha fatto casino dappertutto. Il bosso è destinato a estinguersi, in Italia e forse in tutta l’Europa.»

Le bizze della flora non erano finite. Verso mezzogiorno, un rompiballe mandato dall’azienda del gas per la lettura periodica del contatore diede in escandescenze perché l’apparecchio era inaccessibile, artigliato com’era da un impenetrabile groviglio di rampicanti. L’Edoardo non era in casa e l’Elsa dovette affrontare da sola una spaventosa foresta di escrescenze, con l’edera e il convolvolo al comando di una truppa debordante e assassina. Al suo ritorno, il marito subì un torrente di esternazioni muliebri come se fosse sua la colpa di quei disordini. «Un giardino è un giardino, tesoro», disse per quietarla; «si capisce che dà lavoro da fare, se si vuole tenerlo a bada.» Ma il suo placido equilibrio si squagliò come una bolla di sapone quando con lo sguardo intercettò una formazione incongrua, lungo la recinzione sud.

«Che cazzo ci fanno quelle canne, piccola? Da dove sono spuntate? Da quando sono lì?»

Anni addietro avevano ceduto alla tentazione di lasciar crescere un bambù per godersi da vicino una minima, elegante nota di esotismo. Ricordava a tutti e due certi film visti in gioventù, storie avventurose e romantiche in paesaggi paludosi e pittoreschi. Ma il bambù aveva generato dozzine di cloni: era stato necessario smantellarli uno per uno, capostipite compreso. Ed ecco che, dal passato, riaffiorava a sorpresa un periodo dimenticato. Eretti come lance, i fusti – ricomparsi dal nulla – svettavano in doppia e tripla fila, determinati a occupare militarmente l’intero sentiero che costeggiava la rete di confine.

Con la rabbia e il coraggio dei popoli attaccati dall’invasore, bonificarono anche quella zona del giardino, radendo al suolo il canneto. Questa volta, l’Elsa convocò il nipote giardiniere. «Devi venire assolutamente a dare un’occhiata. Ti pago. Hai sentito cosa ho detto? Ti pago. Qui succedono cose che non stanno né in cielo né in terra.» Era una delle sue frasi preferite, nei momenti di panico. Il Federico era riluttante. Richiestissimo in metà della regione, badava alla manutenzione di parchi e giardini imponenti e, dopotutto, quella zia si ricordava di lui solo in caso di bisogno. «Dammi tempo fino a domenica», promise infine, sconfitto dall’insistenza di lei.

La domenica, il giovane trovò i due vecchi in condizioni pietose. Lui era affranto e assente, come schiacciato dal peso di un baobab. Lei era tutta una lacrima. Il giardino non c’era più. Al suo posto vegetava una robusta e insensata boscaglia di piante ribelli: fichi strangolatori, robinie, rampicanti mai visti da quelle parti e una disperata sterpaglia di rovi: questi protendevano spine rossastre e più lunghe del normale, baionette in miniatura determinate a sventrare l’intero creato. Il Federico stette a guardare, incredulo, quel riquadro di giungla così strambo e feroce; le aiuole, le rose, le ortensie, il gelsomino, le magnolie e gli aceri che ricordava erano stati spodestati e annientati dall’avanzata d’una furia selvaggia, irrazionale e possente. Anche gli odori non erano più quelli di prima; prevaleva, ora, un sentore di funghi e di marcio. Corse sulla strada da dove era venuto, per vedere se nei giardini limitrofi si fosse verificato lo stesso fenomeno. Ma per cento metri a nord e cento metri a sud non rilevò niente del genere.

«Devo venire con la ruspa e una squadra di assistenti», disse agli zii, non meno sbigottito di loro. «Bisognerebbe anche consultare un agronomo. O la guardia forestale. O i pompieri. E allertare il comune.» Se ne andò lasciandoli più sconcertati di come li aveva trovati, ma giurò di ritornare il giorno dopo con le macchine e gli uomini necessari a una bonifica radicale.

Si era fatto tardi. Tanto l’Edoardo appariva cupo e rassegnato a quella maledizione, tanto l’Elsa folleggiava in preda a uno sconquasso di nervi. «Devo misurarmi la febbre», mormorò. Poi alzò la voce per farsi udire dal marito, più abulico d’un malato di alzheimer. «Non aspettarti la cena. Abbiamo guai più grossi che pensare a mangiare.» Lui non reagì. L’Elsa andò a sederglisi accanto, gli prese le mani tra le sue e gli parlò con una voce fatta di miele e di spine: «Che altro succederà stanotte? Dimmelo tu, Edo. Che faremo se quell’inferno crescerà ancora? Pensi che potrebbe attaccare la casa, scardinare le porte e le finestre, soffocarci nel sonno? Io ho paura. Cerca di aiutarmi. Ti stai addormentando, come al solito. Hai bevuto? Ti sfascio tutte le bottiglie che trovo in giro, giuro su Dio. Ti brucio la cantina. Devi darmi una mano, amore, non possiamo subire come se niente fosse. Facciamo così: tu ti riposi un’ora, subito, e io sto di guardia. Poi ti sveglio e ci diamo il cambio. Così ogni ora. Fino a quando ritorna la luce del giorno. Poi arriva il Fede e fa piazza pulita, e io cucino per tutti, operai compresi, anche se extracomunitari. Ti va? Dimmi qualcosa, stronzo. Lo sai che ti adoro.»

A occhi chiusi, muovendo impercettibilmente le labbra, l’Edoardo le disse: «Sì, cara. Sì, tesoro.» Proprio allora il vetro della finestra dietro di loro andò in frantumi, mentre un ramo di kigelia, appesantito da un enorme frutto a forma di bomba, si protendeva, lento e inesorabile, verso il soffitto.

 © Pasquale Barbella

Turisti si nasce

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Londra, turisti davanti alla cancellata di Buckingham Palace, agosto 2014.


Turisti si nasce

In una recente intervista rilasciata a Repubblica, Jean Clair è stato, come sempre, molto duro sul mercato dell’arte e in particolare sulla gestione contemporanea dei musei: «I musei sono molto frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili. [...] Viviamo nel tempo dell’arte cloaca. Il museo è il punto finale di un’evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti. Il crollo della nostra civiltà.»[1]Clair, critico d’arte fra i più autorevoli, già direttore di grandi musei e di una Biennale veneziana, membro dell’Académie Française, è noto per le sue posizioni polemiche sulla globalizzazione della cultura e sul marketing dell’arte, argomenti ai quali ha dedicato analisi furenti come La crisi dei musei (Skira, 2008) e L’inverno della cultura (Skira, 2011).

È difficile non provare simpatia per l’accanimento di Clair contro il cinismo mercantile che ispira una parte dell’arte contemporanea (uno dei suoi bersagli preferiti è Jeff Koons, ex marito di Ilona “Cicciolina” Staller) e lo strapotere della finanza che ha inglobato mostre e musei tra le sue sorgenti di profitto. Ma il suo punto di vista sembra collidere con principii e necessità che hanno a che fare con la sopravvivenza di paesi come il nostro. Abbiamo criticato a lungo la battuta di Giulio Tremonti, ex ministro dell’economia, quando proclamò che «la cultura non si mangia». Le critiche a Tremonti davano per scontato che la cultura può generare ricchezza, se si è capaci di valorizzare le risorse culturali e geografiche di cui l’Italia dispone: il patrimonio storico-artistico e la varietà del paesaggio. Un paese gratificato cinquanta volte dall’Unesco meriterebbe una più efficace politica di investimenti, anche su quel turismo che, in modo sprezzante, definiamo “di massa”.

Negli ultimi trent’anni si è allargato il divario tra la concezione aulica della cultura e la sua dimensione consumistica. Sono sempre di più le mostre, le rassegne, i siti presi d’assalto da moltitudini straripanti: qui e in tutto il mondo. A Parigi, nelle stagioni di punta, il Musée d’Orsay – che solo pochi anni fa era una chicca da élite – è inaccessibile quasi quanto la Tour Eiffel. A Roma e Città del Vaticano puoi scordarti di visitare senza prenotazione il Colosseo, San Pietro e la Cappella Sistina; quando “ripieghi” su raccolte e meraviglie meno osannate dai mass media respiri di sollievo e t’inorgoglisci della scoperta, ma un po’ ti dispiace che la città non abbia voluto, potuto o saputo trarre denaro prezioso da tutti i suoi tesori.

Londra, turisti davanti alla cancellata di Buckingham Palace, agosto 2014.

Le folle di turisti che inondano i centri storici e i musei d’Europa non piacciono a nessuno, nemmeno a quelli che ne fanno parte. Per forza: il loro diritto di esistere e di muoversi contrasta col tuo desiderio di essere il re dell’universo. Turisti non si diventa, si nasce: la mobilità è tra le aspirazioni più pressanti e misteriose dell’uomo, ed è figlia della curiosità, anche della più superficiale. Il turismo di massa può essere dettato anche dalle motivazioni più fatue e più kitsch, ma opporvisi è un po’ come allinearsi al pensiero di Tremonti. Del turismo, il nostro e quello degli altri, abbiamo bisogno: è pane. E chi tradisce questa risorsa – dal ristoratore che si approfitta avidamente dell’ospite al custode di Pompei che decide di chiudere l’ingresso senza preavviso per un’assemblea sindacale – si comporta, a tutti gli effetti, come un nemico del paese. Poco importa, al turista maltrattato, se le responsabilità di abusi e disservizi dipendano dal basso o dall’alto. Il turismo deve contribuire alla ricchezza del paese, ma ciò non dà il diritto a nessuno di considerare i visitatori solo come vacche da spremere.

Al turista, se non compie atti in contrasto con l’educazione civica, devi rispetto e gratitudine anche quando il suo punto di vista è diverso dal tuo. Può farti girare le palle, per esempio, che metà di coloro che si accalcano nella sala 6 al primo piano del Louvre se ne stiano mezz’ora in adorazione di Monna Lisa senza degnare di uno sguardo Le nozze di Cana del Veronese, sulla parete di fronte. Cavoli loro. La colpa di certi “obblighi di consumo” non dipende dai fruitori ma da un tam-tam mediatico e subculturale al quale è esposto anche chi non ha mai studiato la storia dell’arte.

Londra, turisti alla Tate Modern, agosto 2014.

«Sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come un consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere ciò che è diventato banale»[2]. Guy Debord aveva ragione di pensarla così, ma se fosse ancora vivo dovrebbe riconoscere che persino la sua critica del capitalismo è ormai materia da salotto. “Il sistema” è il sistema, mettiamoci l’anima in pace; se per migliorarlo dobbiamo sparare alle statue, come i talebani, io non ci sto. E comunque il turista, anche il meno erudito, qualcosa impara; invece di storcere il naso davanti ai suoi bermuda o ai suoi sandali, conviene sperare nella sua sensibilità individuale e nella sua volontà di non limitare i propri orizzonti soltanto alla sagra del salame e alla sdraio sulla spiaggia. Nella media, credo che anche il turismo coatto tenda col tempo a sgrezzarsi – specialmente tra i giovani – rispetto al passato, grazie anche agli strumenti didattici che la tecnologia mette a disposizione (dalle guide audio a quell’immenso museo virtuale che è internet).

Le analisi sociologiche sui consumi culturali possono darci qualche soddisfazione e molte delusioni, ma resta il fatto che senza una solerte e corretta applicazione del marketing non potremo nemmeno mantenere in vita il nostro retaggio artistico e archeologico. Con la puzza sotto il naso riusciremo soltanto ad accelerarne il degrado e la scomparsa. L’arte, del resto, ha senso solo se fruibile, possibilmente non da quattro gatti. Michelangelo non ha affrescato la volta di quella cappella solo per gli occhi di Sisto IV.

© P.B.

Londra, saluto ai turisti, agosto 2014.



[1]“I manager sono la rovina dei musei”, intervista rilasciata a Raffaella De Santis, la Repubblica, 21/08/2015.
[2]Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967; Bari: De Donato, 1968.

Lettori a metà

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Thomas Pynchon in uno dei rarissimi ritratti che circolano di lui. Pynchon odia comparire e si nasconde da sempre.


Lettori a metà

Giorni fa ho incontrato per strada un amico, Giuseppe Frigerio: è un lettore attento e accanito, legge molto più di me, e sotto il sole cocente abbiamo elogiato entrambi, al volo, i romanzi di Mo Yan (vedi Aglio da Nobel). A bruciapelo, e del tutto incongruamente, gli ho chiesto se avesse letto qualcosa di Thomas Pynchon, autore di cui non avevamo mai parlato. Giuseppe è molto caustico con gli scrittori che non gli piacciono, e ha istintivamente atteggiato il volto a una smorfia che non so dire se di disappunto o di disgusto. Andava di fretta e non è stato possibile approfondire: ha detto soltanto qualcosa come «troppo lungo e incasinato, non capisco dove voglia arrivare, l’ho piantato a metà...»

Spesso mi trovo d’accordo con le sensazioni di Giuseppe ma, più incerto di lui, mi metto al riparo dietro giudizi meno tranchant. Avevo lasciato a mezzo L’arcobalento della gravità, trovandolo irritante. Ma «irritante», applicato alla letteratura o ad altre forme di espressione colta, è un aggettivo più vicino al complimento che al rifiuto. A voler tentare di essere più chiaro, potrei dire che trovo Pynchon ammirevole in quanto irritante (cioè poco incline a sedurre il lettore con svolgimenti tematici, narrativi e di montaggio immediatamente riconoscibili e condivisibili: uno scrittore, insomma, programmaticamente anticonformista); ma irritante fino al punto di scocciarmi e di indurmi a tradirlo con un’imperiosa chiusura di pagine e l’immediata transizione dalle mani allo scaffale. Come credo faccia Giuseppe, anch’io però lascio il segnalibro all’altezza del coitus interruptus, per puro rispetto e come per una promessa: caro Thomas, ti metto in castigo ma un giorno o l’altro, forse, ti riprendo in braccio e ti sto a sentire. C’è un vecchio segnalibro anche tra le pagine de Il pasto nudo: ciao, William Burroughs. Ho capito come funziona il tuo giochetto; non ho voglia di andare fino in fondo perché è come ascoltare la stessa canzone cento volte di seguito. È il destino degli sperimentalisti: una volta che hai capito, o credi di aver capito, come funziona il loro meccanismo, puoi mollarli a metà senza sensi di colpa.

A casa ho trovato una e-mail di Giuseppe, che riproduco integralmente. Ecco cosa scrive del suo difficile rapporto con Pynchon:


Nel 2007 avevo letto L’incanto del lotto 49 lasciando come commento: «Da rileggere con maggior attenzione.»

Nel 2011 ho sospeso la lettura di V a pag. 74 (su 587) appuntandomi: «Pare che faccia di tutto per scoraggiare dall’andare avanti a leggere. Che cos’è? Di cosa parla? Sciatterie, piattume, misteri... Un mucchio di personaggi che appaiono, spariscono, non fanno nulla, vicende slegate... Fino a che punto si può sopportare di non capire niente? Che non ci sia niente?»

Finché non avrò riletto il primo e completato il secondo difficilmente affronterò gli altri suoi romanzi che oltretutto sono di 976, 740, 448, 976 pagine rispettivamente, finora.

Mi sono concesso qualche, sia pur rozza, riflessione sulla corrente del postmodernismo di cui Pynchon è un alfiere: pare che abbia alla base i concetti di accumulo e di improvvisazione e il rifiuto dei significati.

Opere, spesso di grandi dimensioni, realizzate da artisti con grande padronanza del mestiere alla ricerca di modi nuovi e personali di esprimersi, senza regole né limiti.

La cosa può andare benissimo per la musica che essendo una pura sequenza di emozioni in tempi contenuti ne consente l’immediata fruizione e, se piace, il godimento: è il jazz nelle sue varie forme.

Può andare bene anche in poesia, dati i tempi ristretti che impegna.

Perfetto in pittura perché l’opera è accessibile in un solo atto nella sua interezza e, se piace o interessa, consente poi la ricerca di sequenze di lettura a piacere e magari anche la ricostruzione di quelle di composizione.

In prosa no: la lettura richiede tempi lunghi, la parola è significato, un racconto richiede coerenza; c’è la sequenza vincolante delle parole, quella delle scene, dei fatti raccontati ciascuno dei quali si presenta singolarmente, l’uno dopo l’altro, a lungo: prescindere dai significati comporta la riduzione a banale passatempo estetico, magari anche con componenti culturali importanti e gratificanti, ma pur sempre sterile.

Certo si può passare la vita a scrivere (o a leggere) cose belle o intriganti che (forse) dopo cinquecento pagine potranno svelare un eventuale racconto e magari un significato, ma leggerle, tutte quelle pagine, senza riscontri, solo lasciandosi cullare dal fascino che si prova nel leggerle, è fatica.

I confronti che Giuseppe fa tra la prosa e la poesia, la musica, le arti figurative, sono interessanti ma implicano parametri sospetti quali le emozioni e il godimento. In altri termini: ti leggo, ti guardo, ti ascolto perché mi procuri piacere. La natura di questo piacere è variabile: di fatto, credo che ogni fruitore abbia una propria singolare concezione del piacere estetico, derivante dalla sua formazione e da quelli che, in modo un po’ vago, chiamiamo i suoi gusti. Ma nessun autore – che sia autenticamente creativo – ha il dovere, o l’obiettivo primario, di piacerci; il suo compito è, semmai, quello di scuoterci, di sorprenderci, di farci percepire le cose del mondo da un nuovo punto di vista, da una prospettiva non comune; di farci vedere, anche di ciò che credevamo di conoscere, un’anima segreta, un lato oscuro e al tempo stesso rivelatore. In tal senso la letteratura, che sia in prosa o in versi, non è dissimile dalla musica o da qualsiasi altra arte. La poesia ha, in comune col jazz, una più marcata tendenza alla decostruzione dei linguaggi codificati; procede per impulsi ed ellissi, ritmi e intuizioni in apparenza improvvise, come una seconda lingua sottesa a quella convenzionale, fatta per la condivisione. Ma un romanzo che sia fatto unicamente di “prosa” è solo un resoconto; il romanzo si eleva a vette più alte quando incorpora, nella sua struttura, cose dette e non dette, secondo procedimenti retorici estremamente complessi e articolati, più o meno sperimentali, tali da costringerci a interloquire con la pagina scritta e a ricavare dalla narrazione occhiali e filtri per una diversa visione del mondo. Un romanzo è anche ritmo ed ellissi, è anche jazz: il suo confine con la poesia è probabilmente arbitrario. 

Ciò detto, sto dalla parte di Giuseppe: non ho voglia di continuare a leggere Pynchon. Né ho il dovere di farlo. E se fossi un dispensatore di Nobel, glie lo negherei anche se piangesse in ginocchio: non perché non lo meriti, ma perché mi sta sulle palle.

© Pasquale Barbella.



Cuori di pietra

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Cuori di pietra

L’antico tempio di Baal a Palmira, in Siria. Conferme, smentite e riconferme della sua demolizione, effettuata dai terroristi del sedicente Stato islamico. Foto di Sandra Auger/Reuters.



[...] e Troia tutta
In un sol foco immersa e fin dal fondo
Sottosopra rivolta.
– Publio Virgilio Marone[1]

Censeo Carthaginem esse delendam.
– Marco Porcio Catone

I templi pagani non devono essere affatto distrutti, ma si distruggano gli idoli che sono in essi. Si utilizzi l’acqua benedetta, la si asperga su questi templi, si elevino altari, vi si pongano reliquie perché, se i templi sono ben costruiti, è opportuno che dal culto dei dèmoni essi passino alla fede del vero Dio in modo che la gente, vedendo che i suoi templi non vengono distrutti, abbandoni l’errore e accorra a conoscere il vero Dio in luoghi a lei già familiari.
– Gregorio Magno[2]

Il Dio che ha creato il mondo e tutto quello che in esso si trova, essendo il Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti con le mani.
– Paolo di Tarso[3]


Deserto di sale

Il Senato di Roma ordinò a Publio Cornelio Scipione Emiliano, comandante dell’esercito nelle fasi conclusive della terza guerra punica, la distruzione integrale di Cartagine. Vuole la leggenda che, svuotata la città di ogni presenza ostile col ferro, il fuoco e le catene, e arsi e abbattuti gli edifici, fossero tracciati dei solchi in tutta l’area e cosparsi di sale, in modo da inibire qualsiasi tentativo di resurrezione. Non abbiamo fonti antiche che confermino tale cattiveria, mentre di Scipione sappiamo due cose: che era restio alla “soluzione finale”, ma anche fedele ai comandi della repubblica. Forse obbedì e forse no. Incuriosisce, comunque, la sua riluttanza: segno che certi estremismi potevano essere considerati, anche all’epoca, tanto irragionevoli quanto inutili (rasa al suolo nel 146 a.C. Cartagine ebbe, più tardi, nuovi cicli di esistenza). Supponiamo che Scipione Emiliano fosse più perplesso sulla devastazione dei muri che sull’annientamento degli uomini: lì c’erano templi e monumenti e ville secolari, come in ogni sede di civiltà fiorenti; le demolizioni insensate urtano la sensibilità e la cultura di chi rifiuta l’accanimento vandalico, e può capitare che a provarne disgusto sia persino il più inflessibile dei conquistatori. Una Hiroshima non si augura a nessuno, anche se – di fatto – ci furono e ci saranno altre Hiroshima a ricordarci che siamo, per accidente biologico, votati alla violenza, retoricamente concepita come risorsa morale. Morale sembrò a Bin Laden abbattere le torri del World Trade Center, e in nome di un analogo fervore morale crollarono Babilonia, Gerico, Ilio, Cartagine.

Si spara a statue di Buddha e si spianano luoghi come Palmira in nome di principii che equiparano gli uomini in carne e ossa alle opere che hanno ideato e costruito. E se i massacri di persone generano orrore e pena in parte dell’umanità, le vittime di pietra producono un senso ulteriore e definitivo di sgomento: l’impressione di uno stupro retroattivo consumato contro la nostra identità, la sensazione di una catastrofe della storia e dell’abrasione violenta di memorie custodite quasi a livello genetico. Un attacco al Dna.

Città e paesi interi possono scomparire per cause naturali. Obtorto collo, siamo costretti ad accettare certe insurrezioni della natura: il suo è una specie di terrorismo autorizzato, anche perché – tra una minaccia e l’altra – è lei che ci tiene in vita, ci nutre, ci coccola e, nei casi peggiori, non si rifiuta di concederci ancora qualche illusione o speranza. Malediciamo gli tsunami, i terremoti e la malasorte e, in modo un po’ incongruente, non sappiamo se biasimare o lodare il Vesuvio per aver imbalsamato Pompei, regalandocene una visione defunta ma fruibile. Sui vuoti campi di Olimpia sogniamo un passato che permane solo nella mente, mentre a Efeso siamo grati agli dei del restauro che ne hanno preservato tracce ancora distinguibili, e ammiriamo attoniti la nuda facciata della biblioteca di Celso, sopravvissuta ai libri e mutilata nel resto del corpo. L’uomo armato è una causa naturale? Che differenza c’è tra la furia di Giulio Cesare e la spontaneità di un’autocombustione? Terra, fuoco, acqua, aria: e se il quinto elemento fosse l’uomo, altrettanto vitale, costruttivo, distruttivo e comunque scervellato? Forse la risposta era nascosta tra i libri della biblioteca di Alessandria: peccato che siano andati in fiamme.

I crimini prodotti dall’umanità contro sé stessa «a volte ritornano», come i teppisti morti di un famoso racconto di Stephen King. L’odio sembra essere il carburante della specie alla quale apparteniamo. Secerniamo odio come fosse odore o sudore, e lo fomentiamo anche senza volerlo. Coltiviamo nemici sconosciuti, vicini e lontani; nemici a cui dà noia il semplice fatto che siamo qui, e ci siamo ora. Siamo, come i nostri monumenti, pura simbologia: non conta chi crediamo di essere, contano i tag che ci ritroviamo incollati sulla pelle: territorio, patria, fede (presente o assente, è uguale), profilo etnico, economico e religioso della maggioranza locale.

Le città, gli edifici, le arti riflettono il nostro sogno di relativa immortalità. Qualsiasi offesa ai nostri manufatti, specialmente se concepiti per durare, mette in discussione il diritto stesso di sognare, di aspirare alla continuità, se non del nostro corpo, almeno di ciò che siamo stati capaci di immaginare.

Germania, 1945. Un giovane ufficiale americano viene inviato a Colonia di notte e, al buio, non si accorge di essere stato alloggiato in una canonica. Al mattino esplora il suo rifugio ed è grande la sua desolazione quando si accorge che è annesso a una chiesa sfracellata dalle bombe (la sola incursione del 9 luglio 1944 del Bomber Command britannico uccise in quella città 4.377 persone e distrusse un patrimonio storico di 1900 anni in 77 minuti).[4]L’ufficiale, protagonista del romanzo Il quinto evangelio di Mario Pomilio, scrive in una lettera: «[...] rammento d’aver riflettuto con una intensità fino allora inusitata intorno al senso della morte: perché, sì, io conoscevo bene, ormai, per esperienza, la morte degli uomini, e anche lo strazio che l’accompagna; ma non conoscevo altrettanto bene lo strazio e la perdita delle cose fatte dagli uomini, o meglio, di quelle che essi ritengono d’aver create una volta per tutte, e destinate a sopravvivere: poiché in questo caso non è più soltanto l’angoscia e il lutto d’un’assenza, è lo smarrimento d’essere al mondo senza più cose che ci proteggano.»[5]
Colonia nel 1945. Foto di Erich Hartmann, Magnum Photos.

Nel 2002, in occasione di tutt’altro disastro, William Langewiesche, corrispondente di The Atlantic Monthly, descrive quello smarrimento come perdita del senso del tempo e dello spazio: «[...] venti secondi di crolli, e delle Torri Gemelle restavano in piedi solo alcuni monconi dei piani bassi, strutture vagamente gotiche che si alzavano al cielo come mani supplicanti. Quando le tempeste di polvere si sono placate, la gente nelle strade di Lower Manhattan ha reagito in maniera composta. Tutti camminavano anziché correre, parlavano senza gridare e tentavano di riacquistare il senso del tempo e dello spazio. A quanto si dice, a Hiroshima era accaduta più o meno la stessa cosa.»[6] 

Darwin non balla il cha-cha-cha

È opinione diffusa, e non del tutto arbitraria, che i sommovimenti geopolitici di qualsiasi tipo abbiano come causa e obiettivo ordinario l’economia. Vale per le guerre del petrolio così come per qualsiasi altro conflitto. Alcuni proclamano di agire non in nome dell’economia, ma di una fede. Ma che il motore della guerra sia l’economia, la fede o qualsiasi altra categoria mentale che non sia la legittima difesa, la perdurante e volontaria aggressione degli uni contro gli altri sembra indicare una falla nella teoria evoluzionistica di Darwin. Se la specie fosse destinata solo a progredire, dovrebbe “scaricare” a tappe, dal proprio codice genetico, gli impulsi che ne insidiano la sopravvivenza. Il comportamento umano somiglia invece al cha-cha-cha: passo avanti, passo indietro, chassé, passo avanti, passo indietro, chassé. Con una complicazione ulteriore: a ogni piede che si muove, l’altro resta fermo. E allora, delle due l’una: o dobbiamo ridiscutere la faccenda fra qualche milione di anni, essendo ancora troppo giovani per balli più avanzati del cha-cha-cha; oppure insieme alle forze di adattamento progressivo all’ambiente dobbiamo presupporre l’azione di forze uguali e contrarie, risorse regressive che ci impediscono di proliferare a piacere o di proiettare la nostra specie in una condizione di supremazia senza limiti.

L’aggettivo “disumano”, con il quale tentiamo di definire l’accanimento contro i propri simili, ha poco senso: la violenza è tanto umana quanto la pace, se non di più, ed è questa la nostra disgrazia. La storia degli uomini se ne sbatte dei sentimenti. Li considera episodici, effimeri, astratti. Solo la cultura, nelle civiltà complesse, prova a fare da contrappeso alla brutalità dell’economia e della sua appendice più cruenta, la storia. Ci vogliono ciechi onniveggenti come Omero per vedere, sui campi di battaglia insanguinati, una mappa di emozioni individuali e collettive: l’adulterio di Elena, l’ira e gli amori di Achille, l’astuzia e la nostalgia di Ulisse... Greci e troiani accomunati dalle stesse passioni, tutti colpevoli e innocenti, tutti in balia di una sorte idiota e infelice. E poco importa che a manovrarli fossero gli dei con i loro capricci: a ciascuno la sua Gestapo, in terra o sull’Olimpo la canzone non cambia. Del resto, gli dei di Omero non erano fatti a immagine e somiglianza dei mortali?

Né si può dire che i nostri dei si comportino, nella Bibbia e fra i suoi estimatori, più amorevolmente di Marte o di Giove. «Quando c’è aria di guerra, il dio del cristianesimo occidentale balza in primo piano. La guerra lo vivifica. Durante la seconda guerra mondiale, quel dio era il secondo pilota dei bombardieri in missione, come proclamava il titolo di un libro, e in una canzonetta dell’epoca il cappellano diventa un “gran bel cannoniere”. Nella prima guerra mondiale, “i sacerdoti misero la divisa a Gesù e lo spedirono a manovrare le mitragliatrici”. Il vescovo di Londra esortò i fratelli a “uccidere i buoni insieme ai cattivi... i giovani insieme ai vecchi... coloro che hanno mostrato compassione verso i nostri feriti insieme a quei maledetti...”» Così James Hillman in un libro illuminante fin dal titolo, Un terribile amore per la guerra.[7]

Il sogno della clava

Ma stavamo parlando di pietre: templi, palazzi, sculture, musei. Perpetrarne la disintegrazione – non accidentale ma voluta, strategica – è il massimo atto di irrisione a tutte le capacità umane che vanno sotto il nome di “civiltà”. Si nega, in questi casi, non solo il diritto dell’altrui esistenza ma anche qualsiasi principio che non sia quello, primitivo e “naturale”, della caverna. Dico “caverna” e non “clava” perché la clava è già un utensile, uno strumento culturale in quanto concepito da mente umana e realizzato da mani umane. Ci sono anche in Occidente, e nei suoi paesi più avanzati, pensatori ostili a qualsiasi forma di tecnologia e di evoluzione, primitivisti contrari non solo al telefonino ma addirittura all’agricoltura e alla pastorizia; essi si servono dell’istruzione per sputarci sopra; scrivono libri e diffondono il loro messaggio attraverso i media e negli atenei, adoperando dunque le più sofisticate forme di civilizzazione per predicarne le colpe e auspicarne la fine. Questi apostoli del tabula rasa assoluto sono convinti che dal nichilismo estremo possa fiorire un modo diverso di vivere, più libero e “naturale”, come se non fosse stata la natura stessa a dotarci di energie costruttive. Essi ignorano, o fingono di ignorare, che se il loro ideale si avverasse (e per avverarsi sarebbe necessario sterminare quasi tutta la popolazione del pianeta e gettare sale in tutti i solchi del mondo), l’uomo reinventerebbe, con pazienza più che certosina, la clava, la pastorizia, l’agricoltura, le Piramidi e il Duomo di Milano.

Nicolas Poussin, La distruzione del tempio di Gerusalemme, olio su tela, 1638-1640. Vienna, Kunshistorisches Museum.

Chi odia le grandi opere degli uomini – che si tratti della Torre di Babele o del monastero siriano di Qaryatayn, demolito a colpi di bulldozer dai militanti del gruppo Is – le immagina come simboli di un potere inaccettabile. Ed è vero che i monumenti nascono come simboli propagandistici di qualche potere, sia esso politico o economico, civile o clericale; ma una volta eretti vivono di vita propria, allargano il proprio corredo di valenze simboliche, diventano testimonianza non solo della propria ragion d’essere ma anche di un comune modo di sentire lo spazio. La torre Eiffel era la réclame di un’Expo parigina; era destinata alla rimozione ma fu risparmiata perché utile alla radiotelegrafia; adesso è lì perché sta bene dove sta: è diventata il simbolo della città intera, nonché una delle sue maggiori attrazioni turistiche.

La natura e la città non possono essere considerate in reciproca opposizione, a meno che non si giudichi “innaturale” il talento creativo degli uomini. Abbiamo introiettato gli oggetti e le grandi realizzazioni umane come elementi d’uno scenario insopprimibile; la cultura è figlia della natura che ci è stata data. Unesco proclama «patrimonio dell’umanità» le sedi – paesaggistiche e culturali – più significative del pianeta che abitiamo. Ma tutto ciò che abbiamo inventato o migliorato è «patrimonio dell’umanità»; chi lo manda in rovina non abbatte dei simboli, ma qualcosa che appartiene ormai anche a lui. Anche se si ostina a non saperlo e a non volerlo sapere.

La fine di Uranus

Patrimonio universale sono anche i monumenti più brutti e grotteschi: nessun marmo è in grado di difendersi dal cattivo gusto dei suoi manipolatori e garantire a priori la qualità dei suoi derivati. Se certi orrori sopravvivono al regime che li ha creati e al rancore di chi li ha subiti, il tempo gli offre una chance di redenzione: l’opportunità di servire come monito ai posteri, di comunicare fino a che punto possano spingersi l’arroganza della tirannia e il cinismo – talvolta dilettantesco – della propaganda, due sottoclassi della banalità del male. Il residuo più pittoresco e mostruoso dei regimi falliti è probabilmente la Casa del popolo di Bucarest, voluta dall’ultimo presidente comunista rumeno, Nicolae Ceaușescu. È un bislacco accrocco fuori scala, che domina la città come una gigantesca torta nuziale multipiano dominerebbe un paesaggio urbano in miniatura. Mi domando se proverei sollievo nel vederlo collassare sotto le bombe e la risposta è no: è un documento efficace, vale più di qualsiasi saggio storico sulla Romania di Ceaușescu. Non ricaverei alcuna gioia dalla sua estinzione, pur sapendo che l’osceno mastodonte è stato eretto grazie allo spietato sventramento di Uranus, il quartiere centrale della città. «Desideroso di far vedere al mondo e all’umanità che con lui non si scherza, Ceaușescu decide prontamente di abbattere più di 9.300 edifici e di sistemare le 57mila famiglie rimaste senza tetto in alloggi di fortuna. [...] Ceaușescu rade al suolo non solo case e ospedali, ma anche conventi e luoghi di culto, tra cui 19 chiese ortodosse, sei sinagoghe e tre templi protestanti. Butta giù perfino il monastero di Văcărești, che nel 1937 sir Sacheverell Sitwell, famoso viaggiatore ed esperto d’arte inglese, giudicò come il più grande tesoro di Bucarest.»[8]Paradossalmente, si può dire che la Casa del popolo è un monumento alla memoria dei monumenti caduti: raderlo al suolo è come uccidere Uranus due volte.

Dovunque piovano bombe dovremmo provare un senso di angoscia, persino nei casi in cui l’esplosione non uccida né ferisca nessuno. Persino nei casi in cui la distruzione delle cose sia funzionale alla fine delle ostilità e al ritorno della pace. La mia famiglia viene da Foggia, città colpevole di ospitare un importante snodo ferroviario e per questo colpita senza pietà dai bombardamenti degli alleati nell’estate del ’43. Bilancio: 20.000 morti (un terzo della popolazione), interi rioni distrutti oltre alla stazione ferroviaria, all’aeroporto, ai giardini comunali. Le incursioni proseguirono persino dopo l’8 settembre, ad armistizio firmato. Ero troppo piccolo per rendermi conto di quale Beirut o Sarajevo mi bruciasse intorno, ma ricordo nitidamente le piramidi di macerie, ancora presenti in pieno centro fino al 1950 o giù di lì, come se anch’essere reclamassero pubblicamente, manifestando in piazza, lo status di monumento.

Se le macerie funzionassero da deterrente, mi batterei perché fossero ammucchiate e lasciate bene in vista, a futura memoria, protette da una teca di cristallo. Ma temo che non producano solo terrore, dolore, turbamento. Alla lunga, producono assuefazione.

Palmira, mon amour

I macellai dell’Is hanno ucciso in pubblico – nei soliti modi turpemente cinematografici – Khaled Asaad, curatore del sito archeologico di Palmira, accusandolo di idolatria: come se egli venerasse divinità dimenticate dalla notte dei tempi, mentre era solo fedele al suo lavoro di studioso, custode, ordinatore di memorie di pietra. Per gli oppositori della civiltà (qualsiasi forma di civiltà) la memoria è reato punibile con la tortura, il coltello, la spada, l’ascia, il machete, la corda. Ciò che è antico è memoria, ciò che è antico merita l’oblio: il culto dell’antico è, paradossalmente, colpevolmente moderno per chi aspira alla desertificazione della terra e dello spirito. La fede in qualche dio, sia essa sbandierata per chiamare alle armi contro presunti infedeli o con le stesse armi perseguita perché diversa dalla propria, smentisce il significato implicito delle religioni, pensate per unire anziché dividere. La retorica oltranzista delle crociate non risparmia nessuno: nemmeno gli ecumenici, nemmeno i laici, nemmeno i super partes.

L’archeologo Khaled Asaad, 82 anni, massacrato dai macellai dell’Is per avere protetto reperti romani a Palmira, patrimonio dell’Unesco in Siria.

Amo e rispetto i monumenti a prescindere dalla loro origine e dalla loro missione. A prescindere, persino, dalla loro estetica. Amo le basiliche, le moschee, le sinagoghe: posso permettermelo perché sono infedele a tutto ciò che rappresentano, o rappresentarono. Se vado in una chiesa di Venezia non vedo il Padreterno, vedo Tiziano; oppure vedo la peste che decimò i cittadini e il ringraziamento in pietra da parte di chi ne scampò; o semplicemente vedo le generazioni che lì si inchinarono, ne avverto il respiro, la presenza che si dilata oltre la morte. Niente è più sacro del ricordo. Niente è più umano del sogno.

© Pasquale Barbella





[1]Eneide, libro II, traduzione di Annibal Caro.
[2]Registrum epistularum.
[3]Negli Atti degli Apostoli.
[4]Jörg Friedrich, La Germania bombardata, Mondadori, 2004.
[5]M. Pomilio, Il quinto evangelio, Rusconi, 1975.
[6]W. Langewiesche, American ground, Adelphi, 2003.
[7]Adelphi, 2005.
[8] Articolo di Margo Rejmer per il trimestrale polacco Ha!Art, uscito nell’ultimo numero del 2014 con il titolo Grobowiec rumuńskiego Bogae ripreso nel n. 1113-4-5 di Internazionale (31/7-20/8 2015) con il titolo La tomba del dio romeno.

L’innominabile

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L’innominabile

Avevo giurato a me stesso di non nominare mai, né con la voce né per iscritto, il signor Salvini Matteo. Non perché lo ritenessi più abominevole di altri politici (a Berlusconi, tanto per citarne uno a caso, ho dedicato articoli e sonetti), ma per scaramanzia. Temevo che il solo nominarlo avrebbe potuto legittimare, persino nella mia mente, la sua presenza sulla scena pubblica. Ho rispettato fino a ieri l’embargo verbale che mi ero imposto, ma ora eccomi qua, che mi arrendo e sbraco. Alcuni, di quelli che prediligono le formule preconfezionate, mi daranno del radical chic. Pazienza. Qualunque cosa intendano con quel cliché, preferisco il radical chic alla radical shit imperversante qui e altrove.
Vignetta di Jacopo Fo su Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2015. 

Wikipedia, non sospetta di simpatie o antipatie politiche, traccia un effervescente profilo biografico del signor Salvini. A dodici anni il ragazzo è già in televisione, in programmi di intrattenimento sui canali Mediaset. Niente da eccepire, per carità. La storia è piena di enfant prodige: adoro Mozart. Annoto il dettaglio solo per sottolineare la continuità espositiva di un soggetto esageratamente presente sui teleschermi. Non c’è giorno che il suo volto non vi compaia e che l’audio non riversi nelle case la sua pop-filosofia, con conseguente profitto elettorale e ascesa della maleducazione.

Pure a scuola, come in televisione, il Salvini s’insediò a lungo. Alla Statale di Milano, dov’era iscritto al corso di laurea in scienze storiche, rimase abbarbicato per sedici anni senza pervenire alla corona d’alloro, sebbene le foglie del Laurus nobilis siano del suo colore prediletto. «Prima la Padania libera della mia laurea», ebbe a dichiarare. Neanch’io mi sono mai laureato, e perciò mi guardo bene dal biasimare il Salvini per questo. Ma se invece di stazionare negli atenei dodici mesi avessi avuto l’opportunità di rimanerci sedici volte di più, sono statisticamente sicuro che ce l’avrei fatta.

Intendiamoci. I trascorsi scolastici del Salvini, come quelli del Bossi junior o della signora Gelmini Mariastella, acquistano valore indicativo solo per i ruoli pubblici da essi impersonati. Queste persone sembrano dirci che in politica l’istruzione non conta. Anzi: non porta voti (ma questa è una postilla mia, chiedo venia). Forse hanno ragione e forse no. Dipende da cosa s’intende per politica e servizio pubblico.
Michele Serra su Repubblica del 6 settembre 2015.

Fin dalla giovane età, il nostro uomo si distingue nel gioco delle tre carte (sinistra, centro, destra) preferito dai surrealisti dell’arte politica. A Milano frequenta assiduamente il Leoncavallo, centro sociale notoriamente di sinistra, schierandosi «con le correnti di estrema sinistra della Lega» (cito da Wikipedia), che è come aderire a una fazione di pesci volanti o di cozze dal guscio rosso-verde. Insiste: ossimorista convinto, fonda una corrente denominata Comunisti padani, seminando prevedibile sconcerto fra i comunisti non padani e i padani non comunisti. Più tardi, criticato per le sue appassionate love story con i movimenti neofascisti europei, prova ad arrampicarsi sui vetri: «Per assurdo vedo più valori di sinistra nella destra europea che in certa sinistra. Questi partiti e questi movimenti sono quelli che oggi difendono i lavoratori, quelli che conducono battaglie giuste come quella per il ritorno al locale. Allora non ci vedo nulla di strano a cercare un dialogo con chi oggi incarna la resistenza a questa Europa sbagliata.»[1]

La sua è una resistenza ricca di aneddoti. Si rifiuta di stringere la mano a Carlo Azeglio Ciampi: «Lei non mi rappresenta», dice. Ha ragione: all’epoca Ciampi è presidente della repubblica italiana, mica della repubblica padana. Ma il Salvini non ha imparato che ai leader stranieri si deve comunque rispetto. In altra occasione, lancia uova a Massimo D’Alema. Non che D’Alema mi stia particolarmente a cuore, ma trovo sconveniente e diseducativo – per i nostri figli o nipoti – che un consigliere comunale lanci uova a chicchessia. E poi, e poi... Propone a Milano tram riservati ai milanesi, come se la Lombardia fosse l’Alabama ai tempi della segregazione razziale. Polemizza con l’arcivescovo Tettamanzi, reo di aver preso le difese dei rom durante la campagna di sgombero lanciata dalla sindachessa Letizia Moratti. Insulta a più riprese Cécile Kyenge, «ministro di colore», accusandola di voler regolarizzare degli assassini (tali sarebbero i migranti tutti, a causa di un ghanese omicida, come se gli italiani fossero tutti responsabili dei delitti perpetrati da alcuni di loro e io stesso, in quanto italiano, fossi responsabile delle sue cazzate). Attacca gli omosessuali e si batte per il ritiro dalle biblioteche pubbliche di Milano dei libri che parlano dei loro diritti civili. Sogna di prendere «a calci in culo» i giornalisti non allineati. Va a Bruxelles a manifestare contro l’Unione europea. E via di questo passo: un curriculum alquanto atipico per un personaggio pubblico, ma plausibile nell’Italia cafona e fascistissima che molti come lui stanno cercando di edificare.
Protesta di migranti alla stazione di Bicske, presso Budapest, 3 settembre 2015. Foto: László Balogh/Reuters.

Forse l’episodio che più fulgidamente rivela la profondità del pensiero salviniano, e la sua passione per la lirica minore del Novecento, è quello del luglio 2009, quando a Pontida, accompagnato da un coro di aficionados che lo saluta esultante («E Matteo è il capogruppo! E Matteo è il capogruppo!»), intona un’ode solenne ai popoli del sud:

Senti che puzza, scappano anche i cani,
stanno arrivando i napoletani.
O colerosi, terremotati,
voi col sapone non vi siete mai lavati.

Durante la performance, inalbera un boccale di birra ancora colmo. Le cronache non specificano se si tratta del primo, del secondo o del tredicesimo. Ripreso in video e rimproverato anche dalle destre per la scarsa efficacia elettorale di quell’inno alla gioia, si difende dichiarando che era «solo un coro da stadio».
Stazione di Bicske, presso Budapest, 4 settembre 2015. Foto: Matt Cardy/Getty Images.

Cinque anni dopo, il Salvini prende il treno sbagliato e invece che a Pontida o Gazzada scende a Napoli per un comizio. I napoletani, evidentemente, non puzzano più – almeno nei seggi elettorali dotati di gabinetto e sapone. Ma molti di loro hanno buona memoria. Gli gridano: «Vattene, buffone, lavati con il fuoco.» Costretto a rinunciare al sermone, promette che tornerà. Forse è convinto che la Padania possa estendersi dal Po al Fortore, all’Ofanto, al Simeto. Fluviale è l’ambizione di questi gran figli di Padania, e del Salvini in particolare.

Nel 2013, eletto segretario della Lega Nord, con il garbo e la “statura di statista” che lo contraddistinguono, scrive sul suo giornale di partito: «A livello internazionale la priorità è sgretolare questo euro e rifondare questa Europa. Sì, quindi, alle alleanze anche con gli unici che non sono europirla: i francesi della Le Pen, gli olandesi di Wilders, gli austriaci di Mölzer, i finlandesi… insomma, con quelli dell’Europa delle patrie.» Una vera europerla.

Cerca consensi e voti su tutto il suolo nazionale, il Salvini, e al tempo stesso auspica un referendum in Lombardia per chiedere l’indipendenza della regione dalla Repubblica italiana. Come dargli torto? Non ha senso accusare di incoerenza i politici di un paese incoerente. Se una democrazia come la nostra ritiene legittima l’eleggibilità dei suoi nemici, non puoi lamentarti né dell’ideologia né dei comportamenti di costoro.

Oggi, insieme al Grillo che sul tema dei migranti fa ancora più casino di lui, il S. è uno dei più agguerriti urlatori contro i poveracci sui barconi. Nell’ottobre 2014 Milano, metropoli civilissima nonostante tutto, ha visto sfilare per le sue strade uno smisurato corteo anti-immigrati promosso dalla Lega, con la partecipazione degli angioletti di Casapound. Del resto, i sedicenti padani si sono sempre distinti, fin dagli esordi, per il loro amore nei confronti dello straniero. In un manifesto della Lega Padana, una delle tante costole del movimento originale, si vedevano musulmani in preghiera sotto la scritta «Adesso basta! Fuori dalle balle!»
Idomene, Grecia, 4 settembre 2015. Distribuzione di acqua da parte di organizzazioni umanitarie ai migranti in transito dalla Grecia alla Macedonia. Foto: Sakis Mitrolidis/AFP.

5 settembre 2015. Su Facebook, il Salvini posta: «Applausi e canti dei tedeschi all’arrivo degli immigrati a Monaco. Siamo su “Scherzi a parte”. Vengano in stazione a Milano, a Roma, a Bologna o a Torino. E poi vediamo se applaudono e cantano...» Questa minaccia ottiene in ventidue ore 24.025 «mi piace» e 1.189 condivisioni: immagino che nelle ore successive queste cifre aumenteranno in modo considerevole.

Ed è proprio la vastità dei consensi (uno o due sarebbero già troppi) di cui gode il Salvini – 1.079.856 fan sulla sua pagina Facebook – a riempirmi, se non di stupore, almeno di veleno. Non posso non riconoscere che è un animale di successo. Nota amara: più sragioni come lui, più piaci alle turbe. Persino in Campania la Lega Nord è riuscita ad azzeccare uno 0,66% alle regionali del 2014, raddoppiando il bottino delle politiche dell’anno precedente. Piccoli numeri, d’accordo: ma immensamente abusivi, per un movimento nordista che offende sistematicamente i “terroni”.

P.B.



[1]Wikipedia riporta varie fonti a sostegno di questa dichiarazione.

Zoom art

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Rómulo Celdrán, Zoom XXIX, matita e acrilico su cartoncino, 2013.


Il mondo fuori scala

Nella città mentale del sogno e della fantasia, c’è un laboratorio di effetti speciali dedicato alla deformazione visiva del mondo. Un luogo in cui la realtà si dilata e si riduce a piacere, creando illusionismi, paradossi, allegorie e metafore. È il regno di Alice e di Gulliver, del genio della lampada e di Claes Oldenburg: ma anche di tutti noi, perché da bambini vediamo tutto più grande di com’è e la vita ci appare smisurata. Che si tratti di fotografia, cinema, letteratura o gioco di specchi, ingrandimenti e miniaturizzazioni non cessano mai di affascinare e stupire: vuoi per il colpo di scena buffo e inaspettato, vuoi perché lo straniamento delle forme, anche quando a mutare è solo la dimensione, accende valenze e significati nuovi, diversi da quelli del modello d’origine. Sconcerto, incubo e ironia sono gli effetti più immediati di queste fughe dalla norma metrica. Il cinema horror ne ha fatto, con i suoi King Kong, Godzilla e derivati, un filone di successo, coniugando emozioni opposte come lo spavento e lo spasso. La pop art, giocando anche con la decontestualizzazione, ha elaborato una visione caricaturale della civiltà dei consumi e della cultura popolare. La dilatazione e il ridimensionamento delle cose sono artifici che non appartengono solo al mondo della favola, ma anche a quello della critica, della satira, della riflessione sulla relatività del visibile e sulla polisemia dei simboli.

Tra gli artisti di nuova generazione c’è uno spagnolo, Rómulo Celdrán, che ha fatto della macrovisione la sua personale poetica. Tema dominante delle sue sculture e della sua opera grafica è il survoltaggio visivo di comuni presenze quotidiane che vanno dal fumo di sigaretta al guscio rotto d’un uovo, dai tappi a corona alle mollette da bucato (già gratificate da Oldenburg con una scultura d’acciaio a Filadelfia, alta 14 metri). Una gigantesca borsa dell’acqua calda in poliuretano, feltro e resina epossidica, adagiabile contro il muro, assume una vaga postura antropomorfa, come di persona avvilita e depressa. Le mollette di diverso colore attaccate l’una all’altra suggeriscono l’idea di una catena di solidarietà. Il notevole divario tra l’ordinarietà degli oggetti e la loro rappresentazione ipertrofica ne promuove di colpo l’umile funzione a una sfera superiore, dove l’ironia si confonde col sacro, il concreto con l’astratto, la consuetudine con la meditazione. Ma l’arte esige la libera interazione di chi osserva, e ai lavori di Celdrán – tanto espliciti nella forma quanto obliqui nel messaggio – la regola si adatta alla lettera.



Celdrán con alcune delle sue sculture.

Nei lavori su cartoncino, Celdrán si concentra su oggetti e dettagli di oggetti in bianco e nero (rocchetti di filo, blister usati, lampadine, fette di limone, residui di temperamatite, etc.) disegnati con minuzioso iperrealismo, contro sfondi grigi o neri che ne esaltano la tridimensionalità.

Celdrán in mostra alla Gagliardi e Domke di Torino

Con una mostra di Celdrán riapre il 24 settembre la galleria Gagliardi Art System di Torino, rinnovata nell’assetto sociale e rinominata Gagliardi e Domke. Alla personalità del fondatore Pietro Gagliardi si aggiunge quella del tedesco Christian Domke: insieme proseguiranno nell’attività di ricerca e promozione di artisti di talento. La galleria rimane all’indirizzo di via Cervino 16, negli spazi dell’ex
 Sicme, dove sorgevano le acciaierie di proprietà della Fiat; si tratta di un’area industriale oggi al centro di un ampio progetto di riqualificazione urbana, che trova conferma anche dall’insediamento nelle vicinanze del MEF, Museo Ettore Fico. Lo spazio di Gagliardi e Domke si estende su una superficie di 700 mq e comprende magazzini e aree espositive; quando necessario, si trasforma in area produttiva. L’intervento di recupero architettonico si integra perfettamente con la struttura preesistente caratterizzata da ampi volumi e grandi superfici vetrate.

La mostra dedicata a Rómulo Celdrán è intitolata Macro.Zoom e documenta una parte della produzione pittorica dell’artista, consistente in una serie di realizzazioni in matita e acrilico il cui iperrealismo simula la fotografia. Consultare il sito della galleria per maggiori informazioni.

P.B.

Ciao, Sciuscià

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Ciao, Sciuscià

Non è mai stato un divo da copertina, Franco Interlenghi, ma fra gli attori italiani era uno dei miei preferiti. Misurato, affidabile, antistar: così appariva sugli schermi e così me lo figuro dal vero. Anche ai registi ispirava fiducia, a giudicare dalla sua sterminata filmografia che comincia nel 1946 con Sciuscià(indimenticabile il suo volto di quindicenne nel capolavoro di De Sica) e si conclude nel 2010 con La bella società di Gian Paolo Cugno. Quasi sempre in ruoli da comprimario o secondari, ma alcuni sono rimasti bene impressi nella memoria, come il Moraldo de I vitelloni (Fellini, 1953). La sua presenza ha accompagnato quelli della mia generazione dal dopoguerra in poi, e molti – da giovani – devono essersi identificati nei suoi personaggi: mi sono sentito un po’ come Moraldo quando, come lui, ho preso il treno per andarmene altrove, e un po’ come il partner di Brigitte Bardot quando, dalla platea, ho preso una cotta per lei, e l’ho invidiato mentre l’abbracciava ne La ragazza del peccato. Anche Antonella Lualdi, che sposò nel 1955, era una mia beniamina: stavano bene insieme, belli tutti e due, e dall’aria molto familiare, come se fossero la coppia della porta accanto.

Sciuscià, poi, era un nostro eroe di gioventù. Il film ispirò storie a fumetti dallo stesso titolo, con fascicoli formato striscia, a partire dal 1949. Ne fui un avido lettore, dagli otto ai dodici anni. Sciuscià diventò, insieme al Piccolo sceriffo, la mia proiezione nel mondo dell’avventura.


Proprio perché Interlenghi non è mai stato un divo, nei ruoli giovanili ha preso per mano gli spettatori suoi coetanei (o giù di lì) e li ha portati di peso dentro lo schermo, facendoli sentire parte della vicenda. Eravamo nei suoi panni. A vent’anni non era facile sentirci in quelli di un Sordi o di un Nazzari: troppo caratterizzato il primo, troppo babbo l’altro. Interlenghi ci impersonava, era uno di noi. Poi siamo cresciuti troppo, e lui è morto.

P.B.

Estetica della memoria

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Jacques-Louis David, Morte di Marat, 1793. Bruxelles, Musées Royaux de Beaux-Arts.


Estetica della memoria

La memoria è il più efficace dei cosmetici. Si prende cura del passato, lo idrata e tonifica con creme miracolose, lo acconcia e lo infiora in modo da renderne meno indecente l’aspetto. Rimuove cisti e incrostazioni immeritevoli di nostalgia, ripulisce, sterilizza, deodora a dovere i momenti importuni, anestetizza dolori e delusioni, risciacqua frustrazioni, igienizza il salvabile rendendolo vivo e luminoso come l’argenteria strofinata col bicarbonato. Centrifuga milioni di esperienze, ne espelle la maggior parte, sublima il volto della malinconia esaltandone il biancore pensoso e un po’ madonnesco. Tutto ciò che sembrava perduto, o semplicemente tetro e insolente, si rinnova e commuove come un autunno nel Vermont. Il passato, soprattutto se remoto, diventa più giovane e fresco di qualsiasi futuro.

Il trattamento funziona più nella sfera individuale che in quella collettiva, che chiamiamo “storia”. Ma ci sono eccezioni su entrambi i versanti. La memoria personale è un beauty salon che non sempre funziona in modo ottimale: Freud ne sapeva qualcosa. Certi traumi lasciano tracce persistenti, bisognose di interventi drastici. La storia, invece, presenta ferite di due tipi: le recenti sono irrimarginabili, le più antiche si lasciano depurare che è un piacere. Era buono o cattivo, Giulio Cesare? Chi se ne frega. E Napoleone? Cazzi suoi. Ma Hitler e Mussolini è come se fossero ancora vivi. Possono trovare estetisti efficienti solo nelle file dei loro simpatizzanti. Passeranno altri cent’anni prima di sfumare nell’opacità dell’indifferenza.

Per quanto instabile e manipolabile, il passato – personale o universale che sia – deve però fare i conti con un controllore severo: i documenti, quando esistono. La memoria di una giovinezza meravigliosa e seducente può essere smentita da una banale istantanea. Allo stesso modo, chi osi negare la verità di un genocidio avvenuto l’altro ieri inciamperà in una congerie di prove documentali e testimonianze tali da chiarire la differenza tra i fatti e le opinioni.

Dio non concede interviste

I documenti svolgono un ruolo decisivo nell’ordine mentale dei razionalisti: sono le proteine della storiografia. A volte sono attendibili ed esaurienti, a volte no. A volte sono puri, a volte manipolati, a volte complicati da opinioni e interpretazioni che ne influenzano la portata. La Bibbia, per esempio, è considerata documento inconfutabile solo dai credenti più tenaci; per gli altri è semplicemente un insieme di narrazioni popolari messe per iscritto a posteriori e tramandate ai posteri. Se nell’Eden c’erano solo Adamo ed Eva, dobbiamo arguirne che non c’erano né cronisti né fotoreporter né altri testimoni in grado di raccontarci cosa e come è successo da quelle parti. Quanto a Dio, è notorio che non concede interviste.

Questo per dire che esistono anche memorie non suffragate da documenti: la lacuna, per quanto grave secondo gli standard più severi, le irrobustisce anziché demolirle. È un paradosso immenso, il più potente che l’umanità abbia mai concepito. L’uomo sembra preferire le convinzioni condivise all’accertamento dei fatti. È fiero di aver inventato la scrittura, il disegno, la registrazione, i giornali, la fotografia, il cinema e la televisione; ma al bivio tra sentimento e ragione, propende istintivamente per il primo. All’evidenza antepone le idee: ciascuno le sue; la storia di sé e la storia del mondo passano attraverso un caleidoscopio di filtri personali o epocali, generando visioni diverse e talvolta incompatibili dello stesso fenomeno.

Alcuni vorrebbero essere romantici e illuministi in pari misura e sognano l’equilibrio perfetto tra sogno e realtà, illusione e scienza. Ma sono anch’essi preda di memorie voraci e ballerine: il tempo che passa offusca e inaridisce anche la più fedele e didascalica delle documentazioni, la seppellisce nel buio di archivi frequentati solo dagli studiosi più ostinati. Di buono c’è che sui libri, e non solo, si trova ormai di tutto, o quasi; non tutti sono infallibili, ma se sul medesimo evento si danno versioni divergenti c’è sempre spazio e sostanza per confronti e rielaborazioni.
François Gérard, Napoleone sul campo di battaglia di Austerlitz, 1805. Reggia di Versailles, Galleria delle battaglie. (Versione digitale prodotta dall’Agence photographique de la Réunion des musées nationaux).

La storia e le immagini

La stele di Rosetta mette insieme parole che sembrano immagini, ed è essa stessa un’immagine. Le figure sono sempre state un potente coadiutore della memoria, ben prima dell’avvento della fotografia. Le arti, l’artigianato, l’architettura testimoniano, quanto e più della scrittura, l’evoluzione delle civiltà. L’odierna proliferazione di immagini, tuttavia, insospettisce molti teorici della comunicazione, critici d’arte e investigatori dell’etica. In talune occasioni, il fotoreportage è ritenuto più scandaloso del suo contenuto: è successo anche di recente con la foto di Alan Kurdi, il piccolo profugo di Kobane annegato e ritrovato su una spiaggia di Bodrum, in Turchia. La rappresentazione del reale sconvolge emotivamente più di quanto sconvolga un rapporto scritto o addirittura la stessa verità rappresentata: difficile decidere se e quando far tacere l’immagine, perché il male non si riduca a morboso oggetto di contemplazione.

Arte, fotografia, architettura e letteratura sono il lievito della memoria nonché i clienti più sexy del suo laboratorio. Raccontano la storia e le storie d’ogni tempo in modo attraente, secondo codici estetici d’autore. Un conto è leggere il verbale di polizia sull’assassinio di una vecchietta, un conto è leggere Delitto e castigo. Quale dei due testi rende in modo più realistico e appropriato il movente, le modalità, l’atrocità dell’episodio? Quello di Dostoevskij, diremmo d’impulso; ma un romanzo è pur sempre un romanzo, un’opera d’arte, un parto d’autore – anche se d’un autore che, in quanto ipersensibile alla storia e all’osservazione della società del suo paese, ha tutto il diritto di stare “sul banco dei testimoni”.
Cesare Maccari, Cicerone denuncia Catilina in Senato, affresco, 1880. Roma, Palazzo Madama.

I libri usano la lingua delle parole, mentre i manufatti e le icone parlano la lingua dello sguardo, che è quella dell’immediatezza. Le figure dicono di più o di meno di un libro o di un articolo di giornale? La concezione estetica di un pittore o di un fotografo avvalora il dato informativo o lo abbellisce soltanto? Che cosa ci commuove in Guernica: la guerra civile spagnola o il talento incommensarabile di Picasso? Che cosa racconta quel dipinto ai ragazzi delle medie: l’incursione della Luftwaffe e dell’aviazione legionaria fascista italiana o semplicemente l’orrore della guerra – qualsiasi guerra? Quando un fotoreporter guarda nel mirino e decide l’inquadratura, di fatto sta applicando un effetto speciale di natura estetica al reportage. Giusto o sbagliato? Direi che sbagliato non è, ciò che conta è il piccolo Alan morto in riva al mare, l’inquadratura è “bella” è funzionale al tempo stesso (a proposito: la fotografa, turca, si chiama Nilüfer Demir e lavora per la Doğan News Agency). Quella foto avrà un senso anche a distanza di secoli dalla data e dalle circostanze dello scatto, perché riproduce l’orrore della morte infantile, un tabù che si spera universale e senza tempo. Nel frattempo, per altre ragioni legate soprattutto all’evoluzione delle tecnologie che consentono di manipolare a piacere le immagini, organizzazioni prestigiose come World Press Photo e Visa pour l’Image si stanno interrogando sull’etica del fotogiornalismo e molti sono gli operatori che auspicano la compilazione di regole precise e di un codice deontologico aggiornato.

L’arroganza dell’oblio

Nemico giurato della memoria, l’oblio rivendica da anni l’importanza del suo ruolo – liberatorio o narcotizzante, decidete voi – e aspira alla supremazia assoluta, assistito da sistemi politici che hanno tutto l’interesse a far dimenticare le bugie e le malefatte del passato per poterle replicare a piacimento. Anche qui un paradosso notevole: larghe fasce del genere umano si mostrano refrattarie agli insegnamenti dell’ex “maestra di vita” proprio nell’epoca della massima proliferazione e disponibilità di informazioni. Il www trabocca di memorie a portata di mano e a portata di tutti, ma di quelle memorie ciò che interessa è un’estetica pura e muta, come pure e mute risultano le ricorrenti indulgenze al revival e al vintage. Il passato è un pantalone a zampa d’elefante: largo ai piedi, le parti più lontane dal cuore e dal cervello, si restringe man mano che si avvicina alle nostre zone più sensibili. La storia, anche recente, è un album di immagini curiose, una consunta collezione di indizi color seppia.

A proposito di colori. Uno studente di lettere e filosofia, al quale avevo mostrato un cinegiornale propagandistico dei primi anni sessanta realizzato dalla Fiat per il lancio d’una nuova autovettura, desunse senza esitazioni che il documento risaliva al ventennio fascista. Gli feci notare che il filmato era a colori, dunque di gran lunga successivo; per non dire della presenza di Vittorio Gassman, dello stile della vettura e di centinaia di altre informazioni recepibili dal contesto visivo e narrativo. Non era un tonto: era semplicemente pervaso da oblio generazionale, una sottospecie dell’oppio. E forse era stato tratto in inganno da qualche film a colori ambientato negli anni del fascismo. Le informazioni di cui disponeva si erano miscelate nella sua mente e riorganizzate in modo destrutturato: l’intero ventesimo secolo confluiva nello stesso imbuto o, peggio, nello stesso tritacarne, rendendo irriconoscibile la singolarità dei suoi ingredienti.
Venezia, Biennale d’Arte, 2015. Peter Friedl ha esposto Rehousing, serie di modellini architettonici realizzati tra il 2012 e il 2014. Il titolo si riferisce a un progetto statunitense per il rialloggio dei senzatetto, ma i modelli miniaturizzati rappresentano edifici politicamente allusivi come la residenza privata di Ho Chi Minh, una baracca americana per schiavi dell’Ottocento, il capanno del filosofo Martin Heidegger nella Foresta Nera, etc.

Peter Friedl, artista e teorico austriaco attivo a Berlino, è una figura di spicco dell’arte concettuale contemporanea. Ex critico teatrale, è interessato alla meccanica delle relazioni intercorrenti fra arte, storia e politica. Anselm Franke, critico e curatore di importanti rassegne che lo ha intervistato nel 2010 per Mousse magazine, ha sintetizzato con chiarezza il pensiero di Friedl: «Nel suo rapporto con l’arte, la storia è stata spesso appiattita a un repertorio iconografico da cui attingere acriticamente, un approccio che premia la fascinazione dell’immagine rispetto ad un confronto (problematico) con il suo portato politico. Questo procedimento di standardizzazione per immagini emblematiche è, per Peter Friedl, il punto di partenza su cui operare una confutazione e ri-scrittura estetica.»[1]Friedl si mostra scettico sulla capacità dell’immagine di continuare, senza il corredo e il sostegno di un testo, a comunicare adeguatamente la storia: «[...] sono convinto che l’arte sia un modello in esaurimento. Mi sento molto più vicino ad artisti che erano connessi organicamente alla storia, che conoscevano l’origine e le mutazioni di una certa forma di rappresentazione. Lo stesso valeva per i grandi registi. Ma nel frattempo l’orizzontalità e la proliferazione delle immagini hanno posto fine a tutto ciò.»[2]Non è il solo, probabilmente, a pensare che l’esorbitanza delle immagini nel mondo attuale e le relative modalità di consumo abbiano fiaccato irrimediabilmente il significato della creazione artistica, almeno per come l’abbiamo concepita fino a ieri.
Venezia, Biennale d’Arte, 2015. Dettaglio di Urban requiem,installazione di Barthélémy Toguo, artista del Camerun che vive a Parigi. Giganteschi timbri di legno e gomma ricordano busti umani sistemati come teste tagliate su scaffali triangolari. Per le sue sculture, Toguo usa la sega elettrica. 

Tutto ciò è condivisibile, soprattutto da quando i linguaggi dell’arte si sono fatti infinitamente meno descrittivi, più sottilmente allusivi che in passato. Scomparse o ridottesi le suggestioni visive di presa immediata, il visitatore di gallerie, mostre e manifestazioni è costretto a integrare la visione con la lettura o l’ascolto di testi esplicativi. L’artista di oggi sembra rivolgersi più alla mente che al cuore del grande pubblico, e forse è giusto così. Il nuovo rapporto fra opera e fruitore implica alcune conseguenze sulla percezione media del panorama artistico. A torto o a ragione si è indotti a pensare che le installazioni, per esempio, non siano fatte per durare nei secoli (come gli affreschi di Giotto o Guernica di Picasso, per intenderci), ma restino confinate nell’attualità, dedicate ai contemporanei più che ai posteri. Ciò non toglie che l’arte sappia ancora sorprendere con interventi sul reale illuminanti e intensamente provocatori. Come mutanti sempre più a corto di memoria useremo sguardi diversi per le opere del passato e del presente: lasciandoci sedurre dal pathos e dall’aura delle prime, e dalla momentanea energia didattica delle nuove.

© Pasquale Barbella

Venezia, Biennale d’Arte 2015. Out of bounds, monumentale installazione di sacchi di juta lungo le pareti del Troncone dell’Arsenale. Autore il ventottenne ghanense Ibrahim Mahama. Leggere descrizione e commento sul sito di Abitare



[1]L’intervista è leggibile qui.
[2]Ibidem.

Lemon

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Lemon


This diesel Volkswagen missed the boat.

The electronic defeat device isn’t able to cheat U.S. emission controls and must be replaced. Chances are you wouldn’t have noticed it. Inspector Kurt Kroner did.

There are 50,213 professional liars at our Wolfsburg factory and other 119 plants throughout Europe with only one job: to inspect Volkswagens at each stage of production. (41,000 Volkswagens are produced every weekday; there are more liars than cars).

Every device is scanned, every reaction to American checkpoints is tested.

VWs have been rejected for being just as legal as chickens expect.

Final inspection is really something! VW inspectors run each car off the line onto the Fuckingprüfstand, tote up 189 check points, gun ahead to the automatic lie detector, and say “no” to one diesel VW out of fifty.

This preoccupation with detail means the VW fucks laws better than any other car. (It also means a used VW depreciates less than environment.)

We pluck the lemons; you get the plums.


This ad is a spoof. Thanks for laughing. And crying, too.




Il libro di Adelmo

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Il libro di Adelmo

Il medico gli aveva prescritto i soliti esami del sangue e delle urine. Adelmo portò con sé il barattolo con la prima pipì del mattino, e anche un libro salvifico, temendo di trovare l’ambulatorio affollato e di dover attendere a lungo il suo turno. Fuori piovigginava, ma promise a sé stesso di non innervosirsi né per il cielo scuro, né per la levata precoce, né per il caffè mancato (bisognava presentarsi a digiun0). Come aveva previsto, lo stanzone era pieno di gente. Staccò coscienziosamente il biglietto col numero 38, notando con disappunto che allo sportello erano ancora fermi al numero 4. Puntò sull’unica sedia rimasta libera e aprì il libro a pagina 102, immergendosi nella lettura.

Nemmeno in quella occasione Lydia gli risparmiò le sue frecciatine. Mentre procedevano lentamente a metà del corteo, non mancò di fargli notare quanto inappropriata fosse la sua cravatta rossa al funerale di un anticomunista. Robi sapeva benissimo che lei non era interessata né al suo abbigliamento né alle idee politiche dei defunti. Era ormai fin troppo chiaro che Lydia aveva intrapreso, nei suoi confronti, una strategia fatta di piccoli passi ostili. Il conflitto non era ancora esploso in modo plateale, ma...

Una delle persone in attesa, una donna di quarant’anni o poco più, lo distrasse dalla lettura. Si era messa a parlare al cellulare con un certo Federico, a voce alta. Il timbro era perentorio e sgradevole. La voce copriva ogni altra voce, ogni altro rumore. «Chiamali subito e fatti fare un preventivo. Aspetta, ho qui il numero. Ce l’hai una matita a portata di mano?». La donna cercò qualcosa nella borsetta, poi gli dettò tre volte di seguito un numero di telefono alzando ancora di più il tono di voce, come se l’interlocutore fosse sordo o la comunicazione fosse disturbata. Adelmo sperò che la telefonata fosse giunta al termine, e riprese a leggere.

Il conflitto non era ancora esploso in modo plateale, ma prima o poi quelle provocazioni avrebbero allargato la frattura e minato irrimediabilmente la pace d’una volta. Robi si era interrogato a lungo sulle ragioni di quella crepa nel loro rapporto. Aveva analizzato fino allo stremo i propri gesti, le proprie parole, i propri atteggiamenti e comportamenti, per individuare la causa di quel declino sentimentale. Aveva deciso, infine, di essere innocente. La ragione dell’incrinatura doveva...

La telefonata non era affatto finita. «Te l’ho già detto, è meglio che li chiami tu. Qui ne avrò almeno per un’altra mezz’ora, e sono già in ritardo perché ho chiesto solo un permesso fino alle dieci. E poi, lo sai che quelli si sono legati al dito la storia dell’anno scorso e, appena mi sentono parlare, si irrigidiscono e sono capaci di sparare una cifra più alta solo per togliermi di torno. Sono degli stronzi, dovresti saperlo. Vedi di non farti fregare: chiedigli qualcosa di scritto, fattelo mandare via mail. Come? No e poi no! Nel caso, fai così: comincia col dirgli che non ce ne frega niente del forfait, ci serve un preventivo articolato. Devono specificare il costo della manodopera, non solo il totale ma anche la tariffa oraria, e se ti dicono che ci vogliono tre operai spiegagli che ne bastano due e che...»

La ragione dell’incrinatura doveva essere esterna. Robi stava considerando con inquietudine questa possibilità. Avrebbe preferito essere in torto: scoprire in cosa avesse sbagliato, chiederle scusa se necessario, cambiare condotta. Forse era tardi. Si concentrò sul feretro che li precedeva, sullo scalpiccio dei parenti e dei conoscenti del morto, sulla tetraggine di quella giornata così imprevista e così inutile. Si sforzò di spostare l’attenzione dalla gravità dei pensieri alla grazia, un po’ fatua, delle aiuole che costeggiavano la pista ciclabile...

«No, Federico, non esiste. Non esiste che ci mettiamo a cercare un altro fornitore. Il lavoro va bene come l’hanno fatto l’altra volta, non è questo il punto. È che non sono chiari con i soldi. Quello è il problema numero uno. Poi c’è il problema numero due: non possono dire che vengono domani e poi si fanno vivi tra una settimana...»

...alla grazia, un po’ fatua, delle aiuole che costeggiavano la pista ciclabile...

Adelmo notò che in tutta la sala d’attesa serpeggiava il suo stesso malcontento. Era come sui treni, quando c’è il solito tizio dalla voce stridula che si attarda, al cellulare, in conversazioni senza fine, preferibilmente polemiche, sciupandoti la quiete del dormiveglia, il panorama dal finestrino, o il lavoro che stai facendo al computer.

Quei fiori gli ricordavano il periodo in cui non erano ancora sposati, le passeggiate al parco, le comuni speranze di una vita insieme, piena di luce e di trasparenza. Che fine avevano fatto quelle illusioni da romanzetto? Guardando davanti a sé riusciva ogni tanto a inquadrare, seminascoste dalla prima metà del corteo, la nuca e le spalle della vedova, scosse da fremiti di pianto mal trattenuti. A una curva socchiuse gli occhi investiti da un potente raggio di sole. Si lasciò andare, quasi con piacere, a una fantasia da adolescente. Adesso era lui in quella bara, elegante e immobile, con le mani compostamente congiunte sul petto; e in quella posizione cercava di indovinare l’espressione di Lydia, la “sua” vedova. Era infelice, piegata da rimpianti e rimorsi? O finalmente appagata, vittoriosa, libera e sola come le protagoniste di certe canzoni?

«Federico, stammi bene a sentire. Tira fuori le palle, perdio. Quelli ci hanno preso per una banca. Non è il caso di subire: questa volta le condizioni le dettiamo noi. Te lo ricordi quando, a Lugano, il tabaccaio voleva fare il furbo sul cambio da franchi a euro? Ecco – stiamo in un mondo di ladri, aveva ragione il cantante, persino in Svizzera, figuriamoci in Italia...»

Poi, come per gioco, nel film mentale di Robi ci furono uno stacco e un cambio di scena. Adesso nella bara c’era Lydia, e lui stava in testa al corteo, ostentando con fierezza la sua vedovanza. Tutti lo avrebbero poi abbracciato e baciato sulle guance, idolo per un giorno, superstar di uno show di dolore collettivo e gratificante. Anche coloro che non provavano sentimenti autentici per lui, persino i suoi nemici, avrebbero finto costernazione e solidarietà.

«Nossignore, allora non ci siamo capiti. Federico, te lo ripeto...»

Anche coloro che non provavano sentimenti autentici per lui, persino i suoi nemici, avrebbero finto costernazione e solidarietà.

Allo sportello chiamavano il 12. Adelmo chiuse il libro di scatto, si alzò e uscì nel parcheggio, all’aria aperta, come se quella voce al telefono gli togliesse il respiro. Fremeva di purissimo, immacolato odio. La tettoia era così esigua da non poterlo proteggere del tutto dalla pioggia sottile. Non era il caso di continuare a leggere nella scomodità di quella condizione. Preferì accendersi una sigaretta, chiedendosi – senza preoccuparsene troppo – se il fumo avrebbe compromesso i risultati del test per il quale era andato in quell’inferno (sì, nella mente gli girava proprio quella parola, inferno). Aspirò qualche boccata e si tranquillizzò un poco. Dopotutto quel libro non era un granché. Forse non lo avrebbe neanche finito: i libri che lo deludevano, o lo annoiavano, li lasciava a metà. Ma non gli sarebbe dispiaciuto un colpo di scena. «Se almeno Robi ammazzasse Lydia, forse leggerei fino all’ultima pagina», pensò con un sorriso a fior di labbra.

Rientrò di colpo, senza pensarci, con l’impulso di affrontare duramente la sconosciuta del telefono e farla tacere, con le buone o con le cattive. Ma la donna non era più al suo posto. Probabilmente era uscita dalla porta principale, oppure era arrivata al suo turno e si era trasferita nella stanza delle analisi. L’atmosfera generale, però, era persino peggiorata. Adesso c’era un’altra che teneva banco, senza telefono: un’anziana dai capelli ossigenati, indignata contro qualcuno che aveva osato offendere sua figlia. Adelmo le si accostò e, con voce dura e aguzza come un coltello da cucina, le chiese cosa avesse da protestare. Si sentì dire che avevano preso a male parole sua figlia solo perché stava usando il telefono per una questione importante. «Era ora», rispose Adelmo, ormai in preda a irrefrenabili istinti di guerra. «Volevo essere io a sbatterla fuori, ma qualcuno mi ha preceduto.»

Robi non uccide Lydia. Che peccato.

© Pasquale Barbella



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