A diciotto anni, dopo lo scoppio della guerra, si arruolò per un anno nell’arsenale di Charleston, come mozzo, a lucidare ottoni. –– Francis Scott Fitzgerald, Il fannullone[1]
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Charleston, South Carolina. Il New Cooper River Bridge visto dal Waterfront Park. Foto: Steve Grundy. |
Charleston
Charleston, la città portuale del South Carolina dove un razzista ha ucciso in chiesa nove afroamericani il 17 giugno 2015, è famosa per almeno due motivi. Ebbe un ruolo primario nello scoppio della Guerra di secessione, perché le guarnigioni locali scatenarono subito un’offensiva militare contro il fortino unionista presente nel porto. Il secondo motivo è musicale: ha dato il nome al ballo che andò tanto di moda negli “anni ruggenti”. Non solo: nel porto di Charleston è ambientata la vicenda di Porgy and Bess, scritta da un romanziere del luogo, DuBose Heyward, e poi musicata da Gershwin.
Affacciata sull’Atlantico, la città, meta turistica molto apprezzata dagli americani, conta all’incirca 130.000 abitanti. Un quarto della popolazione ha origini africane. Il centro storico, miracolosamente risparmiato dal perfido uragano Hugo del 1989, è raccolto su una penisoletta formata dai fiumi Ashley e Cooper. Lo stragista della chiesa ha inferto un brutto colpo all’immagine moderna di questa ridente Holy City[2], amministrata fin dal 1877 – senza interruzioni – da leader democratici e apprezzata per la vivacità della scena culturale. Gian Carlo Menotti vi ha istituito, nel 1977, un American Spoleto Festival equivalente, per contenuti d’avanguardia, al modello italiano.
A ritmo di charleston
I neri di Charleston hanno contribuito non poco alla definizione del background culturale della musica d’America. E la musica è quanto di meno razzista esista al mondo, specialmente in un paese fondato sulla molteplicità etnica. Le tradizioni dei gullah, discendenti dagli schiavi delle piantagioni del South Carolina e della Georgia, hanno avuto profonda influenza sulle origini del jazz. Musiche e ritmi che scandivano le fatiche degli scaricatori di porto di Charleston ispirarono al pianista nero Eubie Blake, già nel 1899, Charleston rag, composizione non meno anticipatrice di quelle di Scott Joplin, pubblicata però solo nel 1915. La febbre del charleston iniziò invece con l’omonimo brano pianistico di James P. Johnson, composto nel 1913. Dieci anni dopo, il Charleston di Johnson – con parole aggiunte da Cecil Mack – arrivò sui palcoscenici di Broadway, nella rivista all-black Runnin’ wild di Flournoy Miller e Aubrey Lyles.
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James P. Johnson (1894-1955), pioniere – con Jelly Roll Morton – del pianismo stride. Nel 1913 compose Charleston, il brano all’origine del popolare ballo in voga negli anni venti del secolo scorso. |
Affermato compositore ed esecutore di ragtime, Johnson fu l’iniziatore del pianismo stride e si distinse, tra l’altro, come accompagnatore di Bessie Smith in varie registrazioni per la Columbia. All’inizio, Charlestonè solo una delle tante composizioni di ragtime e il titolo nasce come omaggio alla città del South Carolina. A New York, Johnson usava suonarla alle feste da ballo dei portuali immigrati da quello stato. L’arrangiamento del 1923 in Runnin’ wild e l’esuberante performance di Elisabeth Welch, coreografata da Willie Covan, fanno di Charleston il virus scatenante di una moda prima americana, poi internazionale. Welch incide il motivo accompagnata da Paul Whiteman e la sua orchestra.
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Elisabeth Welch (1904-2003) lanciò il charleston in una rivista di Broadway, Runnin’ wild, nel 1923. Questo ritratto, eseguito dal grande fotografo di celebrità Carl Van Vechten, risale al 1933. |
Subito dopo la prima guerra mondiale, negli Stati Uniti si diffonde una gran voglia di feste danzanti e ritmi sincopati. Il ragtime fornisce la materia prima a una serie di derivazioni atte a scatenare le orchestre da ballo, le dive del vaudeville e i muscoli della nazione. Piace la musica che impegna atleticamente le spalle, il bacino e le articolazioni con bruschi scuotimenti e torsioni, serpeggiamenti e giravolte, scatti e sobbalzi, oscillazioni e dondolii. Nel 1918 esplode la moda dello shimmy, partita da un caffè di Chicago frequentato da gente di colore e rimbalzata nei teatri di Broadway. Gilda Gray si agita a tempo di shimmy al Winter Garden su un arrangiamento di St. Louis blues, e più tardi fa impazzire gli spettatori del varietà The Ziegfeld Follies of 1922 con la sfrenata esibizione in un pezzo intitolato It’s getting dark on old Broadway. La bomba erotica Mae West si dà da fare in un’operetta di Rudolf Friml, Sometime, e la sua immagine compare sullo spartito originale di Everybody shimmies now. Bea Palmer non è da meno e si muove con I want to learn to jazz dance. Ethel Waters, prima di affermarsi come cantante meravigliosa, si fa notare come ballerina di shimmy.
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Dorothy Sebastian, Joan Crawford e Anita Page nel film Le nostre sorelle di danza (Our dancing daughters, 1928) di Harry Beaumont. |
La voga del charleston domina la vita sociale per un triennio. Le cronache del tempo, come ricorda David Ewen in All the years of American popular music[3], riferiscono di ragazzini che lo ballano sui marciapiedi, all’esterno dei teatri, per mendicare spiccioli; di cinquanta morti a Boston nel crollo del Pickwick Club, dovuto alle vibrazioni inferte al pavimento dalla moltitudine scalpitante; di una maratona di charleston alla Roseland ballroom di New York protrattasi per circa ventitré ore consecutive. Allo Small’s Paradise, uno dei club più in vista di Manhattan, i camerieri ballano il charleston tenendo in equilibrio i vassoi. Nel 1925, tra le famiglie bianche altolocate in cerca di personale domestico, si diffonde il vezzo di assumere collaboratori afroamericani capaci di insegnare il nuovo ballo ai padroni. Joan Crawford, neodiva della Metro-Goldwyn-Mayer, balla il charleston in un film muto, Our dancing daughters (1928) di Harry Beaumont.
Era inevitabile l’espansione in Europa di quella moda così elettrica. Josephine Baker ne fa, a Parigi, la nuova attrazione delle Folies-Bergère. Cole Porter, dal canto suo, fa casino sulla Laguna. «A Venezia, nell’estate del 1926, i Porter alloggiavano a Ca’ Rezzonico, ma sentivano la mancanza di qualcosa», scrive William McBrien, uno dei suoi biografi. «Decisero che era il charleston. Allora chiesero a Bricktop {una vedette afroamericana che furoreggiava nei cabaret parigini, ndr} di venire a passare l’estate con loro. Per fortuna era libera nei mesi che i parigini trascorrono en vacances, e per di più non era mai stata a Venezia. I Porter avevano già ingaggiato Leslie Hutchinson per suonare e dirigere l’orchestra da ballo sul proprio battello, e lo trattennero per animare i party estivi. Bricktop aveva già lavorato in precedenza con la sua band, il che costituiva per lei un ulteriore richiamo.»[4] I sollazzi porteriani suscitano l’indignazione di Serge Djagilev, il leggendario impresario e direttore artistico dei Ballets Russes. Al segretario, librettista e amante Boris Kochno scrive in una lettera: «Tutta Venezia è sul piede di guerra contro Cole Porter a causa del suo jazz e dei suoi negri. Ha messo su un demenziale nightclub su un barcone ormeggiato alla Salute, e così adesso per tutto il Canal Grande sciamano proprio quegli stessi negri che ci avevano fatto scappare da Londra e da Parigi. Insegnano a ballare il charleston sulla spiaggia del Lido! È orribile. I gondolieri minacciano di massacrare tutte le vecchie americane di stanza qui. Il solo fatto di aver preso in affitto il Palazzo Rezzonico fa molto nouveaux riches.»[5]
Non solo a Venezia, ma in tutta Italia i «balli negri» spopolano, non senza scorno delle autorità fasciste e degli intellettuali più fedeli alle italiche virtù. Anton Giulio Bragaglia, uomo di teatro e intellettuale dai molti interessi, pone mano alla penna nel 1929, anno VII dell’era fascista, per rivendicare perentoriamente l’urgenza di studi e sperimentazioni sulla creatività musicale e coreografica d’Italia contro il dilagare delle danze esotiche. Il libro (edito da Corbaccio) s’intitola Jazz band e tratta la «ritmica dei negri» con mal dissimulata ammirazione, sfociante qua e là in bordate di livore razzista indegne dell’autore: «L’estetica del Charleston è l’espressione più risoluta d’una dottrina estetica antiellenica, diciamo subito per intenderci. Arditamente piantando i termini d’un gusto nuovo per noi, — diverso, epperò barbaro, come si dice qui da tremil’anni — si capisce che non solo non è un debito per il ballo negro americano, l’essere goffo e animalesco, ma è un carattere, una originalità, una virtù. Quanto più impone il proprio carattere violentemente, tanto più esso è virtuoso. Infatti sembrerà goffo e osceno a noi, ma per colpa della vecchia estetica greca, maestra gelosa, esclusivista, dogmatica. [...] I popoli primitivi si ispirano danzando agli spiriti maligni ed agli animali. Ecco le fondamenta del Charleston. [...] Le frenesie delle epilettiche torsioni di Charleston sanno insieme di ginnastica sessuale e di meccanazione della vita.»
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Copertina dello spartito di una delle canzoni di Porgy and Bess, 1935. |
Porgy and Bess
Porgy and Bessdebutta al Colonial Theatre di Boston il 30 settembre 1935 prima di approdare, dieci giorni dopo, all’Alvin di New York, con la regia di Rouben Mamoulian e l’orchestra diretta da Alexander Smallens. Tra le perle del primo atto: Summertime (Abbie Mitchell nel ruolo di Clara), My man’s gone now (Ruby Elzy nel ruolo di Serena). Nel secondo atto: I got plenty o’ nuttin’ (Todd Duncan nel ruolo di Porgy), Bess, you is my woman now (duetto di Todd Duncan e Anne Brown, ossia Porgy e Bess), It ain’t necessarily so (John Bubbles nel ruolo di Sportin’ Life), I loves you, Porgy (Anne Brown). Nel terzo atto: There’s a boat dat’s leavin’ soon for New York (Anne Brown). L’opera è un adattamento di Porgy, romanzo (1925) di DuBose Heyward, poi dramma teatrale (1927) dello stesso Heyward e di sua moglie Dorothy, ed è un indimenticabile — e inizialmente incompreso — tributo alla negritudine da parte di George Gershwin, ebreo bianco di origine russa.
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Charleston, South Carolina. Il vecchio mercato degli schiavi, costruito nel 1859 e oggi adibito a museo. |
Per Summertime, Gershwin si ispira vagamente all’inciso di St. Louis blues di W.C. Handy. Un altro ebreo bianco, Jerome Kern, aveva eretto otto anni prima — in Show boat— un analogo monumento al pathos afroamericano: Ol’ man river. La musica degli schiavi entrava nel pentagramma dei compositori bianchi, a dimostrare che non può esserci apartheid dove arte, sensibilità e intelligenza regnano sovrane. Porgy and Bessè una vasta miniera di gemme, molte delle quali, a cominciare da Summertime, brilleranno di vita propria, isolate dalle altre, adattandosi flessibilmente agli stili di esecuzione più vari: come se le arie della Turandot o della Butterfly si prestassero, senza opporre resistenza e senza suscitare scalpore fra i critici, ai virtuosismi vocali di una Fitzgerald o strumentali di un Miles Davis. Nelle intenzioni di Gershwin Porgy and Bess è, a tutti gli effetti, un’opera lirica; la differenza sta nelle matrici culturali, che qui si chiamano gospel, spiritual, Broadway e jazz. A chi gli obietta che è solo una suite di canzoni, l’autore replica che la Carmen di Bizet non è poi tanto diversa. Per noi è un magnifico esperimento di musica trasversale, di quelli che possono fiorire in America: paese che, orfano di tradizioni autoctone – quelle che c’erano erano state purtroppo spazzate via dalla violenza del colonialismo più brutale – e di radicate convenzioni estetiche, ha saputo coltivare tutti gli stimoli con entusiasmo e verginità mentale, senza complicazioni e incrostazioni accademiche.
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Fuga di schiavi in una vecchia illustrazione conservata all’Old Slave Mart Museum di Charleston. |
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Schiavi venduti all’asta in un cartello conservato all’Old Slave Mart Museum di Charleston. |
La vicenda di Porgy and Bess si svolge a Charleston, nella zona portuale di Cabbage Row ribattezzata col nome fittizio di Catfish Row, e i suoi protagonisti sono tutti neri. Heyward, l’autore della storia, era un uomo d’affari di Charleston con un sincero interesse per la letteratura realistica, e con sua moglie Dorothy aveva a lungo osservato, con occhio da antropologo, la vita e i comportamenti nei ghetti della città. La trama: Crown, scaricatore di porto, uccide un compagno di gioco dopo una partita a dadi e se la svigna, lasciando sola la sua donna, Bess. Circuita da Sportin’ Life, cinico ma simpatico spacciatore di cocaina che vorrebbe portarsela a New York, Bess preferisce rifugiarsi nel tugurio di un mendicante zoppo, Porgy, innamorato perso di lei. Ma Crown ritorna con le peggiori intenzioni; rivuole la sua amante ad ogni costo. Durante una lite, Porgy uccide il rivale con una coltellata al torace per difendere Bess. Viene arrestato e rilasciato dopo pochi giorni di detenzione, ma nel frattempo lei si è decisa a seguire Sportin’ Life a New York. Porgy non demorde: si mette in strada, con un carretto di stracci tirato da una capra, per andare a snidarla nella metropoli sconosciuta.
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La Jenkins Orphanage Orchestra (foto del 1905 circa), jazz band di adolescenti fondata nell’Harleston Village di Charleston verso la fine del secolo XIX. |
La storia narrata da DuBose Heyward con tre diversi mezzi espressivi (romanzo, teatro di prosa, teatro musicale) si ispira, assai liberamente, a personaggi e fatti di cronaca autentici. La figura di Porgy ricalca quella di un vero accattone di Charleston: Samuel Smalls, sciancato, lunatico e violento, che circolava per Cabbage Row, nei bassifondi della città, con la capra e il carretto; e che aveva spesso avuto guai con la giustizia, soprattutto per aggressioni e tentativi di stupro. Porgy non è pericoloso come “Goat Sammy”, Sammy della Capra, il suo modello; è solo altrettanto miserabile, brutto, deforme ed emarginato (un equivalente del Quasimodo di Notre-Dame de Paris); condizione che rende, per contrasto, eroico e sublime il suo amore per Bess.
Non mancarono dure critiche a Porgy and Bess da parte di artisti e intellettuali neri, a cominciare da Duke Ellington: accusarono Heyward e Gershwin di paternalismo e inautenticità nella loro rappresentazione stereotipata dei “poveri negri”, e considerarono velleitario e forzato il tentativo di ibridare la musica afroamericana con la cultura dei ricchi europei. Molte di quelle critiche sono state in parte ridimensionate da commentatori altrettanto autorevoli, ma in teatro Porgy and Bess ha sempre attratto in larga maggioranza spettatori bianchi. L’opera si apre con la ninna-nanna più famosa del secolo:
Summertime, and livin’ is easy,
Fish are jumpin’ and cotton is high.
Oh, your daddy’s rich
And your ma’ is goodlookin’,
So hush little baby and don’t you cry...
«Tempo d’estate, ed è facile la vita, / i pesci guizzano ed è alto il cotone. / Sì, tuo padre è ricco / e tua madre è bella, / e allora sta’ buono, piccolo, e non piangere...» Le parole rievocano il mondo dei possidenti del sud, le piantagioni, gli schiavi, le balie fedeli, insomma l’universo che di lì a un anno, nel 1936, Margaret Mitchell descriverà nel bestseller Via col vento e che nel 1939 Victor Fleming tradurrà nell’omonimo affresco cinematografico.
My man’s gone now, cantata dal personaggio di Serena, vedova dell’uomo assassinato da Crown, corrisponde a un momento altamente drammatico del primo atto. It ain’t necessarily soè il pezzo forte di Sportin’ Life, il personaggio buffo della storia, che qui si diverte a contestare alcuni passi della Bibbia con scetticismo un po’ satanico: la melodia – in cui vengono allo scoperto modi del folklore ebraico, spesso presenti ma non sempre facilmente percepibili nella musica di Gershwin – ha un andamento ambiguo, serpentino, tentatore.
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Le canzoni di Porgy and Bess nella storica incisione Verve del 1957, con le voci di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong. |
La storia discografica di Porgy and Bess e delle singole arie che la compongono è pressoché infinita. Già nel 1936 esce per la Vocalion un’interpretazione imperdibile di Summertime, quella di Billie Holiday. Limpida come cristallo la versione di Ella Fitzgerald, che con Louis Armstrong e l’orchestrazione di Russell Garcia incide per la Verve, nel 1957, i momenti più emozionanti dell’opera. Altrettanto irrinunciabile la superba suite strumentale di Miles Davis con l’orchestra e gli arrangiamenti di Gil Evans. Frequenti anche i tributi dal mondo della lirica, tra i quali vanno ricordati almeno quelli di Eileen Farrell (1957), Leontyne Price (1965), Cathy Berberian (1970), Barbara Hendricks (1986), Kiri Te Kanawa (1987), Kathleen Battle (1991). Discutibile, anche se adorata da milioni di fan, la Summertime di Janis Joplin, nevroticamente sopra le righe.
Al cinema Porgy and Bessci va nel 1959: è l’ultima produzione di Samuel Goldwyn, e la regia è di Otto Preminger. Porgy è Sidney Poitier, doppiato da Robert McFerrin (padre di un altro vocalista formidabile, Bobby McFerrin). Bess è Dorothy Dandridge, doppiata – lei che pure è stata una cantante di tutto rispetto – da Adele Addison, forse per sopperire a limiti di estensione vocale. Brock Peters è Crown. Sammy Davis Jr. Summertime impersona Sportin’ Life, ma nel disco Columbia con la colonna sonora originale è sostituito, per problemi contrattuali, da Cab Calloway. Loulie Jean Norman doppia un’altra cantante, Diahann Carroll, nel ruolo di Clara (la balia di ), mentre Ruth Attaway, doppiata da Inez Matthews, è Serena (My man’s gone now). Direzione d’orchestra e supervisione musicale di André Previn con la collaborazione di Ken Darby, entrambi premiati con l’Oscar. Anne Brown, Bess sul palcoscenico, interpreta Summertime in Rhapsody in blue di Irving Rapper, biografia romanzata di Gershwin impersonato da Robert Alda.
© Pasquale Barbella
[1]“The Jelly-bean”, comparso sul Metropolitan Magazine, ottobre 1920; poi nella raccolta Tales of the jazz age, Scribner’s, New York 1922; ed. it. “Il fannullone”, trad. Giorgio Monicelli, in Racconti dell’età del jazz, Mondadori, Milano 1968.
[2]Gli stati e le principali città degli USA amano identificarsi in uno slogan. Holy City sta a Charleston come Big Apple sta a New York.
[3]Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1977.
[4]William McBrien, Cole Porter – A biography, Alfred A. Knopf, New York, 1998.
[5]W. McBrien, ibidem.