Till Neuburg interviene sul post Ah, no, Noah!– recensione del film di Darren Aronofsky – per una serie di considerazioni generali sul mercato statunitense del cinema.
Un pediluvio universale
di Till Neuburg
Prendere a calci il lavoro di qualcuno non mi diverte mai, ma prima di fare una full immersion nel kitsch a 24 fotogrammi al secondo, partiamo con un’impressionante sfilza di dati.
Nell’anno 2014, tra i primi 25 incassi mondiali del cinema ci sono stati appena due titoli che non rientravano nei generi kid o juvenile: “American Sniper” (14°) di Clint Eastwood e “Gone Girl” (20°) di David Fincher. Tutti gli altri erano film catastrofici, horror o d’animazione. Da questa graduatoriaemerge un dato senza appello: ciò che noi comuni mortali (soprattutto europei) consideriamo ancora come “il mondo del cinema” (autori, festival, critica, premi), è solo una trascurabile sottocategoria di un business che rientra sempre di più in un mercato da videogiochi non ancora interattivi, ma comunque ampiamente collettivi.
In questo elenco di trionfi da botteghino, infatti, su centinaia di produzioni americane “Noah” di Aronofsky si sistema in un più che disonorevole 22° posto, con un incasso di quasi 363 milioni di dollaroni.
Non sto parlando di una tendenza del momento, ma di un rapporto contenuti/fatturato che è in atto ormai da parecchi anni. Ecco i titoli che, in tutto il mondo, nell’ultimo quarto di secolo hanno incassato di più:
1989 “Indiana Jones And The Last Crusade”
1990 “Ghost”
1991 “Terminator 2: Judgement Day”
1992 “Aladdin”
1993 “Jurassic Park”
1994 “The Lion King”
1995 “Die Hard: With A Vengeance”
1996 “Independence Day”
1997 “Titanic”
1998 “Armageddon”
1999 “Star Wars: Episode I - The Phantom Menace”
2000 “Mission: Impossible II”
2001 “Harry Potter and The Sorcerer’s Stone”
2002 “The Lord Of The Rings: The Two Towers”
2003 “The Lord Of The Rings: The Return Of The King”
2004 “Shrek 2”
2005 “Harry Potter And The Goblet Of Fire”
2006 “Pirates Of The Caribbean: Dead’s Man Chest”
2007 “Pirates Of The Caribbean: At World’s End”
2008 “The Dark Knight”
2009 “Avatar”
2010 “Toy Story 3”
2011 “Harry Potter And The Deathly Hallows: Part 2”
2012 “Marvel’s The Avengers”
2013 “Frozen”
2014 “Transformers: Age Of Extinction”
Come si vede, in questo librone d’oro non c’è traccia di Sundance, Venezia, Berlino, Toronto, Locarno e Cannes. E men che meno di nomi esotici come Woody Allen, Joel Coen, David Cronenberg, Takeshi Kitano, Spike Lee, David Lynch, Terrence Malick, Michael Mann, Martin Scorsese, Ridley Scott, Steven Soderbergh, Quentin Tarantino, Wim Wenders… i soliti personaggi che attraggono gli “appassionati di cinema” (come noi, che scriviamo e leggiamo queste righe).
In realtà, il cinema americano è un comparto economico dominato dai produttori (e non dagli autori), cioè da chi prevede e decide cosa far scrivere, produrre, distribuire, da chi sa benissimo da dove provengono i profitti e i benedetti bucks. L’80% dei soldoni che arrivano dalle sale, dalla tv, dal merchandising, dai dvd è roba proposta e venduta a chi fa già la fortuna dei vari brand come Mattel, Winx, Playstation, Nike, Red Bull, GAP, Schlitz, McDonald’s. Il grosso di quel fatturato nasce e si propaga tra i banchi di scuola, ai tavolini dei fastfood, con il passaparola, i chat, con gli emoticon di WhatsApp, via Twitter, con i trailer nelle multisale: di sicuro non grazie alle stellette dei critici, ai festival, ai cineforum.
Questa premessa serve solo per capire per quali “inspiegabili” motivi un regista talentuoso come Darren Aronofsky è stato imbarcato in un filmaccio noioso e ridicolmente kitsch come “Noah”. Ovviamente, gli stessi ragionamenti valgono in solido anche per le star che si sono prestate all’operazione: Russell Crowe, Anthony Hopkins, Ray Winstone, Jennifer Connelly, Emma Watson (e, per il doppiaggio originale, persino il vecchio hard boiled Nick Nolte).
Sono abbonato da anni a The Hollywood Reporter, una rivista americana trade, stampata in grande formato su carta di lusso, con una redazione e uno staff di marketing e commerciale parecchio più numeroso che in qualsiasi nostro periodico nazionale. Oltre a coprire in modo martellante ogni aspetto produttivo e distributivo americano, questa testata racconta tutto, ma proprio tutto, su sponsor, agenti, P.R., contratti e studi legali, ma anche su ristoranti, gioielli, orologi e auto di lusso, parrucchieri, cocktail, immobili da sogno, stilisti e vini d’annata che girano in quel di Hollywood e negli studi dei network televisivi. Però, oltre a questo roboante ambaradan, THR commenta anche tutto quanto riguarda le sceneggiature, il casting, le location, le scuole di cinema e, naturalmente, i festival e i premi più importanti.
È un impressionante Barnum di sogni e di consenso che alimenta i protagonismi e i rituali di una community enorme, dove i talenti emergenti e i geniacci di domani si trastullano in modo inevitabilmente contiguo e insistente per incontrare prima o poi – meglio prima, of course – qualcuno di quei tipi che maneggiano i soldi, i contratti, il mercato. Per contro, solo così gli abili coordinatori e assemblatori di agende, planning e finanza – gli odiati e temutissimi executive producer – riescono a scovare chi ha ambizioni, ego e solido know how, per farsi lungo e largo in quell’enorme catena produttiva.
Ecco perché i vari Michael Bay, Marc Foster, Antoine Fuqua, Brian Helgeland, Peter Jackson, Ang Lee, Doug Liman, Noam Murro, M. Night Shyamalan, Christopher Nolan, Sam Raimi, Brett Ratner, Bryan Singer, Zack Snyder, Paul Verhoeven ce li siamo di colpo ritrovati a firmare filmoni per onnivori da popcorn, appassionati di wrestling, bamboccioni sovrappeso, chierichetti creazionisti, militaristi da consolle, devoti boyscout da cortile, eterni studenti, nerd, neolaureati in tuta mimetica e teenager.
Ma per fortuna, lì in mezzo, in quella Hollywood tra sogni, routine e incassi da record, tra piccole produzioni indie e blockbuster digitali, c’è pure lo spazio per film che parlano anche a chi non sogna solo i rave, gli emoticon, i selfie, i cheeseburger, i tweet e Justin Bieber – film, insomma, che parlano anche agli over 20 “normali”, classificati come cinema “drammatico”, di storytelling, d’autore. Non sono feature che devono per forza incassare cifre da capogiro: basta che superino di qualche milioncino di verdoni il break even tra costi e ricavi, tra speranze e risultati, tra officianti dell’impegno sociale e il box office.
Se poi dalle parti delle conferenze stampa e dei tappeti rossi ci scappa pure qualche statuina, meglio. Un bel discorsetto «I’m sooo terribly happy, thanks to everybody who believed in me…» non si nega a nessuno (nemmeno a chi dovesse citare la Corazzata Potemkin, i nonni, Mickey Mouse, Andy Warhol, John Wayne o il Dalai Lama). Non dimentichiamo che, prima di questo disastro biblico, sia negli USA che in parecchi altri paesi il nostro Aronofsky aveva vinto ben 29 premi… che sul più importante portale cinematografico del mondo (IMDb) i suoi precedenti cinque film avevano tutti collezionato dei voti molto alti (7,5 - 8,4 - 7,3 - 7,9 - 8,0)… che nel 2008 alla Biennale Aronofsky aveva vinto il Leone d’Oro… che sempre a Venezia nel 2011 era stato presidente della giuria internazionale… che prima di imbarcare nella sua arca un cast stellare, aveva per anni diretto attori “indie” notoriamente difficili ed esigenti come Ellen Burstyn, Mickey Rourke, Marisa Tomei, Louise Lasser, Rachel Weisz, Winona Ryder, Barbara Hershey….
Conclusione: pare proprio di essere di fronte a un film “diretto” dai tecnici della Industrial Ligtht & Magic (e non da un autore), un sontuoso kid movie per piccoli e grandi follower dei fideismi di ogni tipo (dagli esegeti del primo testamento fino a Napoleone, Richard Wagner, Padre Pio, Berlusconi, L. Ron Hubbard e Steve Jobs). E fin qui, niente di nuovo sul fronte occidentale. Con l’unico rammarico, non da poco, di aver dato in leasing ai pescecani hollywoodiani un talentaccio della regia come non ne nascono ogni giorno.
Ma poi, studiando a fondo la genesi di questo diluvio artificiale, veniamo a sapere che il film ha proprio un autore, un colui che aveva partorito, all’età di soli tredici anni, l’idea di mutare un mito biblico in un big bang cinematografico che con un budget da 125 milioni di dollari avrebbe dovuto cambiare per sempre il modo di inquadrare le nostre radici storiche in formato 1.85:1. «È la storia di dieci generazioni di malvagità umana, che alla fine culmina con l’avvento di Dio che rade al suolo un posto tutto da rifare» ha detto Aronofsky. «Io la considero la prima storia sulla fine del mondo».
E sulla fine di Aronofsky come regista da prendere sul serio, aggiungiamo noi.
Allora è proprio vero che i guai non vengono mai da soli: non solo il bambinone Darren, ormai 46enne, ha scritto una ridicolissima epopea da consolle, ma ha anche realizzato, con l’impiego di centinaia di costruttori e in cinque lunghi e tremendi mesi, un gigantesco mix tra galleggiante grattacielo da archistar e una Costa Concordia biblica, alta ben 30 metri, nientemeno che in legno massiccio – senza l’impiego di alcuna diavoleria digitale/virtuale. (La Industrial Light & Magic si è occupata in primis di ricreare dal nulla uno gigantesco zoo in trasferta, di mirabile inventiva e varietà – secondo me, forse l’unico motivo per cui questo film non è completamente da buttare).
Per quanto riguarda il plot che si svolge intorno e dentro quel Millenium Falcon da Aquafan, l’autore non si tira certo indietro: «Ciò che abbiamo fatto è stato iniziare ad attenerci al testo effettivo della Genesi, per poi spaziare in un dramma familiare.» Il dramma al quale allude il regista include alcuni momenti che sembrano trasposti pari pari da una puntata di Colorado o da Zelig. Ecco due esempi:
All’inatteso ospite Noè, il distinto Matusalemme (Anthony Hopkins) offre nientemeno che una tazza di fumante tè (magari un Earl Grey al sapore di vaniglia: non lo sapremo mai).
Esattamente come oggi di nascosto fanno le fidanzate nel bagno di casa quando temono (o sperano) di leggere sulla sondina elettronica la parolina “Mamma!”, anche qui la fedele mogliettina Naameh fa un test di gravidanza di drammatica minacciosità.
Chiunque tentasse di riportare la trama, gli intrecci, i dialoghi e la regia di questo film in qualcosa che avesse a che fare con la storia del cinema non saprebbe letteralmente da dove cominciare – a condizione di non scomodare altri illustri conosciuti i quali, pure loro, per almeno una volta inciamparono in clamorosi testa-coda. Ecco alcuni esempi:
Charlie Chaplin: “La contessa di Hong Kong”
Luchino Visconti: “Gruppo di famiglia in un interno”
Vittorio De Sica: “I girasoli”
Francesco Rosi: “C’era una volta”
Mario Monicelli: “La mortadella”
Martin Scorsese: “L’ultima tentazione di Cristo”
Joel Coen: “Prima ti sposo, poi ti rovino”
Ridley Scott: “Un’ottima annata - A Good Year”
Woody Allen: “Vicky Cristina Barcelona”
Terrence Malick: “To The Wonder”
Beh, speriamo che i 363 milioni di dollari incassati da questo obbrobrio di 138 minuti non abbiano dato alla testa a chi l’ha ideato, diretto e definitivamente sistemato nella storia dei colossal da dimenticare.
T.N.