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Da Rebibbia al Rick's Café

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Cinema: Dal diario di viaggio di uno spettatore, parte II

Nato per essere un backstage, Cesare deve morire è in tutto e per tutto un’opera autonoma, un’esperienza potente e collettiva, degna di iscriversi tra gli esiti più alti del “cinema povero” – povero di mezzi ma ricco di passione e di idee. Proprio la povertà dei mezzi aveva ispirato, in Italia, la nascita del neorealismo e la sua fioritura. Per Roma, città aperta non c’erano né soldi né lampade, né microfoni né Cinecittà (ancora brulicante di sfollati). Persino la pellicola scarseggiava di brutto: Rossellini dovette vendersi i pochi beni personali di cui disponeva e indebitarsi con gli amici e con le banche pur di andare avanti. C’erano solo le idee, l’équipe tecnica (al minimo), gli attori (pagati chi poco e chi niente) – e le strade di Roma, come la via Montecuccoli in cui Pina (Anna Magnani) viene uccisa dai tedeschi mentre insegue il camion che le sta portando via il marito. Il neorealismo non è stato, all’inizio, un consapevole manifesto estetico o ideologico, ma un modo di barcamenarsi senza soldi in un settore produttivo che di soldi è affamato. Come ha poi rievocato Vittorio De Sica,

«Non è che un giorno ci siamo seduti a un tavolino di via Veneto, Rossellini, Visconti, io e gli altri, e ci siamo detti: adesso facciamo il neorealismo. Addirittura ci si conosceva appena. Un giorno mi dissero che Rossellini aveva ricominciato a lavorare: “Un film su un prete”, dissero, e basta. Un altro giorno vidi lui e Amidei seduti sul gradino d’ingresso di un palazzo di via Bissolati. “Che fate?”, domandai. Si strinsero nelle spalle: “Cerchiamo soldi. Non abbiamo soldi per tirare avanti il film...” “Che film?” “La storia di un prete. Sai, don Morosini, quello che i tedeschi hanno fucilato...”[i]
I luoghi, gli ambienti, le strade, gli spazi disponibili diventavano una delle cifre espressive, una delle poche risorse affidabili su cui contare. Mario Mattoli ricorda così uno dei momenti dello shooting di un suo film del 1945 con Alida Valli, Fosco Giachetti e Eduardo De Filippo:
«Io con Giachetti e l’operatore Arata siamo andati a Napoli e ci siamo ritrovati in piena occupazione americana, senza permessi, a girare per le strade. Si faceva veramente il cinema in modo eroico, come doveva essere ai primi tempi del muto. Napoli è nello stesso tempo fotogenica e banale, quindi difficile. L’unica cosa che a Napoli non si poteva più riprendere era il Vesuvio che fuma, e invece in La vita ricomincia, per caso, mentre Giachetti sta passando davanti alla macchina da presa, il Vesuvio ha fatto tre sbuffate di fumo, forse le ultime!»[ii]

In Riso amaro di Giuseppe De Santis, 1949, l’ambiente delle risaie e il lavoro che vi si svolge non sono solo funzionali al racconto, ma ne costituiscono la sostanza. Rappresentati e descritti come in un documentario, i luoghi diventano protagonisti e motori del dramma, con una intensità non inferiore a quella degli attori in carne e ossa. In primo piano nella foto: Silvana Mangano.
Napoli – come Roma, New York, Parigi e dozzine di altre città – è stata protagonista assoluta di vari capolavori, da L’oro di Napoli di Vittorio De Sica (1954) a Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy (1962). In centinaia di altri casi è stata trattata, come infiniti altri luoghi del pianeta, solo come sfondo di routine: “fotogenici e banali”, per dirla con Mattoli. Per dare un senso narrativo agli ambienti e alle vicende che vi si svolgono, ci vuole l’occhio di un autore che voglia e sappia guardarli con interesse non superficiale. Il comico più popolare di tutta la storia del cinema italiano, il napoletanissimo Totò, è stato interprete di oltre cento tra film e telefilm; ma solo di rado ha avuto la sorte di incocciare in registi di primo piano, capaci di aggiungere valore autentico alla sua sterminata filmografia: Eduardo De Filippo (Napoli milionaria, 1950), Roberto Rossellini (Dov’è la libertà?, 1954), Vittorio De Sica (L’oro di Napoli, 1954), Mario Monicelli (I soliti ignoti, 1958), Pier Paolo Pasolini (Uccellacci e uccellini, 1966). Pochi altri film di Totò, oltre a questi, possono dirsi “cinema” a tutti gli effetti: il resto è intrattenimento di qualità variabile, più simile all’avanspettacolo, alla commedia teatrale e al linguaggio della televisione che allo “specifico filmico” teorizzato da Pudovkin.[iii]

Simone (Renato Salvatori) uccide la donna che ama (Annie Girardot) nella sequenza più allucinata di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, 1960. Il delitto si svolge in prossimità dell’Idroscalo di Milano e la ripresa iniziale è in campo lungo: vediamo esplodere la tragedia da lontano e, tra noi e i personaggi, l’assoluta indifferenza del paesaggio, che già da solo suggerisce solitudine, malinconia, squallore.
In Italia, più che altrove, è invalsa la pratica di subordinare il cinema alla bravura e alla popolarità dei comici. Tanto che alcuni tra i più intraprendenti – da Alberto Sordi a Roberto Benigni, da Carlo Verdone al meraviglioso e compianto Massimo Troisi – diventarono senza problemi registi di sé stessi. Ma non tutti i comici sono come Charles Chaplin, la cui versatilità nasceva da una curiosità onnivora e da una multiforme competenza. Il Sordi di Federico Fellini (Lo sceicco bianco, 1952; I vitelloni, 1953) ha un valore universalmente riconosciuto, mentre il Sordi auto-regista può piacere solo ai suoi fan più fedeli. Quanto a Benigni, doppio premio Oscar (miglior attore e miglior film) per La vita è bella, non saprei cosa dire: lo amo al punto di essere doppiamente felice per il suo exploit, ma non sono convinto che tra le sue virtù ci sia anche quella del regista sublime. Nella sua carriera si è lasciato dirigere anche da grandi firme come Marco Ferreri (Chiedo asilo, 1979) e Jim Jarmusch (Daunbailò e Coffee and Cigarettes, 1986); ma, oltre a La vita è bella, i suoi film di maggior successo sono altri, da Non ci resta che piangere, 1984, diretto in tandem con Massimo Troisi, a Johnny Stecchino, 1991, tutto suo: indubbiamente divertenti, ma più adatti al piccolo schermo che alla sala.
La fortuna e la diffusione di un cinema basato sulla sola presenza della star, sostenuta da una regia di puro servizio, non nasce solo da mere considerazioni commerciali (previsioni di successo, spesso fondate), ma anche dalla tradizione della commedia dell’arte, nata e sviluppatasi in Italia per un paio di secoli abbondanti a partire dal Cinquecento. Tipiche di quel teatro erano l’assenza di canovacci e la recitazione a braccio: improvvisazione pura. Bisognò aspettare Carlo Goldoni per dare scrittura e pianificazione alla commedia italiana; ma l’attitudine all’improvvisazione e alla farsa permase a lungo nello spettacolo di varietà del Novecento, e il palcoscenico popolare divenne spesso il trampolino di lancio dei comici nel cinema. La cosiddetta “commedia all’italiana”, che tanta fortuna ha avuto dagli anni Cinquanta in poi, e tantissimo ha inciso sul comune sentire degli italiani, non è che la naturale continuazione della commedia dell’arte prima e dell’avanspettacolo poi.
Ciò non ha impedito ad autori di alto spessore tecnico e artistico di misurarsi con quel tipo di commedia, ricavandone risultati a volte strepitosi. Il Monicelli de I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959), L’Armata Brancaleone (1966); il Dino Risi di Una vita difficile (1961) e Il sorpasso (1962); il Luigi Comencini di Tutti a casa (1960) e Lo scopone scientifico (1972); il Pietro Germi di Divorzio all’italiana (1961) e Signore & Signori (1966), tanto per citare i primi nomi e titoli che balzano in mente, hanno fatto molto di più che tenerci di buonumore: hanno descritto con acume, senza risparmiare la sferza, i piccoli e grandi difetti dell’italiano medio, con uno stile che castigat ridendo mores.
Il cinema italiano tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta, spaziando in diversi generi oltre che nella commedia, ha contribuito notevolmente alla formazione civica di una o due generazioni. È stato la nostra scuola di storia del Novecento (le due guerre, il fascismo, la Resistenza, la ripresa, il boom economico), di informazione critica (la criminalità organizzata, le deviazioni del potere, gli abusi edilizi), di sociologia (le contraddizioni e la decadenza della borghesia, gli ideali delusi, le crisi di identità). C’è chi considera il cinema alla stregua di un mezzo di evasione, di fuga dalla realtà: il cinema è forse anche questo, ma per fortuna non solo e non sempre.

Le mani sulla cittàdi Francesco Rosi (1963) e, 45 anni dopo, Gomorra di Matteo Garrone, sono due straordinari esempi di controllo registico (e fotografico) dello spazio ambientale. Nella foto: Rod Steiger nel film di Rosi.
Torniamo da dove siamo partiti: i luoghi, gli ambienti. Molti restano indissolubilmente legati, nell’immaginario collettivo, a questo o quel film, magari a una scena soltanto. Se penso a Odessa, città che non ho ancora avuto il piacere di visitare, rivedo immediatamente la scalinata de La corazzata Potëmkin (Sergej Ėjzenštejn, 1925). L’Empire State Building è indisgiungibile dal gigantesco scimmione attaccato dai biplani mentre, in cima al grattacielo, stringe in una zampona la povera Fay Wray (King Kong, 1933, di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack). Niagara sarà pure una grande cascata, ma per me è Marilyn Monroe (Henry Hathaway, 1953), ancor più memorabile con la gonna bianca al vento su uno sfiatatoio della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza (Billy Wilder, 1955). Il Nightclub per eccellenza è quello in cui Rita Hayworth si sfila i guanti cantando e ballando sulle note di Amado mio e Put the Blame on Mame (Gilda, Charles Vidor, 1946).
Quanto queste e consimili icone abbiano influenzato la pop culture lo racconta, meglio di qualsiasi sociologo, Pier Paolo Pasolini:
«Poi si spensero le luci, ed ebbe inizio quello che avrebbe dovuto essere il più bel film visto da Desiderio. Davanti a Gilda qualcosa di stu­pendamente comune invase tutti gli spettatori. La musica di Amado mio devastava. Così che le grida oscene che si incrociavano per la platea, gli: “Attento che ti si spaccano i bottoni”, i “Quante te ne fai stasera?”, pare­vano fondersi in un ritmo dove il tempo pareva finalmente placarsi, con­sentire una proroga senza fine felice.»[iv]
Casablanca poi, cult multigenerazionale per eccellenza (Michael Curtiz, 1942), si può condensare tutta nel Rick’s Café Américain di Humphrey Bogart, dal momento che della città marocchina nel film non si vede neanche l’ombra: le riprese ebbero interamente luogo nei Warner Brothers Burbank Studios di Los Angeles, e l’unica escursione esterna fu all’aeroporto della stessa città.




[i] In L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1935-1959, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Milano: Feltrinelli, 1979.
[ii]ibidem.
[iii] Vsevolod Pudovkin (1893-1953), regista di capolavori come La madre (1926) nonché teorico del cinema sovietico, si riferiva soprattutto all’arte del montaggio. Noi – cresciuti nell’epoca della televisione – crediamo tuttavia che non sia il solo montaggio a determinare la peculiarità del linguaggio cinematografico.
[iv] Pier Paolo Pasolini, Amado mio, Milano: Garzanti, 1982.

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