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Le otto montagne

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Le otto montagne

Ti è mai capitato, di ritorno da un viaggio o da una festa, di sentirti svuotato, in balia di una miscela di pigrizia e nostalgia, di una mollezza d’animo che ti rende fiacco nel gesto e preso da una irragionevole voglia di rivivere l’adolescenza? Giorni fa sono arrivato all’ultima pagina di un romanzo che mi ha come ubriacato, e non riesco ancora ad aprire un altro libro, sono prigioniero di quello. Le otto montagne, bello anche il titolo, autore Paolo Cognetti.

Quando, il 6 luglio 2017, gli hanno conferito il Premio Strega, Cognetti ha voluto dedicare la vittoria alla montagna, «perché è un posto abbandonato, dimenticato e distrutto, in molti casi dalla città, e io mi sono votato a cercare di raccontarlo. Ho cercato di fare il portavoce, il tramite tra la montagna, la pianura e la città, che sembrano lontanissimi. E io provo a raccontare quelle storie per chi non le conosce e vive troppo lontano, e cerco in qualche modo di salvare il mondo in cui vivo».

Bravo: è un impegno altissimo, terribilmente attuale. Ma la potenza de Le otto montagne si regge su più d’un livello di lettura. Sembra che, pagina dopo pagina, stia evocando e analizzando la tua vita, anche se non è vero. Non nel mio caso, almeno. Io sono sempre stato estraneo alla montagna: sui dislivelli, persino i più modesti, non mi reggo in piedi. Soffro di vertigini, preferisco la pianura. Non so sciare, non mi so arrampicare, ho paura di cadere persino dalla scala a pioli di famiglia. Non sono mai stato sul tetto di casa mia, non mi sono nemmeno issato sul solaio attraverso la botola che vedo sul soffitto. Eppure le imprese di cui sono protagonisti i personaggi di Cognetti le ho sentite mie. Perché il suo libro racconta, in modi penetranti e avventurosi, le età di passaggio, i rapporti tra genitori e figli, la scoperta e il senso dell’amicizia, l’intensità delle passioni, l’aspirazione all’alto, l’ascesa e il declino dei sentimenti, l’amore, la solitudine, la morte, l’influenza dei luoghi e degli spazi nella costruzione della nostra identità. Tutto questo e altro ancora, sullo sfondo del conflitto tra città e natura.

Natura? Che natura? Bruno, il montanaro del racconto, se la ride del mio modo di parlare: «siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente.»

Spazio, paesaggio, radici. E movimento, perché la conoscenza non basta mai: c’è solo da chiedersi se si impara di più girando il mondo, o salendovi in cima. Cognetti ha un pudore commovente nel suggerirti cosa accomuna e cosa separa le esistenze degli individui. Lo fa con una scrittura tersa e trasparente come l’aria che si respira a tremila metri, senza scivolare in nessun cliché. Egli stesso è un animale di montagna, è evidente la sua capriolesca familiarità con le altitudini; la sua montagna è una dimensione tangibile ma non meno “interiore” di quanto lo siano i fiumi di un Conrad, gli oceani di un Melville. Ti ci perdi dentro, combattendo le tue battaglie: vincendone alcune, perdendone altre. E mentre osservi il fluire del torrente ti domandi, perplesso, se il futuro stia a fondovalle, o alla sorgente in alto.

P.B.

Paolo Cognetti
Le otto montagne
Einaudi, 2016
Premio Strega 2017

Paolo Cognetti è nato a Milano nel 1978. Da anni si divide tra la città e una baita a duemila metri. Ha pubblicato per minimum fax Manuale per ragazze di successo (2004), Una cosa piccola che sta per esplodere (2007), Sofia si veste sempre di nero (2012), A pesca nelle pozze più profonde (2014). Sul tema della montagna ha pubblicato Il ragazzo selvatico (Terre di mezzo 2013). Il suo blog è paolocognetti.blogspot.it




  

Acqua, aria, terra, fuoco, libro

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Una sera di novembre, trenta persone si riuniscono nello stesso luogo, la sala consiliare del municipio d’una piccola città. Davanti a loro ci sono una sedia, un tavolino e un microfono. Alcuni dei convenuti hanno portato un libro. A turno raggiungeranno la sedia, vi si accomoderanno e leggeranno una pagina del proprio libro al microfono. Niente di più. Non c’è niente di liturgico, né di predicatorio, né di religioso in tutto questo. Solo uno scambio, leggerissimo, di emozioni. Alla fine sì, c’è qualche torta fatta in casa, un bicchiere di vino: quest’ultimo è l’unica cosa che possa ricordare, alla lontana, una vaga celebrazione eucaristica.

Gli ospiti sono stati invitati a scegliere liberamente il libro da esibire, nell’ambito di un tema – il viaggio – onnipresente in qualsiasi forma di letteratura, compresi i saggi, i reportage, le guide turistiche e persino le ricette di cucina. Perché il libro è già, di per sé, un mezzo di trasporto: il più rapido ed efficiente di tutti, giacché la sua funzione è proprio quella di sollevare di peso la mente del lettore e trasferirla altrove. Presto il luogo dell’incontro, la sala che abbiamo detto, si trasforma in un’imbarcazione di parole, sballottata ora sul Mediterraneo dei barconi, ora sul Gange, ora fra le onde tempestose dello Skagerrak, ora nel porto di New York. Escursioni: su Marte o nel «luogo di merda» detto Capannonia, a piacere.

La riunione sa di gioco. E c’è, nascosto come una matrioska, un secondo gioco dentro il primo. Questo secondo gioco consiste nel misurare il peso delle conoscenze che si possono trarre da nove libri assortiti dal caso. L’oggetto dell’ispezione siamo noi, gli esseri umani. Immaginiamo di inviare su un pianeta remotissimo e abitato, a bordo di una navicella, i libri sfogliati quella sera di novembre – nove, per l’appunto. Lassù qualcuno li trova. Qualcuno che molto probabilmente è diverso da noi, non conosce le nostre lingue, anzi non ha mai avuto un libro fra le mani, né di carta né elettronico.

Il bottino (nove oggetti d’incerto materiale e d’incerta funzione) fa il giro del pianeta di destinazione (chiamiamolo Ixonia), finché s’imbatte in un team di teste dure, determinate a decifrare gli strani documenti pervenuti da un mondo lontano. Champollion, l’archeologo che per primo decifrò i geroglifici degli antichi egizi, aveva a disposizione molto, molto meno di nove libri: soltanto le iscrizioni su una stele di granito e poco altro. Può darsi che i cervelli di Ixonia siano talmente diversi dai nostri da lasciare con un palmo di naso gli scienziati extraterrestri. Ma se riuscissero nel loro intento, quanto e cosa potrebbero scoprire di noi?

Proviamo a ipotizzare un elenco delle principali scoperte stilato dagli ixoniani sugli abitanti del pianeta Terra.

1. Gli umani scrivono cose vere che sembrano false (Michele Serra, Ognuno potrebbe) e cose false che sembrano vere (Emilio Salgari, Le tigri di Mompracem). Le false si riconoscono dall’etichetta “romanzo”. Ma non sempre sono così false come vorrebbero sembrare.

2. Gli umani non stanno mai fermi: hanno inventato macchine d’ogni foggia per percorrere enormi distanze, non solo sulla Terra ma anche nel cosmo (Ray Bradbury, Cronache marziane).

3. Gli umani sono aggressivi. Potrebbero colonizzare Ixonia come hanno fatto con Marte. Meglio escogitare sistemi di difesa.

4. Certi umani sono ricchi e altri sono poveri. I poveri viaggiano verso i paesi dei ricchi nella speranza di cogliere, anche a costo di indicibili sofferenze e della propria vita, qualche opportunità di riscatto (Daniele Biella, Nawal – L’angelo dei profughi).

5. Certi umani ricchi hanno antenati poveri, che dovettero affrontare ai loro tempi gli stessi spostamenti avventurosi – e spesso umilianti – di molti migranti attuali (Mimmo Gangemi, La signora di Ellis Island).

6. Anche i ricchi piangono, quando sono costretti a lasciare il proprio posto per trasferirsi in un altro (Marisa Fenoglio, Vivere altrove). Se ne desume che agli umani piace viaggiare, ma anche ritornare al punto di partenza, il che raddoppia automaticamente i loro laboriosi tragitti.

7. Gli umani sono terribilmente avventurosi. Sfidano costantemente gli elementi naturali presenti sul loro pianeta – acqua, aria, terra, fuoco – e persino gli spazi privi di tali elementi per loro vitali, con astronavi che simulano, al loro interno, un ambiente vivibile (Bradbury).

8. La Terra è piena di buchi pieni di un elemento liquido, necessario e spaventoso, che gli indigeni chiamano “acqua”. Quest’acqua a volte è quieta e altre volte si arrabbia, sollevando muri che vanno su e giù anche di parecchi metri. Alcuni umani trovano divertente muoversi a lungo sull’acqua e, all’occorrenza, combattere contro i suoi capricci per non lasciarsi sopraffare (Björn Larsson, La saggezza del mare).

9. Certi umani sono uomini, altri sono donne: chissà perché. Tutti hanno un sacco di problemi, ma le donne di più. In un posto chiamato Somalia, per esempio, le donne non sono libere di viaggiare da sole, devono camminare senza correre ed evitare gli sport. Ma quelle che s’incaponiscono, prima o poi ce la fanno (Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura).

10. Gli umani sono costantemente combattuti tra due istinti opposti: quello di stare insieme e quello di farsi del male a vicenda. Non sempre è facile capire quali siano i buoni e quali i cattivi: di solito ciascuno si alterna in questo o quel ruolo, a seconda dell’umore e delle circostanze (Gregory David Roberts, Shantaram).

11. Gli umani viaggiano per: conquistare spazi altrui (un fenomeno detto “colonialismo”); scoprire terre e patrimoni altrui (“turismo”); cercare occasioni di sopravvivenza, o semplicemente di un lavoro migliore; fuggire da situazioni rischiose (“guerra”, “persecuzione”); obbedire a stimoli interiori per realizzare sé stessi; studiare; pilotare viaggi altrui; controllare l’operato di certuni per riferirne ad altri (“giornalismo”, “reportage”). La maggior parte degli umani è nomade anche quando è stanziale.

12. Gli umani sono esseri non privi di fascino, contraddittori e quasi sempre inaffidabili, ad eccezione di una certa Nawal, una certa Samia e pochi altri. Forse sono pazzi. Ad ogni buon conto, conviene studiarli. Non è improbabile che, studiandoli, ci riesca di scoprire su di loro cose che essi stessi ignorano. O fingono di ignorare per trarre, dall’ignoranza, presunti vantaggi.


Pasquale Barbella
Matt Damon disperso su Marte in un film del 2015.
  
I libri citati nel testo.

Daniele Biella, Nawal – L’angelo dei profughi, Edizioni Paoline, 2015. 

Se le persone che viaggiano con i barconi della morte nel Mediterraneo hanno un angelo, il suo nome è Nawal. Se i funzionari dell’operazione Mare nostrum e le capitanerie di porto devono ringraziare qualcuno che facilita il loro compito, ovvero salvare più vite possibili, devono dire grazie a Nawal. Se i giornalisti possono raccontare per filo e per segno ciò che accade, superando i silenzi e gli indugi delle risposte istituzionali, lo si deve a persone come Nawal. Nawal Soufi è l’angelo dei siriani in fuga dalla guerra. 27 anni, origini marocchine, è arrivata a Catania da piccola. Da lì aiuta in modo volontario migliaia di migranti a sopravvivere al viaggio della disperazione e a non cedere al racket degli “scafisti di terra”.

Ray Bradbury, Cronache marziane (1950), traduzione di Giorgio Monicelli, Mondadori, 1978.  

L’arrivo degli “alieni terrestri” sul Pianeta rosso, l’incontro e lo scontro fra due civiltà e due maniere di intendere la vita e l’universo. I racconti estrosi e poetici di uno scrittore che ha travalicato la narrativa di genere per approdare alla grande letteratura. Il libro raccoglie una serie di “cronache” fantastiche che favoleggiano della conquista e della successiva colonizzazione di Marte da parte di un’umanità prevalentemente americana, tra il 1999 e il 2028: anno in cui lo scoppio di una guerra atomica richiama i terrestri sul proprio pianeta. L’antichissimo Marte resta allora nuovamente abbandonato e deserto, con le ampie e impetuose correnti dei suoi misteriosi canali millenari, coi suoi immensi mari privi di vita, sulle cui sabbie passano i grandi velieri degli ultimi marziani – creature simili a fantasmi, ombre e larve di una civiltà che i terrestri non hanno saputo né vedere né intendere. Per Bradbury la fantascienza non è che pretesto per dare sfogo all’estrosa fantasia e, in questo caso, per una protesta contro la vita di oggi, che tende, con il suo materialismo, a distruggere l’elemento poetico e fiabesco, ideale dell’uomo e della sua storia.

Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura, Feltrinelli, 2014. 

Samia è una ragazzina di Mogadiscio. Ha la corsa nel sangue. Ogni giorno divide i suoi sogni con Alì, che è amico del cuore, confidente e primo, appassionato allenatore. Mentre intorno la Somalia è sempre più preda dell’irrigidimento politico e religioso, mentre le armi parlano sempre più forte la lingua della sopraffazione, Samia guarda lontano, e avverte nelle sue gambe magre e velocissime un destino di riscatto per il paese martoriato e per le donne somale. Gli allenamenti notturni nello stadio deserto, per nascondersi dagli occhi accusatori degli integralisti, e le prime affermazioni la portano, a soli diciassette anni, a qualificarsi alle Olimpiadi di Pechino. Arriva ultima, ma diventa un simbolo per le donne musulmane in tutto il mondo. Il suo vero sogno, però, è vincere. L’appuntamento è con le Olimpiadi di Londra del 2012. Ma tutto diventa difficile. Gli integralisti prendono ancora più potere, Samia corre chiusa dentro un burqa ed è costretta a fronteggiare una perdita lacerante, mentre il “fratello di tutta una vita” le cambia l’esistenza per sempre. Rimanere lì, all’improvviso, non ha più senso. Una notte parte, a piedi. Rincorrendo la libertà e il sogno di vincere le Olimpiadi. Sola, intraprende il Viaggio di ottomila chilometri, l’odissea dei migranti dall’Etiopia al Sudan e, attraverso il Sahara, alla Libia, per arrivare via mare in Italia.

Marisa Fenoglio, Vivere altrove, Sellerio, 1997. 

«“Esistono esperienze, scrive Elias Canetti ne La lingua salvata, che traggono la loro forza dalla situazione di unicità e isolamento in cui vengono a compiersi”. Questa esperienza io la feci a Niederhausen. Non era città, non era campagna, non era in una bella valle operosa: era l’ultimo fanalino del mondo». Stabilitasi in Germania alla fine degli anni cinquanta per seguire il marito, dirigente d’azienda, Marisa Fenoglio non conosce la disperazione degli emigranti del Sud, spinti dalla necessità del vivere a trovare lavoro al di là delle Alpi. La sua – così la definisce in Vivere altrove – è una emigrazione «privilegiata, facile». Ma non meno lacerante in questo racconto tra autobiografia e romanzo è il senso di sradicamento e la ricerca, mai appagata, dell’appartenenza. «Nessun emigrato conosce alla partenza la portata del suo passo. Il suo sarà un cammino solitario, incontrerà difficoltà che nessuno gli ha predetto, dolori e tristezze che pochi condivideranno. L’emigrazione gli mostrerà sempre la sua vera faccia e a ogni ritorno constaterà quanto poco sappiano coloro che restano di ciò che capita a coloro che sono partiti.»

Mimmo Gangemi, La signora di Ellis Island, Einaudi, 2011. 

Quando la bocca nera del piroscafo verso la Merica lo ingoia, Giuseppe non immagina che questa partenza cambierà non solo la sua vita, ma anche la vita di quelli che verranno.
 Grazie alla signora di Ellis Island, la sconosciuta dal viso familiare che lo ha soccorso quando tutto sembrava perduto.
 E che non smette di apparirgli in sogno con la veste azzurra e il suo bambino in braccio. È il 1902 e molti italiani partono a cercare fortuna in America. Anche Giuseppe, ventun anni, figlio maggiore di una famiglia contadina dell’Aspromonte, lascia tutto quello che ha e attraversa l’oceano, con la promessa di tornare. Sbarcato a Ellis Island, non supera le visite di controllo e viene isolato in attesa di essere rispedito indietro. Ma gli appare una signora vestita d’azzurro e con un bimbo in braccio, che gli spalanca le porte dell’America.
 Dopo cinque anni nell’aria viziata delle miniere e delle fonderie, Giuseppe torna in Calabria.
 La convinzione di aver ricevuto un miracolo lo scorta per l’intera vita e guida ogni sua decisione. L’incontro con la signora di Ellis Island cambia inaspettatamente le sorti di tutta la famiglia.

Björn Larsson, La saggezza del mare (2003), traduzione di K. De Marco, Iperborea, 2003. 

Quanto il mare, con le sue tempeste e le sue bonacce, la sfida di avventurose navigazioni in acque burrascose, la vita di bordo con la sua disciplina e le sue leggi, i porti, con il loro richiamo a mondi lontani, siano fondamentali per Björn Larsson, i lettori l’hanno imparato dai suoi romanzi, ma in questo libro è direttamente lui a dircelo, rinunciando alla finzione letteraria per esprimere le sue «riflessioni sulla vita come la si vede dal pozzetto e dal ponte di una barca a vela». Una sorta di diario di bordo interiore tenuto negli anni passati senza fissa dimora con la barca come unica casa, navigando nell’Atlantico e nel Mare del Nord, tra Scozia, Irlanda, Galles, Bretagna, Galizia ed Ebridi, lasciando che i pensieri seguano l’umore del vento e il ritmo delle onde, mossi da epiche traversate, dagli ancoraggi di porto in porto, da incontri e da solitudini, da paesaggi e letture, cercando di capire perché è così forte su molti l’attrazione del mare da preferirne i rischi e i disagi alla comoda sicurezza della terraferma e quale segreta armonia c’è tra il suo costante moto e le più profonde aspirazioni umane. Il bisogno di libertà, per esempio, dal superfluo e dai condizionamenti, dalle convenzioni e dal cartellino da timbrare, che è l’immediata conquista del navigare, il tornare nomadi e vagabondi, legati al presente e all’essenziale, ritrovando nella lentezza della vela il ritmo del camminare, l’apertura agli altri, le chiacchierate sotto le stelle, la felicità di superare i propri limiti senza altri testimoni che gli elementi. Un libro scritto con la semplicità levigata dalle lunghe meditazioni solitarie, pensieri che penetrano a poco a poco dentro con il loro stimolo a salpare, a seguire il sogno con umile realismo, imparando a procedere a navigazione stimata, accettando di vivere, come sul mare, nell’incertezza, lasciando che l’inspiegabile resti inspiegato, sapendo che il compromesso e la via di mezzo non sono un ripiego, ma l’unica risposta onesta alla complessità dei problemi umani, scoprendo che «a volte il mare sembra un sogno, tanto si è vicini alla realtà.»

Gregory David Roberts, Shantaram (2003), traduzione di Vincenzo Mingiardi, Neri Pozza, 2006. 

Nel 1978, il giovane studente di filosofia e attivista politico Greg Roberts viene condannato a 19 anni di prigione per una serie di rapine a mano armata. È diventato eroinomane dopo la separazione dalla moglie e la morte della loro bambina. Ma gli anni che seguono vedranno Greg scappare da una prigione di massima sicurezza, vagare per anni per l’Australia come ricercato, vivere in nove paesi differenti, attraversarne quaranta, fare rapine, allestire a Bombay un ospedale per indigenti, recitare nei film di Bollywood, stringere relazioni con la mafia indiana, partire per due guerre, in Afghanistan e in Pakistan, tra le fila dei combattenti islamici, tornare in Australia a scontare la sua pena. E raccontare la sua vita in un romanzo epico di più di mille pagine.

Emilio Salgari, La tigre della Malesia, ne La Nuova Arena, 1883-1884. Poi Le tigri di Mompracem, Genova, Donath, 1900. Nuova edizione: Einaudi, 2001. 

«La notte del 20 dicembre 1849 un uragano violentissimo imperversava sopra Mompracem, isola selvaggia, di fama sinistra, covo di formidabili pirati...» È con queste parole che ha inizio uno dei romanzi più celebri e avvincenti di Emilio Salgari. Capo delle Tigri di Mompracem, una banda di pirati ribelli che lottano contro le potenze britanniche e olandesi, è Sandokan, la «Tigre della Malesia», il principe-pirata spodestato dagli inglesi che hanno sterminato tutta la sua famiglia. Affascinato dai racconti del fido Yanez su una meravigliosa fanciulla dai «capelli biondi come l’oro, gli occhi più azzurri del mare, le carni bianche come l’alabastro», Sandokan decide di salpare verso la desertica isola di Labuan, dove, per vedere almeno una volta la bella Marianna, si imbatterà in ogni sorta di pericoli e avventure.

Michele Serra, Ognuno potrebbe, Feltrinelli, 2015.  


Perché la parola “io” è diventata un’ossessione?
 Perché fare spettacolo di ogni istante del proprio vivacchiare? Giulio non lo sopporta, e soprattutto non lo capisce. Si sente fuori posto e fuori tempo. 
Ma di questa sua estraneità non si compiace: sospetta di essere un «rompiballe stabile», come lo definisce la fidanzata Agnese. 
In un’imprecisata pianura che fu industriale e non è quasi più niente, Giulio si aggira in attesa che qualcosa accada. Per esempio che qualcuno gli spieghi a cosa servono, se non a perdersi meglio, le rotonde stradali; o che qualcuno compri il capannone di suo padre, che fu un grande ebanista. Una bottega un tempo florida e adesso silenziosa e immobile, come un grande orologio fermo. Scritto quasi solo al presente, come se passato e futuro fossero temporaneamente sospesi, Ognuno potrebbe è il rimuginare sconsolato e comico di un vero e proprio eroe dell’insofferenza. 
Un viaggio senza partenza e senza arrivo che tocca molte delle stazioni di una società in piena crisi. Nella quale la morte del lavoro e della sua potenza materiale ha lasciato una voragine che il narcisismo digitale non basta a riempire.


Ishiguro, prima parte

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Quel che resta della dignità

Il Nobel per la Letteratura 2017 è andato a Kazuo Ishiguro «per avere svelato, in romanzi di grande potenza emotiva, l’abisso che si spalanca sotto l’illusorietà del nostro legame col mondo». Quel che resta del giorno (1989), il suo romanzo più famoso, colpì per la ricchezza dei contenuti e l’insolito punto di vista narrativo: quello del signor Stevens, maggiordomo in una dimora aristocratica inglese. Ma a stupire ancora di più fu l’impressionante capacità dell’autore, nato a Nagasaki da genitori giapponesi, di calarsi in modo così credibile nei panni dell’anziano domestico britannico. D’accordo: Ishiguro è nato in Giappone nel 1954 ma si è trasferito con la famiglia nel Regno Unito all’età di soli sei anni; nella nuova patria è cresciuto, ha studiato, si è laureato; nella nuova lingua scrive e, forse, tesse i suoi pensieri. Dal 1982 è cittadino britannico e solo britannico: non ha più un passaporto giapponese. Ma prima di Quel che resta del giorno aveva già pubblicato (sempre in inglese) due romanzi così “giapponesi” che più giapponesi non si può: Un pallido orizzonte di colline(1982) e Un artista del mondo fluttuante (1986), entrambi imperniati sulle conseguenze della guerra – e della sconfitta – nel suo paese d’origine. Il talento mimetico di Ishiguro fa pensare a quello degli attori più versatili, pronti a “indossare” le sembianze e le psicologie più disparate con naturalezza, precisione e realismo. Nei primi tre romanzi si immedesima in altrettanti io narranti – una giovane donna sopravvissuta alla bomba atomica; un anziano pittore colpevole di aver sostenuto il nazionalismo e la più catastrofica delle guerre; un maggiordomo inglese testimone passivo di cospirazioni nazifasciste fra le due guerre – “interpretando” questi personaggi con straordinaria vivezza, tanto da indurre il lettore a commuoversi per loro e persino a perdonarne gli errori più gravi.

Ishiguro ha una leggerezza di tocco che gli consente di addentrarsi nella tragedia e nella sofferenza senza lasciarsene sopraffare. E sa trarre profitto dalla sua doppia matrice culturale (oriente e occidente in una persona sola) per farci riflettere meglio sulla storia del Novecento e sulla fragilità delle convinzioni umane. Ma è poi vero – sembra chiederci lo scrittore ­– che gli uomini sono tanto diversi quanto lo sono i luoghi delle loro radici? «Nella società inglese e in quella giapponese», osservava durante un’intervista rilasciata a Gabriele Romagnoli, «il controllo delle emozioni è considerato una qualità. In Giappone lo si fa per timore di offendere, in Inghilterra per paura di mostrare come si è realmente.» Il controllo delle emozioni o understatement che dir si voglia – in stile nipponico nei primi due libri e britannico nel terzo – non è il solo ingrediente ad accomunare i tre romanzi, a dispetto della prima impressione che tende a separare Quel che resta del giorno dai precedenti. In realtà c’è fra i tre romanzi una tale affinità da far pensare a una specie di trilogia.
Una recensione di Quel che resta del giorno su La Stampa del 1° dicembre 1990. Autore: Gabriele Romagnoli.

C’è, innanzitutto, lo sfondo storico: la seconda guerra mondiale vista prima e dopo l’apocalisse, attraverso i mutamenti che produsse, filtrata dalla memoria dei personaggi principali. Che in tutti e tre i casi rivedono il proprio passato da una nuova angolatura temporale e psicologica, lasciando che la loro esperienza presente si alterni continuamente ai flashback. Comune ai tre romanzi è, inoltre, il tema della ricerca della «dignità», valore tenuto in gran conto dai perdenti di Ishiguro ma la cui sostanza, ahinoi, non garantisce automaticamente la qualità morale delle scelte fatte in suo nome.

Il destino delle donne e le responsabilità degli anziani

Ma procediamo con ordine, a partire da Un pallido orizzonte di colline. Etsuko, che nella mezza età si ritrova doppiamente vedova (di un marito giapponese, a Nagasaki, e di uno occidentale, in Inghilterra), riflette sulla propria condizione di donna e di madre sfortunata, cercando di far prevalere il coraggio sulla rassegnazione. La guerra ha reso ancora più problematico l’isolamento esistenziale delle donne giapponesi, costrette alla soggezione da una rete di tradizioni tanto inflessibili quanto caparbiamente osservate. Ma le circostanze hanno indotto le più audaci a conquistare l’indipendenza necessaria a cavarsela nelle difficoltà del dopoguerra. A Nagasaki, Etsuko – incinta e con il primo marito ancora in vita – tiene d’occhio, con ammirazione non esente da imbarazzi, la “strana” libertà piovuta sulle spalle di due vedove di guerra. La più anziana ha perso tutto: casa, marito e figli, ma ha messo su una modesta trattoria per tirare avanti. La più giovane, Sachiko, sogna di imbarcarsi per l’America con la figlioletta traumatizzata dagli orrori di cui è stata testimone, ed è disposta a qualunque compromesso pur di riuscire nel suo intento. In questo romanzo, così come nei successivi, Ishiguro è bravissimo a mettere in luce le tante contraddizioni che inquinano i principii etici dei benpensanti. Sachiko compie azioni disapprovabili in astratto, ma il suo dovere è quello di dare un avvenire alla bambina, costi quel che costi; è il suo senso di responsabilità a suggerirle di trasgredire alle norme. Riuscirà l’irreprensibile Etsuko a salvare le proprie figlie, come Sachiko ha forse fatto con la sua?
Utagawa Hiroshige, Hodogaya: ponte Shinmachi, 1833-1834. «...mi capita ancora di scendere il sentiero che conduce al fiume e al piccolo ponte di legno tuttora noto a chi viveva qui prima della guerra come “il Ponte dell’Esitazione”. Lo chiamavamo così perché, fino a non molto tempo fa, l’attraversarlo ti avrebbe portato nel nostro quartiere del piacere, e lì si vedevano gli uomini con la coscienza turbata – si diceva – muoversi incerti, nel dubbio se cercare lo svago d’una sera o se tornare a casa alle loro mogli.» (Ishiguro, Un artista del mondo fluttuante).

Non solo di donne parla il romanzo, ma anche di vecchi (il passato) e bambini (l’incerto futuro). Molte delle pagine più belle, in Un pallido orizzonte di colline e Un artista del mondo fluttuante, sono dedicate al conflitto tra i giovani e gli anziani, ritenuti – questi ultimi – responsabili di aver provocato, con le loro idee, guerra, distruzione e disonore. Ishiguro scrive dialoghi formidabili. Nei battibecchi fra padri e figli deve tener conto del grandissimo rispetto che varie civiltà orientali (Giappone compreso) tributano agli anziani; nessun Renzi-san oserebbe, da quelle parti, auspicare ad alta voce la «rottamazione» dei senior: suonerebbe come una bestemmia. Ma la devozione a padri, suoceri e nonni, pur formalmente dovuta, non può assolverli dai crimini eventualmente commessi in nome dell’onore nazionale e del patriottismo. In entrambi i romanzi ci sono cattivi maestri che hanno persino denunciato alle autorità i propri allievi e colleghi di lavoro, tacciandoli ora di disfattismo, ora di comunismo; e che pretendono, a tragedia ultimata, di essere considerati innocenti, solo per aver agito «in buonafede».
«Due minuti dopo le undici, 9 ore dopo che aveva lasciato Tinian, la bomba venne lanciata ed esplose a 600 metri sopra la città. In pochi istanti, furono uccise oltre 40.000 persone. Altre 500 sarebbero morte prima della fine dell’anno; trent’anni dopo, il totale dei morti di Nagasaki fu calcolato a 48.857 persone. Tra coloro che videro esplodere la bomba a Nagasaki vi era il pilota inglese Leonard Cheshire, presente come osservatore. In seguito egli ricordò la nube che saliva, “oscena nel suo avido aggrapparsi al suolo, gonfia come del rigurgito di tutte le vite che aveva consumato.”» (Martin Gilbert, La grande storia della seconda guerra mondiale, Mondadori, 1990). 

Ishiguro scandaglia a fondo le equivoche ragioni per cui si confonde il dovere con il conformismo, anche il più nocivo. I suoi vecchietti si rifugiano dietro gli ideali della tradizione, della disciplina e del patriottismo per giustificare un’idea del dovere non dissimile da quella conclamata dai gerarchi nazisti processati per crimini contro l’umanità. Per fortuna c’è sempre spazio per la speranza e i ravvedimenti. Nel finale de L’artista così va meditando il vecchio pittore Ono, nazionalista pentito (ma non troppo): «Ma vedere come la nostra città è stata ricostruita, come le ferite si sono rapidamente rimarginate negli ultimi anni, mi riempie di autentica felicità. Il nostro paese, per quanti errori possano essere stati compiuti nel passato, ha ora una nuova possibilità di conseguire mète luminose. A noi non resta altro che augurare ogni bene ai giovani.»
Anthony Hopkins (il maggiordomo) ed Emma Thompson (la governante) nel film tratto nel 1993 da Quel che resta del giorno e diretto da James Ivory, specialista di adattamenti cinematografici da opere letterarie. I due domestici d’alto bordo si amano senza dirselo mai: lui, in particolare, è troppo preso dai propri doveri – e troppo impedito dalla timidezza – per aprirsi ai sentimenti. Di notte, comunque, legge segretamente romanzi rosa.

Quanto al maggiordomo Stevens, campione di timidezza, solennità, ottusità disarmante e senso del dovere, è ansioso di farsi un’opinione su quale debba essere la virtù più importante per un professionista del suo rango, quale il criterio che possa contraddistinguere un «grande maggiordomo» da un maggiordomo semplicemente «competente». E qui gli viene incontro la sua associazione di categoria, quando finalmente pronuncia la parola magica: «dignità». Il lettore ride di cuore ogni volta che Stevens filosofeggia, e sospetta che il confine tra dignità e servilismo sia, nel suo caso, pericolosamente incerto; ma la questione è buffa solo a metà, perché – scherzando scherzando – l’autore ci costringe a meditare sulle conseguenze concrete delle opinioni e dei valori che abbiamo scelto di coltivare. Ma anche Stevens merita, infine, qualche speranza. Per caso si imbatte in uno sconosciuto, un coetaneo che coglie al volo le sue debolezze e lo rimprovera: «Smettila di guardarti indietro continuamente, altrimenti non puoi far altro che essere depresso. [...] La sera è la parte più bella della giornata. Hai concluso una giornata di lavoro e adesso puoi sederti ed essere felice.»

Naturalmente sarebbe limitante ammirare di Ishiguro solo la profondità etica e il modo di affrontare l’impatto della Storia sulla nostra vita. Egli è, innanzitutto, un narratore scafato, brillante, piacevolissimo da leggere.

© Pasquale Barbella

(1 – Continua)
Nagasaki, statua della Pace, scultura alta 10 metri opera di Seibo Kitamura. «La statua ricorda un muscoloso dio greco, seduto con entrambe le braccia tese. La mano destra indica il cielo da cui è caduta la bomba; il braccio sinistro, teso e scostato dal corpo, deve trattenere, apparentemente, le forze del male. Gli occhi sono chiusi in preghiera. Ogni volta mi convincevo che la statua aveva un aspetto piuttosto goffo, e non sono mai riuscita ad associarla a quanto era successo il giorno della bomba, o nei terribili giorni successivi. Da lontano la figura risultava quasi comica, perché somigliava a un vigile che regola il traffico.» (K. Ishiguro, Un pallido orizzonte di colline, p. 131).


Bibliografia

A Pale View of Hills (1982)
Un pallido orizzonte di colline
Traduzione di Gaspare Bona
Einaudi, 1991

An Artist of the Floating World (1986)
L’artista
Traduzione di Laura Lovisetti Fuà
Rizzoli, 1988
Un artista del mondo fluttuante
Traduzione di Laura Lovisetti Fuà
Einaudi, 1994
Kitagawa Utamaro, Tre bellezze del nostro tempo, xilografia in stile nishiki-e, 1793 circa. Nel solco della tradizione dei pittori del “mondo effimero”, come venivano definiti i quartieri del piacere, il protagonista di Un artista del mondo fluttuante produce opere su ordinazione attenendosi alle precise istruzioni dei suoi maestri. Ma a un certo punto sgarra, passando a dipingere – dalle geishe e dalle sale da tè – soggetti militari accompagnati da slogan di propaganda. 

An artist of the floating world, pubblicato a Londra nel 1986 da Faber and Faber, uscì in Italia per la prima volta nel 1988 in questa edizione Rizzoli; fu poi ripreso da Einaudi con il titolo completo (Un artista del mondo fluttuante). In copertina una geisha di Utamaro.

The Remains of the Day (1989)
Quel che resta del giorno
Traduzione di Maria Antonietta Saracino
Einaudi, 1990

The Unconsoled (1995)
Gli inconsolabili
Traduzione di Gaspare Bona
Einaudi, 1995

When We Were Orphans (2000)
Quando eravamo orfani
Traduzione di Susanna Basso
Einaudi, 2000

Never Let Me Go (2005)
Non lasciarmi
Traduzione di Paola Novarese
Einaudi, 2016

Nocturnes: Five Stories of Music and Nightfall (2009)
Notturni
Traduzione di Susanna Basso
Einaudi, 2009

The Buried Giant (2015)
Il gigante sepolto
Traduzione di Susanna Basso
Einaudi, 2015

Ishiguro ha scritto anche sceneggiature e testi di canzoni, oltre a racconti solo parzialmente pubblicati in Italia (Notturni).






 



Foglie

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Quanti se ne sono andati…

                                                  Quanti.

Che cosa resta.

                             Nemmeno
il soffio.

                Nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza.

                             Tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia.

                             Come
non lascia traccia il vento
sul marmo dove passa.

                                            Come
non lascia orma l’ombra
sul marciapiede.

                                Tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi.

                               Un brusio
di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri.

                         Foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.



(Da Il franco cacciatore, 1973-1982)

Giorgio Caproni, L’opera in versi, edizione critica a cura di Luca Zuliani, Milano: Mondadori (I Meridiani), 1998.


Maestri dimenticati della fotografia, 3

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Continua la spedizione di Till Neuburg nella storia della fotografia, a caccia di pionieri semidimenticati e di tesori da rivisitare. Per le prime puntate puoi consultare i post uno e due.

Tra gallerie e musei

di Till Neuburg

In questa terza puntata presentiamo cinque maestri europei (un belga, un tedesco, uno svizzero, due francesi) e cinque americani. Anche questa volta, dunque, la presenza statunitense è preponderante, a dispetto di tutti i primati storici e culturali registrati dall’Europa quando gli USA erano ancora di là da venire. Qualche raffronto, tanto per non perdere di vista le differenze:

• Mentre negli USA l’inglese è la lingua madre dell’82% della popolazione residente, nel vecchio mondo si parlano quarantacinque lingue.

• La popolazione americana conta 323 milioni di cittadini. Meno della metà degli abitanti europei (743 milioni).

• La storia degli Stati Uniti intesi come unità istituzionale e culturale inizia il 4 luglio del 1776, appena 241 anni fa. La culla territoriale e formativa dell’Europa si trovava già sulle rive del Tevere il 16 gennaio dell’anno 27 a.C. (oltre due millenni fa), quando Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto divenne arbitro e poi padrone del nascente impero romano. Impero che, se fosse ancora in piedi, includerebbe oggi non solo le nazioni che formano la Comunità europea (meno Polonia, Irlanda e Scandinavia) più Svizzera e Turchia, ma anche tutti gli attuali stati dell’Africa mediterranea e le moderne nazioni del Medio oriente. Un territorio, insomma, di 55 nazioni odierne, cinque in più degli stati che compongono gli attuali USA.

Eppure, questa schiacciante disparità numerica e temporale a favore del vecchio mondo non ha impedito ai giovanissimi Stati Uniti di raggiungere, in meno di un ottavo del tempo impiegato dall’Europa per diventare quello che è, un indiscusso primato in tutti i campi della comunicazione moderna: nel cinema e nella televisione, nel musical e nella musica pop, nel fumetto e nell’animazione, nel giornalismo e nella pubblicità e, last but not least, nella fotografia. Primato di valore persino superiore a quello che sembra a prima vista se, oltre a considerare la nazionalità degli autori, misuriamo l’impressionante peso artistico e commerciale delle fine art photo galleries private statunitensi. Quelle che con più coraggio, lungimiranza e verve hanno lanciato i loro autori di immagini wildlife, landscape, architecture, portrait, fashion, reportage e street photography, non si trovano solo a Manhattan...

Yossi Milo Gallery - New York City

Aperture Gallery - New York City

Danziger Gallery - New York City

Howard Greenberg Gallery - New York City

Pace/MacGill - New York City

Edwynn Houk Gallery - New York City



…ma spesso anche a notevole distanza dalla grande mela:








Per saperne e capirne di più, all’interno di questi siti conviene sempre soffermarsi anche sui soliti about. Questi elenchi sono il risultato di una selezione molto attenta: il principale criterio di valutazione è consistito nella rilevanza storica dei loro artisti, tutti appassionatamente promossi con accurate mostre, profili, conferenze e pubblicazioni di gruppo o individuali.

In Europa e a Gerusalemme, le gallerie fotografiche private di pari peso culturale, mediatico e commerciale sono più o meno queste:
















Inviti, vernissage, presentazioni, autografi, dediche, bollini rossi di prenotazione, caparre, fingerfood, brindisi, foto di gruppo... Nei templi del sistema la liturgia del successo si attua secondo una serie di regole ben definite. Ma ci sono talenti che si spingono molto più avanti, fino a occupare i grandi centri della memoria e dell’ufficialità; allora il fotografo diviene icona, maestro, mito, eroe, con i galerist e i critici sostituiti dai curator e dalle istituzioni e dove le dritte, i rumour e le utopie trendy si tramutano in eventi, percorsi ufficiali, must. Per il fotografo in ascesa il museo è il tempio della consacrazione, un punto d’arrivo e allo stesso tempo di non ritorno.

In Italia quasi tutti i musei multitematici dell’arte moderna (a Milano il Museo del Novecento, la Triennale e il PAC, a Torino il GAM e il Castello di Rivoli, a Rovereto il MART, a Venezia Ca’ Pesaro e la Fondazione Cini, a Bolzano la Fondazione Museion, a Bologna il MAMbo, a Modena la Galleria Civica, a Prato il Centro Luigi Pecci, a Pistoia Palazzo Fabroni, a Roma il MAXXI, l’ICG, il MACRO e lo GNAM, a Napoli Castel Sant’Elmo e la Fondazione Donnaregina, a Matera il MUISMA, a Nuoro il MAN...) contengono importanti sezioni dedicate alla fotografia, ma i nostri musei interamente dedicati al settore sono meno di una decina:







Fuori dai nostri confini, l’offerta storica e celebrativa è ricchissima, sempre di alto livello e continuamente aggiornata. Oltre ai luoghi di culto ufficiali per l’arte moderna dove la fotografia è sempre un tema di primo piano (come il MoMA, il Metropolitan e il Whitney Museum a New York, il Centre Pompidou e il Musée d’Orsay a Parigi, il Victoria and Albert Museum, la Saatchi Art, il Serpentine e la Tate Modern a Londra, lo Stedelijk Museum ad Amsterdam, la Neue Nationalgalerie a Berlino, la Hamburger Kunsthalle, il Guggenheim a Bilbao, il Museum für Gestaltung a Zurigo), i musei dedicati esclusivamente alla fotografia formano un elenco davvero impressionante:































In questo contesto storico, celebrativo e qualche volta anche istituzionale, le agenzie fotografiche rivestono un ruolo pionieristico, dirompente e tendenziale. Ovviamente il modello principe è la leggendaria Magnum fondata nel lontano 1947 da Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger e David Seymour, che in settant’anni di storia ha attratto e riunito un abbondante centinaio di professionisti straordinari tra i quali spiccano i miti di Eve Arnold, Werner Bischof, René Burri, Bruce Davidson, Elliott Erwitt, Paul Fusco, Jean Gaumy, Philippe Halsman, Josef Koudelka, Herbert List, Steve McCurry, Inge Morath, Martin Parr, Raghu Rai, Cristina Garcia Rodero, Ferdinando Scianna, W. Eugene Smith, Dennis Stock.

Un altro gruppo di valore ex-temporaneo e internazionale è la VII Photo Agency, nata nel 2001 con sette fotogiornalisti fondatori. Oggi il gruppo consiste di diciassette fotografi itineranti che lavorano in prevalenza per Time Magazine, The New York Times Magazine, National Geographic, Newsweek, Stern, The Sunday Times Magazine, GEO, Le Monde, Paris Match.

Nata nel 1986 per volontà di Christian Caujolle e Zina Rouabah, attualmente l’Agence Vu conta trentatre membri tra i quali tre italiani: Martina Bacigalupo, Massimo Berruti e Paolo Verzone. La sede – magnifica – si trova nel IX arrondissement di Parigi, a un solo chilometro dalla Magnum. Possiede una propria galleria che ogni anno produce sei mostre, sia di fotogiornalisti che di fotografi d’arte.

La Contact Press fu fondata a New York City nel 1976 dal fotoreporter franco-britannico Robert Pledge e dal collega americano David Burnett. La loro visionaria alleanza fu innescata dal collega francese Raymond Depardon quando quel trio storico era ancora a libro paga della mitica agenzia francese Gamma (che dopo un mezzo secolo di eroica attività ha appena chiuso i battenti in questi giorni). L’anno successivo venivano raggiunti da Frank Fournier, Kenneth Jarecke, Annie Leibovitz, Dilip Mehta e Alon Reininger. Oggi la Contact distribuisce anche le opere di Jane Evelyn Atwood, Nick Danziger, Giorgia Fiorio, Yunghi Kim, Li Zhensheng, Ken Light, Don McCullin, John Morris, Konrad R. Müller e Sebastião Salgado.

Noor (voce araba per definire la luce) è una fondazione e un’agenzia fotografica nata dieci anni fa, con sede centrale ad Amsterdam. I suoi tredici membri fondatori intendono dare un importante contributo iconografico per favorire l’intesa e l’indipendenza tra i popoli di tutto il mondo. Noorè un collettivo di professionisti che collabora molto spesso con importanti realtà sociali come Aidsfonds, Alertnet, Greenpeace, Medici senza frontiere, Oxfam, Save the Children, Unicef. Qui in Italia, il pluripremiato founding member Francesco Zizola è molto popolare in quanto autore della fotografia degli spot televisivi dell’8xmille per la CEI.

Oculiè un’agenzia australiana nata a Sydney nel 2000. I suoi nove membri attuali hanno vinto parecchi premi internazionali come The World Press Photo Awards, Pictures of the Year International, The International Photographer Awards, The American Photography Awards, The Walkley Awards, The Moran Prize. I soci lavorano regolarmente per testate prestigiose come Time, The New York Times, Rolling Stone, Newsweek, GEO, Harpers Bazaar, The Wall Street Journal, Le Monde, Monocle, The Washington Post, The British Journal of Photography, The Guardian. La qualità dei loro reportage è semplicemente strepitosa.

Spesso la grandezza di questi innovatori non si esprime solo attraverso le loro foto, ma in modo altrettanto netto con le loro scelte di vita. Vite il più delle volte poco tranquille, stabili, placide, sedentarie. Per i maestri della fotografia il movimento non è solo una metafora mentale, ma un’autentica necessità – da assecondare con le proprie mani, braccia e gambe, pedalando, camminando, viaggiando. La foto memorabile non è una perla che trovi ordinando ostriche in un locale à la page, ma una pepita che riesci con fatica a dissotterrare dopo aver lungamente e pazientemente scavato, scavato, scavato.

Persino il proverbiale attimo magico di Cartier-Bresson non è mai stato un inatteso coup d’œil, una trouvaille, una combine... ma “solo” l’inevitabile conclusione di una lunga trama di osservazioni, guizzi, lampi, brecce e fenditure mentali di cui lo scatto dell’otturatore dell’amatissima Leica è solo stato l’ultimo afflato. Insomma, un magnifico esercizio di clarté. Altro che bonne chance!

Come aveva osservato il suo lucido connazionale Hyppolite Taine: «On voyage pour changer, non de lieu, mais d’idées». È esattamente questo che spinge anche il fotografo a cercare di continuo nuove idee, orizzonti, prospettive, punti di vista. Per documentare al meglio questa magnifica ovvietà, il ritratto del primo protagonista di questa puntata sembra un documento perfettamente coerente e convincente: mostra un caotico atelier fotografico ricavato da una carrozza di un treno in movimento.

William Henry Jackson
1843-1942

Prima di raccontare con grande perizia, empatia naturalistica, pathos e passione il Far West, e diventare così un mito della fotografia americana, Jackson era stato anche un valente pittore, un giovane soldato nella Guerra di secessione, un viaggiatore-esploratore esperto di geologia e uno studioso di varie etnie di nativi come gli Omahas, gli Osages, gli Otoes, i Pawnee e i Winnebagoes.

Nato vicino a New York, passò l’infanzia nel Vermont. Sua madre Harriet era un’acquarellista molto dotata e a soli 15 anni Jackson imparò il mestiere di ritoccatore presso lo studio Troy a New York, attività che svolse fino al raggiungimento dell’età maggiore, ma presto si sarebbe fatto notare per il suo notevole talento pittorico. Quando a 19 anni si arruolò nell’esercito dell’Unione per combattere nella Guerra di secessione, Jackson era già considerato un pittore affermato. Negli intervalli tra i vari scontri (prese parte anche all’epica battaglia di Gettysburg), ritrasse gran parte dei suoi commilitoni inviando i disegni a casa, anche per confermare di essere ancora vivo.

Dopo il congedo ruppe il fidanzamento con una ragazza del Vermont, salì su un treno della Union Pacific e partì per il Far West fino a raggiungere il capolinea, Omaha nel Nebraska. Di lì proseguì con una carovana facendo il vetturino di un carro trainato da buoi fino a Salt Lake City, nello stato dell’Utah.

Quando aveva appena 26 anni, per scopi dichiaratamente promozionali la Union Pacific gli commissionò un’ampia documentazione fotografica sulle varie tratte già operative della società. Il geologo Ferdinand Hayden, leader di una spedizione esplorativa nell’area attraversata dal fiume Yellowstone, gli chiese di raggiungerlo. Come membro della Hayden Geological Survey, Jackson fece parte di uno straordinario team interdisciplinare formato da geologi, mineralisti, topografi, botanici, zoologi e altri scienziati; e in quanto fotografo ufficiale dell’impresa produsse spunti decisivi per indurre il Congresso a decretare l’istituzione del primo parco naturale degli USA, lo Yellowstone National Park.

Jackson operò con vari formati di camere e lastre sensibili, in condizioni spesso estremamente difficili e faticose. L’esposizione poteva richiedere da un minimo di cinque secondi fino a venti minuti: un lavoro ancora svolto senza esposimetri e che si basava esclusivamente sull’esperienza e sull’intuizione. Preparare, esporre, sviluppare, fissare, lavare ed essiccare una sola lastra poteva richiedere anche un’intera ora. Per attuare l’impresa Jackson ebbe bisogno di una squadra di uomini che l’aiutassero a trasferire l’equipaggiamento a dorso di mulo, ma il peso delle lastre e di una camera oscura portatile limitarono drasticamente il numero delle foto realizzabili.





Sulla base della preziosa esperienza acquisita come prospector e fotografo documentarista per l’apertura di nuove linee ferroviarie, Jackson fu invitato a svolgere simili operazioni in tutti i continenti: in Algeria, Arabia, Argentina, Australia, Bolivia, Brasile, Ceylon, Cile, Colombia, Corea, Cuba, Egitto, Ecuador, Giappone, India, Inghilterra, Marocco, Messico, Nuova Zelanda, Paraguay, Perù, Russia, Siam, Sudafrica, Tasmania, Tunisia, Turchia, Uruguay, Venezuela – diventando senza dubbio il fotografo più cosmopolita dell’Ottocento. Questo enorme accumulo di perizia l’avrebbe poi portato a ricoprire – in proprio o per conto di importanti compagnie e istituzioni – prestigiosi ruoli di presidente, partner e consulente editoriale e museale: si occupò, tra l’altro, del Marshall Field’s Museum di Chicago, della rivista Harper’s Weekly, della Detroit Publishing Co. e della fondazione Edison. Ma molto prima di raggiungere questi traguardi, Jackson aveva già condotto studi fotografici di grande richiamo e successo con la collaborazione di due fratelli e successivamente della seconda moglie e di una figlia, a Omaha, a Denver e a Detroit.

A 81 anni suonati Jackson concluse la sua mirabile carriera tornando alla sua primissima attività e realizzando, sulle pareti del Ministero degli Interni a Washington D.C., murales con epiche scene dell’Old West.

Grazie alla partecipazione personale alla battaglia di Gettysburg, nel 1939 il mogul cinematografico David O. Selznick lo chiamò sui set della sua MGM per garantire che durante le riprese di Via col vento tutti i dettagli storici, ambientali e militari fossero scrupolosamente rispettati. Tre anni dopo, a 99 anni, Jackson si spense nella sua New York, dopo aver consegnato al popolo americano un lascito fotografico di 80.000 immagini del West. Fu tumulato con tutti gli onori nel cimitero militare di Arlington.

Frances Benjamin Johnston
1864-1952

Prima ancora di essere una fotografa dal talento multiforme e innovativo, questa figlia unica di un contabile del ministero del tesoro e di un’agguerrita giornalista parlamentare è stata una donna dotata di un coraggio civico, culturale e anche commerciale, di rara preveggenza.

Nel 1882, a soli diciott’anni, pubblicò nel mensile per ragazzi St. Nicholas Magazine un articolo anticipatore, Old Things Have Passed Away. L’anno successivo lasciò il suo paese per studiare disegno e pittura all’Académie Julian a Parigi. Grazie alla sua implacabile sete di indipendenza e libertà, non si sposò mai.

Appena rientrata dall’Europa ricevette in regalo la sua prima fotocamera direttamente dalle mani dell’amico di famiglia George Eastman, il fondatore della Eastman Kodak. I primi rudimenti professionali glieli avrebbe poi trasmessi Thomas William Smillie, il direttore del dipartimento fotografico dello Smithsonian Institute domiciliato nella capitale. 

Dopo un periodo d’apprendistato divenne subito economicamente indipendente lavorando come illustratrice e fotografa freelance per alcune riviste, ma godendosi anche qualche anno di gioiosa vita bohème. Realizzò servizi e reportage nella zecca dello stato, in alcune miniere, su una serie di cattedrali e piroscafi; e un’ampia galleria di ritratti della high society della capitale. Diventò in poco tempo ritrattista ufficiale della Casa Bianca durante le presidenze di Harrison, Cleveland, McKinley e “Teddy” Roosevelt – un capo dell’esecutivo notoriamente maschilista e appassionato di armi, magnificamente descritto nel film Il vento e il leone di John Milius. A Washington conobbe le alte sfere politiche, istituzionali e intellettuali della nazione, organizzò balli in maschera nel suo studio e viaggiò parecchio (sempre da sola) visitando quasi tutti gli altri stati americani.

Nonostante un periodo profondamente segnato dai cambiamenti e dall’inventiva di gente come Thomas A. Edison, Henry Ford, Graham Bell e i fratelli Wright, i ruoli e i luoghi assegnati alle donne rimasero sempre gli stessi: il coro della chiesa, le sartorie e i fornelli. Ma Johnston si ribellò: lavorò in modo indipendente e battagliero come fotoreporter, a libro paga della prima news agency americana, la George Graham Bain a New York. Nel 1897, a 33 anni, scrisse per il Ladies Home Journal un articolo profetico per le sue future colleghe, dal titolo What A Woman Can Do With A Camera.

Era ormai un’indiscussa anticipatrice e opinion leader, prima di tutto di sé stessa: «Quando faccio delle foto d’interni, di solito caccio gli inquilini e chiudo le porte a chiave». In alcuni casi si mise addirittura a spostare lei stessa i mobili e a togliere dalle pareti gli oggetti che la irritavano. Della sua serie sugli storici edifici di legno nel profondo sud, esiste la sequenza di una grocery con parecchie insegne e cartelli pubblicitari all’esterno. Per motivi che non sapremo mai, nell’ultima immagine (per lei ovviamente quella definitiva) uno dei cartelli è deliberatamente occultato con un panno nero.

A proposito delle sue foto eseguite in esterni diceva: «Non scatto mai prima che la luna è quella che voglio io... per non parlare del sole e delle ombre. Devo sempre essere atrocemente paziente per attendere che la luce sia esattamente quella giusta. Qualche volta faccio segare un albero, levare un ceppo o piazzare una piattaforma per ottenere una prospettiva ottimale. Ho scattato delle foto dal tetto di furgoni o da camion stracarichi. Se mi trovo in una strada pubblica, chiamo spesso la polizia per far bloccare o deviare il traffico».

Johnston non fu solo una pioniera della fotografia e del giornalismo americano, ma anche dei diritti delle donne. Senza essere mai stata una suffragetta pubblica, è senz’altro da considerare una grintosa femminista ante litteram. I rapporti con le concorrenti fotografe furono sempre molto aperti e collaborativi. Usò la sua crescente fama anche per supportare altre artiste americane, per esempio organizzando una mostra di pittrici connazionali alla Fiera Universale di Parigi del 1900.

Nel 1933 ricevette dalla Carnegie Foundation una prima borsa di studio per documentare i tesori dell’architettura coloniale del sud: percorse più di 150.000 miglia in un’elegante Buick guidata da un autista per scattare oltre 10.000 foto. Un finanziamento che avrebbe ricevuto altre cinque volte negli anni successivi.

Nella sua luminosa carriera black & white, ci sono temi sviluppati con magnifica insistenza. Per l’Hampton Institute nello stato della Virginia, un’istituzione privata nata dopo la Guerra di secessione per offrire un’adeguata istruzione agli schiavi liberati, Johnston scattò centinaia di immagini di corsi, aule e classi dove si svolgevano seguitissime lezioni di fisica, matematica, storia, pittura, botanica, chimica, lavorazione del legno, muratura, cucito, e persino di ginnastica, impartite da insegnanti sia bianche che di colore. Un simile compito lo assunse anche nel Tuskegee Institute in Alabama, nella Carlisle Indian Industrial School in Pennsylvania e nella Eastern High School di Washington D.C.

Un’altra serie è dedicata alle chiese rurali del profondo sud, altre ancora a escursioni di speleologia, a una fabbrica di scarpe e alla Corte Suprema nella capitale.






Tra le 20.000 foto che nel 1947 donò alla Library of Congress ci sono due autoritratti: il primo lo fece quando aveva 32 anni e la mostra con in una mano un boccale di birra e nell’altra una sigaretta accesa, con le gambe accavallate bene in vista e con dietro, sopra un caminetto acceso, le foto delle sue presunte ultime conquiste maschili. Nel secondo autoscatto realizzato mezzo secolo dopo, alla venerabile età di 83 anni, la vediamo con un vezzoso cappellino ornato da piume e quattro rose di nastro di seta; sfoggia guanti italiani di nappa e una preziosa stola di visone. Ha indosso anche due cose invisibili ma profondamente caratterizzanti: un paio di scarpe da tennis e un’irrefrenabile voglia di scherzare con i giovani che la veneravano, anche in quell’occasione.

Amava giocare con i ruoli non tralasciando mai un’occasione per confondere le persone, di spiazzare l’establishment, di stupire. A modo tutto suo era un misto fin-de-siècle di Cindy Sherman, Marina Abramović e Anaïs Nin. Non dichiarò mai pubblicamente di essere lesbica, ma nei fatti e nei rapporti personali la sua preferenza di genere – soprattutto civica e culturale – fu sempre evidente. Delle proprie lettere personali, scritte con una macchina per scrivere, conservava sempre una copia fatta con carta carbone, ma più avanti negli anni distrusse tutte le sue copie. Perciò della sua vita in giovane età si sa molto poco.

Più che invaghirsi di altre donne, Johnston fu amata da loro: per esempio da Mattie Edwards Hewitt, moglie di un collega fotografo di St. Louis, dal quale avrebbe poi divorziato per raggiungere l’amica a New York e aprire con lei uno studio fotografico specializzato in riprese di giardinaggio e architettura. Mattie le scriveva messaggi maliziosi, ma anche sinceri e toccanti. Del tipo «... devo ammetterlo, sono pazza di te».

L’estensore di queste righe, sebbene per motivi un po’ diversi, è pazzo di Frances Johnston pure lui. Per quelle sue immagini tutte concepite e realizzate in modo lucido, battagliero e indipendente, che non obbediscono mai a un format, a una tecnica, a uno stile, ma solo e sempre a un’indomabile voglia di vivere.

Gertrude Käsebier
1852-1934

A metà Ottocento la febbre dell’oro non si propagò solo in California, nel Klondike e in Alaska, ma anche e soprattutto nel Colorado. Proprio là si avventurò John W. Stanton, l’intraprendente padre della piccola Gertrude: non per scovare tesori, vene o lucide pepite, ma dei fessi desiderosi di comprar casa da quelle parti. Presto gli affari dell’estemporaneo immobiliarista andarono talmente bene che a Golden City, cittadina dal nome eloquente, centinaia di seeker speranzosi, di giocatori d’azzardo, il pastore e gli inevitabili proprietari di barber shop, groceries e saloon, lo acclamarono presto come sindaco.

A quel punto, quando Gertrude aveva appena otto anni, Stanton fece trasferire la famiglia dalla natia Des Moines dell’Idaho in quell’enclave della speranza e dell’inganno abitata da settecento anime. Il caso volle che intorno alla loro casa la stragrande maggioranza dei bambini avessero genitori navajo e cheyenne e così, prima ancora di diventare teenager, la bambina entrò in confidenza con gli usi e i costumi degli unici americani autentici del posto. Più avanti quella circostanza si sarebbe rivelata come un auspicio di grande significato umano e professionale per la sua carriera.

Dopo l’improvvisa morte del padre, lei e la madre si trasferirono a Brooklyn campando grazie alla gestione di una pensione. A ventidue anni la giovane Stanton sposò l’uomo d’affari tedesco Eduard Käsebier; presto avrebbero avuto tre figli. Nel 1884 si spostarono in una fattoria del New Jersey per garantire ai ragazzi un’aria più salubre. Più avanti Gertrude ammise che quel matrimonio era stato un fallimento straziante: «Se mio marito è andato in cielo, io voglio andare all’inferno. Era un uomo tremendo». All’epoca un divorzio era considerato sconveniente e i due rimasero sposati pur vivendo due vite separate. Nonostante i contrasti, il marito le pagò una scuola d’arte che lei iniziò a frequentare a trentasette anni suonati. Non avrebbe saputo spiegare quali motivazioni la spingessero a intraprendere quella nuova carriera, ma vi si dedicò con l’entusiasmo di una donna fermamente decisa a recuperare gli anni perduti. Il Pratt Institute of Art and Design, al quale si era iscritta a tempo pieno, è a tutt’oggi una delle migliori scuole d’arte del mondo.

In quegli anni, la matura studentessa imparò a conoscere i metodi del pedagogo tedesco Friedrich Fröbel, che con le sue idee sull’apprendimento, il gioco e lo sviluppo dei bambini avrebbe originato l’apertura dei primi Kindergarten in Germania e poi nel mondo. Anche l’intensità del rapporto con i propri figli influenzò le tematiche e lo stile della sua arte. A scuola studiava disegno e pittura, ma presto si sentì fortemente attratta dalla fotografia. Nel 1894 andò in Germania ad approfondire le basi ottiche e chimiche della fotografia, e concluse il viaggio in Francia per specializzarsi con lo storico dell’arte e pittore americano Frank DuMond. L’anno successivo, con i figli ormai maggiorenni, rientrò a Brooklyn. Nel frattempo il marito s’era gravemente ammalato e le finanze della famiglia erano agli sgoccioli. Ciò rafforzò la decisione della donna a fare della sua passione un lavoro. Per un anno fece l’assistente del fotografo Samuel H. Lifshey, dal quale imparò a gestire uno studio fotografico e a perfezionare le sue competenze in camera oscura. In capo a un solo anno fu in grado di esporre, al Boston Camera Club, centocinquanta opere sue, una quantità impressionante per l’epoca; pochi mesi dopo, anche il Pratt ospitò la mostra. Questo doppio successo le aprì le porte della prestigiosa Photographic Society di Philadelphia, dove fu accolta con tutti gli onori. Durante quelle rassegne, la signora Käsebier presentò e commentò pubblicamente i propri lavori incoraggiando le donne presenti a intraprendere anch’esse la carriera fotografica.

Nel 1897 aprì uno studio tutto suo a Manhattan, nel tratto più chic di Fifth Avenue, quello che costeggia il Central Park. Il successo dei suoi ritratti fu immediato. Presto la sua fama si diffuse nell’intero paese, a tal punto che persino la madre di Laura Gilpin la raggiunse dal lontano Colorado per commissionarle un ritratto dei propri figli.

Nel 1898 vide passare sotto le finestre del suo studio una parata dello show Buffalo Bill’s Wild Westche stava dirigendosi verso il Madison Square Garden per tenervi uno spettacolo. Fu talmente impressionata dalla bellezza e dall’orgoglio di quella gente che, memore dei suoi ricordi d’infanzia nel Colorado, le venne spontaneo scrivere una lettera allo stesso William “Buffalo Bill” Cody per chiedergli il permesso di ritrarre nel suo studio i sioux che facevano parte di quella troupe. Cody, che nei confronti dei nativi provava lo stesso profondo rispetto, acconsentì senza esitare.

Il proposito di Gertrude Käsebier era puramente artistico: nessuna delle sue immagini sugli indiani sarebbe mai stata usata per fini commerciali, né da parte sua né da parte di Cody. Le sessioni furono estremamente pacate e reciprocamente rispettose (a tutti veniva servito del tè, come allora s’usava nei salotti buoni) e coinvolgevano parecchi capi tribù come High Heron, Has-No-Horses,  Samuel Lone Bear, Joseph Black Fox, Red Horn Bull, Shooting Pieces, Philip Standing Soldier, Kill-Close-to-the-Lodge, più alcune delle loro donne e persino un cane, ma i suoi modelli preferiti furono Chief Iron Tail (Capo Coda Chiazzata) e Chief Flying Hawk (Capo Falco Volante). Quest’ultimo aveva combattuto nella battaglia di Little Big Horn ed era presente al massacro di Wounded Knee, dove aveva visto morire suo cugino Crazy Horse (Cavallo Pazzo).

Nel 1899 Alfred Stieglitz pubblicò nelle sue Camera Notes cinque ritratti di nativi realizzati dalla signora Käsebier, affermando che si trattava «...fuori di ogni dubbio della più importante ritrattista dell’epoca». Quell’anno una stampa del suo Manger(Mangiatoia), dove si vede una giovane madre allattare un neonato in una stalla, palesemente un’affabile citazione di Maria con in braccio Gesù Bambino, venne venduta per la somma record di 100 dollari, mai raggiunta prima di allora da un’opera fotografica.

Nell’anno 1900, in occasione del Newark Photography Salon, Käsebier fu definita «la più importante fotografa professionale degli Stati Uniti». Sulla base di questi successi, fu la prima donna fotografa a essere eletta nell’elitario Linked Ring britannico. Nel 1902 Stieglitz la cooptò come socia fondatrice del movimento Photo-Secession. In varie edizioni della sua rivista Camera Work, Stieglitz pubblicò ripetutamente i suoi ritratti e nella sua galleria d’arte Little Galleries of the Photo-Secession le organizzò una personale in coppia con Clarence H. White. Grazie ai suoi stretti rapporti con le élite europee, Edward Steichen le procurò un incontro con il defilato Auguste Rodin, con il quale la donna avrebbe realizzato una fortunata serie di ritratti. Però, al suo rientro a New York, Käsebier dovette fare i conti con la crescente ostilità del suo mentore: Stieglitz, cocciutamente arroccato su posizioni idealistiche, disapprovava il fervore commerciale della sua ex protetta, senza voler capire che la donna aveva sulle spalle tutto il peso di una famiglia numerosa e di un coniuge malandato.





Nel 1910 il marito morì e Gertrude potè dedicarsi con tutte le energie al suo lavoro, ma il suo rapporto con Stieglitz peggiorò di anno in anno. Di frequente lui vendette le stampe e le opere della donna (e di altri autori) a prezzi clamorosamente sotto le quotazioni di mercato: l’interesse e l’entusiasmo mostrato dai clienti valeva, per lui, più dei dollari. Per protesta, Käsebier si dimise dalla Photo-Secession. Era il 1912.

L’esempio della sua carriera influenzò e incoraggiò altre fotografe, come Clara Sipprell, Consuelo Kanaga e Laura Gilpin. Nel 1924 sua figlia Hermine Turner divenne collaboratrice e socia del suo studio, ma pochi anni dopo Käsebier smise di lavorare e liquidò l’intera attività. Morì nel 1934 a casa di Hermine, lasciando la sua crescente tribù di ammiratori senza eredi artistici.

François Kollar
1904-1979

Nella presente rassegna non è finora apparso alcun fotografo etichettabile come “pubblicitario”, comunque si voglia giudicare un simile specialista. Il primo nostro esemplare di questa categoria è nato e cresciuto sotto l’impero di Francesco Giuseppe.

Di origini slovacche (di un territorio, dunque, che allora era di stretto dominio austro-ungarico), e impegnato fino alla maggiore età in un impiego presso le ferrovie dell’impero, il giovane Kollar di nome Franz, Frantisek o Ferenc che dir si voglia emigra nel 1923 per fare l’operaio nelle trafilerie della Renault a Boulogne-Billancourt, e firmarsi finalmente François.

Inizia a occuparsi di fotografia nel 1928 lavorando alla Draeger, azienda nota sin dal 1887 per le sue eccellenti riproduzioni d’arte. Dopo pochi anni inizia a collaborare con settimanali e mensili di rilevante peso culturale come Plaisir de France, L’Illustration, Voilà, Atlantis, l’elvetico Schweizer Spiegel, ma soprattutto Vu, un settimanale d’informazione modernista e persino costruttivista nel layout, uscito dal 1928 fino al 1940 e al quale collaboravano anche Brassaï, Cartier-Bresson, André Kertész e Man Ray.

Passa poi all’edizione francese di Harper’s Bazaar, come fotografo di moda e ritrattista di personaggi di grido come Jean Cocteau, Pierre Balmain, i duchi di Windsor, Elsa Schiapparelli e Coco Chanel. Nel 1930 sposa Fernande Papillon, la sua mannequin preferita (che avrebbe amato fino all’ultimo dei suoi giorni) e apre uno studio fotografico a Parigi. Nel 1931 firma un contratto con le edizioni Horizons per realizzare ampi réportages visivi: per loro scatta oltre milleduecento foto da pubblicare in un grande opus, La France travaille, che in un arco di tempo di quattro anni sarebbe uscito in 15 fascicoli tematici così articolati:

Minatori
Mestieri del ferro
Marinai e barcaioli
Gente di mare
La ferrovia
L’automobile e l’aereo
Alle sorgenti dell’energia
Vita paesana e viticoltori
Mercati e rifornimento di carburanti, Boscaioli e taglialegna, Fiori e profumi
Tessitori e filande
Sarti e stilisti
Vetrerie e ceramisti
La nave
Cartiere e mestieri del libro
Giornali, Biblioteche, Laboratori

È un’iniziativa di enorme risonanza e successo editoriale che vanta una prefazione scritta da Paul Valéry e commenti tematici forniti da tante firme prestigiose, tra le quali spiccano i nomi di Lucien Fabre, Georges Lecomte, Jean Prevost e Jean Rostand.

Per non rischiare di dover sottostare ai dettami degli occupanti nazisti, per cinque anni Kollar si rifugia con la famiglia in provincia, ma non appena le truppe anglo-americane-canadesi liberano il paese torna nella capitale e riapre  il suo studio. Con costanza e tanti lavori di grande qualità conquista committenti di alto rango come Coty, Hermès, Molyneux, Omega e Bata, ma con particolare regolarità soprattutto la prestigiosa maison d’argenteria Christofle.





Delle sue foto di moda e campagne pubblicitarie oggi nessuno parla più, ma quell’abbondante migliaio di magnifiche testimonianze fotografiche sul lavoro, l’artigianato e l’industria francesi continua a suscitare ammirazione, commenti e celebrazioni in rassegne collettive e individuali in giro per il mondo (Budapest, Paesi Bassi, Tokyo, New York). E il suo paese elettivo continua a tributargli i più alti onori ai vari Rencontres di Arles e nella capitale, al Centre Pompidou, alla Maison Rouge, alla Galérie Sylvain, al Musée de la publicité e – già per ben quattro volte – alla Galleria nazionale dello Jeu de Paume. Per il catalogo di quest’ultima rassegna del 2016, fino a oggi storicamente la più completa, la curatrice dal cognome significativo – Pia Viewing – ha “intravisto” un titolo oggettivamente realistico, elegante e rispettoso: «François Kollar – un ouvrier du regard».

Heinrich Kuehn
1866-1944

Nell’anno in cui nacque Vasilij Kandinskij e Alfred Nobel inventò la dinamite, a Dresda “vide la luce” il pioniere della fotografia a colori Heinrich Kuehn.

Prima a Lipsia e poi a Berlino e a Friburgo, da figlio di una famiglia molto benestante studiò scienze naturali per laurearsi infine in medicina. Per motivi di salute mai ben chiariti il giovane non poté esercitare la professione e presto si trasferì in Austria per dedicare tutto il tempo alla sua grande passione per la fotografia.

A ventiquattro anni Kuehn incontra il capitano Giuseppe Pizzighelli (di palese origine italiana), responsabile del dipartimento fotografico dell’esercito austro-ungarico e membro del Wiener Camera Club, con il quale Kuehn collabora a lungo per perfezionare la stampa fotografica al platino. Cinque anni dopo, sempre nella capitale imperiale, Kuehn incontra i colleghi Hugo Henneberg e Hans Watzek e fonda il movimento pittorialista Wiener Kleeblatt (Trifoglio viennese), inducendo anche i soci a firmare le loro opere con il noto simbolo portafortuna. La comunità espone nel palazzo della mitica Wiener Secession ed è legata al circolo Brotherhood of the Linked Ring di Londra e al Photo Club de Paris.

Al fine di ottenere immagini il più possibile ispirate alla pittura impressionista, per un solo soggetto Kuehn è capace di realizzare fino a cento diversi scatti. Nel 1904 incontra il vate della fotografia pittorialista, l’americano Alfred Stieglitz, al quale sarebbe rimasto legato da una profonda amicizia per tutta la vita. Due anni dopo Stieglitz espone i lavori di Kuehn nella sua galleria di New York. Nel 1907 i due s’incontrano di nuovo, questa volta in compagnia di Frank Eugene e di Edward Steichen, sulle rive del lago di Starnberg vicino a Monaco (a nemmeno tre chilometri da dove, un secolo dopo, Leni Riefenstahl avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua lunga avventura cinematografica e fotografica). I quattro sperimentano insieme le nuove procedure auto-cromatiche sviluppate appena tre anni prima dai fratelli Auguste e Louis Lumière. La leadership tecnica di Kuehn in quelle ricerche è indiscussa: considerarlo il padre – quantomeno putativo – delle prime serie di immagini fotografiche a colori gli è storicamente dovuto. Ben trecentocinquanta di quelle lastre nel grande formato 18 x 24 cm sono oggi conservate nella Nationalbibliothekdi Vienna.

Gli ultimi sviluppi e progressi ottici verso un nitore e una luminosità decisamente più incisivi e potenti non favoriscono il proposito di avvicinarsi il più possibile allo stile e alle luci della pittura impressionista. Perciò nel 1911 Kuehn inventa la Gummi-Gravüre, una combinazione tra eliogravura e stampa con la gomma, che consente di assegnare alle immagini fotografiche un sapore meno tecnico, realistico e marcato, ma decisamente più caldo, graduale e avvolgente. Successivamente, insieme al tecnico-industriale Franz Staeble, riesce a sviluppare un complesso sistema di ottiche e di filtri per ottenere risultati ancora più morbidi, sempre più vicini alle luci e alle ombre ottenute dagli artisti che usano ancora i pennelli. Il concetto centrale del suo stile si descrive alla perfezione con il motto Weichheit ohne Süsslichkeit(Morbidezza senza dolcezza).

Alla fine del primo conflitto mondiale, Kuehn perde tutti i suoi averi avendoli interamente investiti in buoni del tesoro imperiali destinati a finanziare la guerra. A questo punto per Kuehn la fotografia non è più solo una passione, ma un mezzo indispensabile per tirare avanti: vive di ritratti, di docenze e dei ricavi derivanti dalle sue numerose pubblicazioni tecniche. A sessantacinque anni è eletto membro onorario della Photographische Gesellschaft viennese e nel 1937 gli viene conferita la laurea honoris causa della facoltà di filosofia dall’università di Innsbruck.

Nel 2015 il regista Markus Heltschl realizza il meticoloso documentario Das bedrohte Paradies (Il fragile paradiso) di 90 minuti, nel quale si raccontano gli anni eroici durante i quali Kuehn sperimenta, affina e perfeziona il nascente uso del colore nella fotografia, che avrebbe conquistato i nostri sguardi e i mass media solo mezzo secolo dopo.





Concludiamo questa laudatio con una nota di colore tutt’altro che fotografica. Per rispetto e per coerenza a nessuno verrebbe in mente di citare l’autore de I dolori del giovane Werther, del Fauste de L’apprendista stregone con una dozzinale «ö» (come in Börse, Föhn, obszön) anziché con il più nobile fonema «oe». Invece nei rari testi e documenti che riguardano il nostro pioniere della fotografia, il suo cognome è sempre scritto con la banale «u» sovrastata dai segni lasciati dalla nota doppietta teutonica – come nel cognome dei calciatori Hansi, Gerd e Thomas Müller. Invece il diretto interessato marcava le sue foto sempre con un lapidario Heinrich Kuehn; perciò mi è sembrato giusto citarlo esattamente come amava firmarsi lui.

Gustave Le Gray
1820-1884

Con Gustave Le Gray entriamo nell’epopea di un gigante. Come sarebbe successo con altri pionieri della fotografia, anche Le Gray aveva iniziato la sua carriera come pittore, ma per raccontare l’immagine-azione nel primo Ottocento, il passaggio dai pennelli all’obiettivo non era da tutti vissuto come una mutazione naturale: la maggioranza dei privilegiati che beneficiarono di questa innovazione (autorità accademiche e municipali, possidenti di palazzi, parchi e castelli, committenti facoltosi di ritratti e tableaux vivants, alte cariche militari e del clero), la photogravure non la consideravano un’arte, ma solo una tecnica o al massimo una sorta d’indagine conoscitiva e descrittiva – più o meno come a quei tempi si valutavano l’anatomia, la cartografia o la contabilità.

Invece in uno dei suoi numerosi scritti, l’appena trentaduenne Le Gray enunciò con parole lucide, nette e taglienti: «Il mio più profondo desiderio è che la fotografia, invece di cadere sotto il dominio dell’industria e del commercio, venga inclusa a pieno titolo nel campo dell’arte. Questa è la sua sola e unica giusta collocazione e nel mio lavoro mi lascerò condurre sempre e solo in quella direzione.»

Il suo ingegno fotografico si manifestò in vari campi: ritratti, vedute cittadine, monumenti storici, ville e castelli, paesaggi, la natura nei parchi e nei boschi, ma anche manovre militari e persino nudi femminili – articolazioni artistiche sempre espresse a livelli di eccellenza assoluta. Ma c’era un’area tematica nella quale Le Gray mise semplicemente sottosopra qualsiasi canone, tecnica e punto di vista fino allora conosciuti: le sue magnifiche vedute sul mare.

Grazie a una dozzina di lavori dedicati ai litorali, alle onde e ai cieli, Le Gray fu presto eletto al rango di maestro di statura internazionale. Sebbene non si fossero mai incontrati a tu per tu, quelle vedute avevano profondamente colpito e influenzato l’altro Gustave di quel periodo, il pittore comunardo e realista Courbet. Alcuni suoi quadri come la famosa La vague sono palesemente segnati dalle foto scattate da Le Gray dove la costa, il mare e il cielo sono sempre in perfetta sinergia compositiva, scenica e narrativa. Chiunque si trovasse davanti a quelle foto non poteva che sospirare «C’est la réalité ou un mirage?» Domanda non retorica, ma puro stupore su come diavolo Le Gray riuscisse a catturare e ammaliare in modo così magico e vigoroso chiunque guardasse quelle foto. Davanti ai loro occhi (prima, dentro, dietro o chissà dove) si celava un artificio, un’illusione, un’autentica rivoluzione tecnologica che avrebbe anticipato di centocinquant’anni i futuri prodigi della fotografia HDR (High Dynamic Range), del Blueback e di Photoshop.

Per riprendere e stampare quei panorami magici, Le Gray si avvalse di due negativi: uno per il cielo, un altro per il mare, combinando in una doppia esposizione immagini scattate in luoghi e momenti nettamente separati. Grazie a quel prodigioso taglio netto (sia metaforico che materiale), nel 1856 Gustave Le Gray è entrato di prepotenza nella hall of fame di chi ha sconvolto il bon ton della fotografia, in ottima compagnia di gente come George Eastman, Man Ray, Ansel Adams, John Heartfield, Harold Land, Andy Warhol, Thomas Knoll, Martin Parr.

Ma prima e dopo quel fatale biennio marinaro 1856-57, che avrebbe per sempre separato la storia della tecnica fotografica in un ante e post Le Gray, cos’era successo negli altri sessantadue anni di vita dell’artosta?

Jean-Baptiste Gustave Le Gray era nato in una cittadina dell’Île-de-France, a una ventina di chilometri a nord di Parigi. Dopo le scuole dell’obbligo s’iscrisse a un istituto di belle arti per frequentare subito dopo, a Parigi, l’atelier del pittore e fotografo Paul Delaroche, dove avrebbe incontrato il futuro collega e amico Roger Fenton. Dopo la forzata chiusura (causata dall’improvvisa morte di un giovane allievo) dell’atelier, Le Gray seguì il suo mentore in un viaggio di studio a Roma dove conobbe, s’innamorò e sposò la figlia di un venditore ambulante, Palmira Leonardi. Appena rientrato a Parigi, iniziarono gli anni di formazione e perfezionamento del nuovo mezzo e ben presto Le Gray si sarebbe fatto valere ­– e notare da chi contava nella Ville Lumière.

Quando nel 1851, a trentun anni, il governo francese gli commissionò una Mission Héliographique per documentare i monumenti ed edifici nazionali da restaurare, oltre ad aver già raggiunto una vasta fama come ritrattista, Le Gray era da tempo considerato come un apprezzato autore di vedute di Parigi e della foresta di Fontainebleau. La missione governativa prevedeva un’indagine in direzione del sud-est della Francia: così iniziò a fotografare nella valle della Loira, proseguendo con le chiese lungo il cammino di Santiago de Compostela per raggiungere infine la città medievale di Carcassonne.

Appena rientrato – e incoraggiato da un cospicuo finanziamento di 100.000 franchi da parte del marchese Briges – nel 1855 aprì a Parigi, in Boulevard des Capucines, l’atelier per ritratti Gustave Le Gray et Cie: più avanti sarebbe diventato lo studio personale di Nadar, che in quei locali avrebbe a sua volta organizzato la prima mostra collettiva dei pittori impressionisti. La rivista L’Illustration descrisse il luogo come opulento e affascinante, esaltando le strutture e i materiali di estremo lusso: pareti rivestite di cuoio di Cordoba, una doppia scala interna con balaustre a spirale, dappertutto drappeggi di velluto rosso fiorentino, uno studio interamente racchiuso da pareti di cristallo, un ampio salone con un luminoso finestrone che dava sul boulevard, vasti armadi di rovere intarsiato in stile Louis XIII, vasellame fiammingo in rame o di preziosa porcellana cinese... Un luogo decisamente da élite, ma la rivista debitamente sottolineò che il principale capitale del posto consisteva nella straordinaria abilità artistica e tecnica del titolare. Erano gli anni che consacrarono Le Gray come ritrattista ufficiale di Napoleone III.






Nonostante il costante afflusso di clienti facoltosi, pian piano lo studio fu sommerso da debiti consistenti e quando il marchese Briges improvvisamente morì, gli eredi pretesero un immediato rientro dei capitali investiti. Impossibilitato a far fronte a tali richieste, da un giorno all’altro Le Gray piantò Parigi, la famiglia e quel che era rimasto della sua gloria dei giorni migliori, seguendo l’invito di Alexander Dumas padre ad accompagnarlo in una specie di Grand tour nel mediterraneo orientale. Dopo aver toccato la Grecia, la Siria, il Libano e Pompei, il viaggio li portò anche a Palermo, appena in tempo per assistere alla spedizione dei Mille, fotografare la città devastata e realizzare un ritratto allo stesso Garibaldi.

Nel 1865 Le Gray si trasferì al Cairo per rimanerci fino alla sua fine, conducendo un negozio di fotografia e facendo l’insegnante di disegno dei figli del viceré. In patria ormai era completamente dimenticato e solo un secolo dopo la sua morte – negli anni ’80 del Novecento – la sua fama tornò a rifiorire. In una recente asta da Christie’s, una stampa dei suoi Bateaux quittant le Port du Havre è stata battuta al prezzo di 965.000 euro.

Helmar Lerski
1871-1956

Israel Schmuklerski nacque a Strasburgo in Alsazia, allora una città tedesca, da genitori ebrei di origini polacche. Nel 1876 la famiglia si spostò in Svizzera dove il padre (un piccolo commerciante di tessuti) fu il primo ebreo polacco a diventare cittadino di Zurigo.

A soli 17 anni Lerski interruppe il suo apprendistato bancario a Zurigo ed emigrò negli Stati Uniti per fare l’attore di teatro. Dopo essersi sposato, e solo grazie al fatto che la moglie americana fosse un’attrice cresciuta in una famiglia di fotografi, a 39 anni suonati Lerski iniziò a fotografare, in prevalenza ritratti di persone semplici che certamente non avevano i mezzi per garantirgli compensi incoraggianti. Essi gli consentirono comunque di mettere insieme un portfolio che avrebbe destato la curiosità di parecchi intellettuali.

Nel 1915 tornò in Europa per diventare Bildgestalter und Beleuchter nella più grande casa di produzione cinematografica europea, la UFA di Berlino. Vi curò la fotografia di quarantatre lungometraggi e documentari, tra i quali alcuni piuttosto noti: Der heilige Berg (La montagna sacra) di Arnold Fanck con gli attori Leni Riefenstahl e Luis Trenker e Das Wachsfigurenkabinett (Il mudeo delle cere) di Paul Leni, con le star teatrali e cinematografiche Emil Jannings, Conrad Veidt, Werner Krauss e William Dieterle (il futuro regista di Delitto senza peccato, La città nera, Furore sulla città). Nel 1927 partecipò come esperto di effetti fotografici alla produzione del mitico Metropolis di Fritz Lang.

Nella mostra Film und Foto organizzata dal Werkbund nel 1929 a Stoccarda e Zurigo, era presente con 15 ritratti. Nel suo saggio Köpfe des Alltags (Teste quotidiane) del 1931 mise chiaramente in risalto i suoi concetti fotografici mostrando gente anonima, anche di basso profilo sociale (“Donna delle pulizie”, “Questuante”, “Operaio tessile”), ma presentandoli esclusivamente come elementi scenici di un dramma immaginario, teatrale. I suoi ritratti erano contemporanei ai Menschen des 20. Jahrhunderts (Uomini del 20° secolo) di August Sander il quale invece mise sempre in evidenza il mestiere, il contesto e l’appartenenza sociale dei suoi personaggi che rappresentavano al meglio (o al peggio) le genti e i ceti della Repubblica di Weimar.

Nel 1932 Lerski emigrò in Palestina dove lavorò come fotografo, direttore della fotografia e regista di documentari. Per il cortometraggio Avodah del 1935, che celebrava la vita eroica dei primi immigranti ebrei in Palestina, Lerski fu soggettista, regista, direttore della fotografia e montatore. Cinque anni dopo, sul tetto del suo studio a Tel Aviv, Lerski coinvolse come unico modello un altro immigrato, il disegnatore edile ed ex ginnasta svizzero-ebreo Leo Uschatz, per realizzare “alla luce del sole” la serie Metamorphosissuccessivamente intitolata Verwandlungen durch Licht (Trasformazioni attraverso la luce). Con 175 diverse inquadrature e angolazioni dimostrò che non gli interessava raccontare la vita o il mestiere di una singola persona, ma che ogni volto umano poteva trasformarsi in un fondale scenico per raccontare una qualsiasi storia drammatica: bastava esaltarne i tratti fisiognomici tramite l’uso della semplice luce naturale ma avvalendosi di un complesso insieme di specchi, filtri e riflessi che a livelli talmente difficili e raffinati sapeva mettere in pratica solo lui.






Dopo la Seconda guerra mondiale Lerski tornò a Zurigo dove, nonostante il convinto supporto dello storico marxista Konrad Farner che accostava Lerski a figure come Stieglitz, Steichen e Strand, tentò invano di pubblicare la sua Metamorphosisrealizzata in Israele. Provò anche a rientrare nel mondo del cinema, ma visse i suoi ultimi anni zurighesi in modo molto appartato, quasi in povertà. Sebbene oggi, in tutto il mondo, Lerski sia considerato tra i più grandi innovatori della fotografia del Novecento, persino in Svizzera è noto solo a una ristretta cerchia di appassionati.

Tra le sue rare testimonianze personali si è salvato un prezioso pensiero che dimostra in modo inconfutabile il suo debito artistico non solo nei confronti di G.W. Pabst, Carl T. Dreyer e Fritz Lang, ma anche di Brancusi, Modigliani e Sigmund Freud: «Il ritratto non riceve la sua importanza dalla somiglianza delle superfici fedeli al modello, bensì dai moti di una vita interiore che si riflettono sul volto – rendendo quindi visibile l’invisibile».

O. Winston Link
1914-2001

L’opera fotografica del newyorchese Ogle Winston Link cattura ed esalta il meglio e il peggio degli americani: un irriducibile entusiasmo per il progresso tecnico, l’orgoglio per il patrimonio storico nazionale, la totale mancanza di snobismo culturale, ma anche un patriottismo infantile, un’estrema ignoranza ambientale ed ecologica e il solito cattivo gusto yankee-pop tipico degli anni cinquanta.

Sin da ragazzo Link veniva incoraggiato dal padre (che nelle scuole pubbliche di Brooklyn insegnava come lavorare il legno) ad appassionarsi alla fotografia. Le prime foto le scattò con una Kodak Autographic prestatagli da amici. Mentre frequentava il Polytechnic Institute di Brooklyn si occupò come photoeditor del giornale scolastico. Si costruì con le proprie mani un ingranditore fotografico. Alla cerimonia della laurea tenne un discorso pubblico talmente convincente che un dirigente della Carl Byoir’s Associates (una società di relazioni pubbliche) gli propose un posto come fotografo aziendale. Lì sarebbe rimasto per cinque anni producendo un’infinità di foto il cui proposito principale era sempre la rappresentazione di un’apparente genuinità: tutto doveva sembrare autentico e reale, anche se di fatto i trucchi cosmetici, mimetici e soprattutto tecnici per imbastire le solite simulazioni da American Dream e Home Sweet Home erano sempre escogitati, combinati e messi in scena dal giovane impostore. La stessa perizia nell’assemblare quelle matrioske la mise in pratica anche nella vita privata, sposando una Miss Vattelapesca texana che sui set cinematografici fungeva da controfigura per la star hollywoodiana Franziska Gaal.

Dopo una parentesi professionale presso l’Airborne Instruments Laboratory, nel 1946 Link aprì un proprio studio fotografico a New York City lavorando per importati clienti come Alcoa, Goodrich, Texaco e l’industria di additivi petroliferi Ethyl. Dieci anni dopo, in occasione di un servizio di foto industriali in Virginia, Link scoprì che la vicina Norfolk and Western Railway era in procinto di sostituire tutte le sue locomotive a vapore con motrici diesel. Essendo un grande appassionato di treni, dal 1955 al 1960 tornò “sul luogo del delitto” per almeno una ventina di volte scattando oltre 2.400 foto. Sebbene quel progetto fosse interamente finanziato da lui, il suo lavoro fu incoraggiato e attivamente sostenuto dalla società, a partire dal presidente Robert Hall Smith fino all’ultimo operaio. Il fatto che quelle foto venissero esclusivamente realizzate nelle ore notturne, più che derivare da motivazioni estetiche fu dovuto a questioni pratiche: «Non posso muovere il sole – che si trova sempre nel posto sbagliato – e non posso muovere nemmeno i binari, così ho dovuto creare una mia ambientazione attraverso l’illuminazione.»

Nella sua immagine forse più famosa, Hot Shot Eastbound(diventata talmente popolare che nel 1998 sarebbe apparsa persino in un episodio della serie dei Simpsons), in un drive-in si vede proiettare una scena con un jet in fase di atterraggio proprio mentre dietro lo schermo passa un treno Norfolk and Western trainato da un’imponente locomotiva a vapore. Oltre a essere un’immagine di rara potenza e bellezza fotografica, questa foto è anche un’autentica pietra miliare industriale e culturale che racconta la drammatica staffetta allora in corso tra ferrovia, aereo e mezzi di trasporto privati. L’auto decappottabile in cui siede la coppietta in primo piano è la Buick personale del fotografo, mentre il fuochista che ci osserva dalla locomotiva è un operaio divenuto, senza volerlo, guida e complice dell’addio a un importante pezzo di storia americana. Link non solo era pienamente consapevole del fatto che l’abbandono del trasporto ferroviario a vapore in favore di quello elettrico e soprattutto di quello aereo e stradale stesse annunciando un autentico riassetto di massa della mobilità, ma che quel bye-bye stava anche cancellando i posti di lavoro di decine di migliaia di lavoratori. 

Tecnicamente, la grande innovazione delle foto notturne di Link consisteva nell’uso sincronizzato di numerose luci flash. La messa in linea con un intricato sistema di cavi elettrici richiedeva lunghe ore, se non addirittura intere nottate di preparativi. Le sue immagini sono il frutto di complessi coordinamenti che riguardano l’ambiente, l’azione di più persone, il passaggio e la velocità del treno, l’espulsione del vapore, le luci dirette o indirette sui dettagli. L’insieme di quei set fotografici richiedeva un difficile mix tra competenza tecnica e un teamwork estremamente meticoloso. Un buon numero di quelle foto furono scattate anche in una versione a colori – ma sono varianti che, forse non a caso, non sono mai entrate nella mitologia fotografica. 

In contemporanea Link registrò anche i suoni legati a molte di quelle scene, con una playlist che dimostra ampiamente che la sua passione per i treni a vapore non era solo fotografica, ma prima di tutto storica, tecnica e in ultima analisi nostalgica, ai limiti dell’adolescenziale. Quelle colonne allora furono pubblicate su vinile, ma oggi sono di nuovo disponibili rimasterizzate su CD, ed ecco le tracce del primo album (su un totale di cinque LP):

Fast Merchandise Freight at Lithia, VA.
Coal Train Extra Upgrade on Christiansburg, Mountain Entering and Leaving Montgomery Tunnel.
Articulated Mallet Shifting at Waynesboro, VA. and Leaving with Heavy Freight.
Buck Stewart Calling Trains in Roanoke Station.
Passanger Train No. 2 Arrives and Leaves Luray, VA.
Freight Slowing Down at Luray, VA.
Passanger Train West at Montgomery Tunnel.
Fast Freight Through Vesuvius, VA.
No. 2 Stops and Starts at Vesuvius, VA.





Dal 1960 fino al raggiungimento dell’età della pensione nel 1983, Link si occupò con buon successo di fotografia pubblicitaria e tra i maggiori committenti ci fu anche l’agenzia J. Walter Thompson.

Accanto a Jake Gyllenhaal, Chris Cooper, Chris Owen e Laura Dern, nel 1998 Link interpretò la parte di un macchinista che guida una locomotiva a vapore nel film October Sky (Cielo d’ottobre), basato su una storia vera nella quale lo choc causato dal lancio dello Sputnik sovietico sprona alcuni giovani di una cittadina di provincia a sperimentare dei rudimentali missili accroccati nei loro cortili e garage. È il solito plot basato sull’American Dream degli anni ’50, nel quale un anziano sognatore do-it-yourself come Link non poteva mancare.

Link morì durante i preparativi per l’inaugurazione del museo ferroviario di Roanoke nel West Virginia (ricavato da una vecchia stazione e riadattata dal famoso designer Raymond Loewy), dedicato e intestato a lui.

Ray K. Metzker
1931-2014

Nei solchi di un’epica carriera scavata in oltre sessant’anni, i lavori di Metzker sono stati esposti in una cinquantina di mostre individuali e oggi le sue opere sono presenti nelle collezioni di quarantatre musei tra i quali il MoMA, il Whitney e il Metropolitan di New York, il Getty di Los Angeles, lo Smithsonian di Washington, l’Albertina di Vienna, la Bibliothèque Nationale di Parigi, il Metropolitan Museum of Photography di Tokyo.

L’infanzia di Metzker fu ricca di passione per la musica classica, la storia e il disegno, ma da quando a dodici anni la madre gli regalò la prima macchina fotografica presto avrebbe vinto il suo primo premio di un concorso scolastico sponsorizzato dalla Eastman Kodak. Seguirono altri riconoscimenti prestigiosi, fino alla Honorary Fellowship della Royal Photographic Society britannica ricevuta nel 2000.

Dopo aver combattuto nella guerra in Corea, Metzker studiò con i fotografi modernisti Harry Callahan e Aaron Siskind diplomandosi nel 1959 all’Institute of Design di Chicago. Nel periodo in cui Edward Steichen curava il settore fotografico al Museum of Modern Art di New York, il maestro scoprì con stupore e ammirazione i lavori di Metzker e acquisì per la collezione permanente del museo dieci stampe originali.

Tra le varie fasi, luoghi e modi di scegliere, interpretare e trattare temi e soggetti, dopo gli anni passati a Chicago (1956-59), in Europa (1960-61), a Philadelphia (1962-64), ad Atlantic City (1966) e nel New Mexico (1971-72) e i cicli tematici che lui aveva battezzato Composites (1964-84), Sand Creatures (1968-77) e Pictus Interruptus (1976-80), il suo periodo più innovativo e significativo fu quello che lui chiamava City Whispers (Sussurri urbani). Ne realizzò a Philadelphia e Chicago, nel quadriennio 1980-83.

Erano “sussurri” potenti, decisi, sempre contrastanti, quasi teatrali, come se provenissero dalla buca di uno scenografo suggeritore, ben oltre il classico intreccio visivo tra phos(luce) e graphìa (disegno) al quale siamo tutti abituati. Il punto di partenza di qualsiasi fenomeno che l’uomo percepisce con gli occhi è di default il nero, il nulla, una totale cecità (esattamente come il silenzio è l’incipit di ogni brano musicale). La lama di luce che riesce a scuotere o trasformare queste tenebre in qualcosa di visibile, è nient’altro che la porzione dello spettro elettromagnetico che i nostri occhi percepiscono come lux solaris– l’energia primaria che sul nostro pianeta ha generato la vita, compresa la nostra. Nel rimario della fisica e della bellezza naturale, bio e dio sono dittonghi incompatibili.





Le visioni urbane di Metzker non sono percezioni luminose, ma sempre e solo possenti proiezioni di tenebre, solstizi, eclissi. In quelle drammatiche vedute di strade, auto, persone, cieli e grattacieli, il chiaroscuro si capovolge in oscurità appena appena schiarite da un’effrazione luminosa proveniente da chissà dove.

È un totale capovolgimento delle gerarchie fisiche, percettive, visive... una scenografia sostanzialmente sempre black & night. I viaggi visivi di Metzker non sono mai dei trip in luoghi insoliti, strani, inattesi, ma solo contemplazioni dell’essenza del day-by-day. Di sé stesso Metzker diceva che era un “viandante intellettuale” e a proposito delle sue foto – parafrasando Gertrude Stein – il suo gallerista preferito, Laurence Miller, osservava con aristocratico candore che «...everything led to another thing, led to another thing, led to another thing.»

Léonard Misonne
1870-1943

Il Belgio è stato ed è importante nella storia dell’arte: si pensi a Bruegel il Vecchio, Jan van Eyck, Rubens, Frans Snyders, Jordaens, van Dyck e una moltitudine di altri fiamminghi, o a Magritte, Ensor, van de Velde e Folon, più vicini a noi; per non dire dei letterati (Maeterlinck, Simenon, Yourcenar, Henri Michaux, Amélie Nothomb...) e dei musicisti (Josquin Desprez, Adolphe Sax, César Franck, Eugène Ysaÿe, Arthur Grumiaux, Django Reinhardt, Toots Thielemans, Jacques Brel, Wim Mertens...) Ora, con i fratelli Dardenne, le plat pays si fa vedere anche al cinema. Ma se penso alla fotografia, i nomi che mi vengono subito in mente sono solo un paio: quelli di una giovane donna in irresistibile ascesa, Bieke Depoorter, e di un pioniere d’altri tempi, Léonard Misonne. 

Depoorter ha solo trentun anni e ne aveva ventisei quando si vide arrivare l’invito a entrare nel consesso più prestigioso della fotografia moderna: il gruppo Magnum – sinonimo di nomi come Bischof, Burri, Capa, Cartier-Bresson, Erwitt, Halsman, McCurry, Parr, Scianna, Seymour, Stock. Chi vuole farsi una mezza idea sul perché questa tosta viaggiatrice nella privacy umana sia riuscita a profilarsi nel rating della fotografia mondiale con la massima valutazione AAA, provi a immaginare un’arcana combinazione tra i mondi di Diane Arbus, di Nadav Kander e di Martin Parr.

Quanto a Misonne, era un classico fils de papa che all’università di Lovanio, nel 1891, s’era laureato in ingegneria mineraria. Era previsto che avrebbe saggiamente messo a frutto i suoi studi nel ricco sottosuolo della zona, ma il giovanotto non era minimamente attratto dalla pirite, dalla torba e dal carbone: s’interessava solo alla musica, alla letteratura e alla fotografia. A ventisei anni si decise a mollare per sempre l’humus dei ricconi per concentrare tutte le sue attenzioni sull’immaginario ottico-chimico del suo paese.

Viaggiò in Germania, in Francia e in Svizzera, e si fece conoscere e apprezzare per le sue foto dalle penombre seduttive e dai pronunciati contorni flou. La sua  fama divenne talmente solida e popolare che gli appassionati di fotografia presero a parlare di lui come del Corot de la photographie. Quelle atmosfere altamente pittoriche Misonne le ottenne anche grazie all’uso di materiali in parte scoperti e combinati da lui: l’olio e il bicromato di gomma, e poi anche il bromuro, che l’avrebbe infine portato a brevettare un processo registrato con il termine Mediobrome.

Nel 1897 Misonne inventò anche il Photo-Dessin, un processo riproduttivo che combinava in modo visivamente naturale ma tecnicamente molto complesso la fotografia e il disegno manuale (vedi il suo ritratto che apre queste righe).





Dopo essere stato in giro per l’Europa, Misonne rientrò, per restarvi fino alla fine dei suoi giorni, nella natia Gilly, oggi un sobborgo del centro siderurgico e carbonifero Charleroi. Sebbene avesse percorso gran parte del suo paese in sella a una bici (vincendo persino alcune gare), il giovane Misonne aveva a lungo respirato un’aria che presto si sarebbe confermata scarsamente salubre. Già nel 1940 il suo asma cronico lo aveva definitivamente obbligato ad accontentarsi della compagnia casalinga dei suoi otto figli. Morì nel 1943, tredici anni prima del disastro di Marcinelle, «la ville noire» situata a dieci minuti d’auto da casa sua. L’ex luogo bucolico dove aveva serenamente ritratto le sue pecore ruminanti.

È beffardo che uno straordinario maître plein air finito in quel modo lì possa aver affermato che «Le ciel est la clé du paysage».

Till Neuburg
(3 - Continua)


























Piazza dell’Immaginario

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Piazza dell’Immaginario.
Prato, 2015.

Migliore opera prima al Premio Architettura Toscana. Autori: team di architetti di Studio Ecòl (Emanuele Barili, Cosimo Balestri, Oliva Gori, Alberto Gramigni), premiato per «avere trasformato efficacemente, e con risorse limitate, un luogo periferico privo di identità in uno spazio pubblico di forte carattere simbolico, capace di favorire l’interazione tra i residenti» (italiani e cinesi).

Consultare:






Foto di Mirko Lisella.

Tre poesie da Spoon River

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La Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters è stata pubblicata per la prima volta nel 1915, dalla McMillan di New York. In Italia da Einaudi, nel 1943, tradotta da Fernanda Pivano; e poi da Newton Compton, 1974 (trad. Letizia Ciotti Miller); Rizzoli, 1986 (trad. Alberto Rossatti); Mondadori, 1987 (trad. Antonio Porta); Piemme, 1996 (trad. Luciano Paglialunga); Deferrari, 1997 (trad. Benito Poggio); Giunti Demetra, 2001/2015 (trad. Alessandro Quattrone); Mondadori, 2016 (trad. Luigi Ballerini).



Grant Wood, Appraisal, 1931.


Grant Wood, Woman with plants, 1929. 


Grant Wood, Breaking the Prairie Sod (murale), 1935-1937.

Le versioni originali

Mrs. Kessler


Mr. Kessler, you know, was in the army,
And he drew six dollars a month as a pension,
And stood on the corner talking politics,
Or sat at home reading Grant’s Memoirs;
And I supported the family by washing,
Learning the secrets of all the people
From their curtains, counterpanes, shirts and skirts.
For things that are new grow old at length,
They’re replaced with better or none at all:
People are prospering or falling back.
And rents and patches widen with time;
No thread or needle can pace decay,
And there are stains that baffle soap,
And there are colors that run in spite of you,
Blamed though you are for spoiling a dress.
Handkerchiefs, napery, have their secrets—
The laundress, Life, knows all about it.
And I, who went to all the funerals
Held in Spoon River, swear I never
Saw a dead face without thinking it looked
Like something washed and ironed.


Herbert Marshall

All your sorrow, Louise, and hatred of me
Sprang from your delusion that it was wantonness
Of spirit and contempt of your soul’s rights
Which made me turn to Annabelle and forsake you.
You really grew to hate me for love of me,
Because I was your soul’s happiness,
Formed and tempered
To solve your life for you, and would not.
But you were my misery. If you had been
My happiness would I not have clung to you?
This is life’s sorrow:
That one can be happy only where two are;
And that our hearts are drawn to stars
Which want us not.


George Gray

I have studied many times
The marble which was chiseled for me–
A boat with a furled sail at rest in a harbor.
In truth it pictures not my destination
But my life.
For love was offered me and I shrank from its disillusionment;
Sorrow knocked at my door, but I was afraid;
Ambition called to me, but I dreaded the chances.
Yet all the while I hungered for meaning in my life.
And now I know that we must lift the sail
And catch the winds of destiny
Wherever they drive the boat.
To put meaning in one’s life may end in madness,
But life without meaning is the torture
Of restlessness and vague desire –
It is a boat longing for the sea and yet afraid.
Thomas Hart Benton, The Source of Country Music, 1975.










Vincitori e vinti, 4

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Gli scrittori e il premio Nobel per la letteratura: gli onorati, i candidati, gli ignorati. Quarta puntata. Per le precedenti cliccare su uno, due e tre.
A destra: Carlo Emilio Gadda. A sinistra: Pietro Germi interprete (nel ruolo del commissario Ingravallo) e regista di Un maledetto imbroglio, tratto nel 1959 dal Pasticciaccio di Gadda.

Gadda, Carlo Emilio (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973). Negli elenchi ufficiali dei candidati al Nobel per la letteratura, il nome di Gadda compare per la prima volta nel 1966 (per la lista completa di quell’anno vedi Vincitori e vinti, 3). I suoi maggiori romanzi, Quer pasticciaccio brutto de via Merulanae La cognizione del dolore, giravano all’estero grazie all’impegno di traduttori coraggiosi: non è stato facile per nessuno di loro reinventare nella propria lingua le arditezze sperimentali del «gran Lombardo». Ai suoi tempi Gadda era troppo avanti per vincere a Stoccolma. Il suo editore catalano, il poeta Carlos Barral, era a sua volta troppo avanti per apprezzare il tradizionalismo del Nobel, e nel 1960 aveva istituito, con altri editori, un premio alternativo: il Prix international de littérature, conferito a Gadda nel 1963 per La cognizione del dolore (circolato nella traduzione francese La Connaissance de la douleur). Durato solo pochi anni, il Prix di Barral si concentrò sull’innovazione e – tra il 1961 e il 1967 – premiò Beckett, Borges, Uwe Johnson, Gadda, Nathalie Sarraute, Saul Bellow e Witold Gombrowicz. Due di loro vinsero anche il Nobel, ma più tardi: Beckett nel 1969, Bellow nel 1976. Per pura curiosità elenchiamo le edizioni straniere del Pasticciaccio di Gadda uscite entro il 1966, l’anno della sua candidatura al Nobel: El zafarrancho aquél de Via Merulana, trad. Juan Ramón Masoliver, Barcellona: Seix Barral, 1965. Ten zatracený prípad v Kosí de via Merulana, trad. Zdenek Frýbort, Praga: Státní Nakladatelství Krásné Literatury A Umení, 1965. L’affreux pastis de la rue des Merles, trad. Louis Bonalumi, Éditions du Seuil, 1963. That Awful Mess on Via Merulana, trad. William Weaver, Londra: Quartet Encounters, 1966. Ta gadna zbrka u ulici Merulana, trad. Ciril Petesic, Zagabria: Zora, 1962. Die grässliche Bescherung in der Via Merulana, trad. Toni Kienlechner, Monaco: Piper, 1961.
Carlo Emilio Gadda visto da Vauro (1993) e da Tullio Pericoli (1988).

Galdós, Benito Pérez (Las Palmas de Gran Canaria, 10 maggio 1843 – Madrid, 4 gennaio 1920), da molti considerato il più grande narratore spagnolo dopo Cervantes. Sette candidature al Nobel tra il 1912 e il 1916, nessuna andata in porto a causa del tenace ostracismo oppostogli dagli ambienti culturali più reazionari, che non gradivano il suo anticlericalismo, le sue convinzioni politiche, le sue posizioni avanzate sulle dinamiche sociali. La campagna di boicottaggio contro Galdós fu orchestrata nel proprio paese, la Spagna, da membri della Real Academia Española (di cui egli stesso era membro fin dal 1897) in combutta con la stampa cattolica più bacchettona. Autore di romanzi improntati al realismo e carichi di valenze sociali spesso provocatorie, fu considerato un maestro da Balzac, Zola, Flaubert. Vastissima la sua produzione: oltre 70 romanzi, di cui 46 suddivisi in 5 serie del ciclo Episodios nacionales, 25 opere teatrali, racconti. Frequentissimi anche gli adattamenti cinematografici dei suoi romanzi: spiccano, nella filmografia tratta da Galdós, tre capolavori di Luis Buñuel: Nazarín (1959), Viridiana (1961) e Tristana (1970). In Italia, Galdós è parzialmente reperibile in edizioni Garzanti, Dell’Orso, Donzelli, ELI, Marlin, La Nuova Frontiera, Argo.

Gallegos, Rómulo(Caracas, 1884-1969). Scrittore e politico, è stato anche – tra un esilio in Spagna e un esilio in Messico – presidente del Venezuela dal 17 febbraio al 24 novembre 1948, prima di essere spodestato da un golpe. A lui è dedicato l’omonimo premio letterario istituito dal governo venezuelano nel 1964. In Italia è trascurato: la traduzione di Doña Barbara, uno dei suoi romanzi più notevoli, è di Carlo Bo e risale al remoto 1946. Gallegos è stato candidato al Nobel non meno di 15 volte, a partire dal 1961, sostenuto da vari istituti accademici dell’America latina.
John Galsworthy nel suo studio, 1919.

Galsworthy, John(Kingston Hill, 14 agosto 1867 – Hampstead, 31 gennaio 1933). Nobel 1932 allo scrittore britannico «per l’eccellenza della sua arte narrativa, che nella Saga dei Forsyte raggiunge il vertice.» Pubblicata tra il 1906 e il 1930, la saga consta di tre cicli narrativi che includono romanzi e racconti; vi si narra dell’ascesa e del declino di una ricca famiglia inglese su uno sfondo storico che va dalla tarda età vittoriana fino agli anni successivi alla Prima guerra mondiale. Molte opere di Galsworthy furono pubblicate in Italia, negli anni venti e trenta del secolo scorso, da Corbaccio; alcuni titoli erano presenti nella leggendaria collana Medusa di Mondadori. Più recenti e reperibili le edizioni economiche di Garzanti, Elliot, Landscape Books, Robin, Sellerio, Marsilio, Newton Compton, Dall’Oglio. Dal primo romanzo della saga, Il possidente, è tratto il film La saga dei Forsyte del 1949, diretto da Compton Bennett e interpretato da Errol Flynn, Greer Garson e Walter Pidgeon. Altri candidati al Nobel dell’anno 1932: l’argentino Manuel Gálvez sostenuto da 28 professori dell’Università di Buenos Aires, gli austriaci Anton Wildgans, Michael Blümelhuber e Rudolf Kassner, il ceco Karel Čapek, i danesi Johannes Vilhelm Jensen (Nobel 1944) e Johannes Jørgensen, i finlandesi Frans Sillanpää (Nobel 1939) e Bertel Gripenberg, il francese Paul Valéry sostenuto dall’Académie Française e altri 23 professori, il georgiano Grigol Robakidze, i tedeschi Georg Bonne, Hans Driesch e Paul Ernst, il greco Kostis Palamas, l’italiano Francesco Orestano, i norvegesi Johan Bojer, Olaf Bull e Olav Duun, i britannici H.G. Wells (sostenuto da Sinclair Lewis) e Percival G. Elgood (insigne egittologo), i russi Dmitrij Merežkovskij, Ivan Bunin (Nobel 1933) e Ivan Šmelëv, gli spagnoli Concha Espina e Ramón Menéndez Pidal (sostenuto da 30 membri della Real Academia Española), gli statunitensi Edwin Arlington Robinson e Upton Sinclair, gli svedesi Axel Munthe e Vilhelm Ekelund.

Gálvez, Manuel(Paraná, 18 luglio 1882 – Buenos Aires, 14 novembre 1962). Scrittore, poeta e storico argentino. Gettonato otto volte per il Nobel ma sconfitto da John Galsworthy (1932), Ivan Bunin (1933), Luigi Pirandello (1934), Pär Lagerkvist (1951) e François Mauriac (1952).

Genet, Jean(Parigi, 19 dicembre 1910 – Parigi, 15 aprile 1986). Marinai, sesso e guai in Querelle de Brest, caposaldo della letteratura gay uscito in edizione clandestina nel 1947 con 29 disegni di Jean Cocteau. E una sensibilità omoerotica e mortuaria attratta, in tempo di guerra, sia dai ragazzi della Resistenza che dalla Hitlerjügend (Pompes funèbres, 1947). Decisamente troppo trasgressivo per il Nobel, e dunque ignoratissimo a Stoccolma.

Gibran, Khalil(Bsharre, 6 gennaio 1883 – New York, 10 aprile 1931). Libanese e poi cittadino statunitense, è stato un poeta di culto per più d’una generazione (Il giardino del Profeta, Il Profeta) ma non ha mai commosso i giurati del Nobel.
André Gide.

Gide, André(Parigi, 22 novembre 1869 – Parigi, 19 febbraio 1951). Premio Nobel 1947 «per la sua opera artisticamente significativa, nella quale i problemi e le condizioni umane sono stati presentati con coraggioso amore per la verità e appassionata penetrazione psicologica.» Patrocinato da Lorentz Eckhoff, professore di storia della letteratura all’Università di Oslo, l’autore de L’Immoraliste e Les Caves du Vatican ebbe la meglio su una quarantina di concorrenti tra i quali Croce, Hemingway, Silone e Pasternak. Gide era stato in gara già nel 1946, proposto dallo scrittore e critico antifascista Giuseppe Antonio Borgese. All’epoca Borgese insegnava italiano all’Università di Chicago: dal 1931 era esule negli Stati Uniti e poi, caduto il fascismo e finita la guerra, vi si era soffermato ancora un po’ per concludere i suoi impegni didattici. Il Nobel concluse la carriera letteraria di André Gide: dopo il 1947 non scrisse più nulla. Nel 1951, poco prima di morire, contribuì all’assegnazione del Nobel a Pär Lagerkvist, il candidato da lui proposto. Nel 2016 Bompiani ha pubblicato, a cura di Piero Gelli, i monumentali diari di Gide in versione integrale: oltre tremila pagine di confessioni, in due volumi.

Giono, Jean(Manosque, 30 marzo 1895 – Manosque, 9 ottobre 1970). Scrittore provenzale di origine italiana, Giono è stato nominato per il Nobel non meno di dieci volte, a partire dal 1937. Non ha mai vinto ma il suo nome è stato proposto costantemente lungo un intero trentennio. Il suo titolo più famoso è L’ussaro sul tetto, del 1951; fa parte di un ciclo di cinque romanzi d’avventura ed è stato tradotto in film nel 1995. In Italia è stato pubblicato da Mondadori (1961) e poi da Corbaccio e Guanda.

Gjellerup, Karl Adolph. Poeta e scrittore danese (Roholte, 2 giugno 1857 – Dresda, 13 ottobre 1919). Nobel 1917 ex aequo con il connazionale Henrik Pontoppidan. In Wikipedia si legge: «In Danimarca il Nobel a Gjellerup suscitò scarso entusiasmo, poiché egli era ormai considerato un autore tedesco. D’altro canto, la neutralità della Svezia nel corso della Prima guerra mondiale non fece sorgere sospetti di parzialità sul fatto che il premio fosse stato assegnato in comune a due artisti. Anzi, il fatto dimostrò una certa vicinanza tra i due paesi nordici. Oggi Gjellerup è ormai quasi sconosciuto in Danimarca. Molti dei suoi lavori vengono considerati poco originali e superficiali. Nonostante tutto, in generale si è guadagnato la fama di “onesto cercatore di verità”.» Tra i candidati del 1917 Carl Spitteler (Nobel 1919), Grazia Deledda (Nobel 1926), il giurista e scrittore belga Edmond Picard, il poeta canadese William Chapman.

Golding, William(Newquay, 19 settembre 1911 – Perranarworthal, 19 giugno 1993), scrittore britannico. Premio Nobel per la letteratura 1983 «per i suoi romanzi che, con la chiarezza di un’arte narrativa basata sul realismo e l’universalità del mito, mettono in luce la condizione umana nel mondo contemporaneo.» Enorme successo del suo primo romanzo, Il signore delle mosche, pubblicato nel 1954 dalla casa editrice Faber & Faber diretta da T.S. Eliot: fu proprio Eliot a suggerirgli il titolo (Lord of the Flies). Durante la Seconda guerra mondiale Golding aveva militato nella marina britannica, era stato al comando di una nave e aveva partecipato allo sbarco in Normandia: ciò spiega il suo interesse letterario per la vita di mare, alla quale dedicò una trilogia con Riti di passaggio, Calma di vento e Fuoco sottocoperta.

Gombrowicz, Witold (Małoszyce, 4 agosto 1904 – Vence, 24 luglio 1969). Uno dei maggiori scrittori polacchi del XX secolo, autore di romanzi e lavori teatrali di carattere satirico e grottesco. Fu preso in considerazione per il Nobel nel 1966, quando il premio venne assegnato ex aequo all’israeliano Shmuel Yosef Agnon e alla tedesca Nelly Sachs. Tra le opere più notevoli: Ferdydurke (1938), Gli indemoniati [ed. integrale] o Schiavi delle tenebre [ed. censurata] (1939), Pornografia [ed. integrale] o La seduzione [ed. censurata] (1960), Cosmo(1965), il Diario.
Nadine Gordimer.

Gordimer, Nadine (Johannesburg, 20 novembre 1923 – 13 luglio 2014), scrittrice sudafricana, autrice di romanzi e saggi, vincitrice del Booker Prize nel 1974 e del Premio Nobel per la letteratura nel 1991. «Con i suoi magnifici, epici scritti è stata – per dirla alla maniera di Alfred Nobel – di grandissimo beneficio all’umanità», si legge nell’entusiastica motivazione di Stoccolma. Grande interprete di temi caldi: apartheid in Sudafrica, dissonanze sociali, omologazione, colonialismo e sensi di colpa, prese di coscienza, emancipazione dal conformismo, etc. Una grande voce morale della narrativa moderna. «Scrivendo ho preso coscienza dell’ambiente che mi circondava. Sono nata e cresciuta in Sudafrica in una città in cui il razzismo era praticato con molta arroganza. Vedevo gli operai neri delle miniere che vivevano nelle baracche e facevano gli acquisti in negozi gestiti dai bianchi affinché non avessero motivi per allontanarsi e andare in città. Vedevo come gli operai erano maltrattati e di fronte alle tante sopraffazioni a cui assistevo, mi resi conto di dove vivevo e come vivevo, anche per il fatto che la scuola che frequentavo era solo per bianchi, le lezioni, il cinema, la biblioteca e tante altre istituzioni, solo per bianchi» (da L’Unione Sarda, 21 gennaio 2007). «I suoi personaggi dai nobili ideali avevamo spesso limiti personali; gli uomini d’affari razzisti e indifferenti avevano la stessa complessità e profondità dei combattenti per la libertà. Il conservatore, che vinse il Booker Prize nel 1994, racconta uno dei personaggi meglio definiti di Gordimer, un industriale bianco che ha acquistato una grande fattoria fuori Johannesburg, anche per usarla come sede di appuntamenti con la sua amante sposata e politicamente radicale. Un altro romanzo famoso, La figlia di Burger, pubblicato nel 1979, segue le fatiche personali e politiche di Rosa Burger, figlia di un medico carismatico e attivista anti-apartheid afrikaner che morì in carcere. In un paese definito dalla propria intensità politica, Rosa conclude che “il vero significato della parola solitudine” è “vivere senza responsabilità sociali”.» (Stephanie Hanes sul Washington Post, 14 luglio 2014).



Gor’kij, Maksim(Nižnij Novgorod, 1868 - Mosca, 1936). Il padre del realismo socialista fu preso in considerazione cinque volte per il Nobel, in un arco di tempo di quindici anni. Non vinse mai, ma ottenne la sua prima nomination nel 1918, subito dopo la rivoluzione sovietica, scelta che denota nell’Accademia svedese una buona dose di anticonformismo politico.
Tolstoj e Gor’kij nel 1900.


Grass, Günter(Danzica, 16 ottobre 1927 - Lubecca, 13 aprile 2015). Premio Nobel 1999 allo scrittore tedesco «le cui allegre favole nere raccontano la faccia dimenticata della storia». Protagonista della scena culturale tedesca fin dal 1959, anno in cui pubblicò Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), Grass ne è stato per lungo tempo la coscienza critica: «Osservata su un arco di ormai sessant’anni, la pervicacia di cui Grass ha dato prova nel fornire un’elaborazione letteraria delle questioni di volta in volta all’ordine del giorno nell’agenda culturale del suo paese appare stupefacente e davvero “ossessiva”. Pressoché tutte le principali opere grassiane possono essere lette come interventi problematizzanti in un dibattito pubblico in corso o, nei casi più eclatanti, da lui stesso innescato: la rimozione del passato nazista e le ambiguità dell’era adenaueriana nella trilogia di Danzica (1959-1963), il velleitarismo dei movimenti antiautoritari in Anestesia locale (1969), la politica di lento riformismo della socialdemocrazia in Dal diario di una lumaca (1972), l’emancipazione femminile nel Rombo (1977), la funzione sociale degli scrittori e della letteratura nell’Incontro di Telgte (1979), il calo demografico della popolazione europea in Parti mentali (1980), la possibilità di una catastrofe ecologica e/o nucleare nella Ratta (1986), la sperequazione tra il nord e il sud del mondo in Mostrare la lingua (1988), la distruzione dei boschi a causa delle piogge acide in Legno senza vita (1990), la colonizzazione capitalistica dell’est europeo nel Richiamo dell’ululone (1992), la riunificazione tedesca in È una lunga storia (1995), il tabù delle vittime tedesche della guerra e le sue conseguenze nel Passo del gambero (2002), l’intera storia del Novecento nel Mio secolo (1998).» (Michele Sisto sul sito Germanistica.net, in una recensione al libro di Giulio Schiavoni Günter Grass. Un tedesco contro l’oblio, Roma: Carocci, 2011).

Graves, Robert(Wimbledon, 24 luglio 1895 – Deià, 7 dicembre 1985), uno dei maggiori poeti e letterati inglesi del ventesimo secolo, nonché autore di saggi critici, romanzi, studi sulla mitologia greca e sui miti ebraici, opere di fantascienza. Titolare di almeno 8 candidature (nessuna a buon fine) al Nobel per la letteratura, ottenute tra il 1950 e il 1966. Tra le opere tradotte in italiano: Addio a tutto questo (Adelphi), Io, Claudio (Corbaccio), I miti greci (Longanesi), le antologie poetiche I poeti sono uomini e Lamento per Pasifae (Guanda).

Greene, Graham(Berkhamsted, 2 ottobre 1904 – Corsier-sur-Vevey, 3 aprile 1991), scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, autore di libri di viaggi, agente segreto e critico letterario inglese. Totalizzò 20 candidature al Nobel tra il 1950 e il 1966; forse altre negli anni successivi, ancora coperti da segreto d’ufficio. Tutte andate a vuoto. Negli anni sessanta l’autore de Il terzo uomo, Il nostro agente all’Avana, I commedianti, Il fattore umano andò più d’una volta vicinissimo al traguardo. Nel 1961 fu battuto ai punti da Ivo Andrić, nel 1966 si piazzò al terzo posto subito dopo la coppia vincente ex aequo Sachs-Agnon e Yasunari Kawabata. Nel 2000, Mondadori gli ha dedicato due Meridiani con dodici delle sue opere più importanti, a cura di Paolo Bertinetti. «Come a volte capita con gli artisti, Greene sembra essere uscito da uno dei suoi romanzi: dei componenti della “triade” non ne ha risparmiato neanche uno, avendo tradito sia Dio, sia la patria sia la famiglia. Forse, alla fine, chi si è salvato è stata proprio la patria, l’amata Inghilterra che Greene ha servito anche diventando una spia. [,,,] Sempre lontano da casa, Greene non tradì la madrepatria, non riuscendo a fare come il suo amico e superiore Kim Philby, la nota spia che in seguito si scoprì essere doppiogiochista al soldo del Kgb e che nel 1963 fuggì in Unione Sovietica. Greene non rinnegò mai la sua amicizia e anzi quindici anni dopo fu proprio la vicenda di Kilby a ispirargli la trama di uno dei suoi romanzi migliori, Il fattore umano; del resto Greene arrivò a teorizzare che “il ruolo del narratore è quello di suscitare nel lettore la simpatia verso quei personaggi che ufficialmente non hanno diritto alla simpatia”.» (Andrea Monda su Il Foglio.it, 9 ottobre 2010).
Graham Greene fotografato nel 1964 da Yousuf Karsh (a sinistra). A destra lo scrittore da giovane.

Gripenberg, Bertel. Dall’enciclopedia on line Sapere.it: «poeta finlandese di lingua svedese (Pietroburgo 1878-Helsinki 1947). Combattente valoroso nella guerra d’indipendenza del 1918, fu poi un nazionalista acceso e antidemocratico. La sua poesia è espressione di un estetismo colorito e sonoro, che si può definire dannunziano. Dal tema prevalentemente erotico delle prime raccolte di liriche (Poesie, 1903; Sonetti neri, 1908; Sere nel Tavastland, 1911) passò al tema patriottico (Sotto la bandiera, 1918; Dopo la battaglia, 1923; La grande ora, 1928) fino al cupo pessimismo delle ultime raccolte (Paese crepuscolare, 1925; Alla frontiera, 1930; L’ultima ripresa, 1941).» Tra il 1917 e il 1937 acquisì 14 nomination al Nobel, nessuna andata a buon fine.

Grønbech, Vilhelm (Allinge-Sandvig, 14 giugno 1873 - Helsingør, 21 aprile 1948), storico danese. Per ben trent’anni, dal 1914 al 1944, si avanzarono candidature al Nobel in suo favore (11 in totale). Grønbech era il prototipo ideale per gli ideali dell’Accademia svedese: un epico ricercatore e narratore di saghe, miti e leggende della sua terra. Nel 1996 Einaudi gli ha tributato uno dei suoi preziosi Millenni, intitolato Miti e leggende del Nord, a cura di Anna Grazia Calabrese e con illustrazioni di Ernst Hansen.

Guimerà i Jorge, Àngel (Santa Cruz de Tenerife, 6 maggio 1847 – Barcellona, 18 luglio 1924). Scrittore, commediografo e sceneggiatore spagnolo, uno dei più autorevoli rappresentanti della cultura catalana. Autore di drammi popolari, ottenne un grande successo internazionale con Terra baixa (1896), ripreso tre volte sui palcoscenici di Broadway e sei volte al cinema – anche da Cecil B. DeMille (Rosa, 1916) e da Leni Riefenstahl (Tiefland, 1954). Guimerà collezionò un gran numero di nomination al Nobel per la letteratura: ben 23 dal 1907 al 1923, proposte con insistenza dagli ambienti accademici di area ispanica ma mai andate a buon fine.

Gunnarsson, Gunnar (Fljótsdalur, 18 maggio 1889 – Reykjavík, 21 novembre 1975). Iperborea, la casa editrice italiana specializzata in letterature del Nordeuropa, scrive di lui: «plurinominato al Nobel, è uno dei grandi nomi della letteratura islandese. Nato in una famiglia povera ma deciso a seguire la sua vocazione di scrittore, si trasferisce in Danimarca dove riesce a terminare gli studi e comincia a scrivere romanzi che presto gli procurano fama internazionale e i più prestigiosi riconoscimenti. Tutte le sue maggiori opere sono state scritte in danese, tra cui Il pastore d’Islanda, La chiesa sulla montagna, L’uccello nero, e solo in seguito tradotte in islandese dall’autore stesso, che torna in patria nel 1939 per rimanervi fino alla morte. Il pastore d’Islanda ha avuto svariate letture e interpretazioni sia in Islanda che all’estero.» Le candidature al Nobel, 8 in tutto, sono disseminate entro un ampio arco di tempo, tra il 1918 e il 1961.

A cura di P.B.

(4 - Continua)








Dove ho visto quella faccia?, 2

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Hal Holbrook in Come l’acqua per gli elefanti (Water for Elephants) di Francis Lawrence (2011). Nato a Cleveland, Ohio nel 1925, Holbrook è uno degli attori più anziani tuttora in azione. Sfondò in teatro e alla televisione impersonando Mark Twain. Le sue apparizioni cinematografiche non si contano. Era “Gola Profonda” in Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula (1976), Alan in Giulia di Fred Zinnemann (1977), Lou Mannheim in Wall Street di Oliver Stone (1987), l’avvocato Lambert ne Il socio di Sydney Pollack (1993), Preston Blair in Lincoln di Steven Spielberg (2012). Per il ruolo di Ron Franz in Into the Wild - Nelle terre selvagge di Sean Penn (2007) fu nominato all’Oscar come miglior attore non protagonista.
Alan Alda (New York, 1936) in Il ponte delle spie (Bridge of Spies) di Steven Spielberg (2015). Attore, sceneggiatore e regista; nominato all’Oscar nel 2005, vincitore di sei Golden Globe tra il 1975 e il 1983. Tra le numerose interpretazioni: Crimini e misfatti di Woody Allen (1989), Misterioso omicidio a Manhattan di Woody Allen (1993), Amori e disastri di David O. Russell (1996), Tutti dicono I Love You di Woody Allen (1996), Mad City - Assalto alla notizia di Costa-Gavras (1997), The Aviator di Martin Scorsese (2004).
David Strathairn (San Francisco, 1949) in American Pastoral di Ewan McGregor (2016). Nel 2006 è stato nominato all’Oscar e al Golden Globe per la sua interpretazione in Good Night and Good Luck. di George Clooney. Filmografia sterminata. Qualche titolo: Silkwood di Mike Nichols (1983), Il socio di Sydney Pollack (1993), The River Wild - Il fiume della paura di Curtis Hanson (1994), L.A. Confidential di Curtis Hanson (1997), The Bourne Ultimatum - Il ritorno dello sciacallo di Paul Greengrass (2007), Lincoln di Steven Spielberg (2012), Ritorno al Marigold Hotel di John Madden (2015).
Kathy Baker (Midland, Texas, 1950). Filmografia parziale: Uomini veri (The Right Stuff) di Philip Kaufman (1983), Edward mani di forbice (Edward Scissorhands) di Tim Burton (1990), La famiglia Brock (Picket Fences) - serie TV, 87 episodi (1992-1996), Le regole della casa del sidro (The Cider House Rules) di Lasse Hallström (1999), Ritorno a Cold Mountain (Cold Mountain) di Anthony Minghella (2003), Tutti gli uomini del re (All the King’s Men) di Steven Zaillian (2006), Il club di Jane Austen (The Jane Austen Book Club) di Robin Swicord (2007), Saving Mr. Banks di John Lee Hancock (2013), Adaline - L’eterna giovinezza (The Age of Adaline) di Lee Toland Krieger (2015).
Mark Rilance (a sinistra) con Tom Hanks in Il ponte delle spie (Bridge of Spies) di Steven Spielberg (2015). Nato ad Ashford (Regno Unito) nel 1960, Rilance è uno dei migliori attori di teatro britannici, oltre che un drammaturgo. In Italia molti si sono accorti di lui dopo l’Oscar come attore non protagonista per l’interpretazione di Rudolf Abel in Il ponte delle spie. Con Spielberg è tornato sul set anche nel 2016 per Il GGG - Il grande gigante gentile. Di recente si è visto in Dunkirk di Christopher Nolan, spettacolare ricostruzione di una delle pagine più drammatiche della seconda guerra mondiale.
Sebastian Koch (Karlsruhe, 1962). Ottimo attore tedesco di teatro, cinema e televisione. Ruoli di rilievo in Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck (2006), Black Book di Paul Verhoeven (2006), Il ponte delle spie di Steven Spielberg (2015), The Danish Girl di Tom Hooper (2015).
Gloria Reuben (Toronto, 9 giugno 1964) è un’attrice canadese, nota per il ruolo della dottoressa Jeanie Boulet in E.R. - Medici in prima linea. Al cinema si è vista in Timecop - Indagine dal futuro (Timecop) di Peter Hyams (1994), Minuti contati (Nick of Time) di John Badham (1995), Shaft di John Singleton (2000), Lincoln di Steven Spielberg (2012), Admission - Matricole dentro o fuori (Admission) di Paul Weitz (2013), Un ragionevole dubbio (Reasonable Doubt) di Peter Howitt (2014), La risposta è nelle stelle (The Longest Ride) di George Tillman Jr. (2015).
Mikhail Gorevoy, noto anche con lo pseudonimo Michael Gor, è nato a Mosca nel 1965. Qui lo vediamo ne Il ponte delle spie di Spielberg (2015). Attivo soprattutto in patria, si è tuttavia visto anche in La morte può attendere di Lee Tamahori (2002) e Come ti ammazzo il bodyguard di Patrick Hughes (2017).
Amy Ryan (New York, 1969). Teatro, cinema e tv, con candidature al Tony Award, all’Oscar, al Golden Globe. La filmografia, di tutto rispetto, comprende Truman Capote - A sangue freddo (Capote) di Bennett Miller (2005), La guerra dei mondi (War of the Worlds) di Steven Spielberg (2005), Onora il padre e la madre (Before the Devil Knows You’re Dead) di Sidney Lumet (2007), Gone Baby Gone di Ben Affleck (2007), Changeling di Clint Eastwood (2008), Green Zone di Paul Greengrass (2010), Mosse vincenti (Win Win) di Thomas McCarthy (2011), Devil’s Knot - Fino a prova contraria (Devil’s Knot) di Atom Egoyan (2013), Birdman di Alejandro González Iñárritu (2014), Il ponte delle spie (Bridge of Spies) di Steven Spielberg (2015), Monster Trucks di Chris Wedge (2017).
Octavia Spencer (Montgomery, Alabama, 1970). Oscar per The Help di Tate Taylor (2011) e nomination per Il diritto di contare di Theodore Melfi (2016). Tra gli altri film: Il momento di uccidere (A Time to Kill) di Joel Schumacher (1996), Essere John Malkovich (Being John Malkovich) di Spike Jonze (1999), Da che pianeta vieni? (What Planet Are You From?) di Mike Nichols (2000), Spider-Man di Sam Raimi (2002), Coach Carter di Thomas Carter (2004), Sette anime (Seven Pounds) di Gabriele Muccino (2008), Padri e figlie (Fathers and Daughters) di Gabriele Muccino (2015), La forma dell’acqua - The Shape of Water (The Shape of Water) di Guillermo del Toro (2017).
Taraji P. Henson (Washington, 1970), attrice e cantante. Dopo una serie di film con ruoli minori, sale alla ribalta grazie alla sua performance nel ruolo di Shug in Hustle & Flow - Il colore della musica di Craig Brewer (2005) e di Queenie ne Il curioso caso di Benjamin Button di David Fincher (2008), che le è valso la nomination all’Oscar per la miglior attrice non protagonista. Ha poi rivestito un ruolo di primissimo piano ne Il diritto di contare di Theodore Melfi (2016).
Carice van Houten (Leiderdorp, 5 settembre 1976) è un’attrice e cantautrice olandese. Tra i suoi film: Minouche la gatta di Vincent Bal (2001), Black Book (Zwartboek) di Paul Verhoeven (2006), Operazione Valchiria (Valkyrie) di Bryan Singer (2008), Repo Men di Miguel Sapochnik (2010), Black Death - Un viaggio all'inferno (Black Death) di Christopher Smith (2010), Intruders di Juan Carlos Fresnadillo (2011), Il quinto potere (The Fifth Estate) di Bill Condon (2013), Race - Il colore della vittoria (Race) di Stephen Hopkins (2016).
Ruth Wilson (Ashford, 1982) è un’attrice britannica. Ha al suo attivo diverse serie e miniserie tv. Sul grande schermo: Anna Karenina di Joe Wright (2012), The Lone Ranger di Gore Verbinski (2013), Saving Mr. Banks di John Lee Hancock (2013), Suite francese (Suite française) di Saul Dibb (2014), Sono la bella creatura che vive in questa casa (I Am the Pretty Thing That Lives in the House) di Oz Perkins (2016), How to Talk to Girls at Parties di John Cameron Mitchell (2017).
Austin Stowell (Kensington, Connecticut 1984) in Il ponte delle spie (Bridge of Spies) di Steven Spielberg (2015). Si è visto anche in Whiplash di Damien Chazelle (2014) e in Stratton di Simon West (2017).
Billy Magnussen  (New York, 1985). Visto in Twelve di Joel Schumacher (2010), Into the Woods di Rob Marshall (2014), Il ponte delle spie di Steven Spielberg (2015).
Amanda Crew (Langley, 5 giugno 1986), attrice canadese; dal 2014 è una delle protagoniste della serie televisiva Silicon Valley, nel ruolo di Monica. Per il cinema ha recitato in Final Destination 3 di James Wong (2006), Il messaggero - The Haunting in Connecticut (The Haunting in Connecticut) di Peter Cornwell (2009), Jobs di Joshua Michael Stern (2013), Adaline - L’eterna giovinezza (The Age of Adaline) di Lee Toland Krieger (2015), Race - Il colore della vittoria (Race) di Stephen Hopkins (2016).
Blake Lively (Los Angeles, 1987). Filmografia parziale: 4 amiche e un paio di jeans (The Sisterhood of the Traveling Pants) di Ken Kwapis (2005), La vita segreta della signora Lee (The Private Lives of Pippa Lee) di Rebecca Miller (2009), The Town di Ben Affleck (2010), Lanterna Verde (Green Lantern) di Martin Campbell (2011), Le belve (Savages) di Oliver Stone (2012), Adaline - L’eterna giovinezza (The Age of Adaline) di Lee Toland Krieger (2015), Café Society di Woody Allen (2016).
Max Mauff, nato a Berlino nel 1987. Ha avuto un ruolo piccolo piccolo, ma straordinariamente incisivo, ne Il ponte delle spie di Spielberg, nel 2015. Il resto è una lunga serie di partecipazioni secondarie in Germania, in film per la televisione e il cinema. Meriterebbe una maggiore visibilità internazionale, anche in ruoli comici.
Jesse Plemons (Dallas, 1988) è il macellaio che si caccia in un mare di guai in dieci episodi della serie tv Fargo (2014). Al cinema la sua filmografia comprende Passione ribelle di Billy Bob Thornton (2000), The Master di Paul Thomas Anderson (2012), The Program di Stephen Frears (2015), Il ponte delle spie di Steven Spielberg (2015), The Post di Steven Spielberg(2017).
Juno Temple (Londra, 1989). Oltre che nella serie televisiva Vinyl, ha recitato in Pandaemonium di Julien Temple, suo padre (2000), Diario di uno scandalo (Notes on a Scandal) di Richard Eyre (2006), Espiazione (Atonement) di Joe Wright (2007), I tre moschettieri (The Three Musketeers) di Paul W. S. Anderson (2011), Killer Joe di William Friedkin (2011), Il cavaliere oscuro - Il ritorno (The Dark Knight Rises) di Christopher Nolan (2012), Maleficent di Robert Stromberg (2014), Wonder Wheel di Woody Allen (2017).

L’albero del tamburo

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Sono reduce da un concerto tanto insolito quanto eccitante, intitolato L’albero del tamburo e svoltosi in un luogo solenne, l’abbazia San Benedetto di Seregno. In questo periodo dell’anno fioriscono, nella regione in cui vivo, le serate musicali di beneficenza, e questa era particolarmente pertinente: musica per sole percussioni a favore di progetti sanitari in Africa (onlus: GSA). Per rendere omaggio alle radici musicali di quel continente, il Peka Percussion Quartet – formidabile protagonista dell’evento – ha scelto un programma dai molteplici aromi culturali, spaziando dal folklore etnico alle composizioni originali, dal jazz al fronte più sperimentale della musica colta del Novecento. Suscitando emozioni e persino entusiasmi anche in chi non frequenta tutti i giorni le sonorità minimaliste di Terry Riley e Steve Reich, e in chi non è abituato ad ascoltare per due ore di fila un ensemble di sole percussioni (vibrafono, marimba, rullante, congas, etc.). Senza avere l’aria di voler impostare una sessione didattica, e anzi divertendosi e divertendo l’uditorio con divagazioni ironiche (la sigla dei Simpson, ma anche Billy Jean e Thriller di Michael Jackson, riscritte per idiofoni e membranofoni), i quattro musicisti del Peka sono riusciti a comunicare e promuovere, presso il largo pubblico, un’idea innovativa dell’ascolto, con musiche prodotte attraverso strumenti che nelle compagini tradizionali rivestono di solito un ruolo di sostegno. E le orecchie presenti hanno afferrato al volo la ricchezza e varietà espressiva di un siffatto line-up strumentale.
Il Peka Percussion Quartet in azione. Da sinistra: Maurizio Paletta, Francesco Pinetti, Antonio Scotillo e Luca Casiraghi.

Tra gli aspetti più vitali di un concerto come questo c’è l’assoluto superamento dei generi musicali codificati e, di conseguenza, delle convenzioni e dei pregiudizi radicati in un mercato privo di fantasia e sostanzialmente conservatore. I musicisti  ascoltati a Seregno hanno proposto, a colpi di mani e battenti, pedali e casse di risonanza, feltri e metalli, tuoni e tintinnii, vibrazioni e raschiamenti, una mappa esauriente e contagiosa di come si è evoluta la ricerca musicale, a partire dalla seconda metà del XX secolo.

Attivo da circa vent’anni, il Peka Percussion Quartet è costituito da Luca Casiraghi, Maurizio Paletta, Francesco Pinetti e Antonio Scotillo. Il loro intento dichiarato è quello di «unire capacità e creatività dei singoli per affrontare un repertorio in grande espansione non fruibile attraverso i più consueti circuiti adibiti alla diffusione della musica: non una musica alternativa, ma una formazione alternativa capace di sprigionare dagli strumenti a percussione nuovi orizzonti nel mondo dei timbri e del colore.»

Il concerto, che includeva sia brani originali per ensemble di percussioni, sia liberi arrangiamenti curati da Francesco Pinetti, è cominciato con Clapping Music di Steve Reich (1972): mani battute a ritmo, senza strumenti. Subito dopo, le spezie egiziane e brasiliane di Fallahie Samba batucada, sapienti commistioni di spontaneità folkloristica e revisione d’autore. Del compositore e percussionista jazz statunitense David Friedman, il quartetto ha proposto due brani: il primo, Carousel(originariamente per duo di vibrafono e marimba, con ampi spazi lasciati all’improvvisazione degli esecutori), composto in collaborazione con Dave Samuels; il secondo, Lunch with Pancho Villa (in origine per trio di vibrafoni e marimbe), scritto per Rios, un album del 1995 in cui Friedman suona con il bandoneonista e percussionista argentino Dino Saluzzi e il bassista statunitense Anthony Cox.
Terry Riley.

Il bravissimo Pinetti non si è limitato agli arrangiamenti. Di suo abbiamo goduto un numero elettrizzante, Click & Clock, scandito sull’imitazione di un tic-tac d’orologio e vertiginoso nel suo sviluppo a otto mani, un crescendo di invenzioni e di gag. In C (1964), ormai un classico di Terry Riley e del minimalismo della West Coast, viene comunemente definito «un brano di musica semi-aleatoria» (o un esempio di «opera aperta», direbbe Umberto Eco) ed è stato pensato, secondo i suggerimenti dell’autore, «per un gruppo di circa 35 musicisti, ma funziona anche con gruppi più o meno numerosi.» Si basa sulla ripetizione di una frase musicale esposta da più esecutori contemporaneamente ma con lievi ritardi di attacco tra l’una e l’altra (per dirla in modo dilettantesco e approssimativo). Alex Ross, critico musicale del New Yorker e autore di un testo memorabile sul Novecento musicale intitolato Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, conclude il suo libro con una sezione di «ascolti e letture consigliate». Di In C scrive che «la performance migliore è quella che l’ensemble di nuova musica della vostra zona prima o poi presenterà». Sembra una battuta (è il caso di dirlo, stiamo parlando di percussioni) ma c’è qualcosa di vero nello scherzo: ci è stata fornita a metà serata una performance degna di Riley, con sorpresa. Per l’occasione, infatti, i maestri del quartetto Peka hanno invitato tre percussionisti in erba, studenti di conservatorio e liceo musicale, a suonare con loro; in sette si sono dati da fare come trentacinque. Applausi scroscianti.
Da sinistra a destra gli esecutori di In C: Loris Guastella, studente del conservatorio Gaetano Donizetti di Bergamo; Francesco Pinetti, Maurizio Paletta e Luca Casiraghi; gli studenti Leonardo Campera e Pietro Vescovi, del liceo musicale Zucchi di Monza; Antonio Scotillo.

Nella seconda parte del concerto si sono ascoltati brani di Anthony J. Cirone (4/4 for Four), di Billy Cobham (Stratus, dall’album Spectrum del 1973), di Michael Jackson (un piccolo medley da Thriller) e uno strepitoso arrangiamento di Caravan (Juan Tizol e Duke Ellington, 1936), uno degli standard più venerati – e più rielaborati – di tutta la storia del jazz.


© Pasquale Barbella

I maestri Casiraghi e Scotillo (primo e terzo da sinistra) con gli studenti Campera e Vescovi.



Maestri dimenticati della fotografia, 4

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Dalla povertà dei selfie alla ricchezza delle parole

di Till Neuburg

Nel corso degli ultimi cinque anni, delle venti mostre d’arte più visitate a Londra ben quindici sono state organizzate dalla Saatchi Gallery: ennesima prova che l’istituzione culturale inaugurata nel 1985 dall’ex pubblicitario Charles Saatchi è oggi uno dei più solidi punti di riferimento dell’arte moderna.

L’incredibile carriera di Saatchi nel mondo della pubblicità era iniziata nel 1970, quando con suo fratello Maurice aprì la Saatchi & Saatchi. In pochi anni sarebbe diventata l’agenzia pubblicitaria più nota, più aggressiva e più profittevole del mondo.

Solo l’anno prima, l’allora ventiseienne tycoon britannico di origine irachena aveva acquistato il primo pezzo della sua futura collezione d’arte, un’opera del minimalista newyorchese Sol LeWitt. Negli anni a venire sarebbero seguiti quadri, sculture, fotografie o installazioni di Georg Baselitz, Dan Flavin, Lucian Freud, Andreas Gursky, Damien Hirst, Donald Judd, Anselm Kiefer, Jeff Koons, Sarah Lucas, Richard Serra, Cindy Sherman, Julian Schnabel, Cy Twombly, Andy Warhol... e di centinaia di altri autori che spesso devono le loro fortune al fiuto e al coraggio di quel giovane collezionista e abile segugio mercantile.

Se oggi un’istituzione di tale livello, con la partnership del gigante cinese Huawei, indice un concorso dall’inequivocabile titolo #SaatchiSelfie, di sicuro la circostanza merita di non essere trascurata. Come mai un genere fotografico tanto vituperato dall’establishment culturale ha potuto compiere il suo trionfale ingresso nel gotha dell’arte moderna, per giunta dalla porta principale?

A dire il vero, più che annunciare e celebrare la presunta maturità mediatica e artistica dell’autoscatto digitale, l’iniziativa della Saatchi ha “solo” aggiornato l’antico tema dell’autoritratto, riproponendo la storia di famose opere dichiaratamente egoriferite – da Rembrandt, Van Gogh, Picasso e Kahlo fino a Cindy Sherman. Il periodo dell’iniziativa ha coinciso con la mostra From Selfie to Self-Expression, svoltasi nei mesi di aprile e maggio 2017 nei locali della nuova Saatchi Gallery appena inaugurata. Sono state esposte – e divulgate in rete – tutte quante le 14.000 immagini che hanno partecipato all’eclatante evento-concorso-mostra.

Nel 2013 l’Oxford English Dictionary scelse il neologismo “selfie” come parola dell’anno. Oggi di queste sveltine digitali se ne compiono 93 milioni al giorno, ovvero 1.076 al secondo: quasi il doppio dei messaggi Facebook postati nello stesso lasso di tempo. Ma un selfie rifugiato in qualche silenzioso memory stick rimane un’immagine men che meno virtuale, al massimo una trascurabile somma di bite che occupano lo spazio di una cinquina di like sparati nel mucchio web. Per uscire non solo etimologicamente ma anche elettronicamente dal suo striminzito significato slang (usato la prima volta nel 2002 in un post del forum australiano ABC), il selfie scalpita come un criceto in cerca della ruotina sui cui sfogare il suo disperato surplus di solitudine e di nonsense esistenziale. Ma per miliardi di cittadini (non esclusivamente giovani, ça va sans dire) solo il selfie sparpagliato nel solito giro e rigiro degli amici o presunti tali provoca, distilla e dispensa la necessaria quantità di dopamina che garantisca la sottovivenza nelle ragnatele che i quacquaraquà del sistemone si ostinano a chiamare social.

Chiunque provi a navigare per un solo minuto nel sito dedicato dalla Saatchi Gallery ai selfie s’accorge molto presto dell’inconsistenza artistica di quasi tutti quei quattordicimila contributi. Persino lo scatto della vincitrice Dawn Wolley The Substitute, che mostra la sua figura stampata e frazionata in vari fogli cartacei allineati e adagiati su un prato e abbracciati da un uomo reale lì presente, è fotograficamente irrilevante.

Sarà una provocazione appunto terra terra, magari concettualmente curiosa, forse persino enigmatica e inattesa, ma fotografare non significa solo inquadrare, evidenziare e spiazzare. Se assecondiamo l’assunto secondo il quale anche la fotografia può essere un’arte – e questa serie di articoli cerca di confermarlo con ogni singolo contributo – la buona foto non implica e genera solo valori tecnici, semantici e riproduttivi, ma anche estetici: esattamente come succede nella pittura, nella musica, nella scrittura, nel cinema, nell’architettura, quando le opere d’arte non s’immiseriscono in operette. Qualsiasi vocabolario, enciclopedia, lessico o altra fonte etimologica – persino Wikipedia – collega il lavoro dell’artista all’esperienza, alla competenza, al ben fatto e al bello. Non basta escogitare un concetto, un’idea, un forzato jamais vu; occorre mettere in pratica anche la competenza e il massimo livello di perizia e di manualità.

Il grande fotografo non si ferma al guarda-e-scatta. Sa anche esaltare le cose che vede e poi mostra, rendendole più potenti, o più poetiche, di quanto già lo siano in realtà. Il suo clamore aggiunto non è la provocazione, ma la valorizzazione. Ecco perché mi preme dare la dovutissima parola ad alcune persone e personalità che sull’argomento hanno già dato, in abbondanza e con magnifica eloquenza, molto prima e soprattutto molto meglio di me. Non sono testimonianze biografiche, storicistiche o riassunti, seppur dotti, di assiomi o teoremi, ma testi che chiunque potrebbe/dovrebbe amorevolmente conservare nel proprio caveau della conoscenza e degli amori fotografici che non deperiscono mai.
 
Zack Arias
Photography Q&A
 New Riders



Bruce Barnbaum
The Art of Photography
 rockynook



Roland Barthes
La camera chiara
 Einaudi



Jean Baudrillard
Patafisica e arte del vedere
 Giunti



Walter Benjamin
Piccola storia della fotografia
 Skira



John Berger
Capire una fotografia
 Contrasto



Pino Bertelli e Ando Gilardi
Dio non esiste. La fotografia sì.
 Nda



Susan Bright
Art Photography Now
 Thames & Hudson



Germano Celant
Fotografia maledetta e non
 Feltrinelli



Roberto Cotroneo
Lo sguardo rovesciato
 Utet



Charlotte Cotton
La fotografia come arte contemporanea
 Einaudi



Michael Freeman
La mente del fotografo
 Logos



Gisèle Freund
Fotografia e società
 Einaudi



Ando Gilardi
Meglio ladro che fotografo
 Bruno Mondadori



Ando Gilardi
La stupidità fotografica
 Johan & Levi Editore



Grazia Neri
La mia fotografia
 Feltrinelli



Lutz Schöbe
Fotografie dalla Fondazione Bauhaus
 Alinari



Susan Sontag
Sulla fotografia
 Einaudi



Wim Wenders
I pixel di Cézanne
 Contrasto

Non ho tenuto conto delle monografie sui grandi maestri, comprese quelle (come mestamente insinua il titolo di questa nostra ricerca) che rischiano di finire in soffitta con scritto sopra “Da sistemare” o peggio “Da eliminare”. I volumi dedicati sono talmente numerosi che elencarli tutti non avrebbe senso. Per gli stessi motivi evito di citare le loro frasi celebri. Alcune sono vivide, acute, utili e rivelatrici, ma continuo testardamente a credere che il loro linguaggio più perspicace e profondo l’abbiano articolato con le loro Leica, Rolleiflex, Hasselblad e Nikon, e non con la cassetta degli attrezzi alfabetici con la quale si trastulla anche il sottoscritto. Perciò, con un profondo senso di gratitudine e di complicità, cedo volentieri la parola a chi, sulla fotografia, mi ha culturalmente e perspicacemente preceduto: 

«Le immagini fotografiche sono un messaggio senza un codice.» (Roland Barthes)
«Un’immagine vale più di mille parole.» (Confucio)
«Di quel viaggio non ricordo più niente. Ero troppo occupato a fotografare e non ho guardato.» (Umberto Eco)
«La fotografia è verità, e il cinema è verità ventiquattro volte al secondo.» (Jean-Luc Godard)
«Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera.» (Johann Wolfgang von Goethe)
«Si fotografano delle cose per allontanarle dalla mente.» (Franz Kafka)
«Fotografia, foto-grafia, significa scrivere con la luce. La fotografia, il cinema, conferiscono una specie di immortalità, una preminenza alle immagini e non alla vita reale.» (Marshall McLuhan)
«La fotografia è una breve complicità tra la preveggenza e il caso.» (John Stuart Mill)
«Noi non vediamo le cose come sono, noi le vediamo come siamo.» (Anaïs Nin)
«Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è un’immagine di un’idea.» (Tiziano Terzani)
«Non potete fare affidamento sui vostri occhi se la vostra immaginazione è fuori fuoco.» (Mark Twain)
«Ecco la mia idea di una buona fotografia: deve essere a fuoco, deve mostrare una persona famosa che fa qualcosa di non famoso e questa persona deve essere al posto giusto nel momento sbagliato.» (Andy Warhol)
«Un grande fotografo è uno che inventa la fotografia.» (Wim Wenders)

Bene. L’introduzione è finita. È ora di riprendere, in ordine alfabetico, la nostra galleria di “dimenticati”.

Albert Renger-Patzsch
1897-1966

Dopo la Grande guerra, i tedeschi vissero un periodo di non-guerra molto tormentato. Tra l’armistizio del novembre 1918 e l’investitura di Hitler del 1933, la Repubblica di Weimar fu un’agitatissima parentesi politica e culturale, durata appena tre lustri. L’inflazione aveva fatto lievitare il prezzo di un chilo di pane fino a 105 miliardi di Reichsmark, ma per contro l’ex impero sapeva ancora esprimere decine di movimenti e personaggi capaci di segnare per sempre la storia culturale dell’intero continente – e persino degli Stati Uniti, in certi campi.

Soprattutto nelle arti visive e nella grafica, nell’architettura e nella progettazione di oggetti, nel teatro, nella danza e nel cabaret, nel cinema e nella fotografia, il paese di Kant, di Goethe e di Beethoven seppe imprimere a quegli anni un’autentica ventata d’innovazione: la UFA berlinese dei vari Lang, Lubitsch, Murnau, Pabst, Preminger, Siodmak, Sirk, von Sternberg, von Stroheim e Wilder, le Münchner Kammerspiele, il cabaret Die Pfeffermühle, l’Ausdruckstanz di Mary Wigmann a Dresda, la Scuola filosofica di Francoforte, il Theater am Kurfürstendamm di Max Reinhardt, il funzionalismo e soprattutto la Bauhaus e la Neue Sachlichkeit assegnarono all’arte e alla letteratura tedesche impulsi che si fanno sentire e vedere ancora oggi.

La Nuova oggettivitàaveva spiccato il suo volo (in direzione diametralmente opposta a quella del romanticismo, del simbolismo e poi del dadaismo e soprattutto a quella dei vari Pindaro o Icaro di ogni specie), dalle pagine di scrittori che volevano sempre e solo raccontare la realtà. Più che autori si consideravano osservatori di fatti e circostanze economiche e sociali, di incontri e scontri concreti, di fatti, cronache, episodi e avvenimenti che non avevano luogo nelle alte sfere dell’inventiva e della fantasia, ma sempre e solo sul territorio della vita reale e vissuta. Forse i nomi più rappresentativi di quelle staffette mai letterarie ma spiccatamente e solo letterali, furono Hans Fallada, Lion Feuchtwanger, Heinrich Mann, Joseph Roth, Erich Maria Remarque, Kurt Tucholsky.

In campo fotografico uno dei più autorevoli fautori di questa scuola tedesca della semplicità e della totale assenza di virtuosismi fu un giovane bavarese che, dopo pochi semestri di frequenza alla facoltà di chimica della Technische Hochschule Dresden, interrompe gli studi per andare a dirigere l’archivio fotografico della casa editrice della scuola Folkwang. Quell’istituzione era (e tuttora è) un centro superiore didattico, pedagogico e umanistico di risonanza internazionale, al pari delle scuole montessoriane e delle Rudolf Steiner Schulen presenti in tutto il mondo. Per dare un’idea del livello formativo di cui parliamo, basta indicare alcuni nomi tra quelli che vi hanno insegnato: la danzatrice Pina Bausch, il grafico e tipografo Max Burchartz, il jazzista Kurt Edelhagen, la soprano Agnes Giebel, la contralto Marga Höffgen, il compositore Krzysztof Penderecki, l’attore Jürgen Prochnow, il grafico e pittore Anton Stankowski, il pubblicitario Vilim Vasata... decine e decine di persone così.

Insieme ai colleghi fotografi della Neue Sachlichkeit August Sander, Karl Blossfeldt e Hans Finsler, Renger-Patzsch espone in varie gallerie e musei. Nel 1927 allestisce la sua prima mostra personale nel Museum für Kunst- und Kulturgeschichte di Lubecca, seguita da altre rassegne individuali nel Graphisches Kabinett di Monaco e al Kunstgewerbemuseum di Zurigo. A questo punto si trasferisce a Bad Harzburg per fare il fotografo indipendente e diventa socio del Deutscher Werkbund (l’associazione tedesca delle arti e dei mestieri progettuali).

Negli anni ’30 realizza servizi fotografici e campagne pubblicitarie per importanti committenti, tra i quali Boehringer Ingelsheim, Continental, Fagus Werke, Kaffee Hag, Jenaer Glaswerke, Westfälisches Kohlen-Syndikat, Zündapp. A partire dal 1933, per dieci anni tiene alla Folkwangschule un corso da lui denominato Bildmässige Photographie(Fotografia per un’immagine coerente) e nel 1938 compie due viaggi fotografici in Italia e in Francia.

Durante il suo percorso, che lui si rifiuterebbe di chiamare “artistico”, pubblica un totale di trentanove libri dei quali ben sei raccontano i suoi inizi fotografici dedicati al mondo botanico e vegetale. Gli altri volumi sono prevalentemente consacrati all’architettura, all’arte e ai vari paesaggi e luoghi che hanno segnato la sua esistenza; c’è anche un saggio fotografico che ha per protagonista la sua ultima residenza, il gioiello medioevale Soest in Westfalia:

Die Welt der Pflanzen - Il mondo delle piante (1925)
Crassula rochea falcata - La Rochea (fiore) (1925)
Euphorbia ingens - L’Euforbia (pianta) (1925)
Das Chorgestühl von Kappenberg - Le panche del coro nella chiesa di Kappenberg (1925)
Ruhrgebiet-Landschaften - Paesaggi della Ruhr (1927-1935)
Die Welt ist schön - Il mondo è bello (1928)
Dresden - Dresda (1929)
Hände und was sie sagen - Le mani e ciò che dicono (1929)
Hamburg - Deutschlands Tor zur Welt - Amburgo - la porta tedesca per il mondo (1930)
Norddeutsche Backsteindome - I duomi in cotto della Germania settentrionale (1930)
Eisen und Stahl - Ferro e acciaio (1931)
Sylt - Bilder einer Insel - Sylt - Immagini di un’isola (1936)
Kupferhammer Grünthal - La Valle Verde del Kupferhammer (1937)
Das silberne Erzgebirge - Le montane argentee della Erz (1940)
Beständige Welt - Un mondo stabile (1947)
Paderborn - La città di Paderborn (1949)
Rund um den Möhnsee - I dintorni del lago di Möhn (1951)
Schloss Cappenberg - Il castello di Cappenberg (1953)
Deutsche Wasserburgen - Roccaforti tedesche protette da fossati (1952)
Höxter und Corvey - Höxter und Corvey - due cittadine (1954)
WAZ - Ein Druck- und Verlagshaus im Ruhrgebiet - Westdeutsche Allgemeine Zeitung - Un’impresa tipografica ed editoriale nella Ruhr (1954)
Bilder aus der Landschaft zwischen Ruhr und Möhne - Immagini paesaggistiche tra la Ruhr e la Möhne (1957)
Versuch einer Einordnung der Photographie - Tentativo di una collocazione sistematica della fotografia (1958)
Bauten zwischen Ruhr und Möhne - Costruzioni tra la Ruhr e la Möhne (1959)
Hohenstaufenburgen in Süditalien - I castelli degli Hohenstaufen nell’Italia meridionale (1961)
Werkstattportrait - Ritratto di una bottega artigianale (1963)
Soest, alte Stadt in unserer Zeit - Mittelalter in der Gegenwart - Soest, una vecchia città nel nostro tempo - il medioevo nel presente (1964)
Bäume - Alberi (1962)
Gestein - Rocce (1966) con testi di Ernst Jünger
Im Wald - Nel bosco (1965)
Ten Centuries of European Hospital Architecture (1967)
Kunst und Altertum am Rhein - Arte e antichità lungo il Reno (1977)
Industrielandschaft, Industriearchitektur, Industrieprodukt - Paesaggio, architettura e prodotti industriali (1977)
Späte Industriephotographie - Fotografia industriale recente (1993)
Das Spätwerk: Bäume - Landschaften - Gestein - Le opere tardive: Alberi - Paesaggi - Rocce (1996)
Meisterwerke - Capolavori (1997)
Die Freude am Gegenstand - Il piacere dell’oggetto (2010)
Rheingau - Rheingau (zona del Reno) (2010)
Briefwechsel 1943-1966 mit Ernst Jünger - Corrispondenza degli anni 1943-1966 con Ernst Jünger (2010)





Nel dopoguerra Albert Renger-Patzsch è insignito di tre premi prestigiosi: la David-Octavius Hill-Medaille (1957), il Kulturpreis der Deutschen Gesellschaft für Photographie (1960) e lo Staatspreis für das Handwerk des Landes Nordrhein-Westfalen (1965).

Nonostante il suo abbondante mezzo secolo di carriera gli abbia offerto parecchie soddisfazioni non solo “oggettive”, il suo modo di vedere la vita, l’arte e le cose si esprime alla perfezione in una sua massima di tersa a lucente coerenza: «Quando sono viste nei dettagli, persino cose molto note offrono prospettive completamente nuove.»

Jacob Riis
1849-1914

A dispetto dell’immagine convenzionale che li vuole placidi e assennati, i danesi si sono spesso distinti per il loro sprezzo del quieto vivere e del bon ton. Amleto apre degnamente una galleria di personaggi che di conformistico non hanno niente: dal confabulatore universale Hans Christian Andersen agli ingegneri sonori e ambientali Peter Bang e Svend Olufsen, dalla stravagante baronessa Karen Christentze Dinesen in arte Karen Blixen al Nobel per la fisica Niels Bohr, dall’astronomo Tycho Brahe al giallista Peter Høeg, dalla musa del cinema indie Scarlett Johansson al filosofo esistenzialista SørenKierkegaard, dal fondatore della Lego Ole Kirk Kristiansen agli attori Michael Madsen, Mads Mikkelsen e Viggo Mortensen, dal portiere di calcio più matto della storia Peter Schmeichel al mitico ghostwriter di JFK Ted Sorensen, fino ai registi Thomas Vinterberg, Lars von Trier e Nicolas Winding Refn... Gente che predilige rompere le scatole, le righe e gli schemi di chi beato e beota si trastulla con i compromessi, la valeriana, il rosario e la routine.

In Jacob August Riis ritroviamo in altissima concentrazione quella bizzarra qualità dell’essere sempre fuori, dietro, sotto o al di sopra delle convenzioni. La sua vita si è costantemente snodata sul doppio binario della pubblica denuncia sociale e di un intimo amore delicato e travagliato, quasi shakespeariano.

Nato in un paesino danese di nemmeno tremila abitanti, Jacob era il terzo di quindici figli di un maestro di scuola e occasionale giornalista del quotidiano locale, e di una tranquilla casalinga. Il padre lo incoraggiò a imparare l’inglese leggendo la rivista All The Year Rounddi Charles Dickens e i romanzi di James Fenimore Cooper, ma quel tranquillo auspicio letterario fu brutalmente interrotto quando il fratellino Theodor di nove anni morì annegato. Pochi mesi dopo la tragedia il giovane Jacob donò tutti i suoi piccoli risparmi a una famiglia del vicinato che viveva in condizioni di estrema povertà.

Sebbene il padre sperasse che il ragazzo imboccasse una carriera intellettuale, il giovane Jacob voleva a tutti costi imparare il mestiere del carpentiere. Il motivo non era familiare né culturale, ma aveva cause inimmaginabili per un severo maestro protestante in quella taciturna comunità: il sedicenne Jacob s’era perdutamente innamorato della figlia tredicenne di un vicino di casa che di mestiere faceva appunto il carpentiere. Una volta felicemente assunto in quell’azienda edile, il giovanotto iniziò ad attuare le sue prime timide avances con il risultato che non solo i genitori della ragazza ma anche la stessa meta del suo ardore gli fecero capire che mai e poi mai la giovane Elisabeth Gjørtzsarebbe andata in sposa a un nullatenente come lui. A questo punto il povero Jacob si fece assumere in una carpenteria nella lontana capitale Copenhagen. Raggiunti i diciannove anni Jacob rientrò a Ribe, ma nuovamente la sua fiamma rifiutò le sue proposte affermando che le proprie attenzioni amorose erano ormai destinate a un altro spasimante, un giovane militare in carriera. A questo punto, distrutto, ferito e disilluso, il giovane Riis decise di emigrare negli Stati Uniti.

Quella trasferta e i primi anni in America si sarebbero svolti come un intricato mix tra racconti fantasy, horror e noir durante i quali il giovane immigrato si sarebbe spostato in modo sempre più estemporaneo tra New York, Pittsburg, Philadelphia, Chicago, la Pennsylvania e il New Jersey e poi di nuovo a New York facendo mille mestieri: oltre al carpentiere, il contadino, l’operaio in un’acciaieria e poi in una fabbrica di laterizi, il venditore porta a porta di ferri da stiro, il correttore di bozze, il redattore e persino il proprietario di un giornale appena fallito. Compì anche vari inutili tentativi di farsi arruolare nell’esercito francese per combattere nella guerra franco-prussiana del 1870/71. Subì per lunghi mesi un’autentica vitaccia da homeless venendo anche truffato e poi persino derubato dell’unico tesoro che gli era rimasto: un piccolo medaglione d’oro contenente una ciocca di capelli dell’amata Elisabeth abbandonata, presumibilmente per sempre, in Danimarca. Quell’odissea di sette lunghi anni si concluse con un colpo di fortuna (o di scaltrezza): riuscì a vendere il giornale che aveva salvato dalla bancarotta per una somma cinque volte superiore al prezzo pagato.

Per Riis fu un periodo doppiamente fortunato. Saputo da una lettera che il promesso sposo della sua Elisabetta aveva contratto la tubercolosi con esito letale, il loro contatto – per il momento solo epistolare – si riannodò; e finalmente il suo ennesimo tentativo di conquistare – all’inizio solo attraverso un timido sì e successivamente anche con il cuore – l’amata di sempre si concluse, nel 1876, con un sontuoso matrimonio celebrato in quel di Ribe. Ritornato in America, questa volta con la sposa, Riis avrebbe avuto tanti figli e goduto di crescente benessere, fama e felicità.

Dal punto di vista giornalistico Riis raggiunse l’apice quando venne assunto in rapida successione da due dei più importanti quotidiani di New York: The New York Tribune e The Evening Sun. Esperienze che gli fecero conoscere sempre più da vicino i disagi, la fame e la disperazione di chi viveva ai margini o addirittura al di fuori dell’American Dream, che aveva già attratto decine e decine di milioni di immigrati non solo europei ma anche asiatici e slavi; tra loro i tantissimi ebrei sfuggiti alla violenza dei pogrom. In quegli anni il Lower East Side di Manhattan era la zona urbana più densamente popolata del mondo. In quell’ammasso infernale di edifici fatiscenti, dieci persone ammucchiate in un solo piccolo spazio senza servizi era la norma. La mortalità infantile era cinque volte quella di altri quartieri poveri e malfamati. Decine di bande criminali terrorizzavano quei poveri diseredati e naturalmente la polizia, sempre più violenta, razzista e corrotta, non stava mai dalla loro parte.

Per Riis era l’occasione per lanciarsi in un’iniziativa all’epoca completamente nuova, inattesa, inaudita: realizzare un esteso servizio giornalistico supportato – e questo sarebbe stato la causa più deflagrante del suo successo – da una vasta serie di fotografie tutte quante dure, crude e incontestabilmente vere. Ma per attuare quel servizio a dir poco sensazionale c’era un problema tecnico di portata prioritaria: tutti gli ambienti, cantine, spelonche, taverne e sottoscala, stradine, cortili e piazzuole che voleva riprendere erano scarsamente o per nulla illuminati e in quel periodo sia gli obiettivi che le emulsioni fotografiche erano ancora poco luminosi e sensibili. Riis non si scoraggiò: combinando le giuste dosi di polvere di magnesio e di cloruro di potassio riuscì a ottenere dei flash di rara potenza luminosa. Anche nell’uso di questa tecnica prevalentemente interna o notturna, Riis si sarebbe rivelato un apripista di valore storico.

Il risultato non solo fotografico, ma prima di tutto sociale e politico dell’opera, fu dirompente. Appena il servizio giornalistico dal semplice ma convincente titolo «Come vive l’altra metà» ebbe sortito il primo choc, l’intero lavoro venne raccolto e pubblicato (nel 1890) dal prestigioso editore Scribners in un volume di grande successo, anche commerciale.

Data la sua competenza in materia, ampiamente dimostrata, proprio per conto della polizia locale la quale era diretta da un nuovo commissario di nome Theodore Roosevelt, gli fu affidato un survey pubblico sui problemi abitativi e sociali nel quartiere più malfamato di New York che si estendeva dalla Mulberry Bend sull’East River fino alla centrale della polizia in Eldridge Street. Il futuro presidente degli Stati Uniti fu molto impressionato dalla lettura e soprattutto dalla visione di quelle pagine e in una lettera scritta di suo pugno gli comunicò, com’era solito nel suo stile sempre schietto e poco diplomatico: «Ho letto il suo libro e sono fermamente intenzionato a darle una mano.» Presto i due divennero grandi amici e più di una volta furono visti insieme a perlustrare a piedi le zone descritte con tanta passione e impegno dal giornalista-fotografo di origine danese. In breve tempo persino i locali di attesa e di detenzione nelle stazioni di polizia newyorchese vennero resi più civili e accoglienti. Quando per due mandati, nel 1901 e nel 1905, l’amico “Teddy” fu eletto presidente, il loro rapporto rimase sempre saldo e cordiale.





A dieci anni dal loro primo incontro, Riis pubblicò il libro A Ten Year’s War seguito l’anno successivo da un’autobiografia, The Making of an American, di risonanza non solo americana ma anche internazionale. Nel 1902uscì The Battle With the Slume l’anno dopo Children of the Tenements. Insieme all’esordio editoriale di How the Other Half Lives quella cinquina avrebbe reso il suo autore un’autentica celebrità.

Questo intreccio tra grande maestria e innovazione dimostra che nella fotografia il cosa e il come sono sempre indistricabilmente connessi; anzi, nel caso di Jacob Riis, i soggetti da lui scoperti, riprodotti e divulgati hanno palesemente ispirato e guidato il suo modo di fotografare. Le sue immagini, quasi sempre realizzate solo con luci flash, erano il risultato di una mera necessità e non the other way round. Ma forse il più grande valore che aveva guidato il suo lavoro – e la sua vita intima e personale – stava nella pazienza, nella cocciutaggine, nella costanza. Lo riassume in modo limpido, chiaro e veggente un pensiero da lui espresso quando stava per traslocare nella nuova residenza di Richmond Hill, uno dei quartieri alti di New York: «Quando osservo uno dei miei scalpellini che martellano per la centesima volta un masso di pietra senza ottenere nemmeno la minima crepa, ma che al centunesimo colpo vedono spaccarsi la pietra in due, so che non è stato quell’ultimo tocco ad aver innescato la frattura, ma la somma di quelli che l’hanno preceduto.»

Henry Peach Robinson
1830-1901

Per questo instancabile missionario della pictorial photography, la fotografia non è mai stata solo riproduzione, ma prima di tutto interpretazione. Il fotografo i suoi soggetti non li trova, ma li immagina, li cerca, li inventa, li compone. In Robinson l’accostamento tra immagine e azione non può che fondersi nell’immaginazione. Ne deriva un fatale e inflessibile assioma secondo il quale il fotografo è per definizione un artista, al pari del pittore e dell’autore di arti plastiche.

È un’equazione che Robinson vive come se fosse un mandato conferitogli dalla storia. A tredici anni frequenta un corso di disegno dal pittore Richard Penwarne. La sua prima attività lavorativa è quella di venditore di libri d’arte presso il libraio e stampatore Richard Jones. Mentre continua tale lavoro nel negozio del concorrente Benjamin Maund, espone alla Royal Academy il suo primo dipinto a olio, On The Teme Near Ludlow (il Teme è il fiume che lambisce la sua città natale, Ludlow nel Galles).   

È il periodo nel quale inizia a fotografare. Cinque anni dopo, seguendo il consiglio del fotografo Hugh Welch Diamond, decide di dedicarsi completamente al nuovo mezzo aprendo nel 1855 un proprio studio di ritratti nella cittadina termale Leamington Spa. Nel 1856, insieme a Oscar Gustave Rejlander, fonda la Birmingham Photographic Society.

Nel 1859 si sposa, ma cinque anni dopo è costretto a chiudere lo studio per motivi di salute dovuti all’eccessiva esposizione a sostanze chimiche. Da quel momento, piuttosto che maneggiare il bromuro, il platino e il cianuro nella camera oscura, preferisce ingegnarsi con le forbici e la colla. Così inventa il Combination Printing diventando un audace precursore del Photomontage. È un percorso straordinario, controcorrente, del tutto inatteso: seguiamo un artista partito dalla più devota ammirazione per i paesaggi astratti di William Turner che arriva ad anticipare di mezzo secolo la rivoluzione tecnica, semantica e politica dell’esule tedesco John Heartfield.

Le sue foto sono opere altamente artistiche, ma anche il risultato di artifici clamorosi. La sua fotografia forse più famosa, Fading Away (Allontanamento), che mostra una giovane morente attorniata dai familiari, è una composizione complessa generata da un insieme di sei diversi negativi. I suoi tableaux sono molto più (o molto meno) che romantici: sono anche atti scenici di esorbitante quotidianità. Se l’allusione storicamente un tantino fuori registro mi è consentita, spesso le sue foto sono messinscena di vita quotidiana talmente puntigliose e ricche di dettagli, che sembra essere davanti a una versione damascata – e forse anche un po’ polverosa – delle magnifiche tavole pop di Norman Rockwell. 

A questo punto, dopo aver riconquistato uno stato di salute incoraggiante, Robinson apre un nuovo studio insieme a Nelson King Cherrill e nel 1870 viene eletto vicepresidente della Royal Photographic Society. In tale ruolo si impegna in modo quasi ossessivo nel sostenere che la fotografia è un’autentica forma d’arte.

Spostandosi successivamente a Londra, Robinson si dedica principalmente al versante teorico della fotografia pubblicando a partire dal 1869 ben otto saggi, tra i quali il fondamentale Pictorial Effects in Photography – Being Hints on Composition and Chiaroscuro for Photographers a cui seguono The Studio and What To Do in It e il basilare Picture Making by Photography. Non deve stupire l’uso del termine Chiaroscuro – un lontano ma preciso riferimento ai nostri Giotto e Cimabue nei quali le ombre assumevano un significato non solo pittorico, ma anche drammatico e narrativo.

Una ventina d’anni dopo l’uscita di questi saggi (tutti tradotti e pubblicati con grande successo anche in francese, in tedesco e negli Stati Uniti), nel 1889 sulla stampa specializzata e nei dibattiti nelle varie associazioni fotografiche il collega Peter Henry Emerson sarebbe andato giù pesante: secondo l’autorevole avversario (che ormai s’era fatto ammirare e sentire come esponente dell’ultima generazione di grandi fotografi britannici), qualsiasi editing visivo in fase di sviluppo e stampa è «...vandalism of the worst kind. Not only that, they were infantile» (nel suo libro Naturalistic Photography for Students of the Art).

Nonostante Robinson gli avesse puntualmente risposto per le rime stracciando in toto il suo testo, la prima edizione di Emerson fu subito sold out e la prima ristampa fu al volo ampiamente prenotata. A sua volta Robinson rispose che il suo commento critico sul libro di Emerson aveva una funzione puramente «disinfettante».





Nel 1886 Robinson fu eletto presidente della Photographic Convention of United Kingdom. A seguito di quel duello e di dispute interne, nel 1891 Robinson si dimette dalla Royal Photographic Society per fondare l’anno successivo The Brotherhood of the Linked Ring. 

Poco più di un secolo dopo, nel 1994, il Chrysler Museum di Norfolk negli USA organizza la mostra Pictorial Effect/Naturalistic Vision che racconta con oltre cento fotografie, provenienti da 27 collezioni pubbliche e private, la più grande diatriba fotografica dell’800, combattuta all’arma bianca e nera tra i due acerrimi rivali della pictorial photography. Alla lunga quel duello avrebbe influenzato non solo il pensiero di Alfred Stieglitz, Paul Strand, Edward Weston e Ansel Adams, ma indirettamente anche l’opera di Robert Rauschenberg e Andy Warhol... e infine persino della combattiva e sovversiva Cindy Sherman.

Willy Ronis
1910-2009

Se ti chiami Richard Nixon, Renata Tebaldi o Felice Gimondi, sai perfettamente che un posto fisso nella storia non te lo porterà via nessuno. L’unico rischio che potrebbe sfocare i tuoi riflessi nello specchio d’acqua di Narciso, è che alle tue spalle appaiano i fantasmi ammiccanti di John Fitzgerald Kennedy, di Maria Callas o di Eddie Merckx.

Lo stesso scherzo di un contemporaneo dominante, a Willy Ronis avrebbe potuto giocarglielo Henri Cartier-Bresson. Insieme a Robert Doisneau quel trio di leggende strictement blanc et noir formava la francesissima Photographie humaniste (di cui Cartier-Bresson è senza dubbio la figura oggi più ricordata). Per fortuna non furono umanistisolo nelle opere, ma anzitutto nello stile che animava quell’affabile rapporto fotografico a tre. Perciò nessun tentativo di sopraffazione mediatica, né da viventi né post mortem, avrebbe mai potuto offuscare la loro solidarietà.

Tra i fotografi francesi di quella corrente possono essere annoverati anche autori come Izis Bidermanas, Edouard Boubat, Brassaï, Frank Horvat, René-Jacques, Marc Riboud e pochi altri, magari un tantino meno noti. È una corrente che racconta la quotidianità di una Francia (prevalentemente parigina) in piena ricostruzione postbellica, dove i vari Camus, Cocteau, Lacan, Malraux, Prévert, Sadoul, Sartre, Tinguely e Boris Vian non c’entrano pas du tout. I luoghi da loro raccontati non sono la Sorbona e la Rive Gauche, il Quartier Latin e le gallerie d’arte Fels, La Hune e Denise René, il Café de la Paix e il Deux Magots... ma le fritteries e i bistrot, le boulangeries e i marchés aux puces, il Lungosenna e il Métro, le colonne rotonde delle affiches e gli spioncini a specchio delle concierges, le filles de trottoir e i petits garçons che giocano sul pavé.

La loro è una street photography che non ama svelare, denunciare, esasperare i drammi sociali, familiari, individuali che comunque évidemment ci sono. Il contesto, i luoghi e le persone (che mai ambiscono a diventare personaggi) sono sempre visti con sguardi amorevoli, gentili, comprensivi. Sono mondi dove magari la Liberté e l’Égalité non ce l’hanno ancora fatta ad attecchire, ma la Fraternité non manca mai.

Quel loro giro di costante e sincera solidarietà ricorda il binomio cinematografico Réalisme poétique,un’impronta che circola nell’aria di Parigi prima ancora di diventare la materia prima dei vari Jacques Becker, Marcel Carné, René Clair, René Clement, Jean Renoir e Jean Vigo. Prima che al cinema sarebbe giusto collegarlo al Front populairedell’anteguerra, al Maquis contro i nazisti, agli smarrimenti dei veterani della disfatta di Dien Bien Phu, a chi aveva nascosto migliaia di ebrei nelle soffitte, magasins e laboratoires (à propos: tutti e due i genitori di Ronis erano immigrati ebrei, la madre lituana, il padre ucraino di Odessa).

In altre parti del mondo, quel modo di osservare gli umani con occhi appunto humanistes pertiene alla Leica o alla Rolleiflex dei vari Werner Bischof, Vivian Maier, Inge Morath, W. Eugene Smith, Paul Strand, Garry Winogrand; ma lontano dalla Ville lumière la luce tende spesso a farsi tagliente, invasiva o addirittura cupa e impietosa.





Nell’opera di Willy Ronis questi rischi non ci sono mai. Le sue foto sono sempre naturali, semplici, armoniose: grazie all’incoraggiamento di un’amorevole madre pianista, fino a ventidue anni Ronis aveva suonato il violino. Amava i classici del Settecento, finché un giorno non si “scontrò” in modo fatale con il poema musicale Jeuxdi Debussy e più avanti con Miles Ahead arrangiato da Gil Evans. Il suo futuro sembrava segnato su un pentagramma, quando la sempre più precaria salute del padre rischiò di far chiudere il laboratorio fotografico del genitore. Così il giovane Willy dovette per forza concentrarsi sul salvataggio delle scarse entrate familiari, scattando, stampando e ritoccando foto di battesimi, matrimoni, passaporti. Il seguito di quel repentino cambio disarmonico lui lo racconta così: «J’ai noué des relations extrêmement amicales avec des gens aussi différents que Doisneau, Brassaï, Capa, Cartier-Bresson, René-Jacques. Mais si j’ai été influencé par d’autres photographes, c’est inconsciemment. Mes photos dépendent beaucoup plus de la peinture et de la musique classique. Mes maîtres en photographie sont Jean-Sébastien Bach et Bruegel, l’architecture classique aussi. J’ai un besoin formel de construction qui ne me quitte jamais. Quand je construis une image, quand, dans la rue, je me place en un lieu où je sens qu’il peut naître une scène intéressante, c’est à la fois une démarche musicale et picturale.»

Ronis amava definire sé stesso e il suo entourage con il magnifico neologismo Photographes polygraphes. Più chiaro, più coerente, più polifonico di così...

Karl Hugo Schmölz
1917-1986

Per afferrare appieno la grandezza di questo “stilista” defilato (mai prima e dopo di lui questa qualifica avrebbe assunto un senso semantico e artistico più compiuto), dobbiamo mettere a fuoco il periodo e l’ambiente della sua esistenza.

Karl Hugo era figlio di un contesto storico poco conosciuto in Italia, ma prima ancora era figlio di Hugo Schmölz, anche lui fotografo d’architettura. Quando questi muore nel 1938 il figlio raccoglie e perfeziona il rigore scenico del genitore. Rare volte una staffetta tra padre e figlio ha funzionato in modo così consono e armonioso: forse prima di loro solo Johann Ambrosius e Johann Sebastian Bach, Johann e Daniel Bernoulli, Pieter Brueghel il Vecchio e quello Giovane portarono a compimento un ricambio generazionale di un tale grado di coerenza. 

Quando nel 1945 Schmölz rientra dal fronte bellico ritrova la sua città – la Colonia di Carlo Magno, del padre del marxismo, di Heinrich Böll e della fragranza 4711 – letteralmente irriconoscibile. Insieme a Dresda il capoluogo renano era stata la città tedesca più massicciamente bombardata: in 242 incessanti raid i bombardieri inglesi vi avevano sganciato trentacinquemila tonnellate di bombe incendiarie radendo praticamente al suolo le parti vitali della città.

Prima che il coloniese Konrad Adenauer diventasse il primo cancelliere della Germania postbellica, per soli quattro mesi il settantenne leader della CDU aveva già ricoperto anche la carica di sindaco della città. In tale veste voleva che la Wiederaufbau (la ricostruzione) venisse documentata nel modo più scrupoloso possibile e incaricò i tre fotografi locali più importanti (Hermann Claasen, Walter Dick, Karl Hugo Schmölz) di realizzare in progress un’attestazione visiva del drastico ma costante passaggio dal Zusammenbruch (il crollo) al Wirtschaftswunder (il miracolo economico) concepito e guidato dal suo erede politico, il ministro dell’economia Ludwig Ehrhard. Quella cronaca iconografica Schmölz l’avrebbe poi riassunta in un ricco volume dal significativo titolo Wie sich Deutschland neu erfand (Come la Germania si reinventò).

Nel 1956 sposa la fotografa di moda Walde Huth e fonda lo studio schmölz + huth (tutto scritto in minuscolo, come imponeva la migliore tradizione bauhausiana) applicando il suo rigore estetico alla realizzazione di varie campagne d’immagine e pubblicitarie per importanti committenti industriali e commerciali della zona: Auto Union, Bayer, Bertelsmann, Borgward, DuMont, Ford, Henkel, Horten, Interlübke, Kaufhof, Renault, Schaub-Lorenz. A questo punto gli architetti renani della nuova oggettività ormai lo considerano il più attendibile interprete visivo dei loro progetti per banche, edifici amministrativi, studi di registrazione, case editrici, musei, teatri lirici, e soprattutto per le sempre più numerose sale cinematografiche di grandi dimensioni.

Paradossalmente il cinema tedesco di quel periodo era ancora un mondo talmente conformista e polveroso che in occasione dell’imminente edizione 1962 del festival di Oberhausen i giovani ribelli Peter Schamoni, Edgar Reitz e Alexander Kluge lo dileggiarono pubblicamente con il perentorio slogan Papas Kino ist tot. Nelle settemila sale della Bundesrepublik di allora la gente non ci andava per vedere l’opera di un autore, ma solo per ammirare i volti e i gesti più o meno stereotipati dei vari Mario Adorf, Eva Bartok, Senta Berger, Horst Buchholz, Gert Fröbe, Curd Jürgens, Alice ed Ellen Kessler, Klaus Kinski, Hildegard Knef, Marianne Koch, Lilli Palmer, Liselotte Pulver, Heinz Rühmann, Maria e Maximilian Schell, Romy Schneider, Elke Sommer, Horst Tappert, Caterina Valente, Peter van Eyck, Helmut Zacharias – una sorta di riflesso mitteleuropeo di una visione esclusivamente divistica e superficiale della nostra Cinecittà.

Per contro, i Filmtheater e i Kinopaläste tedeschi erano sempre più spesso delle spettacolari ri-formulazioni di una Neue Sachlichkeitmagariimprontata a segni e tratti appena più morbidi della Bauhaus, ma pur sempre rigorosi, essenziali, funzionali. Il marchio Braun dei vari Wolfgang Schmittel, Hans Gugelot e Dieter Rams e la Hochschule für Gestaltung di Ulm fondata da Otl Aicher, Tomás Maldonado e Max Bill, dettavano i parametri razionali di un nuovo Made in Germany che avrebbe anticipato di mezzo secolo i principi estetici di Jonathan Ive, Lee Clow e Steve Jobs.

In un contesto renano dove erano di casa anche il Westdeutscher Rundfunk, la Lufthansa, la casa editrice DuMont Schauberg, le agenzie pubblicitarie GGK di Michael Schirner e la DDB guidata da Helmut Schmitz, gli stilemi architettonici e fotografici di Schmölz e dei suoi sempre più numerosi e fiduciosi committenti erano perfettamente riassunti nello statement Die Stadt als Bühne (La città come palcoscenico). In quegli ambienti rigorosamente spogli, candidi e austeri vediamo all’opera lo sguardo di uno scenografo che non ama i chiaroscuri drammatici di Fritz Lang, dei chiassosi eventi di massa del Terzo Reich, del cinema noir. Da quelle sale il pubblico sembra platealmente escluso come se là dentro non dovrebbe mai essere proiettato alcun film. Sono luoghi di culto disadorni dove la paziente attesa e il silenzio ovattato sono di rigore. Le rare finestre in quelle hall non fanno trapelare alcuna luce esterna e le sue splendide scalinate sembrano portare da nessuna parte: tutto si riduce a pura immaginazione, spazialità, rigore, contemplazione.





Eppure quei luoghi e la loro silente celebrazione visiva sono assurdamente contemporanei dei miserabili tavolini di frassino a forma di rene, delle pettinature cotonate, dei bananasplit, dei pouf, dell’hula-hoop, della moquette... che ovviamente Schmölz teme, rifugge, censura. In modo sempre più elitaria e disperata la sua arte del silenzio e della dissimulazione ormai è platealmente estranea, isolata, fuori tempo. Infatti, nell’architettura le prime avvisaglie di un nuovo gigantismo plastico, di un neomisticismo da stuzzicacieli celebrativi si annunciano ed espandono un po’ ovunque: Chandigarh, la Torre Velasca, Brasilia, Ronchamp, il Pirellone, la Transamerica Pyramid, il Santuario di San Giovanni Rotondo, il quartiere La Villette, il nuovo Lingotto, l’Opera House di Sidney, la Défense... tutte negazioni plateali di una linea retta (leggi: geometrica) che avrebbe potuto indicare nuovi spazi collettivi verso l’essenziale, il raziocinio, la semplicità.

A poco più di cinquant’anni d’età, il raziocinio estetico e luterano di Schmölz gli procura un’ultima, disperata impennata. Nel decennio 1960-70 l’architetto austro-americano Richard Neutra realizza otto ville private nel continente che aveva lasciato nel lontano 1923: quattro in Svizzera, una in Francia e tre in Germania. Il maestro decide che l’ultimissima di quel ciclo, la Villa Pescher di Wuppertal, sia fotografata da Schmölz – un lascito culturale che avrebbe unito per sempre due grandi del razionalismo europeo. Neutra si reca di persona a coordinare quella sessione, sistemando di continuo mille dettagli: l’abbassamento di una tenda, l’apertura di una porta, un oggetto da spostare o da togliere – un lavoro talmente appassionato ed estenuante che durante l’ultimo giorno di quel tour de force Neutra chiede di poter riposare per qualche minuto su uno dei divani da lui progettati. Purtroppo quel momento di relax doveva rivelarsi come una pennichella dalla quale Neutra non si sarebbe mai più risvegliato.

Charles Sheeler
1883-1965

Quando nel 1910 a Philadelphia ebbe inizio la sua folgorante carriera di fotografo, Charles Rettew Sheeler Jr. era già noto come giovane pittore di grande talento. Fu poi considerato uno dei padri fondatori del modernismo americano, ma solo quando la fotografia era ormai diventata, per lui, un’attività secondaria, un espediente puramente tematico e compositivo per perfezionare la sua pittura.
 
Eppure le sue foto di questo periodo “complementare” sono talmente suggestive e ispirate da farlo definire da Wikipedia «One of the master photographers of the 20th century.»

A soli ventun anni Sheeler festeggiò il suo primo vernissage presso la prestigiosa Macbeth Gallery di New York, dove in futuro avrebbero esposto altri grandi artisti americani come Emil Carlsen, Charles H. Davis, Winslow Homer, James McNeill Whistler, Maurice Prendergast, John Singer Sargent, John Sloan, Andrew Wyeth. Successivamente la sua produzione pittorica e fotografica avrebbe avuto l’onore di essere documentata in oltre quaranta mostre individuali e oggi le sue opere sono presenti nelle più prestigiose collezioni pubbliche e private americane, tra le quali la National Gallery di Washington, il MoMA, il Metropolitan e il Whitney Museum di New York, il Boston Museum of Fine Arts, la Yale University Gallery, l’Art Institute di Chicago.

Sebbene dagli storici d’arte americani Sheeler sia considerato come uno dei più grandi cantori delle macchine, della tecnologia e della potenza industriale (che lui stesso di continuo citava come principali modelli ispiratori per la sua pittura), la sua vita artistica è stata ricca di episodi paradossali – e allo stesso tempo mirabilmente complementari.

Come fotografo era stato un autodidatta che tutto da solo aveva acquisito i ferri del mestiere usando una semplice Kodak Brownie da 5 dollari.

In occasione di due viaggi giovanili in Europa scoprì la prima fonte d’ispirazione artistica nelle opere di Paolo Uccello, Giotto, Masaccio, Piero della Francesca e poi nel cubismo di Picasso e Braque.

Nel 1920 insieme al pioniere della fotografia Paul Strand realizzò Manhatta– un documentario muto di dieci minuti con il titolo e altre citazioni ispirati alla poesia Mannahatta di Walt Whitman. Oggi quel film è unanimemente considerato come il primo audiovisivo d’avanguardia realizzato negli USA.

A quarantadue anni pubblicò sulla rivista Arts un saggio sul classicismo greco.

Dal 1926 al 1931 lavorò come ritrattista e fotografo di moda freelance per Vogue e Vanity Fair.

Nello stesso periodo in cui aveva documentato per la Ford i maestosi impianti siderurgici Rouge River di Dearborn, Sheeler visitò anche la cattedrale gotica di Chartres, per scoprirvi strabilianti similitudini geometriche e strutturali che poi avrebbero a loro volta ispirato alcuni dei suoi più importanti quadri modernisti.

A settantun anni a San Francisco incontrò Ansel Adams che gli scattò il ritratto che apre il nostro omaggio.



Charles Sheeler: una foto scattata nella sua fattoria di Doylestown in Pennsylvania, condivisa con l’artista Morton Schamberg.  

Un dipinto di Sheeler che raffigura un altro interno della stessa fattoria di Doylestown. A parte gli ovvii aspetti esecutivi e concettuali, è stupefacente quanto in Sheeler la fotografia e la pittura non fossero mai nettamente scindibili.

Sheeler è unanimemente considerato il principale ispiratore della corrente precisionista. Il termine non si riferisce alla tecnica pittorica ma alle scelte tematiche. Sebbene per metodo e tecnica esecutiva alcuni quadri di Sheeler abbiano anticipato di decenni l’iperrealismo, il precisionismo è tematicamente più contiguo al cubismo e al futurismo che non alle opere dei vari Chuck Close, Richard Estes e Ralph Goings. 

Non è un caso se persino buona parte dell’opus di Ralston Crawford, Charles Demuth, Edward Hopper, Jan Matulka, Georgia O’Keeffe, Stuart Davis, Morton Schamberg e Niles Spencer sia considerata di pretta scuola precisionista: specialmente laddove la passione geometrica e l’amore per la tecnologia si combinano con l’esaltazione delle dinamiche di vita urbana.

Oggi è difficile stabilire se Sheeler sia stato un pittore che usava la fotografia come supporto espressivo o “semplicemente” un grande fotografo che oltre alla pellicola e all’obiettivo usò anche la tela e i pennelli.

Julius Shulman
1910-2009
Shulman con il suo primo committente - e successivamente anche amico - Richard Neutra.

Per chi nell’architettura ama trasmigrare dalle tre alle due dimensioni, Julius Shulman è stato il più nitido e impeccabile riflesso di un firmamento di stelle come Charles Eames, Frank Gehry, Pierre Koenig, John Lautner, Richard Neutra, Oscar Niemeyer, Eero Saarinen, Rudolph M. Schindler, Raphael Soriano, Ludwig Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright... e decine di altri autori di opere nelle quali l’essere umano può addentrarsi non solo con gli occhi e la mente, ma anche camminando. In uno scarso secolo di vita artistica questo solitario voyager nella modernità ci ha raccontato il rigore e la bellezza di oltre ottomila edifici.

L’opus di questo Diderot del mattone, dell’acciaio, del vetro e del cemento oggi è documentato in undici opere editoriali, ottocento copertine di periodici e magazine di settore, due milioni di pagine disponibili sul web, in decine di musei e in un documentario di 1 ora e 24 minuti del 2008 dolcemente accompagnato dalla viva voce di Dustin Hoffman: Visual Acoustics: The Modernism of Julius Shulman

Le esperienze biografiche e ambientali ebbero un notevole influsso sulla formazione professionale e artistica di Shulman. Aveva vissuto l’infanzia e gran parte dell’adolescenza in una fattoria del Connecticut completamente priva di acqua pubblica, corrente elettrica, telefono e automobili; in compenso non gli erano mancati i boschi, i prati, i fiumi, la pioggia, la neve, le albe e i tramonti maestosi. L’impatto di queste radici territoriali e culturali fu talmente intenso da influenzare per sempre il suo modo di guardare il mondo e fotografarlo. La ricerca di armonia tra natura e architettura diventò la costante più espressiva della sua visione poetica, e in questo si trovò in buona compagnia con i tanti architetti legati al territorio e convinti ambientalisti che avrebbe incontrato nella sua vita.

Molto presto Shulman si fece una fama da one-shot-man. Ciascuna delle sue foto richiedeva ore e ore di preparativi, ma una volta impostati il punto di vista, l’angolazione, l’orario, la luce, il diaframma e i tempi d’esposizione, tutto quanto sarebbe poi imploso in un singolo, unico scatto. Quello doveva essere e solo quello sarebbe rimasto. Il suo scopritore e amico Richard Neutra definì questa sintesi con il secco statement «The Shulman Eye».

Sebbene l’architettura sia un’arte che mira verso l’alto, quasi mai le foto di Shulman sono verticali. Se gli stati atlantici e orientali degli USA spiccano per la verticalità degli skyline metropolitani (a New York come a Filadelfia, a Washington come a Chicago, a Boston come ad Atlantic City), l’urbanistica e l’architettura californiane sono invece di segno prettamente orizzontale – e perciò naturalmente armonizzate con le colline, i declivi, le spiagge, le dune, le querce e i cactus, che si perdono nelle lunghe ombre dei tramonti sopra l’oceano chiamato, non a caso, Pacifico. Persino la megalopoli più marcatamente californiana, Los Angeles, spicca più per la sproporzionata estensione orizzontale che non per lo skyline. Non a caso nelle sue rarissime foto di taglio perpendicolare tendiamo a domandarci cosa diavolo possa celarsi sui lati di quei segmenti di infinita panoramicità.

Dopo aver lasciato la fattoria nel Connecticut, fu proprio in California che la famiglia Shulman (numerosa: quattro i fratelli di Julius) andò a sbarcare il lunario. Ad aspettarli c’era un negozietto di frutta alla periferia di Los Angeles. L’incontro di Shulman con l’architettura fu assolutamente casuale. Lo racconta lui stesso in una magnifica intervista del 1990 pubblicata nel sito American Suburb X: «Mi iscrissi a uno dei primi corsi fotografici organizzati da una high school americana. In famiglia avevamo una Eastman Box Camera. Per uno dei concorsi fotografici organizzati dalla scuola ci chiedevano di riprendere una corsa a ostacoli che ogni anno si svolgeva da quelle parti. Ricordo bene che l’insegnante ci raccomandò di non provarci nemmeno a fare degli scatti d’azione con una delle solite Box Camera – i tempi d’otturazione di quelle macchinette non ci avrebbero mai consentito di portare a casa una sola foto decente. Ma io non mi arresi. Invece di inquadrare la gara lateralmente (come provavano a fare tutti gli altri) io mi misi di fronte agli atleti. Poi corsi a casa a fare delle stampe nel formato 8 x 10 pollici. Di fronte al mio risultato il maestro fu sbalordito. E così come voto finale mi presi una bella A.»





Qualche anno dopo, per il 25° compleanno, gli regalarono una Vest Pocket Kodak e sui campus della UCLA a Berkeley Shulman iniziò a fotografare gli altri studenti – ma anche qualche edificio storico nei dintorni. Provò a incorniciare quelle foto e a venderle nei grandi magazzini di Oakland. All’epoca per lui la parola “architettura” non aveva ancora alcun significato, ma caso volle che una sua sorella affittasse una camera a un disegnatore edile impiegato presso uno studio d’architettura diretto da un austriaco di nome Neutra. Un bel giorno Shulman accompagnò il nuovo vicino di casa nel cantiere di una villa che stava per essere ultimata. Si trattava nientemeno che della Kun House, che presto si sarebbe rivelata come uno degli edifici più importanti della storia dell’architettura moderna. Mentre l’amico era indaffarato a controllare certe misure nell’interno, Shulman scattò alcune immagini dall’esterno. Le relative stampe finirono sotto gli occhi di Neutra, che volle incontrare l’autore di quelle foto. «He was the first architect I ever met. And those pictures are still being published».

A conferma che anche con una modesta Vest Pocket Kodak si potessero realizzare strepitose foto d’architettura, Shulman ripetè in varie occasioni: «The camera is the least important element in photography.»

Louis Stettner
1922-2016

Nato a Brooklyn e morto a Saint-Ouen, all’estrema periferia nord dell’Île de France, per quasi un secolo Stettner è stato un attento e fedele commuter ependulaire tra The Big Apple e la Ville Lumière. Sebbene a diciott’anni si fosse arruolato nell’esercito americano come reporter di prima linea per fotografare innumerevoli drammi bellici in Europa, nella Nuova Guinea, in Giappone e nelle Filippine e anni dopo abbia poi anche visitato la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Olanda e il Messico e infine, nonostante abbia avuto quattro mogli, oggi possiamo tranquillamente affermare che questo magnifico cantore visivo abbia avuto solo due veri amori: Parigi e New York.

Tutti i protagonisti che hanno plasmato la sua arte si sono felicemente sdoppiati e specchiati nell’Hudson e nella Senna: di qua Alfred Stieglitz, Paul Strand, Lewis Hine e Weegee, di là Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Édouard Boubat e Brassaï. Se i primi studi universitari Stettner li aveva svolti alla Princeton a soli 50 km da NYC, a Parigi avrebbe perfezionato i sui mitici regards e cadragesall’Institut des Hautes Études Cinématographiques.

Stettner inizia a fotografare come fourteenager nell’anno in cui escono La Belle Équipe con Jean Gabin e Modern Times con Charlie Chaplin; e per una buona ottantina d’anni avrebbe poi raccontato in modo sublime l’âme e the soul delle città simbolo di due mondi notoriamente al di qua e al di là della modernità.

Nel dopoguerra avrebbe organizzato a New York una grande mostra collettiva con le opere di Boubat, Brassaï, Cartier-Bresson, Doisneau, Izis, Ronis mentre a Parigi le sue compagnie preferite erano i vieillards, le concierges, i gosses e i clochards che lo scrutavano o furtivamente gli sorridevano dai trottoirs, dalle brasseries, dal Lungosenna e nei bistrots.

A differenza dell’indelebile sigillo «the decisive moment» concordemente assegnato dagli esperti e dalla storia a Cartier-Bresson, per l’opera di Stettner il critico Adam Gopnik coniò il contro-segno felicemente distintivo «the delicate moment». Lo stesso artista lo avrebbe successivamente avallato con la suggestiva e circostanziata asserzione «The moment of maximum inwardness and deliberation of inner delay.»

Stettner sviluppò una particolare sensibilità nel cogliere il contrasto fra moltitudine e solitudine, tipico di una megalopoli in moto perpetuo come New York; scandagliò a fondo i luoghi, deprimenti e frenetici, dove s’ingrossano le file nelle ore di punta, dove folle di pendolari in movimento invadono corridoi anonimi e sconquassanti; e trovò nella Penn Station, tuttora la principale stazione ferroviaria dell’America del Nord, la location ideale per esprimere la sua poetica del reportage, trasformando il rumore in discrezione e il disordine in meditazione.

Queste sue foto dei primi anni ’50, così dinamiche, metropolitane e americane, sono ritornate alla ribalta nel 2016 al Centre Pompidou, grazie a una rassegna molto ammirata da un pubblico non solo transatlantico ma universale. Anche se Stettner ci avesse lasciato solo questa eredità, dovremmo sommessamente inchinarci davanti a una tale portata di delicati scrutamenti psicologici, di riserbo, di poetica e di clarté.





A parte i palesi valori humanistes che gli abitanti di Parigi e New York esprimono nelle sue foto, salta letteralmente “agli occhi” la potenza delle sue composizioni e di come le sa inquadrare. Le sue foto sono tutte mappature, pattern, distribuzioni, raccolte raffinate di linee, pesi, spazi: in sostanza, magnifici layout. Nel campo della grafica e dell’art direction pubblicitaria, questa dote è forse il valore decisivo che separa la sapienza, la raffinatezza e l’acribia delle campagne che negli anni sessanta, settanta e ottanta avevano segnato la storia della buona comunicazione visiva, dall’invadente spazzatura neoprimitiva che oggi offende gli occhi (soprattutto italiani) dei lettori di un qualsiasi annuncio, sito, volantino o manifesto stradale. Forse, per spiegare ancora meglio cosa s’intende per “composizione”, vale la pena di compiere qualche salto laterale dalla fotografia verso l’arte moderna figurativa: a prescindere dai contesti, dalle motivazioni e dallo stile dei grandi visionari, tra i giganti che hanno completamente ridisegnato la distribuzione, il dosaggio e i pesi degli spazi visivi possiamo felicemente citare Turner, Kandinsky, Mondrian, Bacon, Hopper, Hockney, Basquiat. Da questo punto di vista Stettner è stato – e per il sottoscritto sempre rimarrà – un cugino di primissimo grado di questa stirpe di prodigiosi equilibristi spaziali. 

Chi desiderasse conoscerlo e capirlo ancora più a fondo, sul suo sito personale scoprirà alcuni affascinanti lati passionali che non solo sconfinano, ma si fanno inaspettatamente e prepotentemente largo nei vasti campi della poesia, della pittura e persino della scultura.

Josef Sudek
1896-1976

Per sottolineare l’eccezionalità di un evento, una volta si diceva «a ogni morte di papa». Forse sarebbe più illuminante legare una circostanza fuori dal comune all’apparizione repentina di un iridescente corpo celeste. Con la comparsa di Sudek nel firmamento fotografico era successo esattamente questo. In una Praga dominata ancora dall’oscurantismo del regime asburgico, poi dalle pulizie etniche contro gli ungheresi, dall’opportunistica trasformazione dei Sudeti in protettorato nazista e infine dal servile regime filosovietico dei vari Gottwald, Zápotockýe Novotný, per oltre mezzo secolo il clima sociale della capitale boema rimase tendenzialmente chiuso, cupo, minaccioso.

Da Franz Kafka fino alla defenestrazione di Jan Masaryk, ai carri armati di Brežnev e al rogo suicida di Jan Palach, per decenni Praga era vissuta in una sorta di coprifuoco culturale. E fu proprio lì, sullo sfondo delle elegiache note di Smetana, Dvořák e Janáček e delle paradossali cronache civili e militari dei vari Hašek, Čapek e Kundera, che i praghesi videro aggirarsi nel loro centro un piccolo vecchio con in spalla un treppiede con attaccata sopra una grossa macchina fotografica. A prima vista sembrava un girovago eccentrico e stralunato ma i suoi sguardi furtivi erano lucidi, penetranti e magicamente rivelatori.

In realtà era un gigante della poesia europea che tranquillamente potremmo associare ai vari Lorca, Majakovskij, Hikmet, Pasolini, Szymborska, Merini; solo che lui, al posto dell’uso dirompente di versi, rime ed endecasillabi, s’esprimeva con la magia della luce, dei raggi di sole all’interno delle cattedrali, delle vedute nel suo giardinetto, con la stupita riscoperta di una miriade di oggetti e angoli di casa malcelati. Era dunque pronosticabile, logico e forse persino dovuto che a pochi anni dalla sua scomparsa, nell’elenco ufficiale dei pianeti nuovi nel 1987 con il n° 4176, gli astronomi avessero aggiunto un asteroide che porta il suo cognome.

Dopo aver conseguito un diploma come rilegatore di libri, a quindici anni Sudek inizia a fotografare. Prima di partire per il fronte austro-italiano nel 1915, ha già creato un album di 156 immagini del capoluogo ceco; ne seguiranno molti altri, per raccontare la sua Praga con un profondo senso di appartenenza e di identità.

In piena guerra mondiale, nel 1917 Sudek venne accidentalmente colpito alla spalla da una granata esplosa nelle file del proprio esercito; ci rimise il braccio destro, amputato a un mese dall’incidente. Ovviamente la disgrazia ebbe una profonda influenza sulla sua vita, e non solo in senso negativo: avrebbe goduto vita natural durante di una più che dignitosa pensione di guerra (che per qualche tempo gli avrebbe persino consentito di aiutare alcuni colleghi artisti), ma soprattutto la menomazione l’avrebbe obbligato ad affrontare ogni singolo scatto con approcci e tempi particolarmente riflessivi e misurati. Tutte le sue immagini, anche le più enigmatiche e defilate, emanano un’inconsueta potenza contemplativa che poche volte abbiamo ravvisato nell’opus di altri suoi colleghi.

Senza mai essersi pronunciato sull’argomento, è palese che a modo suo Sudek sia stato un uomo profondamente religioso. Forse proprio spinto da questa sua forte spiritualità, a venticinque anni uscì ufficialmente dalla Chiesa cattolica romana. Non dimentichiamo che il teologo boemo Jan Hus (bruciato sul rogo dopo il concilio di Costanza) aveva già predicato contro il papa oltre un secolo prima che Martin Lutero si fosse ribellato alla chiesa cattolica, che la prima fase della Guerra dei trent’anni aveva visto i boemi come i più accesi antagonisti degli schieramenti papisti e che ancora oggi la Repubblica Ceca è in assoluto la nazione meno praticante dell’Europa continentale. Sebbene i suoi squarci di luce nella cattedrale di San Vito di Praga potrebbero essersi ispirati ai bagliori divini di Caspar David Friedrich, di Turner e di Gaudí, il più delle volte i suoi esterni sembrano invece dei delicati Glasperlenspiele di hesseiana memoria e contiguità.

Grazie a una comune amicizia con un contadino appassionato di fotografia, non appena rientrato dall’ospedale militare di Graz dove l’avevano separato dal suo arto destro, Sudek conobbe il collega e maestro Jaromír Funke dal quale, durante due intensi anni d’apprendimento e complicità, avrebbe acquisito buona parte della strabiliante capacità di rapirci con il suo incanto luminoso. Però Sudek rimase sempre una persona appartata e discreta. Non si sposò mai. L’unica scintilla sentimentale scoccò durante i suoi martedì d’ascolto, dedicati alla condivisione della sua collezione di dischi di musica classica con una ristretta cerchia di amici. Tra questi Milena Vildová, attrice e cantante che diventò per oltre vent’anni la sua compagna di vita.

Sudek non sarebbe mai diventato un personaggio di primissimo piano nello star system fotografico internazionale (com’è successo con Adams, Avedon, Bischof, Burri, Capa, Cartier-Bresson, Leibovitz e altri), ma nel suo curriculum le mostre, le monografie, i premi e le onorificenze prestigiose non sono di certo mancate. Con l’amico Funke e altri colleghi fotografi come František Drtikol, Alexandr Hackenschmied, Karel Novák, Josef Růžička e Adolf Schneeberger e l’artista e teorico d’avanguardia Karel Teige, Sudek aveva fondato e intensamente sostenuto varie associazioni fotografiche, case editrici ed eventi culturali boemi; in occasione del suo sessantesimo compleanno il critico marxista Lubomir Linhart scrisse la presentazione di una monografia contenente 232 suoi lavori del periodo 1915-1955 e che raggiunse la ragguardevole tiratura di 30.000 copie. Persino il governo comunista che aveva sempre considerato il suo lavoro con distacco sospettoso, nel 1961 gli conferì il premio Artista di Merito per l’insieme della sua opera.

Molti anni dopo, quando ormai da tre anni la Ceská Republika s’era già separata dalla Slovacchia, nel centenario della nascita di Sudek, le poste nazionali distribuirono un suo francobollo commemorativo da 9 corone e 60 haléřů.

Anche grazie all’incessante sostegno della sua ex assistente e fotografa Sonja Bullaty, poi emigrata negli USA, negli ultimi anni della sua vita finalmente Sudek divenne famoso anche all’estero: nel maggio del 1968, l’università del Nebraska lo invitò a partecipare alla mostra Five Photographers insieme a Bill Brandt, Eikoh Hosoe, Ray K. Metzker e John Wood; nel 1970 la Fédération Internationale de l’Art Photographique gli conferì l’onorificenza Excellence e nel 1972 la più importante galleria fotografica americana, diretta dalla mitica Marjorie Neikrug, organizzò una sua grande mostra individuale per presentarlo agli appassionati di New York. Due anni dopo la George Eastman House di Rochester fece lo stesso per un pubblico ancora più esteso.





Scavando nella vita di Sudek – in larga parte ancora poco nota al grande pubblico internazionale – abbiamo scoperto che aveva fotografato in modo magnifico, e assolutamente diverso da ciò che sapevamo di lui, alcuni edifici degli architetti razionalisti Josef Gočár e Jaroslav Fragner; che a lungo aveva collaborato con il grande grafico, tipografo e designer Ladislav Sutnar (poco noto pure lui, dalle nostre parti); che aveva ripreso delle ragazze danzanti sotto il sole, scattato paesaggi degni del miglior Ansel Adams, sperimentato la fotografia panoramica, visitato e fotografato più volte il museo dedicato a Johannes Kepler ed eseguito persino alcuni rari nudi.

Alla sua morte avvenuta a ottant’anni ha lasciato 54.519 negativi, 21.660 stampe e 618 altri lavori (quadri, disegni, sculture). Aveva chiesto di essere cremato senza rito cattolico e il ricordo funerario fu pronunciato dall’amico e poeta Jaroslav Seifert, futuro premio Nobel per la letteratura.

Till Neuburg
(4 – Continua)
 


Il re dei lazzari

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«È facile, alla luce del giorno, essere saggi e ragionevoli. Ma di notte è tutt’altra cosa.»
– K. Ishiguro, Gli inconsolabili, p. 264


Il re dei lazzari

La corrente fredda entrava di solito attraverso le punte delle dita e in un baleno s’irradiava in tutto il corpo. Per il poco che mi sembrava di capire non si trattava di vero freddo ma di un’illusione benefica, indescrivibile a parole. La aspettavo come un dono, perché azzerava in modo fulmineo dolori e disagi: per mezz’ora, o anche più, mi era concesso di riprendere fiato. Ma quella notte la corrente miracolosa era in vena di tradimenti. Il freddo era proprio freddo, da brividi. Sul soffitto i riquadri di luce al neon, quelli che vedevo sempre brulicare di insetti immaginari, si spensero di colpo e la sala di rianimazione precipitò nella tenebra più oscura: un’anomalia e un’imprudenza, per un luogo dedicato a pazienti da tener d’occhio e proteggere ventiquattr’ore su ventiquattro. Le sorprese non erano finite. I letti della stanza, compreso il mio, furono scagliati l’uno contro l’altro e rotolarono sgraziatamente sulle piccole ruote, lacerando il silenzio notturno con uno sferragliamento simile a quello dei carrelli da supermercato quando vengono acciuffati e trascinati ai punti di raccolta. Il buio si raddolcì appena virando in un blu intenso, quando l’acchiappaletti cominciò a trasferire i prigionieri lungo i corridoi, di corsa, diretto chissà dove. Il freddo aumentò in modo insostenibile mentre il rapitore (come altro definirlo?) prendeva a calci le porte e a pugni le finestre, lasciando irrompere l’aria tagliente di dicembre. Aprii un poco gli occhi, con timore e fatica, per cercare di spiegarmi l’inspiegabile. Il fracasso delle ruote cresceva e cresceva, perché ai primi letti se ne aggiungevano altri ad ogni curva. Pensai con terrore a un sequestro collettivo. Prima decine, poi forse centinaia o addirittura migliaia di malati prelevati dalle rispettive stanze, i letti concatenati tra loro in file indiane. Per andare dove?

Qualcuno ci stava estromettendo in massa dall’ospedale, nel gelo della notte. Intravidi il ladro di corpi: indossava un mantello azzurro dallo strascico lungo e fluttuante. A balzi si sollevava nell’aria ma subito ripiombava sul suolo, come un’aquila zoppa o un velivolo da pionieri; con redini di metallo trainava i letti a mo’ di convogli facendone aprire le file a ventaglio, sotto le stelle. Lo riconobbi. Somigliava vagamente all’uomo del ritratto di Antonello da Messina, quello con la berretta rossa, ma era – più semplicemente – il capoinfermiere del turno di notte nel reparto di terapia intensiva. Nei suoi gesti non c’era alcunché di benevolo. Sembrava determinato a svuotare l’ospedale e a portare altrove tutti i degenti, forse per gettarli in una immensa fossa comune.

Dopo i goffi salti iniziali lo strano pilota decollò finalmente con il suo ingombrante bottino. Migliaia di lettini divisi in file ordinate, che lui spargeva nel cielo a raggiera e senza sforzo, come se si trattasse di una costellazione di treni-giocattolo. Sorvolata la città, e scomparse le ultime case di periferia, si divertì a sbatacchiare i letti sull’asfalto e sui campi, suscitando non solo un fragore selvaggio ma anche cascate di scintille. Aveva strappato dai pali della luce un cavo elettrico e con quello, per diporto, andava fustigando i suoi prigionieri. «Sveglia! Alzatevi, bastardi! Camminate sulle vostre gambe, parassiti! Per chi mi avete preso, larve, per il vostro lacché?»

Mi rannicchiai sotto la coperta e forse mi addormentai o, più verosimilmente, persi i sensi. Quando, febbricitante, ripresi in parte conoscenza, vidi allargarsi, sotto il firmamento, una sconfinata landa di ghiaccio. La fendevamo a bordo di quelle irregolari, ridicole slitte natalizie costituite da letti d’ospedale. L’infermiere ribelle non aveva trascurato di sollevare, sulle fiancate di ciascun letto, le sponde di sicurezza: sicché la sua esortazione ad alzarci e camminare non poteva che suonare canzonatoria, dal momento che nessuno di noi, nemmeno il più dotato di energie, sarebbe stato in grado – durante quella corsa furiosa – di scavalcare il recinto in cui era confinato e balzare illeso sulla nuda crosta di ghiaccio. Presto la tenue luce dell’alba pervase l’intero paesaggio, colorando di rosa la banchisa, le coperte, le lenzuola. Tormentato dal gelo e dal mal di pancia, alzai le braccia e le agitai nella speranza di attirare lo sguardo, e magari la compassione, del tiranno. «Che vuoi?», ringhiò l’interpellato, più ostile che mai. «Temo di essermela fatta addosso, signore», dissi, con un bruciante senso di colpa nella voce lamentosa. «Lurido cane! Non sai distinguere tra un letto e una latrina! Vergognati! Adesso la merda te la tieni. Non sono il tuo servo. Se vuoi lavarti il culo scendi dal letto e rotolati nel ghiaccio. Ma sbrigati, non mi va di bloccare la carovana per un verme come te!»

In realtà non si fermò né per un minuto né per un secondo. Tirò dritto, portandosi appresso tutta la ferraglia dell’ospedale, cinquemila, forse diecimila letti con tutti i loro stremati, avviliti occupanti. Nessuno lo aveva ostacolato, nessuno aveva osato protestare e nemmeno reclamare questo o quel corpo. Si comportava come se l’esistenza degli altri fosse roba sua, e forse aveva già deciso, in cuor suo, di sopprimere i più deboli e liberare i più forti. Cominciai a sudare freddo al pensiero di essere già stato condannato a morte. Avevo la testa inscatolata in uno scafandro trasparente, con la base saldamente fissata intorno al collo. Il casco serviva a fornirmi la giusta ventilazione, ma io sentivo che l’ossigeno stava scarseggiando e temetti di soffocare. «Se consumo tutto l’ossigeno», pensavo con raccapriccio, «la testa mi esploderà con il casco, bum!, e schizzerà frammenti di cervello per tutto il Mar Glaciale Artico.» La prospettiva era esagerata ma senza dubbio fastidiosa. La mia paranoia aumentava a vista d’occhio: solo che non c’era occhio che mi vedesse, né mano che si prendesse cura di me. Come i compagni di fuga, ero in totale balia di quel despota volante.

Il quale, ligio com’era ai propri doveri contrattuali e diritti sindacali, si dimostrò puntualissimo nel restituire i letti, e i gitanti forzati, ai rispettivi reparti d’ospedale entro l’ottava e ultima ora del suo turno. Subii con insperato sollievo lo sbattimento finale, ritrovandomi nell’esatto punto della stessa stanza da cui ero stato sequestrato; e di quella notte frastornante non mi restò, tra la pelle e le ossa, che un tremore elettrico e pungente. Quella sensazione da collasso imminente continuò a scuotermi per non so quanto tempo: il mio orologio biologico era diventato del tutto inattendibile.

Quando la sofferenza accennò a placarsi, ripensai a tutti gli incubi che mi avevano agitato durante il lungo periodo di rianimazione e non potei fare a meno di trovarli alquanto letterari. Sembravano sognati apposta per farsi narrare, persino per ispirare dipinti o adattamenti televisivi, cinematografici, teatrali. Ne desunsi che anche – o soprattutto – le esperienze più incresciose (forse addirittura letali nel mio caso, per quanto ne sapevo allora nel dormiveglia, avendo appena subito un affronto patologico, chirurgico, narcotico e batterico dalle incerte conseguenze) tendono a sublimarsi, a valorizzarsi esteticamente. Come spiegare altrimenti le somiglianze, vere o presunte, tra l’infermiere volante e il gentiluomo di Antonello da Messina, o tra la giovane dottoressa del risveglio e le Madonne di Raffaello? Arte e letteratura si facevano largo tra le ferite con un repertorio di analogie e citazioni, ma si prendevano anche la briga di spiazzarmi con certe arditezze ermetiche: come quando avevo “visto” la morte in forma di austero pattern geometrico — una sequenza di rombi impressi, in due diverse tonalità di antracite, su un pannello di cartone pressato.

Anche il cinema esigeva dalla notte la sua parte, senza risparmio di orrore e di spavento. Una notte mi rifiutai di dormire. Mi sforzai di non chiudere occhio, riuscendovi nonostante l’abbondante assunzione di sedativi: ero convinto di dover sorvegliare due infermieri sospetti, intenzionati (non per cattiveria, ma per puro pragmatismo) a sospendermi le cure per farmi morire prima dell’alba. «Prima o poi lo perdiamo», mi era parso di udire da uno di loro; «non ha senso questo spreco di sofferenza, e di ossigeno.» Due loro colleghi, nel turno successivo, avrebbero dato prova di maggiore saggezza, aprendo scommesse sull’ora della mia morte. La mia mente oscillava tra Hitchcock e la storia dell’arte. Di giorno, quando le paranoie mi concedevano una tregua, arrivavo a meditare non solo sulla natura degli incubi ma sul senso stesso delle arti e della loro conturbante, irragionevole necessità. Immobile nel letto, con i beccucci di una cannula d’ossigeno infilati nelle narici, mi chiedevo se non stessi impersonando, a mia insaputa, un’opera d’arte da biennale, un oggetto da esposizione e da catalogo. Una installazione, per dirla nello slang corrente. Minimale, in caso di versione monopezzo; più ambiziosa e carica di sottintesi, persino di qualche effetto sulla sensibilità delle masse, se fossi stato esibito insieme ad altri novantanove pazienti a torace scoperto, tutti in fila con le spalle al muro, ciascuno con il suo bel taglio verticale sullo sterno, reduce da un indimenticabile intervento a cuore aperto. Bypass art. Pop heart. Body art. Humanistic design.

Chi ha detto che l’arte non ha una funzione? Ne ha più d’una, a seconda della circostanza e dell’ora. La più banale, quella consolatoria, non va né negata né sottovalutata, checché ne dicano gli storici e i critici più accreditati. E non è detto che, per essere consolatoria, l’opera debba per forza virare vistosamente al positivo, all’edificante, al ruffiano, talvolta al kitsch. Io considero consolatorio persino Francis Bacon, al punto da trovare inammissibile, per eccesso di tetraggine, un mondo privo di artisti come lui. L’ospedale stesso, nel suo atroce quanto benemerito ruolo di officina biomeccanica, mi sembrava ricco di un pathos al tempo stesso suggestivo e insopportabile. Una specie di museo della smorfia e del dolore. Perché è il malessere, più che la guarigione, a fare del luogo di cura quello che è: uno straordinario teatro della scienza e del supplizio, dell’azzardo e della speranza. La guarigione è l’obiettivo, ma si raggiunge fuori dal perimetro ospedaliero; il ritmo delle azioni che si svolgono al suo interno è così sincopato che vieni dimesso non appena dai il minimo segno di resurrezione.
Juan de Flandes, Resurrezione di Lazzaro, 1514-1519 circa. Madrid, Museo del Prado.

A proposito di resurrezioni

Si va all’ospedale per risorgere e l’idea di resurrezione è permeata di spiritualità, non soltanto per i cristiani. Se la teoria e la pratica della medicina trovano già nell’antica Grecia, con Ippocrate, la vocazione laica e scientifica di cui hanno bisogno, i luoghi di cura continuano ad essere istituzioni religiose per tutto il medioevo e oltre. Gli hôtel de Dieu, le confraternite, le farmacie nei monasteri testimoniano in modo eloquente che la salvezza del corpo, per il cristianesimo, non è meno sacra della salvezza dell’anima. Si vuole che il dress code per il Giudizio universale sia costituito dalle spoglie terrene – volto, muscoli, ossa e tutto il resto – e non da un semplice respiro trascendente o, peggio, da un banale ectoplasma. La malattia, meglio se grave, è il riflesso della pena di Cristo sulla croce: per questo merita rispetto e, possibilmente, miracoli. Col suo ammiccamento alla morte e all’aldilà, la malattia esige un posto d’onore nel comparto del sacro; sollecita che s’impartisca, prima che sia troppo tardi, il sacramento dell’estrema unzione all’agonizzante; funge da medium ideale tra il peccato e la redenzione, tra la terra e il cielo, e reclama al momento giusto non solo il pentimento del credente ma anche la conversione dell’ateo, dell’eretico, dell’infedele, dell’agnostico. L’istituto ospedaliero, per i fedeli, vale più d’una cattedrale: anticipa la visione del futuro (extraterreno), dispensa proroghe vitali (le guarigioni) e distribuisce acconti promozionali, piccoli o grandi, sul perdono finale.

Ma se la casa di cura, popolata di specialisti della resurrezione, s’incarica della gestione tangibile dei corpi avariati, spetta alle arti l’impegno di curare la salute delle anime, almeno finché queste albergano in organismi biologici. La medicina e l’arte sono nate entrambe in ossequio e rafforzamento del culto, e talvolta si uniscono per celebrazioni in comune. Nel momento in cui scrivo queste parole, riascolto il passaggio del Messiah di Händel in cui il contralto, citando Isaia, iscrive il suo salutare commento nella cartella clinica dell’umanità:

Then shall the Eyes of the Blind be open’d,
and the Ears of the Deaf unstopped;
then shall the lame Man leap as a Hart,
and the Tongue of the Dumb shall sing.

Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto...

Sogni e letteratura: geografia e grammatica del nonsense

Dicevo che i sogni, anche i più futili o strampalati, sembrano fatti apposta per concedere al sognante il privilegio di raccontarli e di asfissiare, raccontandoli, una audience indifferente o, nel migliore dei casi, interessata più al gioco del lotto che alle emozioni personali del relatore. Sulla natura romanzesca del sogno ha lavorato anche Kazuo Ishiguro, lo scrittore britannico di origine giapponese, vincitore del Nobel 2017, al quale abbiamo dedicato un primo studio qui. Prima di entrare in argomento concedetemi una modesta digressione: le disavventure sanitarie e le conseguenti strategie terapeutiche si divertono a scansare, a volte, la ferrea logica scientifica cui sono soggette per divagare nella superstizione e nel vizio delle coincidenze. Sto citando Ishiguro perché è l’autore di cui stavo studiando l’opera omnia prima di finire in ospedale, e che ho continuato a leggere anche durante il periodo di degenza. Mi è dunque capitato di dover associare Gli inconsolabili alla mia iperproduzione di incubi e Non lasciarmi alla mia permanenza in un centro di riabilitazione post-operatorio.

Parliamo un po’ del primo di questi due romanzi. Dopo tre storie lineari e commoventi (ma anche un po’ scherzose) sul tema della Dignità, Ishiguro architetta con Gli inconsolabiliun colpo di scena per spiazzare il mercato, la critica e sé stesso. Si sospettava, nei primi tre, e soprattutto in Quel che resta del giorno, un temperamento un po’ sornione, un’inclinazione alla beffa, un gusto della parodia non solo delle apparenze ma anche delle convinzioni (e convenzioni) che ci sembrano più giudiziose. Ma quando nel 1995, sei anni dopo le crepuscolari memorie del maggiordomo Stevens, lo scrittore se ne esce con la nuova fatica, la sua penna sembra quella di un neosurrealista in vena di esperimenti. Cinquecento pagine di sogni, incubi e gag in una città immaginaria, una specie di piccola Praga subliminale, abitata da personaggi logorroici e inclini a ingigantire problemi inconcepibili. La comicità labirintica de Gli inconsolabili, fatta di aneddoti che sfociano l’uno nell’altro in continuazione, fa pensare – più che a precedenti letterari – al cinema di Buñuel e in particolare ai film che dileggiavano il beau mondeconfinandolo in un pesante castigo di frustrazioni: L’angelo sterminatore, Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà. L’io narrante è il pianista Ryder, invitato nella città dei matti come ospite d’onore a un concerto altrui. Ryder non capisce cosa gli succede intorno e si muove come ci muoviamo noi negli incubi: incontra una sconosciuta che forse è sua moglie, si smarrisce di notte, esce in vestaglia da camera sotto la pioggia per recarsi a una cena di gala, subisce continue richieste di favori assurdi...

La forza del libro sta nel fatto che l’autore rovescia il rapporto tra veglia e sonno dedicando tutto lo spazio al sogno, come se la vita psichica notturna fosse l’unica forma di esistenza autentica e plausibile. Ne Gli inconsolabili il sogno non viene mai annunciato o definito come tale, e nemmeno citato di striscio, perché l’io narrante non conosce altra realtà se non quella onirica (del resto è raro che, sognando, ci rendiamo conto di stare in un sogno).
M.C. Escher, Relatività, litografia, 1953.

Se Gli inconsolabiliè soprattutto un esercizio di stile (qualcuno ne ha paragonato la struttura – in particolare i passaggi da un episodio all’altro – alle paradossali costruzioni grafiche di Escher), Non lasciarmiè il tentativo (riuscito) di rinfrescare e ringiovanire il romanzo distopico. Vi si immagina una comunità di cloni umani creati al solo scopo di fornire alla chirurgia una riserva di organi da trapianto. Per rendere ancora più emozionante e crudele l’idea, Ishiguro sceglie di raccontare, di queste vittime predestinate, non solo l’età adulta (per modo di dire: la qualità degli organi esige corpi giovani e sani), ma anche l’infanzia e la prima adolescenza. E si concentra su tre di questi cloni – due ragazze innamorate dello stesso ragazzo – e della scuola, ambitissima, in cui ha luogo la loro formazione di donatori...
Carey Mulligan, Keira Knightley e Andrew Garfield in Never Let Me Go (Non lasciarmi), il film di Mark Romanek tratto nel 2010 dall’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro.

La cosa bella di Non lasciarmiè la psicologia da teenager applicata a creature consapevoli del proprio destino ma educate a non soffrirne troppo. Le loro preoccupazioni non hanno a che fare né con la sofferenza né con la morte, ma con i sentimenti comuni a tutte le ragazze e tutti i ragazzi della loro età: amicizie, innamoramenti, gelosie, solidarietà, etc. Non a loro, ma al lettore tocca il compito di soffrire per l’asportazione di reni e altri organi a persone giovani, vive e innocenti, condannate a donazioni successive fino a quando non reggano più. Questo scarto di prospettiva – la “distrazione” (più che la semplice rassegnazione) di chi subisce e l’indignazione di chi legge – è una di quelle manovre che rendono geniale la narrativa di Ishiguro, e che consistono spesso nel capovolgimento delle meccaniche narrative. Un altro atout di Non lasciarmi sta nella scrittura che evita sistematicamente di assumere toni da tragedia. Una discrezione che, naturalmente, rende ancora più tesa e ansiogena la storia.

Effetti collaterali

Ad accelerare precipitosamente il processo di invecchiamento non è tanto la malattia, quanto la sua pretesa di diventare il principale argomento di conversazione.

Avvertenze

Ho insistito sul fatto che l’ospedale facilita la produzione di fantasie degne di storytelling, ma ho il dovere di aggiungere che è il luogo meno indicato per raccontarle. L’ospedale è tutto tranne che un cabaret o una casa editrice. Se qualcosa dei tuoi incubi più brillanti trapela fino a raggiungere le orecchie dei medici e degli infermieri che si prendono cura di te, il meno che possa capitarti è la comparsa nella tua terapia quotidiana di potenti psicofarmaci, spacciati per innocue «pastigliette per dormire». Tra le raccomandazioni riportate nel foglio di dimissioni, poi, troveresti l’invito a consultare il neurologo oltre agli specialisti direttamente coinvolti nella tua avventura patologica.


© Pasquale Barbella 


Dove ho visto quella faccia, 3

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Molti sono i film con un cast di qualità notevole, ma alcuni – rarissimi – hanno una magia in più: sono quelli di cui ti ricordi tutte le facce, anche degli interpreti impegnati in ruoli secondari. Vengono in mente i western di John Ford, Casablanca di Michael Curtiz, la saga del Padrino di Francis Ford Coppola, Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman. Ti ricordi le facce ma non necessariamente i nomi (Abe Vigoda: chi era costui?). Naturalmente certi volti diventano più familiari se appaiono in film di culto, come quelli appena menzionati. Tra i film più recenti ce n’è uno di Steven Spielberg, Il ponte delle spie, di cui m’è venuto spontaneo osservare ammirato: cacchio, che cast. Tutti mostruosamente bravi, dal primo all’ultimo. Lo abbiamo ricordato qui.

Peter Brocco (Reading, 16 gennaio 1903 – Los Angeles, 20 dicembre 1992) sulla sedia a rotelle in Qualcuno volò sul nido del cuculo.  Brocco totalizzò per il cinema, dal 1932 al 1991, più di 110 partecipazioni; per gli schermi tv diede vita a numerosi personaggi in oltre 140 produzioni dal 1951 al 1987. Filmografia essenziale: Il ragazzo dai capelli verdi (The Boy with Green Hair) di Joseph Losey (1948). La legge del silenzio (Black Hand) di Richard Thorpe (1950). Bassa marea (House by the River) di Fritz Lang (1950). Il grande Caruso (The Great Caruso) di Richard Thorpe (1951). Il prigioniero di Zenda (The Prisoner of Zenda) di Richard Thorpe (1952). Piangerò domani (I’ll Cry Tomorrow) di Daniel Mann (1955). Spartacus di Stanley Kubrick (1960). E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun) di Dalton Trumbo (1971). Papillon di Franklin J. Schaffner (1973). Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest) di Milos Forman (1975). Ai confini della realtà (Twilight Zone: The Movie) di John Landis, Joe Dante (1983). La guerra dei Roses (The War of the Roses) di Danny DeVito (1989).

Benjamin Sherman Crothers, noto come Scatman Crothers (Terre Haute, 23 maggio 1910 – Los Angeles, 22 novembre 1986), è stato un attore, cantante e ballerino statunitense. Il soprannome deriva dal suo modo di cantare in stile scat. Scatman Crothers è soprattutto noto per il ruolo del cuoco Dick Hallorann con la “luccicanza” nel film Shining di Stanley Kubrick, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King. Filmografia parziale: Porgy and Bess di Otto Preminger (1959). Il clan dei Barker (Bloody Mama) di Roger Corman (1970). Il re dei giardini di Marvin (The King of Marvin Gardens) di Bob Rafelson (1972). Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest) di Miloš Forman (1975). Il pistolero (The Shootist) di Don Siegel (1976). Wagon-lits con omicidi (Silver Streak) di Arthur Hiller (1976). Shining (The Shining) di Stanley Kubrick (1980). Bronco Billy di Clint Eastwood (1980). Transformers - The Movie di Nelson Shin (1986).
Abe Vigoda (New York, 24 febbraio 1921 – Woodland Park, 26 gennaio 2016) è un nome che non dice molto a nessuno, ma il volto è indimenticabile: è quello di Tessio, il fedele sicario del Padrino. Filmografia parziale: Tre camere a Manhattan (Trois chambres à Manhattan) di Marcel Carné (1965). Il padrino (The Godfather) di Francis Ford Coppola (1972). Il boss è morto (The Don Is Dead) di Richard Fleischer (1973). The Comedy Company, film tv di Lee Philips (1978). Senti chi parla (Look Who’s Talking) di Amy Heckerling (1989). Lucky Luke di Terence Hill (1991). Scacco al re nero (Sugar Hill) di Leon Ichaso (1993). Genitori cercasi (North) di Rob Reiner (1994).
Abe Vigoda nel film tv The Comedy Company, 1978.
Warren Oates (Depoy, Kentucky, 5 luglio 1928 – Los Angeles, 3 aprile 1982), qui in Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia) di Sam Peckinpah (1974). Filmografia parziale: Sfida nell’Alta Sierra (Ride the High Country) di Sam Peckinpah (1962). Sierra Charriba (Major Dundee) di Sam Peckinpah (1964). La sparatoria (The Shooting) di Monte Hellman (1967). La calda notte dell’ispettore Tibbs (In the Heat of the Night) di Norman Jewison (1967). Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch) di Sam Peckinpah (1969). Dillinger di John Milius (1973). La rabbia giovane (Badlands) di Terrence Malick (1973). Pollice da scasso (The Brink’s Job) di William Friedkin (1978). 1941: Allarme a Hollywood (1941) di Steven Spielberg (1979). Stripes - Un plotone di svitati (Stripes) di Ivan Reitman (1981). Frontiera (The Border) di Tony Richardson (1982).
Warren Oates in un cult di Monte Hellman, La sparatoria (1967).
Richard S. Castellano (New York, 4 settembre 1933 – North Bergen, 10 dicembre 1988), il Clemenza del Padrino, qui con Al Pacino in una scena del film. Filmografia essenziale: Strano incontro (Love with the Proper Stranger), diretto da Robert Mulligan (1963). Tre camere a Manhattan (Trois chambres à Manhattan), diretto da Marcel Carné (1965). Amanti ed altri estranei (Lovers and Other Strangers) di Cy Howard (1970). Il padrino (The Godfather), diretto da Francis Ford Coppola (1972). Fort Bronx, diretto da Robert Butler (1980). 
Danny Aiello (New York, 20 giugno 1933) in una scena di Stregata dalla luna. Tra le sue numerose interpretazioni: Il padrino - Parte II (The Godfather: Part II) di Francis Ford Coppola (1974). Broadway Danny Rose di Woody Allen (1984). C’era una volta in America di Sergio Leone (1984). La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo) di Woody Allen (1985). Stregata dalla luna (Moonstruck) di Norman Jewison (1987). Radio Days di Woody Allen (1987). Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing) di Spike Lee (1989). Léon di Luc Besson (1994). City Hall di Harold Becker (1995). Slevin - Patto criminale (Slevin) di Paul McGuigan (2006).
Will Sampson (Okmulgee, Oklahoma, 27 settembre 1933 – Houston, 3 giugno 1987) è stato un attore e pittore statunitense. Nativo americano creek, è noto in particolare per aver interpretato i ruoli di Capo Bromden in Qualcuno volò sul nido del cuculo e di Taylor in Poltergeist II. Filmografia parziale: Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest) di Miloš Forman (1975). Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson) di Robert Altman (1976). Il texano dagli occhi di ghiaccio (The Outlaw Josey Wales) di Clint Eastwood (1976). L’orca assassina (Orca) di Michael Anderson (1977). Vega$ - serie tv (1977-1978). I figli del vento (Born to the Wind) - serie tv (1982). Poltergeist II - L’altra dimensione (Poltergeist II: The Other Side) di Brian Gibson (1986). Il tempio di fuoco (Firewalker) di J. Lee Thompson (1986).
Will Sampson in Vega$, serie tv (1977-1978).
Louise Fletcher (Birmingham, Alabama, 22 luglio 1934). Oscar per la miglior attrice protagonista nel 1976 per l’interpretazione dell’infermiera Mildred in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Tra gli altri film: Gang (Thieves Like Us) di Robert Altman (1973). L’esorcista II - L’eretico (Exorcist II: The Heretic) di John Boorman (1977). Invaders (Invaders from Mars) di Tobe Hooper (1986). Congiunzione di due lune (Two Moon Junction) di Zalman King (1988). Blue Steel - Bersaglio mortale (Blue Steel) di Kathryn Bigelow (1989). 
Christopher Lloyd nella serie tv Taxi, 1978.
Christopher Lloyd (Stamford, Connecticut, 22 ottobre 1938), qui in una scena di Qualcuno volò sul nido del cuculo, è noto anche per la sua interpretazione dell’eccentrico inventore Emmett “Doc” Brown nella trilogia di Ritorno al futuro, dello zio Fester nei primi due film della Famiglia Addams, e del giudice Morton in Chi ha incastrato Roger Rabbit. Filmografia parziale: Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest) di Miloš Forman (1975). Verso il sud (Goin’ South) di Jack Nicholson (1978). Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice) di Bob Rafelson (1981). National Lampoon’s Movie Madness di Bob Giraldi & Henry Jaglom (1982). Star Trek III - Alla ricerca di Spock (Star Trek III: The Search for Spock) di Leonard Nimoy (1984). Ritorno al futuro (Back to the Future) di Robert Zemeckis (1985). Signori, il delitto è servito (Clue) di Jonathan Lynn (1985). Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who Framed Roger Rabbit?) di Robert Zemeckis (1988). Ritorno al futuro - Parte II (Back to the Future - Part II) di Robert Zemeckis (1989). Ritorno al futuro - Parte III (Back to the Future - Part III) di Robert Zemeckis (1990). La famiglia Addams (The Addams Family) di Barry Sonnenfeld (1991). Man on the Moon di Miloš Forman (1999). 
Millie Perkins (Passaic, New Jersey, 12 maggio 1938) aveva ventun anni, francamente troppi per impersonare in modo credibile la tredicenne Anna Frank. Comunque piacque al pubblico e alla critica, e il film di George Stevens conquistò tre Oscar e un Golden Globe. Il diario di Anna Frank (The Diary of Anne Frank), del 1959, era il suo film d’esordio. Tra i successivi ricordiamo: Paese selvaggio (Wild in the Country) di Philip Dunne (1961). Le colline blu (Ride in the Whirlwind) di Monte Hellman (1965). La sparatoria (The Shooting) di Monte Hellman (1967). Wall Street di Oliver Stone (1987). Congiunzione di due lune (Two Moon Junction) di Zalman King (1988). L’ultimo appello (The Chamber) di James Foley (1996). 
Richard Beymer (Avoca, Iowa, 20 febbraio 1938). Debutta in un ruolo marginale, non accreditato, in La 14ª ora (Fourteen Hours) di Henry Hathaway (1951). Poi (selezione): Stazione Termini di Vittorio De Sica (1953). Solo per te ho vissuto (So Big) di Robert Wise (1953). Il diario di Anna Frank (The Diary of Anne Frank) di George Stevens (1959). In due è un’altra cosa (High Time) di Blake Edwards (1960). West Side Story di Jerome Robbins e Robert Wise (1961). Le avventure di un giovane (Hemingway’s Adventures of a Young Man) di Martin Ritt (1962). Donna d’estate (The Stripper) di Franklin J. Schaffner (1963). I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks) – serie tv, 30 episodi (1990). Star Trek: Deep Space Nine (serie tv, 3 episodi) (1993). La signora in giallo (serie tv, 6 puntate) (1987-1996). Twin Peaks– serie TV (2017).
Scott Glenn (Pittsburgh, 26 gennaio 1941), qui in una scena di Apocalypse Now, ha esordito nel 1970 in A.A.A. Ragazza affittasi per fare bambino (The Baby Maker) di James Bridges (1970). Ecco una selezione della sua filmografia successiva: Nashville di Robert Altman (1975). Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979). Urban Cowboy di James Bridges (1980). L’ultima sfida (The Challenge) di John Frankenheimer (1982). Uomini veri (The Right Stuff) di Philip Kaufman (1983). Il fiume dell’ira (The River) di Mark Rydell (1984). Silverado di Lawrence Kasdan (1985). Caccia a Ottobre Rosso (The Hunt for Red October) di John McTiernan (1990). Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs) di Jonathan Demme (1991). Fuoco assassino (Backdraft) di Ron Howard (1991). La canzone di Carla (Carla’s Song) di Ken Loach (1996). Potere assoluto (Absolute Power) di Clint Eastwood (1997). The Bourne Ultimatum - Il ritorno dello sciacallo (The Bourne Ultimatum) di Paul Greengrass (2007). W. di Oliver Stone (2008). The Barber di Basel Owies (2014).
Scott Glenn in The Barber, 2014.
R. Lee Ermey (Emporia, Kansas, 24 marzo 1944) è un militare e attore statunitense. Ex drill instructor dei marines, recita spesso nel ruolo di figure autoritarie, come il sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket (nella foto) e il sindaco Tilman nel film di Alan Parker Mississippi Burning. Candidato in carriera al Golden Globe, attualmente conduce un programma su History Channel intitolato Mail Call, in cui risponde a quesiti di argomento militare posti dai suoi telespettatori. Filmografia parziale: Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987). Mississippi Burning - Le radici dell’odio (Mississippi Burning) di Alan Parker (1988). Sommersby di Jon Amiel (1993). Sfida tra i ghiacci (On Deadly Ground) di Steven Seagal (1994). L’isola dell’ingiustizia - Alcatraz (Murder in the First) di Marc Rocco (1995). Via da Las Vegas (Leaving Las Vegas) di Mike Figgis (1995). Seven (Se7en) di David Fincher (1995). Dead Man Walking - Condannato a morte (Dead Man Walking) di Tim Robbins (1995). Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre) di Marcus Nispel (2003). Willard il paranoico (Willard) di Glen Morgan (2003). Non aprite quella porta - L’inizio (The Texas Chainsaw Massacre: The Beginning) di Jonathan Liebesman (2006). 
Talia Shire ne Il padrino - Parte II.
Non molti sanno che Talia Shire (New York, 25 aprile 1946), la Connie del Padrino, è sorella del regista, Francis Ford Coppola. Inizialmente il fratello non la voleva tra i piedi, ma lei s’impose; e si comportò talmente bene che in seguito fu riconfermata per gli altri due film della saga, rimediando anche la prima di due nomination all’Oscar. (Coppola invece non riconfermò Richard S. Castellano, l’interprete del personaggio Clemenza, perché si era montato la testa e voleva che a scrivergli le battute fosse la propria moglie. Per tagliar corto Coppola e Puzo, gli sceneggiatori ufficiali, rinunciarono a Clemenza nei sequel, dandolo per morto nel frattempo). Talia Shire, il cui nome di battesimo è un omaggio all’Italia (tutta la famiglia Coppola, compreso Nicholas Cage nipote del regista, è originaria di Bernalda, in provincia di Matera), ebbe un ruolo azzeccato anche come fidanzata e moglie di Rocky Balboa. Filmografia parziale: Il padrino (The Godfather) di Francis Ford Coppola (1972). Il padrino - Parte II (The Godfather: Part II) di Francis Ford Coppola (1974). Rocky di John G. Avildsen (1976). Rocky II di Sylvester Stallone (1979). Profezia (Prophecy, the Monster Movie) di John Frankenheimer (1979). Rocky III di Sylvester Stallone (1982). Rocky IV di Sylvester Stallone (1985). New York Stories di Francis Ford Coppola (1989). Il padrino - Parte III (The Godfather: Part III) di Francis Ford Coppola (1990). Rocky V di John G. Avildsen (1990). 
Michael Berryman (Los Angeles, 4 settembre 1948) in una scena di Maskerade. Apparso in diversi film horror e di serie B, Berryman è famoso per il suo aspetto fisico, causato dalla displasia ectodermica ipoidrotica, una rara malformazione genetica che impedisce la crescita di peli, capelli e unghie e lo sviluppo delle ghiandole sudoripare. Filmografia parziale: Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest) di Miloš Forman (1975). Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes) di Wes Craven (1977). Benedizione mortale (Deadly Blessing) di Wes Craven (1981). Invito all’inferno (Invitation to Hell) di Wes Craven (1984). The Barbarians di Ruggero Deodato (1987). Maskerade di Griff Furst (2011). Le streghe di Salem (The Lords of Salem) di Rob Zombie (2012).
Vincent Schiavelli (New York, 11 novembre 1948 – Polizzi Generosa, 26 dicembre 2005) e William Duell (Corinth, New York, 30 agosto 1923 - New York, 22 dicembre 2011) in una scena di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Filmografia parziale di Schiavelli: Taking Off di Miloš Forman (1971). Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman (1975). Scusi, dov'è il West? (The Frisco Kid) di Robert Aldrich (1979). Amadeus di Miloš Forman (1984). Valmont di Miloš Forman (1989). Ghost - Fantasma di Jerry Zucker (1990). Batman - Il ritorno di Tim Burton (1992). Larry Flynt - Oltre lo scandalo di Miloš Forman (1996). Man on the Moon di Miloš Forman (1999). Nuovomondo di Emanuele Crialese (2006). Filmografia parziale di Duell: Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman (1975). L’aereo più pazzo del mondo (Airplane!) di Jim Abrahams, David Zucker e Jerry Zucker (1980). Ironweed di Hector Babenco (1987). In & Out di Frank Oz (1997). Il prezzo della libertà (Cradle Will Rock) di Tim Robbins (1999).
Brad Dourif (Huntington, West Virginia 1950). Nel 1975 entra nel cast di Qualcuno volò sul nido del cuculo, per interpretare il giovane malato Billy (vedi foto). Il film ottiene un enorme successo e Dourif vince un Golden Globe e un British Academy Award; ottiene anche una nomination all’Oscar. Filmografia essenziale di Dourif: Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest) di Milos Forman (1975). Occhi di Laura Mars (Eyes of Laura Mars) di Irvin Kershner (1978). I cancelli del cielo (Heaven’s Gate) di Michael Cimino (1980). Ragtime di Milos Forman (1981). Dune di David Lynch (1984). Velluto blu (Blue Velvet) di David Lynch (1986). Mississippi Burning - Le radici dell’odio (Mississippi Burning) di Alan Parker (1988). L’agenda nascosta (Hidden Agenda) di Ken Loach (1990). Jungle Fever di Spike Lee (1991). Grido di pietra (Cerro Torre: Schrei aus Stein) di Werner Herzog (1991). Trauma di Dario Argento (1993). Il Signore degli Anelli - Le due torri (The Lord of the Rings: The Two Towers) di Peter Jackson (2002). Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (The Lord of the Rings: The Return of the King) di Peter Jackson (2003). 
Brad Dourif in Ragtime, 1981.

Appunti scritti sulla pelle

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La globalizzazione merita più diffidenza di quanta già ne subisca, ma nemmeno le teorie per sopravviverle sono rassicuranti. Vanno di moda, in occidente, i propositi di fuga da alleanze storiche, accordi preesistenti, patti sovranazionali. Come se ogni paese, persino uno piccolo ed esposto come il nostro, disponesse di risorse e poteri sufficienti per scampare con successo a qualsiasi tipo di insidia. Secondo un consistente numero di italiani, l’unione non fa la forza ma la debolezza. Da soli, insomma, si starebbe meglio: ci sarebbero più soldi e posti di lavoro, meno tasse da pagare, e la semplice abolizione di qualche legge varata da governi precedenti basterebbe a rilanciare il benessere collettivo.

«Se l’ebreo non esistesse, bisognerebbe inventarlo. Si ha bisogno di un nemico visibile e non solo di un nemico invisibile.» La diagnosi è nota, ma per molti la fonte originale è rimasta a lungo insospettabile. Sembra che a enunciarla con così schietta consapevolezza sia stato Hitler in persona, in risposta a Hermann Rauschning che gli chiedeva se ritenesse buona cosa lo sterminio totale della razza ebraica. A ricordarcelo è Roberto Calasso in un libro recente, L’innominabile attuale, Adelphi 2017.

La propaganda fondata sulla xenofobia è stata premiata dal successo. Si è lasciato intendere agli italiani che è giustificata la paura dell’immigrato, talvolta denominato «invasore», e che è pertanto opportuno affidarsi a partiti che garantiscano uno strenuo impegno nella «sicurezza». Altri tipi di paura – del revival nazifascista, per esempio, o semplicemente di un eventuale divorzio dall’Europa – non hanno goduto di altrettanta risonanza e rispettabilità nel dibattito preelettorale.

Sarebbe auspicabile una maggiore pressione della memoria e della coscienza storica nei momenti in cui un paese è chiamato a riflettere sui valori da condividere e a rinnovare la propria idea di futuro, se non altro per evitare di sprofondare negli stessi precipizi da cui con mortale fatica si risalì. Ma forse è chiedere troppo. Bisognerebbe tatuarsi addosso una collezione di appunti, come lo smemorato del film Memento. Sulla gola «non fidarti di chi strepita», sulla fronte «ripassa la storia delle guerre mondiali», sui glutei «sta’ alla larga da chi promette ciò che non può mantenere».

Non si è parlato abbastanza di disoccupazione. Nessuno dei partiti in concorso aveva, evidentemente, una ricetta da suggerire per risolvere, o attenuare, il problema. Si è preferito addolcire gli animi con la carezza di sussidi e detassazioni.

Hanno vinto da una parte il terrore dell’alieno, dall’altra un flusso incontenibile di ragioneria mistica. Si tratta di una nuova disciplina, un’estensione consolatoria dell’aritmetica da cui si evince che, rinunciando i parlamentari a una parte dello stipendio, si aggiustano i conti di tutti gli altri cittadini.

P.B.



L’immagine di apertura di questo post è tratta dal film Memento. Regia: Christopher Nolan. Sceneggiatura: Christopher Nolan, dal racconto Memento mori di Jonathan Nolan. Fotografia: Wally Pfister. Musica: David Julyan. Interpreti: Guy Pearce, Carrie-Anne Moss, Joe Pantoliano, Stephen Tobolowsky. USA, 2000.


< Risvolto di copertina:Turisti, terroristi, secolaristi, hacker, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici: sono tutte tribù che abitano e agitano l’innominabile attuale. Mondo sfuggente come mai prima, che sembra ignorare il suo passato, ma subito si illumina appena si profilano altri anni, quel periodo fra il 1933 e il 1945 in cui il mondo stesso aveva compiuto un tentativo, parzialmente riuscito, di autoannientamento. Quel che venne dopo era informe, grezzo e strapotente. Nel nuovo millennio, è informe, grezzo e sempre più potente. Auden intitolò L’età dell’ansia un poemetto a più voci ambientato in un bar a New York verso la fine della guerra. Oggi quelle voci suonano remote, come se venissero da un’altra valle. L’ansia non manca, ma non prevale. Ciò che prevale è l’inconsistenza, una inconsistenza assassina. È l’età dell’inconsistenza. (www.adelphi.it)


Storie dell’arte non autorizzate

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«Il bello dell’impressionismo», dice il maestro a una scolaresca più svogliata che mai, «sta nel fatto che se siete astigmatici da un occhio, e osservate la natura tenendo chiuso quello buono, vedete il mondo proprio come lo vedevano quei pittori. Un trucco anche per chi ha entrambi gli occhi sani: se inforcate i miei occhiali e vi affacciate alla finestra, il giardino qua sotto vi sembrerà un quadro di Renoir.»

L’allievo lentigginoso gli chiede prontamente gli occhiali, per fare la prova. Il maestro si sforza di reprimere un’istintiva riluttanza (particolare che non sfugge ai meno disattenti), dopodiché si sfila gli occhiali e li presta con circospezione al richiedente. Il quale, invece di recarsi alla finestra come dovrebbe, li usa per scrutare – in modo alquanto sfrontato – la faccia del maestro.

«Non sono un giardino», protesta l’adulto. «Che stai guardando?»

«Voglio vedere se riesco a capire un Picasso», dice il figlio di buona donna, sollevando risate tutt’intorno.

«Ridammi gli occhiali», comanda il maestro in un tono che vuole essere imperioso e risulta soltanto acidulo.

La prima della classe, che i compagni chiamano Ermelinda senza averne alcun diritto (il suo nome è di gran lunga più umano), alza il dito per porre una domanda. Gradirebbe sapere quale fosse l’imperativo morale di Renoir. Dice proprio quelle due parole, «imperativo morale», bevute come acqua fresca chissaccome e chissaddove; sicché il maestro non può far altro che ritorcere la domanda, chiedendole cosa intende per «imperativo morale».

Da giovane promessa della critica d’arte, la fanciulla – che indossa sui jeans una camicetta a fiori stucchevolmente graziosa – orienta la fronte, il naso e il mento in modo tale da manifestare un certo autocompiacimento. Alle coetanee pare fin troppo chiaro che si sente lusingata; quanto ai maschi, reagiscono con smorfie d’un disappunto molto simile al disprezzo. «Imperativo morale, signor maestro. Insomma la morale di questo artista, Renoir.»

«Credo che Renoir, come tanti altri impressionisti, volesse solo esprimere felicità. Quella stessa felicità, solare e piena di colore, di quando voi andate in campagna per un picnic.»

Un grassottello chiede a bruciapelo se l’imperativo morale sia un cestino da picnic. Ilarità a 360 gradi. Il maestro bofonchia qualcosa del tipo «siete dei selvaggi, riprendete i vostri zaini, si ritorna al pullman». Agli allievi più accorti non è però sfuggito che, in quel caso, il bersaglio della battuta non era il maestro ma la presunta Ermelinda. La quale, ignorando la malevolenza, coglie al volo l’occasione per citare Le déjeuner sur l’herbe. Impudicamente, chiede al maestro se anche per quel dipinto valesse la regola dell’astigmatismo e degli occhiali sbagliati.

Due notti più tardi, il figlio del macellaio è tormentato da un incubo. Dalla parete d’un luogo sinistro, per molti aspetti simile al museo visitato durante la gita, un volto orrendamente sfigurato e sanguinante si stacca e si muove lentamente verso il suo letto, sciogliendosi in un informe residuo di carne imputridita. L’addormentato suda e, sopraffatto da quel marciume, grida fino a svegliare non solo la famiglia, ma anche una parte del caseggiato. Se ne parlerà anche a scuola, nell’ora di storia dell’arte. Il maestro si mostra insensibile al terrore notturno del figlio del macellaio (e alle proteste ufficiali dei suoi genitori, già pervenute in direzione), e felice invece di aver individuato con prontezza l’origine dell’incubo. «Francis Bacon», dichiara. L’opera aveva colpito anche i figli e le figlie di altri commercianti, nonché di artigiani e professionisti della zona. I macellai non hanno l’esclusiva della carne di Bacon. Una ragazzina dallo sguardo limpido azzarda una domanda retorica:

«Maestro, non pensa che l’arte dovrebbe incantarci con la bellezza? Che c’è di bello in quel quadro? A me non è piaciuto.»

«La bellezza che cerchiamo nell’arte», prova a rispondere il maestro, senza essere del tutto sicuro di essere capito, «non sta nell’imitazione della bellezza, ma nella qualità dell’idea, del pensiero.»

La spiegazione crea un certo smarrimento nell’aula. Quelli più lontani dalla cattedra si concentrano sul gioco delle palle di carta. Riducono pagine di quaderno in palline formato noce e se le scagliano a vicenda con sportiva perizia. Il maestro si avvede di quell’attivismo inopportuno, ma anziché offendersene lo considera un dono della provvidenza. Ci vuole qualcosa che aiuti a deviare la sua e l’altrui attenzione da una impervia ascensione filosofica (il concetto di bellezza nell’arte) e trae spunto dai lanciatori di noci di carta per introdurre un diversivo più spiritoso. «Quello che state facendo laggiù è un happening», annuncia a sorpresa. «Sapete cos’è un happening?»

«No, signore», rispondono alcuni in coro.

«Lanciare palline di carta», osa un altro.

Il maestro spiega, nel modo più semplice di cui è capace, che l’arte non è solo pittura, architettura, musica e – se si vuole – cinema, fotografia, scenografia ecc., ma anche qualsiasi gesto o manufatto rappresentativo di una visione del mondo. All’improvviso i lanciatori di carta prendono coscienza della propria artisticità, e ci mettono più impegno nella prosecuzione del gioco. Non mancano risolini e sghignazzi, qua e là. Un saputello giura ad alta voce di aver visto, con i suoi occhi, un orinatoio in un libro d’arte di papà. Non lo chiama orinatoio, chissà se per pudore o per lacunoso corredo lessicale; si attarda in un insostenibile giro di parole: «Uno di quei cosi che stanno nei gabinetti dei benzinai e dei supermercati, che i maschi ci vanno a fare la pipì.»

Chiarire alla classe il senso dei ready made è un’impresa ragguardevole, a quest’ora. Salvifica e straziante, squilla la campana.

Ma alla lezione successiva, il maestro ritorna sull’argomento.

«Vi propongo un gioco. Lasciamo perdere la storia ufficiale dell’arte, i libri, la critica. Ciascuno di voi è libero di raccontare un’opera d’arte a modo suo. Vi chiamo uno per uno. Cominciamo dal ragazzo dell’orinatoio.»

Il saputello si avvicina alla cattedra.

«Prova a immaginare per quale motivo quell’orinatoio si trova esposto in un museo importante ed è famoso in tutto il mondo.»

«Non lo so, maestro. Davvero non lo so.»

«Lo so che non lo sai. Nemmeno i tuoi compagni lo sanno. Ma metti alla prova la tua fantasia. Inventati qualcosa, coraggio. Andrà bene comunque, te lo garantisco. Magari ci scappa anche un bel voto.»

«Il pisciatoio era usato, si vedevano le macchie. Forse l’artista l’aveva preso da un albergo distrutto. Da un terremoto, o dalla guerra.»

«Va’ avanti. Cosa gli ha fatto credere che portarlo al museo fosse una buona idea?»

«Forse voleva che tutti si ricordassero di quel disastro.»

«Non male. Ma mettiamo invece che l’artista avesse prelevato quell’oggetto da una qualunque discarica, o che l’avesse comprato per quattro soldi da un rigattiere. Che senso avrebbe tutta la faccenda?»

«Mah. Gli piaceva la forma, o voleva fare uno scherzo.»

«Uno scherzo a chi?»

«Agli amici. O a milioni di persone. Di certo non aveva nessuna voglia di metterselo in salotto.»

«Adesso fai finta che non fosse proprio uno scherzo, ma quasi. La dimostrazione di qualcosa.»

«Magari ha pensato: questo coso viene da un cinema o da un albergo, chissà quanta gente ci avrà pisciato...»

«Orinato.»

«Orinato dentro. Centinaia, migliaia di sconosciuti. Persone uguali a tante altre ma misteriose, perché non esiste un elenco di chi piscia nello stesso orinatoio.»

«E in cosa consisterebbe l’importanza di un’idea del genere?»

«Nel fatto che crediamo di sapere tutto, mentre invece non sappiamo niente dei nostri simili.»

La ragazzina dagli occhi limpidi alza una mano.

«Volevo dire, maestro, a proposito delle opere d’arte che non devono per forza essere belle... come il quadro della carne, o questo articolo sanitario...»

«Sì?»

«Che insomma ci sono idee che non ci metteremmo in casa, ma sono importanti lo stesso... A casa nostra, invece, abbiamo un’opera bruttissima.»

«Di che si tratta?»

«Una sedia fatta da uno dei miei nonni, tanti anni fa. Il nonno si divertiva a fare il falegname, che non era il suo lavoro, e costruì una sedia di sua mano, piuttosto inutile perché le quattro gambe erano tutte di lunghezza differente l’una dall’altra. Non contento di questo, dipinse le quattro gambe di un colore diverso. Disse che il rosso era l’origine della vita, il verde la crescita, il blu la maturità e il bianco la morte. La sedia è brutta, ma il suo significato è così bello che mai e poi mai rinunceremmo a quella sedia.»

«Forse la conservate anche perché vi ricorda il nonno. Per affetto. O nostalgia.»

«No. A casa mia non siamo molto nostalgici. Buttiamo via più cose di quante ne teniamo. Lo stesso nonno aveva costruito mobili più aggraziati e utilizzabili, ma i miei se ne sono disfatti con piacere. Invece la sedia a quattro colori non si tocca.»

«La bellezza delle idee, insomma, vale più della bellezza che si vede. Grazie per questa testimonianza. E tu, tu che ridi là in fondo, vorresti per favore alzarti e venire qui a dirci la tua?»

«No.»

«Te lo ordino.»

Il duro obbedisce.

«Dicci qualcosa di tuo.»

«Non ho niente da dire, signor maestro.»

«Parlerai, invece. Eccome. Come hai parlato tutto il tempo con i tuoi vicini di banco, senza prestare la minima attenzione al gioco che stiamo facendo.»

«Che gioco?»

«Lo capirai da solo. Ti ricordi di quando siamo andati al museo?»

«Sì.»

«Quale opera ti ha incuriosito di più?»

Il ragazzo strizza gli occhi e solleva la testa al soffitto, come impegnato in un terribile sforzo di memoria. Poi ritorna sulla terra e dice, in tono deciso:

«I clienti.»

«I clienti? Quali clienti?»

«Sì, insomma. I visitatori. Ce n’erano due, una coppia anziana, che facevano stranezze. Lui aveva pochi capelli, una camicia a righe fuori dai pantaloni e certi occhiali dalla montatura grossa. Lei gli arrivava sì e no alla spalla e aveva una borsa blu che non c’entrava niente col vestito.»

«E quali sarebbero le stranezze?»

«Aspetti. Si ricorda che avevamo ammucchiato tutti gli zainetti nell’angolo di una stanza senza quadri? Io vedo quei due che si avvicinano e si mettono a guardare gli zaini, immobili come statue. Sono stato a controllarli un bel pezzo, perché all’inizio temevo che volessero fregare qualcosa. Invece no, credevano proprio che fosse un’opera d’arte.»

«Da cosa l’hai desunto?»

«Dal fatto che lui ha preso il telefonino e li ha fotografati. Ha fotografato i nostri zaini.»

«Perché l’avrebbe fatto?»

«Mi sembra chiaro. Credeva che fossero un’opera d’arte. Del resto ho visto cose simili, in qualche mostra. Cose anche più bizzarre o banali di un mucchio di zaini. L’orinatoio, per esempio.»

«Bene. Adesso largo alle congetture. Facciamo finta che fossero per davvero un’opera d’arte. Qualche significato?»

«Ne ho pensato uno. Ci ho pensato quel giorno stesso, a dire il vero. Se adesso venisse qui un kamikaze e si facesse esplodere, e ci facesse tutti secchi, che cosa resterebbe di noi?»

«Gli zaini», rispondono i dodicenni in coro.

«Le persone muoiono e gli zaini restano», conclude il ragazzo.

Il maestro è felice, perché il suo gioco sta funzionando. Ma non si accontenta quasi mai della prima risposta.

«Avete un’idea molto drammatica dell’arte. Prima ho sentito parlare di guerre e terremoti, adesso di terrorismo. E se ci fosse un perché meno violento?»

Tocca a Ermelinda rispondere. Lo fa di propria iniziativa.

«A volte il significato delle opere d’arte non sta in quello che si vede.»

«Continua.»

«C’è una parte nascosta agli sguardi. I due vecchi vedevano zaini, ma forse pensavano al contenuto degli zaini. Si chiedevano: cosa può esserci dentro? Le donne sono più curiose degli uomini, almeno in certe cose. Lei avrà chiesto a suo marito, o comunque accompagnatore: “Cosa pensi che ci sia dentro, in questi zaini?” E lui avrà fatto un elenco: “Libri di scuola, quaderni, compassi, matite, una mela.» Le donne sono meno superficiali degli uomini, almeno in certe cose. Così la donna avrà concluso: “La vita”. Mi piacerebbe se avesse detto veramente così: “La vita”.»

«Potremmo concludere che tutte le opere d’arte intendono raccontarci, in un modo o nell’altro, la vita?»

La ragazzina sembra perdere un po’ della sua sicurezza. Ci pensa su. Poi avanza un’ipotesi:

«Sì e no. Dipende dalle intenzioni dell’autore, ma anche da noi che guardiamo. Può capitarci di vedere due paesaggi sullo stesso muro, uno accanto all’altro, e di pensare: questo è la vita, mentre questo è solo un paesaggio.»

«E dov’è la differenza?»

«Domanda difficile, maestro. Potrei cavarmela così: il primo mi ricorda qualcosa che mi ha commosso o turbato, il secondo non mi dice niente. Ma per essere sincera ho provato le stesse sensazioni con quadri che non mi ricordano nulla. Vedo due marine, per esempio: una di qua e una di là. Davanti alla prima rimango indifferente per pochi secondi, l’altra mi ruba l’anima per quasi tre minuti di seguito. Sarà una questione di colori, forse; o l’impetuosità delle onde, la tempesta in arrivo...»

«Anche i personaggi di Picasso sarebbero la vita?», domanda il lentigginoso che, al museo, si era fatto prestare gli occhiali dal maestro. Evidentemente Picasso lo ossessiona.

«Dimmelo tu», lo sfida il maestro.

«In giro non ho mai visto facce e corpi simili», ride lo screanzato.

«Sei sicuro?»

«Beh, sì, credo di esserne sicuro. A meno che...»

«A meno che?»

«Sì, di facce brutte se ne vedono. Anche qui in classe.»

«Non fare il furbo. Pensa a carnevale. Ti viene in mente niente?»

«Le maschere!», suggerisce qualcuno.

«Le maschere», ripete il lentigginoso, senza convinzione. Impasse. Poi riprende: «Le maschere sono come facce umane, ma non sono proprio uguali.»

«A che servono?»

«A fingere di essere qualcuno che non sei.»

«Troppo facile. Inventami una storia sulle maschere.»

«Tre tizi mascherati si presentano in una banca, puntano le armi e gridano: “Fermi tutti, questa è una rapina.”»

«Che tipo di maschere indossano?»

«Dei passamontagna.»

«Se vai in banca e vedi tre tizi col passamontagna, che impressione ti fanno?»

«Paura.»

«Perché?»

«Perché sono dei ladri.»

«Da cosa te ne accorgi?»

«Dai mitra.»

«Solo dai mitra?»

«No, anche dalle parole che dicono.»

«E da che altro?»

«Dai passamontagna, ovviamente.»

«Ovviamente. Dunque i passamontagna dicono onestamente che quei tre tizi sono dei ladri. Non hanno indossato i passamontagna per fingere di essere i fattorini della salumeria di fronte. In questo caso le maschere non servono a fingersi diversi da sé stessi, ma per esprimere con chiarezza: guardami in faccia, bello, sono un rapinatore. Il vero volto del rapinatore non è quello di tutti i giorni, ma il passamontagna. Indossiamo maschere ideali che esprimono qualcosa di noi, anche senza passamontagna.»

«Io non uso mai nessuna maschera, maestro. Solo, da piccolo, quella di Dart Fener.»

«Perché proprio Dart Fener?»

«Mi piaceva impersonare Dart Fener, tutto qui. Per gioco.»

«E come ti sentivi sotto quella maschera?»

«Mi sentivo di essere Dart Fener.»

«Tu e Dart Fener, nel gioco, eravate la stessa persona. O sbaglio?»

«Sì, nel gioco.»

«Dunque si può essere sé stessi e, allo stesso tempo, apparire diversi. Quante maschere potresti indossare, volendo?»

«Tutte quelle della mia taglia.»

«E che cosa direbbero i tuoi amici, se ti vedessero ogni giorno con una maschera diversa?»

«Che sono uno, nessuno e centomila», dice ridendo il ragazzo, che ha già sentito parlare di Pirandello (anche se non sa nient’altro di lui, a parte il titolo di quella sua creazione).

«Che cosa hai visto nella mia faccia, quando mi hai guardato con i miei occhiali?»

«Non me lo ricordo, maestro.»

«Allora riprovaci», e gli passa gli occhiali. Il ragazzo esegue l’ordine e, ancora una volta, si mette a ridere.

«Cosa hai visto?»

«Non lo posso dire.»

«Coraggio. Non ti faccio niente. Non mi offendo neanche se vai giù pesante.»

«Ho pensato che lei è la persona più triste e solitaria del mondo», bisbiglia ora il ragazzo, arrossendo.

«Pensi che ci sia qualcosa di vero nella tua impressione?»

«No!»

«La verità. Devi dire la verità.»

«Un po’ sì, signore. Lo penso davvero. Mi perdoni, non volevo dirlo.»

«Non importa quello che dici, importa quello che pensi. Tu mi vedi così.»

«Con i suoi occhiali vedo le cose deformate. Come negli specchi del luna park.»

«La deformazione ti induce a vedere le cose in modo distorto. Poi scopri che c’era della verità nascosta in quella distorsione. È così?»

«Ora che mi ci fa pensare. Ma che c’entra Picasso?»

«Se te lo dicessi, smetteresti di pensare con la tua testa. Voglio invece che continui a far girare il cervello per conto tuo. Che cos’è l’arte, per voi?» Adesso la domanda del maestro è rivolta a tutta la classe. Nessuno risponde. Uno azzarda: «Ce lo dica lei, maestro.»

«Sarò onesto con voi, perché mi siete quasi simpatici. La verità e che non lo so neanch’io. Me lo vado chiedendo da sempre, e non ho ancora trovato la risposta. Siete soddisfatti?»

Il figlio del macellaio trova il coraggio di intervenire: «Sì, maestro. Ho capito una cosa. L’arte è arte proprio perché non si può spiegare.»

Il maestro si ricorda dell’incubo di Bacon. «Per questo l’arte ti fa paura?»

Il figlio del macellaio ha un modo di ridere molto schietto. «Non mi prenda per il culo, maestro. Comunque sì, a volte l’arte mi fa paura. Mi fa paura e mi attira. Sono quasi orgoglioso del mio incubo. Non è da tutti.» E dicendolo si esibisce in una specie di volteggio, una torsione del busto eseguita ad arte, come per dire a tutta la classe: guardate che bel tipo sono io.

In un gruppo di adolescenti non può mancare qualcuno più pratico degli altri. Il pratico di turno prende la parola:

«Maestro, siamo sicuri di seguire il programma scolastico facendo questo gioco improvvisato?»

Allora il maestro gli racconta di un pittore che ha disegnato una pipa scrivendoci sotto: Questa non è una pipa. E conclude: «Immaginate che abbia dipinto un foglio di carta intitolato Programma d’arte per le scuole medie, e sotto ci abbia scritto: Questa non è arte

«Che vuol dire?», incalza il futuro burocrate, o impresario di pompe funebri.

«Che un conto è l’arte e un conto sono i programmi. Quale delle due cose ti interessa di più?»

«I programmi, naturalmente», risponde il genio.

«Hai fatto la scelta giusta», risponde il maestro senza mentire, ma con un velo d’amarezza dipinto sul volto. «Farai strada.»

«Grazie, maestro.»

«Va’ a farti fottere», pensa il maestro. Ma non lo dice.

Una ragazza molto carina, la più corteggiata della classe, dice al futuro burocrate: «Va’ a farti fottere.» Scatta l’applauso. Oggi, ma solo per oggi, l’arte ha vinto sulle pompe funebri.

© Pasquale Barbella







Il rosso di Bonnefoy

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Una poesia da L’ora presente, l’ultima raccolta di Yves Bonnefoy (Mondadori, 2013), nella traduzione di Fabio Scotto.

La sciarpa rossa

In alto un atrio nel cielo.
Il sole, al di là. Il comandante
Del vecchio mercantile riceve un viaggiatore.
Un oblò è aperto, le onde sono vicine.


E lui che fa? Si è alzato, lancia
Da questo oblò una cosa, poi altre.
Così: perché, mi dice, questa sciarpa,
Mio padre me la donò, alla mia partenza


Per il primo di tanti viaggi.
L’ho amata, mi è parso che mi dicesse,
L’ho serbata per questo giorno in cui muoio.


La spinge fuori, essa si ripiega
Sulla sua mano, e si rigonfia, poi si dispiega.
Per un istante su noi due tutto il cielo è rosso.



Per imparare un po’ di più su Bonnefoy (1923-2016):

La sciarpa rossa e altre tre poesie da L’ora presente con una recensione di Marco Corsi (29/10/2013) sul sito di Nuovi Argomenti.

«Una lucida estetica dell’imperfezione» di Fabio Scotto (5/07/2016) su il manifesto.

«La musica delle parole» di Valerio Magrelli (2/07/2016) su laRepubblica.it.

«Bonnefoy, un poeta che cerca l’assoluto nel cuore della realtà» di Luigi Reitani (28/01/2015) su Il Piccolo.




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Ultime pianure


Se ne stanno larghe e acquattate oltre ogni arbusto
oltre ogni saguaro oltre ogni giaguaro tra ramificazioni
di screpolature nel secco sapone di argille amare:
ignare della luce e del buio dormono sonni crudi
in attesa che il fulmine scagli lastre di furore
sull’impavida terra che ha bevuto tutta la sua molle
erba come verde whisky e si è un poco abbrutita e non sa
come tirare in lungo con tutto quel blues che circola
come un coltello triste nelle sue falde nelle sue piaghe
viscerali piú profonde.

                                                O terra! O spazi senza piú tempo!
Pianure: ultime del mondo: pianure di un pianeta
che si ripiega, si accascia indolente,
ruvido tappeto senza piú passi né polvere;
bassa vastità, pelle senza tunnel e senza rimmel,
tutti i serpenti del mondo hanno abbandonato qui
le spoglie damascate, il brown e l’ocra,
tutti i suonatori morti di jazz hanno steso veli
di spleen in questo cimitero senza lapidi,
terra che hai spianato ogni zolla di dolore,
terra che hai fuso nel veleno dei giorni ogni pietra.

Ehi: c’è nessuno? Piú nessuno da queste parti?
Cielo ossidato, che ne hai fatto delle tue alture? Dove
sono andati a rintanarsi gli oceani dopo aver tanto ballato
in liquide fiestas? Chi ha preso a colpi di martello
le montagne, chi ha tranciato di netto i tronchi
degli olmi e delle querce? Dove sono gli amici?
Dove i nemici? Dove sono io?


© Pasquale Barbella


Gli ultimi padri. I

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I.

Quella settimana il mio nome era Lucien.

Così era stato stabilito nella riunione di progress. Ogni lunedì mattina Aura Marti ci convocava nel lattiginoso candore della Perspex Room, con­sul­tava un tabu­lato e, per prima cosa, dava a tutti noi un nome nuovo. Dopo il battesimo collettivo affidava a ciascuno i compiti della settimana, specifi­cando il giorno, l’ora e il luogo di ciascun im­pe­gno. Non mancava di rammen­tarci le date e gli orari delle visite mediche e dei turni obbligatori in palestra. Il tutto du­rava all’incirca tre quarti d’ora. Alla fine i conve­nuti ave­vano le idee chiare su cosa li aspet­tasse fino al sabato successivo. Il futuro pro­ce­deva a piccoli passi: passi set­tima­nali così ben pianificati da ridurre al minimo gli spazi della casualità, dell’improvvisazione e del rischio.

Quando Aura distribuiva i nomi assumeva un contegno so­lenne. Era buffa. A me piaceva quel momento. Mi piaceva scoprire come mi sarei chiamato. Da quando la­voravo alla Genesis, e cioè dal novembre del 2050, registravo nell’agenda i miei nomi di turno, an­che se tenerne traccia era sconsigliato dalla dire­zione. Peggio: avevo con­servato, di nasco­sto, le agende del 2050 e del 2051. E ogni tanto, per sfizio, rileg­gevo gli ap­punti che ri­cordavano somma­riamente chi ero stato, chi avevo incontrato e quando.

La rotazione dei nomi era una delle prassi che rende­vano esclusivo il servizio della Genesis. Molte delle sue pro­ce­dure erano state imitate dalla concor­renza, ma quella dei nomi conti­nuava a es­sere una sua specia­lità. Ne avevo già avuti una cin­quantina, senza contare le ri­peti­zioni. Ero stato due volte Charles, Giuseppe, Her­mann, Jean e persino Abbâ (in ebraico vuol dire «padre»), con e senza accento cir­conflesso. Gli stessi nomi torna­vano a volte in altre lingue: un Carlo aveva seguito i due Char­les, un Tivadar era tor­nato sotto forma di Théodore. Mi ero chiamato nei modi più comuni e più insoliti: Paul e Ge­orge, ma anche Eero e Ebedjesu. Il nome più fre­quente era Iannis. Me lo avevano assegnato quat­tro volte: un re­cord. Iannis ri­tornava con puntuale regola­rità ogni quat­tordici setti­mane e sembrava riser­vato solo a me, mentre la maggior parte degli al­tri nomi rimbal­zava conti­nuamente da un collega all’altro.

Sulla questione dei nomi Aura non amava scherzare. Una volta la mise giù dura solo perché avevo osato concedermi una battutina del cavolo. Le avevo chiesto di chia­marmi Cobra o qualcosa del genere, tanto per sbloc­care l’eccessivo formalismo di quei raduni. Mi guardò stortissimo. Termi­nata la riunione mi prese da parte e mi strizzò con una predica di quelle che ti fanno passare la voglia di ridere. Il la­voro era una cosa seria. Certe fesserie non do­vevo dirle neanche per scherzo: non dovevo nemmeno pen­sarle. Era il ge­nere di errori che avrebbe allar­mato la clientela. Dovevo dar prova di maggior maturità, e via sermonando. Era fuori di sé, non era mai stata così ag­gressiva nei miei confronti; di solito mi trattava con una certa tenerezza, era una specie di seconda madre per me. Ero il suo predi­letto, ma forse pro­prio per que­sto l’avevo de­lusa. Per fortuna, sbollita la fu­ria mi perdonò e dimen­ticò l’incidente.

Quel lunedì Aura mi aveva confezionato un programma impegna­tivo. Ero stato scelto per tre sessioni alla Genesis di Zurigo, una delle conso­ciate più prestigiose del network. Do­vevo incontrare una certa si­gnora Al­bers. Ma la cosa bella era un’altra: nel tempo libero avrei assistito a un con­vegno della Internatio­nal Repromarket Associa­tion che si svolgeva nella stessa città. Nessuno dei nostri dirigenti di Milano in­ten­deva par­teciparvi di persona: così avevano riservato a me l’onore di rappresentarli. Il dot­tor Ferrari, che coordinava le at­ti­vità di ricerca, sviluppo e comunicazione, aveva contrassegnato con l’e­vi­den­ziatore i relatori e gli in­terventi di mag­gior interesse e mi aveva racco­man­dato di non mancarli. Si aspettava un rapporto scritto, sin­tetico ma pre­ciso, sulle tesi che avrei ascoltato.

Ero su di giri. Avevo solo ventiquattro anni e mezzo al­lora, e non vo­levo re­stare babymaker tutta la vita. Aspi­ravo a una carriera di funzionario, ma­gari nel set­tore delle ricerche e del marke­ting. Andare a quel con­vegno mi sem­brò di buon auspicio: era utile alla mia formazione, e nel contempo era una prova di fi­ducia dei superiori nei miei confronti.

Avevo iniziato due anni prima in una società molto più pic­cola, subito dopo il servizio militare. Nessuna difficoltà per trovare la­voro. I test clinici del distretto erano la migliore delle referenze possibili. L’agenzia si chia­mava Diskret ed era un’impresa a condu­zione familiare. Vi si respirava un clima cordiale: ero benvoluto dai ti­tolari e dai col­leghi. Mi consideravano una specie di mascotte. Non guada­gnavo gran­ché ma stavo bene da loro; mi erano stati di grande aiuto agli inizi, con i loro consigli e il loro affetto. Ero ar­rivato con i ti­mori e le incertezze del principiante, inesperto di tutto. Non avevo mai avuto rapporti personali con l’altro sesso; in un certo senso non ne ho avuti nean­che dopo, per lungo tempo. Sa­pevo però di non poter rimanere in eterno alla Di­skret. Desideravo entrare in un’organizza­zione più imponente, meglio se internazio­nale. Come ho detto, conside­ravo la mia una profes­sione tem­poranea e solo in un’a­genzia più grande avrei po­tuto trovare spazio e spe­ranze per cam­biare, in futuro, le mie man­sioni. I miei orizzonti non erano scon­finati. Tutto ciò che volevo era un’esi­stenza nor­male: una moglie, dei bambini, un la­voro solido e so­cialmente accet­ta­bile. Uno stile di vita evidentemente incom­patibile col mestiere di baby­maker o, come si dice nel gergo ufficiale, di «agente ri­produttore».

Avevo scritto alle agenzie di maggior spicco. Ero stato se­lettivo: fra le associate alla Inter­national Repromarket avevo preso in considerazione soltanto le prime dieci. Ma non avrei mai spe­rato di farmi arruolare dalla numero uno: Ge­nesis era di gran lunga la più importante del mondo. Ricevevano mi­gliaia di domande di assun­zione e i loro parametri di giu­di­zio non erano acqua fresca. Visite mediche a parte, bi­so­gnava superare una sfilza impressio­nante di test psicologici e di cultura ge­nerale. Più tardi, quando entrammo in con­fidenza, Aura Marti mi disse che era stata ap­prez­zata la mia spontaneità. Di solito chi cerca im­piego come babymaker giura e sper­giura di avere per que­sto mestiere un’au­tentica vo­ca­zione, di es­serci for­temente por­tato e balle del ge­nere. Io invece, durante i colloqui con il capo dello Psychoteam e poi con sua maestà Julio Hernández in persona, non avevo fatto mistero dei miei pro­positi e delle mie mo­tiva­zioni. Avevo sinceramente confessato l’ambi­zione di potermi dedi­care, un giorno, a fun­zioni diverse. Del resto, tra le regole della Ge­nesis ce n’è una che riguarda l’età dei suoi ri­pro­duttori: non inferiore ai 23 anni, non superiore ai 35. Per la ditta è que­stione di immagine, ol­tre che di eugenetica, ed è un punto sul quale non si transige. Al trenta­cin­quesimo compleanno ogni agente dell’organizzazione, se nel frat­tempo non è riu­scito a dimo­strare particolari doti alternative, sa che lì dentro non c’è più spazio per lui. Ho cono­sciuto ex babymaker previ­denti, convertiti con successo ad atti­vità commer­ciali o im­prenditoriali; ma anche altri che condu­cono esi­stenze sbandate, imprepa­rati a riciclarsi in un mondo che non ave­vano esplorato ab­bastanza.

La disciplina imposta dalle agenzie, e dalla Genesis in modo partico­larmente fer­reo, non aiuta i «ragazzi d’oro» — come i mass mediatalvolta amano definire la cate­goria — ad affrontare il momento della svolta. Ge­ne­sis paga bene, ma esige il sacri­ficio quasi completo delle li­bertà personali. Niente re­lazioni sen­timentali. Continui con­trolli su at­tività e amicizie pri­vate. Niente alcool. Niente fumo. Rigide norme alimen­tari e igieniche. Ore e ore di pale­stra settimanali per tenersi in forma. In com­penso, di tempo li­bero — se libero si può chiamare — ce n’è a iosa. Il modo mi­gliore di usarlo, credo, è studiare, applicarsi al perfe­zio­namento delle pro­prie co­no­scenze e delle pro­prie qua­lità per costruirsi un avvenire più solido. È indi­spensa­bile fissarsi un tra­guardo, se­guire una strategia, pianificare il dopo: pro­gram­mare in anti­cipo ciò che si vorrà diventare, una volta finito il pe­riodo dei privi­legi e dei soldi facili.

La settimana «da Lucien» fu tra le più memorabili della mia vita, per gli eventi straordinari che sto per raccontarvi. Non certo per la trasferta in sé e per sé: ero già stato altre volte in missione fuori sede. Genesis aveva il quar­tier generale a New York, una filiale ad Amsterdam che fun­geva da cen­tro di coordinamento posteuropeo e agen­zie in tutte le metropoli del pianeta. Avevo già com­piuto missioni a Parigi, Londra, Oslo, Co­penhagen e al­tre città della Federazione Posteuropea, Zu­rigo com­presa. Questi andirivieni erano un’al­tra delle tipiche modalità ope­rative della Casa. Gene­sis aveva tariffe salate, ma sapeva fornire servizi sofisticati. Le clienti in grado di per­met­tersi esborsi supplemen­tari potevano ottenere le presta­zioni di uno o più agenti venuti da lon­tano, per maggiori garan­zie di riser­vatezza o, in casi più rari, per piani di fusione interetnica.

Viag­giare mi rendeva euforico. Era un’esperienza pre­ziosa per il mio ap­prendi­stato. E quel lunedì ero al settimo cielo. Mi divertii a prendere in giro Morphero, il no­stro robot tuttofare, facendolo girare a vuoto per i corridoi; poi andai a trovare Lukas e gli confi­dai le ragioni del mio entusiasmo. Lukas Slavjanskij era il mio collega preferito. Ucraino, parlava perfettamente l’inglese, il francese e il tedesco come tutti i cittadini posteuropei; ma con me preferiva ostinarsi a storpiare l’ita­liano, seb­bene lo esortassi continuamente, per metterlo a suo agio, a usare una qual­siasi delle tre lingue ufficiali della Federazione. Era stato anche lui un golden boy ma, pur avendo solo pochi anni più di me, aveva già otte­nuto da un pezzo di cam­biare ruolo. Non che la sua fosse stata una car­riera esaltante: aveva dovuto accon­ten­tarsi di passare al videocontrol, con una dra­stica ri­duzione di stipen­dio e pro­spet­tive. Ma a lui stava bene così. Aveva dete­stato con tutto sé stesso le mansioni precedenti, e gli era stata mira­colosamente offerta una via d’uscita. Il suo era un caso speciale. Se siete sotto i trent’anni, e avete la faccia tosta di dire ai vostri supe­riori che non vo­lete più fare il ­maker ma il semplice impiegato, il mi­nimo che pos­sano fare è sbattervi fuori dal sistema a calci nel sedere. In un tempio come la Gene­sis, la man­canza di am­bi­zioni era ed è con­siderata un punto a sfavore. Ma Lukas aveva un carat­tere d’oro e gli era riuscito di entrare nelle grazie dei diri­genti di Odessa, la sede in cui aveva prestato servizio. Non solo non lo ave­vano licen­ziato in tronco (come avrebbe invece fatto volentieri il no­stro Hernández, un vero squalo), ma lo ave­vano an­che aiutato a tro­vare una collocazione. Dato che era dispo­sto a trasferirsi ovunque e che da noi era emersa un’opportunità, aveva trovato il modo di ri­sol­vere i suoi pro­blemi.

Il videocontrol era pura routine. Lukas se ne stava seduto per ore con gli occhi incol­lati a un moni­tor e vigilava sull’andamento delle sessioni operative at­traverso un sistema te­le­visivo a circuito chiuso. Se c’erano più sessioni con­temporanee doveva de­streggiarsi con un po’ di zapping fra un canale e l’al­tro, per sinto­niz­zarsi su questa o quella stanza del reparto cli­nico. Aveva il compito, delicato ma noioso, di sorvegliare che tutto si svol­gesse secondo gli accordi contrat­tuali e il rego­lamento: il corretto im­piego delle maschere e delle tute anticontatto, il ri­spetto del silen­zio, la linearità asso­luta dei com­portamenti. Talvolta acca­deva che un ac­compagna­tore della cliente — il ma­rito o il convivente fisso — desiderasse assistere via monitor al mee­ting gene­tico. L’autorizzazione veniva accor­data solo dopo ac­certa­menti psicolo­gici sulla per­sonalità della coppia. Quando veniva concessa, Lukas do­veva subire la com­pagnia dell’intruso, e non si era mai abituato a supe­rare un certo di­sa­gio. Una volta mi aveva confessato che, da babymaker, aveva molto sof­ferto al pensiero di essere con­trollato attraverso uno schermo, spe­cialmente quando c’e­rano i mariti di mezzo. Era quello il mo­tivo principale per cui aveva vo­luto abbando­nare la profes­sione. Poi, ri­dendo, aveva ag­giunto che era stato vit­tima della legge del con­trappasso: lo avevano dislo­cato all’altra estremità del circuito, pro­muoven­dolo al rango di guardone uffi­ciale dell’impresa.

Salvo casi eccezionali, non erano previste sessioni nel primo giorno della setti­mana. Li­bero da impe­gni voyeuristici, Lukas dedicava i lunedì al riordino e all’aggior­namento della banca immagini. Se c’era un nuovo agente in ar­rivo, lo riprendeva con la telecamera (con e senza maschera, con e senza vestiti) per inserirlo nel catalogo. Le nuove immagini finivano nel serverdel si­stema infor­matico, per essere accessibili a tutte le sedi della Genesis. Quando un agente si dimetteva o, per qualsiasi altro motivo, cessava di prestare la sua opera come riproduttore, Lukas rimuoveva la sua immagine e tutte le informa­zioni che lo ri­guardavano dal database del sistema, limitandosi a con­servare la do­cumentazione in un archivio locale.

Era contento per me. Modesto per natura, non aveva una gran consi­derazione di sé stesso ed era por­tato a sopravvalutarmi. «Se ti man­dono al convegno, vuol dire che si sono accorti delle tue qualità. È una bella occa­sione per te, Egon, e tu hai i nu­meri per la sapere cultivare. Io capi­rei zero di tutti i paroloni che vanno a spararequelli lumi­nari. E poi non sa­prei mai scri­vere un rapporto: sono davvero negato, you know what I mean. Tu ce la fa­rai. Devi far­cela.»

«Ma tu giura di riguardarti un po’: hai un’aria slavata, Slavjanskij, non mi piaci per niente. Dovre­sti piantarla di masturbarti davanti a quel moni­tor.»

«Ti prendo in parola. Vado a partire in vacanza per Montego Bay. Tre settimane, amigo. Te mando una carto­lina.»

«Montego Bay? Gran figlio di puttana! Beh, dovrai accontentarti di una carto­lina da Zu­rigo.»

Aveva la risata facile e contagiosa; così Aura Marti ci trovò piegati in due dal ri­dere. Lukas non le andava a genio: si inalberò. «Lucien, che ci fai in laboratorio? Do­vresti es­sere su in segreteria per concor­dare le prenota­zioni di volo e di al­bergo. Quanto a lei, Lukas, si dia da fare: l’archivio è un disastro.»

«Subito, signora. Stavo solo salutando Egon.»

«Lucien. Questa settimana si chiama Lucien.» Aura pretendeva che usassimo an­che fra noi quei nomi fittizi, per farci l’orecchio e allenarci a en­trare nella nuova iden­tità. Mi al­lontanai in fretta, prima di esporre Lukas a ulteriori lavate di testa.

***

A Zurigo nevicava e c’era un’aria tetra dappertutto. Era un martedì di metà gen­naio, ero appena ar­rivato e un po’ del mio entusiasmo era già sva­nito. Anche se erano passati dieci anni dall’armistizio, ancora si ergevano piramidi di macerie, persino nel centro storico. E certe vecchie banche, una volta potenti, erano rimaste com’erano al momento dello sventramento e dell’abbandono: finestre senza vetri, rampicanti da giungla, cumuli di rifiuti, murales dozzinali dentro e fuori. Per fortuna l’Hotel Akzidenz non si tro­vava in città ma a un paio di chilometri dall’a­eroporto, ed era imper­sonale come tutta la zona. Era lo stesso albergo dove aveva luogo il convegno; ebbi tutto il tempo di si­ste­mare le mie cose in ca­mera prima di scen­dere nell’auditorium. Sul co­mo­dino trovai una let­tera di benve­nuto firmata dal presi­dente dell’associa­zione e un omaggio coi fiocchi: un videogame nuovo di zecca e an­cora ine­dito in tutta la Federazione. Si intitolava Kill the Banker ed era il primo gioco elet­tronico contro le ban­che del seme, messe fuorilegge quin­dici anni prima da tutti i go­verni in se­guito a una serie di casi di infezione e alle pressioni con­giunte dei più po­tenti movi­menti religiosi.

Mi feci vivo al banco di registrazione della Repromarket con largo an­ticipo sul­l’inizio dei lavori. Una hostess dallo sguardo liquido finse di sorri­dermi e mi conse­gnò un pass con la mia foto­tessera. C’era scritto: Interna­tional Repromarket Associa­tion, An­nual Con­ference, Zurich, 16th-20th Ja­nuary 2052, Mr Lucien, Genesis Mi­lan. Mi porse anche una borsa di pla­stica rossa: conteneva un dossier in similpelle com­pleto di blocco no­tes e matita, l’ul­timo numero di Babymaking Age e di Repopulation e diversi pieghevoli pubblici­tari. Per in­gannare il tempo mi aggirai nelle salette adiacenti all’au­ditorium. Una tra­boccava di delegati ansiosi di ingurgi­tare croissant e caf­fel­latte. Le altre esponevano in anteprima gli ul­timi pro­dotti destinati all’industria della ri­produzione, evi­dentemente a cura di aziende paganti. La Biotruka pre­sen­tava una ver­sione aggiornata della glo­riosa Si­lent Face, la re­promaschera più dif­fusa del mondo. Un cartello spiegava che il nuovo mo­dello SF 2052 Extra, grazie al­l’applica­zione di un rivoluzio­nario tessuto sin­tetico e di nuove tec­nolo­gie produttive, supe­rava di almeno il 20% l’elasti­cità dei più sofi­sticati pro­dotti in commercio senza per­dere in aderenza e leggerezza. Impiegava inol­tre un nuovo tipo di collante — asso­lu­tamente atossico e indolore — in­torno ai contorni delle labbra, il che aveva consentito di allargare il foro con molti vantaggi: mi­nor senso di co­strizione muscolare, li­bertà di re­spiro, effetto meno mummifi­cante e, non ul­timo, il ge­nerale be­neficio psicolo­gico deri­vante da tutto ciò. La gamma dei co­lori era stata arricchita a dismi­sura, an­che se la maggior parte delle utenti conti­nuava a pre­ferire il bianco, l’az­zurro e l’é­cru. Ma la variante estetica più bizzarra era il modello SF 2052 Image: sulla superficie della ma­schera era stampata, in modo iperrealistico, l’effigie di un volto umano. Il proto­tipo in vetrina recava, a mo’ di esempli­ficazione, il ritratto di Bruce Maho­ney, il popolare divo del cinema. La Biotruka av­vertiva che, su ri­chiesta, i suoi laboratori erano in grado di replicare entro ventiquat­tr’ore qual­siasi volto da una semplice fo­tografia. Le clienti più sensibili potevano così illudersi di prati­care un rap­porto ge­netico col pro­prio partner abituale.

Mentre osservavo con interesse la vetrina, un delegato mi si accostò e si chinò per leg­gere il badgeapplicato sul risvolto della mia giacca. «Genesis!», esclamò esul­tante. Mi tese la mano: «Permetti che mi presenti. Claude Adhémar, Genesis Am­sterdam. Siamo col­leghi, a quanto pare.» Po­teva avere trentadue o trentatré anni ed era legger­mente stempiato; vestiva impeccabilmente di blu e i suoi occhiali erano molto spessi (non a caso, per leggere la mia etichetta, mi aveva quasi sfiorato col naso). «Lucien. Baby­maker, a quanto pare» (era la seconda volta che diceva «a quanto pare»: le ripe­tizioni mi in­fastidivano). Non potei fare a meno di chiedergli da cosa avesse de­sunto la mia specializzazione. La mia ingenuità lo eccitò: «Logico, no? Non c’è nes­sun cognome sul tuo badge: dunque non puoi che es­sere un babymaker. È al­tresì ovvio che Lucien è il tuo nome della setti­mana. Indo­vinato?»

«E tu ti chiami davvero Claude?»

«Claude e nient’altro che Claude, grazie al cielo! Ho chiuso con le repro: da due anni mi occupo di ricerche di mercato alla centrale opera­tiva di Amsterdam.»

«Sei giovane. Hai fatto una carriera precoce: complimenti.»

«Grazie.» Lo disse con sussiego; si dava un sacco di arie. «Ti piace la nuova Si­lent Face?»

«Non so, bisognerebbe provarla. A dire la verità quelle usate finora non mi hanno mai dato pro­blemi.»

«Ma con questa puoi fare cose che prima non potevi. Parlare, per esempio.»

Mi misi a ridere. «E a che serve? Sai benissimo che è proibito parlare durante le ses­sioni.»

«Via! Non dirmi che non hai mai provato l’impulso di scambiare due parole con l’utente. È naturale, a quanto pare. O no?»

«Non per me. E comunque ci sorvegliano con le telecamere.»

«Se parli a bassa voce non ti sente nessuno; e poi basta fare qualche re­galo ogni tanto al videocon­troller. Da maker sapevo te­nermeli buoni, i con­troller, e facevo tutto quello che mi an­dava. Una volta mi sono tolto la maschera.»

Lo guardai attonito. «Non ci credo.»

«Giuro. La signora a un certo punto disse che voleva guardarmi in fac­cia. Senza pensarci due volte mi sfilai la maschera.»

«E non ti ha denunciato nessuno?»

«Te l’ho detto: ci sapevo fare coi controller. Guarda le nuove tute anti­contatto.»

«Cos’hanno di nuovo? A me sembrano uguali a tutte le altre.»

«Sei un bel distrattone, caro il mio Lucien! Non le vedi le ventose sul dorso?»

«Ora che me lo dici le vedo. A cosa possono servire?»

«Sei proprio irrecuperabile, a quanto pare! Servono all’applicazione di cavi elet­trici. Stimo­la­tori. In caso di lungaggini, il controller non deve far altro che mandare un po’ di corrente premendo il tasto di una centralina.»

«Mi sembra una scemata. Di che lungaggini parli?»

«Uhm, lasciamo perdere, signor Coniglietto efficiente. Comunque, mi sa che tutta que­sta tecnologia d’avanguardia rischia di andare presto a gambe all’aria, con buona pace dei progettisti. Stiamo testando il gradimento del camice bianco in alterna­tiva alla tuta anticon­tatto.»

«Camice bianco? Che tipo di camice bianco?»

«Normalissimo camice bianco da infermiere, dottore, farmacista, chi­mico... In­somma lo stupido ca­mice bianco di sempre.»

«Ma è ridicolo. Allora perché non un semplice pigiama?»

«Ahi, ahi. Si vede che non capisci niente di mercato e psico­logia. Le ri­cerche ci in­for­mano che il 90% delle clienti e dei loro coniugi de­testa l’idea del pigiama così come aborrisce la nudità totale: sono cose che ricor­dano troppo da vicino l’intimità della vita pri­vata. Il camice bianco, invece, è rassicurante perché fa parte dell’ambiente cli­nico: ti pa­gano per pre­stazioni genetiche, caro Lucien, non per farti diver­tire!»

Era antipatico, ma stavo imparando più cose da lui che dalle mie espe­rienze di­rette. Decisi, mal­grado l’istintiva avversione, di sfruttare quel pozzo di scienza fin­ché potevo.

«Stanno per cominciare, Claude. Ti secca se sto seduto accanto a te?»

«Ci mancherebbe. Al primo intervallo ti presento un po’ di gente: ne cono­sco un sacco.»

Era vero. Nel salone scambiava saluti e battute con mezzo mondo. Do­veva es­sere piutto­sto popolare nel giro internazionale. «Faccio parte della commissione junio­resdella Repro­market Association», spiegò, «e sono an­che membro del comitato inter­na­zionale di studi di marketing della Gene­sis. Per questo non passo inosservato.»

Il primo relatore, un andrologo dell’International Health Council, esibì e com­mentò una serie di dati statistici sull’an­damento mondiale della steri­lità maschile. Le ultime stime in­dica­vano che il 79% della popolazione ma­schile adulta risultava af­flitto da azoospermia e il 12% da oligozoospermia aggravata da alterazioni cromoso­miche, malformazioni degli spermatozoi, indebolimento della loro forza propul­siva e varie patologie testicolari, tu­mori compresi. Il declino quantitativo e qualitativo della pro­duzione semi­nale e la pro­li­fera­zione delle anomalie nell’ap­parato riproduttivo proce­de­vano di pari passo. I primi allarmi erano stati lanciati da un endocrinologo danese ses­sant’anni prima, ma la pro­gressione del fenomeno sembrava inarresta­bile. Cause e ri­medi erano tuttora il grande rompicapo di biologi, tossicologi, epi­demiologi, genetisti e ambientalisti: a poco erano serviti i ge­nerosi investi­menti profusi nella ri­cerca. Senza contare che la Guerra aveva rallentato gli studi, e aveva contribuito non poco alla riduzione della popolazione maschile e alla menomazione fisica di molti sopravvissuti, grazie all’impiego di armi chimiche. Sull’in­calzante in­cremento di dif­fusione del male del secolo si avanzavano ogni anno nuove congetture, spesso smentite sul nascere o contraddette da ulteriori rilevazioni. Alcool, anestetici, co­muni antibio­tici come la penicillina e la tetraciclina, an­timo­nite, benzene, cadmio, cloroprene, dinitro­to­luene, epiclo­ridrina, estro­geni sintetici, man­ganese, ma­rijuana, mercurio, pesticidi, piombo e tabacco — per non dire dell’infernale diossina — erano sotto ac­cusa da sempre; ma lo spermici­dio dilagava anche nelle aree ecologi­ca­mente più protette e fra in­dividui che non avevano mai fatto abuso di alcool, droghe o far­maci so­spetti.

Il professore illustrò diversi dati sulla distribuzione geografica del fe­nomeno, ela­bo­rando incroci e com­para­zioni fra regioni del pianeta acco­munate da analogie clima­tiche, storiche e culturali. Con particolare cura analizzò i dati relativi alle aree coin­volte in con­flitti o colpite da catastrofi ambientali, incidenti nu­cleari e così via. La re­lazione durò quasi due ore, in­farcita di diagrammi e fantasiosi effetti visuali. Un’ul­tima serie di dati met­teva in relazione l’in­cidenza dell’infertilità maschile con l’anda­mento di al­tre patologie; ma la di­sparità dei risultati di queste osservazioni fra un luogo e l’altro la­sciava aperte tutte le domande e incerte tutte le diagnosi. Ascol­tavo con attenzione e prendevo molti ap­punti per il dottor Ferrari. Dal canto suo, Claude Adhé­mar sembrava soddisfatto. «Bene, bene», conti­nuava a sussur­rarmi all’orec­chio; «a quanto pare, finché dura c’è business.»

La seconda relazione mi riguardava più da vicino. Un sociologo del­l’Univer­sità di Trento esponeva gli esiti di un sondaggio sulla figura profes­sionale dell’agente riproduttore: qual era la sua immagine pub­blica, quali i principali meriti e demeriti se­condo l’opi­nione cor­rente, come si evolveva nel tempo il grado di accettazione so­ciale: cose del genere. Aguzzai l’udito e riconobbi con chiarezza gran parte dei miei pro­blemi. Si in­contrano le prime diffi­coltà già in seno alla famiglia, soste­neva il professore. Com’era vero! I miei geni­tori erano di stampo tradizio­nale e mi disapprovavano espli­citamente. Bella forza; venivano da un’e­poca in cui non c’era ancora bi­sogno dei nostri ser­vizi. Ma neanche i giovani ci vedevano di buon oc­chio. La stessa clientela non fa­ceva ecce­zione alla regola. I nostri detrattori, in­somma, si tro­vavano ovunque. I più il­lu­mi­nati si limitavano a criticare il sistema di mercato: avreb­bero prefe­rito che i servizi di ri­produ­zione fos­sero erogati da enti pub­blici anziché da società private. Non accettavano l’i­dea che li­beri imprendi­tori potessero trarre profitto da un ramo così delicato. Il baby­making, in­somma, era tolle­rato come un male necessario: meglio delle ban­che del seme e delle fe­con­dazioni in pro­vetta, ma pur sempre di un male si trat­tava. Quanto ai profes­sio­nisti come me, erano malvisti per le ragioni più svariate: l’invidia per il dono, ca­suale e im­meri­tato, della fecondità; il privi­le­gio di un lavoro certo e generosamente re­tri­buito, a dispetto dell’endemica crisi eco­no­mica che af­fliggeva ogni parte del mondo; il persi­stere di vecchi pregiu­dizi mo­rali e re­li­giosi, che nei casi di mag­giore osti­lità tende­vano a confinarci in un ambito ad­di­rit­tura prossimo a quello della prostitu­zione.

Uscii da quella doccia fredda profondamente sconfortato. Adhémar in­vece era la leti­zia fatta persona. «Vieni a bere un’aranciata con me», disse tra­scinandomi per il gomito nella saletta dei rinfreschi. Al buffet c’era una coda debordante; il chiasso era alle stelle. Avevo caldo e non ve­devo l’ora di uscire all’a­perto. Claude era elettrizzato da uno dei temi forti del pomerig­gio: le nuove ricerche di eugenetica e gli ul­timi studi sulla fu­sione interet­nica. Gli dissi che alle tre avevo un appuntamento alla Genesis e che gli sa­rei stato eternamente grato se mi avesse permesso di copiare i suoi appunti. Si mostrò felice di rendersi utile; l’idea che altri potessero di­pendere da lui stuzzicava la sua vanità. Ero soddisfatto an­ch’io: grazie alla collaborazione di Adhémar, avrei po­tuto passare al dottor Ferrari anche le informazioni che non ero in grado di acquisire diretta­mente a causa dei miei impegni con la signora Albers.

Naturalmente la signora Albers non si chiamava Albers. Le vere gene­ralità dei clienti ci venivano tenute nascoste per motivi di si­curezza. L’inco­gnito, del resto, era reciproco: io per lei non ero altro che uno pseudonimo, un Lucien più fittizio che reale. Arrivai in sede in tempo utile per farmi ricevere da Gunther Berger, responsabile dei servizi inter­na­zionali, e prepararmi al­l’incontro con la cliente. Ero già stato a Zurigo altre volte e Berger non solo mi cono­sceva, ma era anche gentile con me. Mi con­fidò che il signor Albers, o come diavolo si chia­masse realmente, era di ori­gine mediterranea e ci te­neva ad avere un fi­glio di san­gue latino. Per questo si erano ri­volti alla fi­liale di Milano. Per mettermi maggiormente a mio agio, Berger mi fece un’altra confidenza. Il signor Al­bers non risultava clini­camente ste­rile; ciò nono­stante, la coppia — spo­sata da dodici anni — non era riuscita nell’intento di procreare un erede. Presi singolarmente erano uno più «normale» del­l’altra, ma per qual­che ra­gione la sorte era stata avara con loro. Il fatto che Albers fosse sano come un pesce mi metteva parzialmente al riparo dalle solite gelosie e ostilità sotterranee. Non che do­vessi incontrarlo; ma saperlo mi faceva bene, perché non ero mai riuscito a supe­rare del tutto certi disagi psicologici. Un genere di ma­lessere piut­to­sto diffuso tra i procreatori meno superficiali.

Alquanto alleggerito delle ansie che sempre provavo in quei momenti, varcai la soglia dell’antilab a me destinato, feci la doccia e indossai la tuta regolamen­tare, le panto­fole di cotone e la Silent Face, tutti candidi, immacolati e sterilizzati. A tentoni entrai nella camera oscurata dov’ero atteso. Non era mai accaduto che una donna osasse alzarsi dal suo giaciglio e mi venisse incontro tendendomi la mano. Di solito do­vevo arran­giarmi da solo, incespicando qua e là; una volta ero persino ca­duto. La signora Albers invece mi sorprese con la sua cortesia. Apprez­zai quel gesto semplice e materno; voleva dire molto per me. Voleva dire che in quella stanza non ero odiato. Forse la benevolenza della mia part­ner di­pendeva dalla sua età. Se era sposata da dodici anni, non era più un fiore di gioventù. Scoprii che aveva un corpo piccolo e rotondeggiante. Svolsi il mio compito come meglio potevo, per­vaso da un senti­mento di grati­tudine, e re­stai a letto tutto il tempo ne­cessario per con­sen­tirle di uscire, fare una doc­cia, ri­vestirsi e la­sciare la Ge­nesis. Quando se ne fu an­data, una voce sua­dente dall’altopar­lante situato nella stanza mi avvertì che ero libero di an­dare in ba­gno e ri­ve­stirmi. Se preferivo, potevo restare a riposare ancora quindici minuti.

***

Saltai su un taxi per ritornare all’Akzidenz. Non nevicava più, ma il cielo era fer­rigno e tutta la città aveva assunto un colore metallico. La neve sui marcia­piedi e sul­l’a­sfalto era di­ventata una poltiglia grigiastra. I rari pe­doni si affrettavano come se avessero tutti molta urgenza di arrivare a un traguardo. Chissà se avevo figli a Zurigo. Mi chiesi in generale quanti bambini fossero nati col mio aiuto. Era un dato inaccerta­bile. A differenza dei coniugi Albers, molti clienti pre­ferivano ricorrere, nei pe­riodi fe­condi della donna, a un’alternanza di agenti, per rendere impossibile a sé stessi e agli altri l’identificazione del padre biologico. Era una delle tante misure di si­cu­rezza offerte dalla Ge­nesis (e da quasi tutte le agen­zie, in verità). La rota­zione dei partner era un lusso che si pagava molto caro, ma tanti accetta­vano di accol­larsi que­sti e altri aggravi di spesa con­siderandoli un investi­mento oppor­tuno. Le richie­ste erano le più di­verse. C’era chi esigeva sup­plenti dello stesso gruppo san­guigno e dello stesso Rh del padre legale. C’era chi si rifiu­tava di pagare il premio di assicu­razione (la Re­promarket Asso­ciation aveva stipu­lato con una compagnia internazionale una polizza che ri­fon­deva pro­fu­ma­tamente i clienti in caso di mancata gravi­danza entro i ter­mini stabiliti dal con­tratto) per non dover rivelare la propria reale iden­tità. C’era persino chi chie­deva servizi a domicilio: era un caso piutto­sto in­fre­quente (a me non era capitato) e implicava una serie di difficoltà ogget­tive. L’agente do­veva essere con­dotto a destina­zione mascherato, quindi prele­vato e, sempre in maschera, riaccompa­gnato in agenzia. Il tutto doveva svolgersi tra mille precauzioni: analizzare preventi­vamente le moti­va­zioni della richiesta, verificare l’assenza di inclina­zioni morbose da parte dei committenti, pianificare l’intervento in locodi assistenti e controllori. Spe­ravo sin­ceramente di non dover mai incor­rere in una missione così complicata.

Raggiunsi il teatro mentre era in corso l’ultima relazione della giornata. Era di scarso interesse; non fra quelle raccomandate da Ferrari. Claude Adhémar non c’era. Metà dei delegati se l’era squagliata. Cercai ugual­mente di applicarmi all’ascolto, per non perdere nessuna occasione forma­tiva. Si parlava di strategie di sviluppo del­l’in­tero sistema di ser­vizi nel set­tore della riproduzione. Il tema non era male, ma il con­ferenziere era lento, involuto e ripeteva cose sostanzialmente banali. Nono­stante la buona volontà, mi distrassi e per poco non mi addormentai. Decisi di lasciar per­dere e abbandonai anch’io la sala, accodandomi ad al­tri disertori.

Salii in camera per sdraiarmi un po’ sul letto e farmi venire in testa qualche idea per la sera. Sull’apparecchio telefonico, una luce intermittente segnalava che c’era un messaggio registrato per me. Era Claude. Diceva di avere per me una chiavetta con tutte le relazioni originali corredate dai suoi commenti, e che, se non avevo nulla in contrario, avremmo cenato insieme. Chie­deva di richia­marlo alla stanza 511.

Trovai strano che, con tutte le sue conoscenze, non avesse niente di meglio da fare che perdere tempo con me. Aveva anche la fortuna di non essere più un baby­maker: libero da obblighi e divieti, poteva per­mettersi il piacere, a me precluso, di co­no­scere e frequentare delle ragazze. Al posto suo mi sa­rei dato alla pazza gioia. Che voleva da me? Non ero di buona compa­gnia, e quel giorno meno che mai. Avrei prefe­rito mangiare qualcosa alla svelta in al­bergo e andarmene al ci­nema da solo. Passare la serata in­sieme era un’idea stu­pida: malinconica per lui, malinconica per me. Ma ormai era fatta. Non me la sentivo di essere scortese con nessuno. Dopotutto, sebbene mi co­no­scesse soltanto da poche ore, mi stava colmando di genti­lezze.

Lo chiamai. Rispose subito. Non aveva perso il suo brio. «Ti piace la cucina viet­namita?»

«Non saprei, non la conosco.»

«Male! Ragazzo mio, a quanto pare sei proprio da svezzare. Prenoto un posticino da orgasmo.»

«Ti ringrazio ma, se non ti dispiace, preferirei di no. Sai com’è, devo seguire la dieta regolamentare. Con le cucine esotiche non mi ci raccapezze­rei.»

«Ah, dimenticavo, signor Coniglietto. A proposito, Lucien, come ti chiami?»

«Lucien.»

«Svegliati, Lucien. Come ti chiami-chiami-chiami?»

«Scusa. Mi chiamo Egon. Egon Alexandris.»

«Ti piace la musica, Egon Alexandris?»

«Immensamente.»

«Allora è fatta. Ti porto al Futura Light. Mai stato al Futura Light?»

«No.»

«Uh! È il club più creativo di Zurigo. Nero da cima a fondo. Il cibo non è un granché: in­sipido e leg­gero, perfetto per uno come te. In compenso c’è sempre qualche cabarettista in gamba o qualcuno che suona del jazz.»

«Vada per il Futura Light.»

«Affare fatto. Ci si vede nella hall alle otto in punto.»

Era un posto alla moda, con le pareti in laminato nero interamente ri­coperte di scritte. Le scritte — per lo più aforismi e citazioni di letteratura dark — erano in varie gradazioni di grigio e di diverse di­mensioni: una spe­cie di tappezzeria tipografica. Buio profondo. Claude, se­duto di fronte a me, lo vedevo a fa­tica: meglio così. Non mi pia­ceva il suo modo insistente di fis­sarmi. Forse dipendeva dalla sua vista di­fettosa. Non mi andava la sua esu­be­ranza; era sempre su di giri. Troppo. E mi irritava il suo in­tercalare: con­tinuava a dire «a quanto pare» di qua, «a quanto pare» di là. Ordinò su­bito dello champagne, cosa che trovai di cat­tivo gusto: sapeva benissimo che non po­tevo permettermi alcolici. Glielo feci timidamente no­tare. «Oh, per­do­nami!», disse, sempre con quello stile teatrale che lo rendeva così indige­sto. «Non ti of­fendi se lo bevo io, vero? Ordino una birra per te.»

«Non posso bere neanche birra.»

«Intendevo birra analcolica, bambino. O preferisci qualcosa di di­verso?»

«Acqua minerale.»

«Acqua minerale? Obbedisco: Kurt, Mineralwasser per questo bel cava­liere, bitte. Amico mio, sei ortodosso da far schifo.»

«A quanto pare.»

«A quanto pare! Umorista che non sei altro: mi prendi per il culo?»

«Solo se ti fa piacere.»

Scoppiò a ridere sgangheratamente e dovetti ridere anch’io. Cominciai a pensare che, dopotutto, era meglio stare con Claude al Futura Light che da solo nel triste risto­rante del­l’albergo, prima di andarmi ad ad­dormentare in un triste cinema del Zentrum. Mi guardai intorno. La gente era felice e ru­morosa come il mio com­pagno. Or­dinammo insalata e filetto alla gri­glia. C’era una pedana in fondo alla sala. Si accese una luce bluastra. Anche il muro di fondo era tutto da leggere, come la pagina in­grandita di una rivi­sta di graphic design. Sulla pe­dana c’erano un pia­noforte e di­versi stru­menti a per­cus­sione. Da una tenda sbuca­rono quattro musicisti, accolti da un ap­plauso. Il saxofoni­sta e il bassi­sta suona­vano da dio, ma anche gli altri se la cava­vano de­gnamente. Fa­ce­vano jazz dell’ultima corrente, stile universound.

«Ti piace l’universound?», domandò Claude a bocca piena.

«Sì. Mi diverte indovinare gli ingredienti etnici dell’impasto.»

«In questo pezzo, per esempio: cosa riesci a riconoscere?»

«Vediamo un po’: Marocco, folklore bre­tone, un’ombra di cabaret te­desco del XX secolo.»

«Sei un mostro! Io non ci capisco un fico secco. Mi piace la musica ma non ne afferro il senso. Dopo un po’ mi stanco, la testa mi va in fumo.»

«Se vuoi andiamo via subito.»

«Sei pazzo? Tra poco arriva Ingrid.»

«Ingrid chi?»

«Una creatura cupa e meravigliosa. È un delitto venire a Zurigo senza assistere almeno una volta a una performancedi Ingrid!»

«Non ne sapevo niente. Un mito locale, a quanto pare.»

«Ah, ah! A quanto pare! Lucien, Egon o come cavolo ti chiami, sei un topo di fogna. No, Ingrid non è un mito; la conosciamo in pochi. E non canta sempre al Fu­tura. E non sta sempre a Zurigo. È una che si muove: oggi qua, do­mani là. Dipende dai contratti e soprattutto dall’umore. A volte scompare per setti­mane. Ad ogni buon conto, è più fa­cile tro­varla qui che altrove.»

«E allora come fai a sapere che c’è?»

«Gesù, salvami dai fessi. Ho telefonato, no?»

«Non volevi andare al ristorante vietnamita?»

«Neanche per sogno. Sapevo benissimo che non potevi andarci.»

Era matto. Matto e basta. Ma su Ingrid aveva ragione. Quando com­parve sulla scena, l’ambiente si azzittì di colpo. Era la figura più magnetica che avessi mai veduto. Trasmetteva invisibili onde nere tutt’in­torno. Indos­sava un’aderente calzamaglia di cuoio plastificato e non sorrideva neanche per sbaglio. At­taccò con una canzone in tedesco in­ti­tolata Bunker:

«Ci sveglieremo in città di grandi cubi bordeaux,
senza porte e senza finestre,
con intere pareti scorrevoli a un cenno
di telecomandi a raggi infrarossi...»

Cantò una canzone più inquietante dell’altra — in tedesco, in fran­cese, in in­glese — e a ogni refrain mi sentivo più solo. Claude faceva commenti che non ascoltavo. Non vedevo più nessuno al Futura Light, tranne Ingrid. Non sentivo altro che la sua voce e la mia amarezza.

A un certo punto un tizio grande e grosso, con i capelli a spazzola e un anello d’oro infilato nella pelle accanto al so­pracciglio sinistro, si alzò dal suo tavolo e si av­vicinò al nostro. Lo avevo già notato durante la cena. Ogni tanto guardava con insi­stenza nella nostra di­rezione. Senza tanti compli­menti disse a Claude: «Vieni fuori, ti devo par­lare.» Il tono era imperioso. Claude non smise di sorridere. Obiettò che non era il mo­mento, era in com­pa­gnia di un ospite di riguardo. E poi non vo­leva perdersi il nu­mero di In­grid. Per tutta risposta, l’energumeno gli assestò un ra­pido man­rovescio. Ci furono grida e movi­menti scomposti. La bottiglia di cham­pa­gne, per fortuna mezza vuota, finì sul pavimento. Prima che io stesso po­tessi rendermi conto della situazione, Claude fu col­pito di nuovo. Il pugno dello scono­sciuto lo in­ve­stì sul capo, dall’alto, secco e preciso come un colpo di maglio. Sarebbe stato ammazzato di botte lì per lì se al­tri avventori non fos­sero bal­zati in piedi intromettendosi energi­ca­mente. Ingrid in­ter­ruppe la canzone a metà, i suoi accompagnatori smisero di suo­nare, persino il robot che fun­geva da sguattero interruppe le sue faccende in cucina per venire a curiosare in sala, con le mani e gli avambracci grondanti acqua sporca. L’aggres­sore fu messo alla porta da un buttafuori, coadiuvato dal nostro pre­stante ca­meriere e dal diret­tore del Futura in persona. Il lab­bro di Claude san­gui­nava copiosa­mente. Si asciugò col tovagliolo, si mostrò più preoccupato per l’in­tegrità degli occhiali che di sé stesso e si sforzò di sorri­dere nono­stante tutto. Forse era ubriaco, forse no. Però era un sorriso in­sta­bile, direi tremo­lante. Ero stupefatto. Il direttore del club chiese scusa ai pre­senti per l’inci­dente, sotto­li­neando che niente di simile era mai avve­nuto nel suo lo­cale. Claude fu prelevato gen­til­mente dai came­rieri e medi­cato nella toe­lette. Gli ospiti fu­rono rassicurati e pregati di di­menticare l’ac­ca­duto. I musi­ci­sti e In­grid ri­presero l’ul­timo brano dall’inizio.

Claude tornò a tavola con un cerotto sul viso e si fece servire un’altra bottiglia di champagne. Mini­mizzava. Io ero curioso di sapere chi fosse l’as­salitore e perché ce l’a­vesse con lui. Giurò di non averlo mai visto. Gli pro­posi di chiamare la polizia. Re­spinse il suggerimento. Fu un rapido scambio di battute lanciate a voce alta da una parte all’altra del tavolo: la musica era amplificata a livelli assordanti e non era facile intendersi. Chiuse l’argo­mento di­cendomi che non dovevo meravigliarmi: i club di Zu­rigo erano notoriamente pieni di scalmanati. «Ti guardano negli occhi e, se non ti tro­vano simpa­tico, ti fanno a pezzi. Di solito succede dopo i primi due litri di birra.» Ri­demmo e ci la­sciammo riassorbire dalle canzoni di In­grid.

Conclusa la prima parte del recital, con mia enorme sorpresa Ingrid puntò dritta verso di noi. Accese una sigaretta con la fiamma della candela che stava sul tavolo e si sedette. «Povero il mio Claude», disse. «Ti è ancora ri­masto un po’ di champagne? Brindiamo alla tua sicurezza.» Fece un cenno al cameriere più vicino. «Kurt, qui siamo in tre ma la flûte è una sola.»

«Non sapevo che si potesse fumare», disse Claude.

«Non si può, infatti. Ma io posso», rispose lei.

«Lui è un tuo ammiratore», le disse Claude indicandomi, ma lasciò a me il com­pito di completare la presentazione. Non sapevo se dire Egon o Lucien; ero maledet­tamente confuso. Optai per il mio vero nome. Lei mi guardò come da lontano, senza dire niente. Il suo nome era noto a tutti lì dentro, così non do­veva prendersi la briga di pronunciarlo. Provai un po’ di delusione per il suo silenzio; la mia presenza non le faceva né caldo né freddo. Ma quando arrivarono i bicchieri e lei versò da bere anche a me, anzi a me per primo, mi sentii sollevato. C’ero. Mi vedeva. Claude non cessava di scrutare i miei gesti e i miei tic; nes­suna delle mie in­certezze sfuggiva al suo occhio inquisitore. Adesso stava certamente chie­dendosi cosa ne avrei fatto del mio champagne. Avrei bevuto? Non lo sa­pevo nean­ch’io. Si divertiva un mondo; non cercava né di incoraggiarmi né di aiu­tarmi a rinunciare. Stava solo a guardare. Presi il coraggio a due mani e brin­dai con loro. Bevvi e mi piacque da morire. Ma poi, che razza di corag­gio era? Ci voleva più coraggio a resistere. Trovai che cedere fosse più fa­cile, oltre che più gen­tile nei confronti di Ingrid.

Claude fece del suo peggio per guastarmi quel momento. Raccontò che ero aste­mio e che avevo fatto quel sacrificio solo per lei. «Buon per lui», commentò Ingrid con indifferenza. «Dimmi, piuttosto: perché quel tipo ce l’aveva con te?»

«Che ne so! Cose che capitano da queste parti.»

Ingrid non aveva una gran voglia di approfondire. Si accon­tentò della risposta, bevve dell’altro champagne e si alzò. «Ho un secondo turno di mezz’ora, poi sono li­bera. Si va in qualche posto a ballare?»

Claude guardò l’orologio. «Io rientro in albergo, credo di non stare troppo bene. Ti lascio il mio amico, se vuoi.»

Che dovevo fare? Gli chiesi se se la sentiva di tornare in albergo da solo e mi of­frii di accompa­gnarlo. Sperai che rifiutasse: rifiutò. «Tu che fai nella vita?», mi chiese a brucia­pelo Ingrid prima di tor­nare sulla pedana. Restai imbambolato un attimo e ri­sposi: «Il rap­presentante di commercio.»

Adhémar si tolse dai piedi e, per quanto la cosa potesse recarmi sol­lievo, ora mi sentivo senza rete. Come dovevo comportarmi con Ingrid? Non avevo un pro­gramma, non sapevo come muovermi. Non ero bril­lante, mancavo totalmente di spi­rito d’inizia­tiva. Ma lei non aveva bisogno di tutto questo. Era lei a diri­gere le cose. Finì di cantare, indossò un soprabito nero e venne a prelevarmi. Avevo bevuto tutto lo champagne avan­zato e la testa mi girava come una trottola. Mi prese sotto­braccio e mi spinse verso l’u­scita. Fischiò per fermare un taxi. Dopo un quarto d’ora varcammo la so­glia dello Schwarzloch, una sala specializzata in ballabili ré­tro. Il po­sto era ancora più oscuro del Futura Light. Il disc-jockey elettronico — un robot della stessa serie di Mor­phero — era pro­gram­mato per selezionare brani evergreen da un archivio musicale. In­grid mi spiegò che era pos­sibile modificare il pro­gramma con comandi vocali, purché i titoli desi­derati venissero pronun­ciati nell’ap­posito microfono da due voci diverse. Ordinò birra per tutti e due senza nem­meno chie­dere il mio parere e mi offrì una sigaretta. Evitai la si­garetta ma speri­mentai la birra: ero fuso. Talmente fuso che le chiesi se fosse sposata. Invece di rispondere, mi chiese di farla ballare. Suona­vano un lento che avevo già sen­tito milioni di volte. Non avevo mai bal­lato e non sapevo dove mettere i piedi. So­spirò rassegnata e mi guidò con una certa energia. Feci quanto po­tevo per assecondare i suoi movimenti; dovevo essere piut­tosto impac­ciato. Istinti­va­mente la strinsi forte contro di me. Oppose resistenza e sbuffò: «Ti avverto in anticipo: non farti venire strane idee.»

«Che idee?»

«Tipo portarmi a letto o cose del genere. Toglitele dalla testa.»

Forse dovevo uscirmene con una battuta brillante, ma non me la sen­tivo. Avevo la lingua pesante e i riflessi lenti. Me ne stetti zitto e allentai la stretta. Dopo un po’ lei parlò di nuovo.

«Ballare mi distende i nervi. Lo faccio ogni volta che posso. Con il primo che ca­pita.»

«Conosco questo pezzo ma non ricordo il titolo.»

«I’ll Be Seeing You. Una canzone americana di cent’anni fa.»

«Le canzoni che canti le scrivi tu?»

«I testi sono miei. Le musiche sono quasi tutte di un tale che cono­scevo.»

«Che conoscevi? Uno che non vedi più?»

«Uno che è morto, come la maggior parte dell’umanità.»

«Uno che ti stava a cuore?»

«Fai troppe domande. Come hai detto di chiamarti?»

«Lucien. No, Egon. Egon.»

«Vivi a Zurigo?»

«A Milano. Ma viaggio spesso. Ci si potrebbe rivedere, qualche volta.»

«Sarai mica un babymaker, per caso?»

«No. Come ti salta in mente?»

«Così. Patti chiari: se c’è una razza che non mi va a genio è proprio quella. Li detesto. Non voglio avere niente a che fare con nessuno di loro. Nessuno: mi spiego?»

«Non sono uno di quelli. Giuro.»

«Meglio così.»

«Non vuoi proprio dirmi perché l’hai pensato?»

«Niente di preciso. Non reggi l’alcool. Non fumi. Non sai nemmeno come ti chiami.»

«Forse è perché mi fai girare la testa.»

Il pezzo non era ancora finito, ma la voglia di ballare le passò di colpo. «Andiamocene», disse. Così: «Andiamocene» e basta.

La implorai di restare ancora un po’. Cedette. Riprendemmo posto al nostro ta­volo e ricominciò a fumare e bere senza parlare. Però ogni tanto mi guardava, an­che se l’espres­sione era glaciale.

Solo al momento di spegnere la sigaretta mi rivolse di nuovo la parola.

«Fammi un favore», disse. Il robot aveva selezionato dal computer un vecchio ballabile afro­cu­bano: sulla pista le coppie si contorce­vano come fiamme in un camino. «Non ho vo­glia di girarmi. Tu guarda alle mie spalle. Dimmi se vedi qualcuno che conosci.»

Guardai.

Ero perplesso. «No, non c’è nessuno che conosco. Chi dovrei cono­scere? Sono a Zurigo di passaggio, non ho molte relazioni qui.»

«Hai voglia di ballare ancora un po’?», domandò; ma era già in piedi prima della mia risposta. Riusciva a depistarmi continuamente.

Ballammo.

«C’è qualcuno che non vuoi vedere?», azzardai.

«C’è un sacco di gente che non vorrei vedere.»

«E me? Mi rivedresti volentieri, se ricapitassi da queste parti?»

«Non lo so.»

«Posso farti un’altra domanda?»

«Purché non sia cretina.»

«Ti sembro ubriaco?»

Per la prima volta da quando l’avevo vista comparire sulla pedana del Futura, le scappò un sorriso.

Interpretai il suo improvviso buonumore come un messaggio. Sta­vamo diven­tando amici?

La mattina dopo mi svegliai frastornato. Non ricordavo niente della fine della se­rata. Ritrovarmi sano e salvo nel mio letto all’Akzidenz era un miracolo. Dovevo aver bevuto an­cora, dopo le danze: e pa­recchio. Feci una doccia e mi rivestii in fretta e furia per non per­dermi la prima relazione del giorno. Mi ritrovai in tasca una sca­tola di cerini con il logo dello Schwarz­loch. All’interno c’era, scritto a mano, un numero di te­le­fono seguito da una I. In compenso, dai vestiti e dalla camera erano spariti i miei apparecchi elettronici: lo smart e il tab. Controllai il portafoglio: carte di credito e contanti erano al loro posto. Ma senza telefono e senza computer ero smarrito. Chi mi aveva accompagnato in albergo? E perché mi aveva derubato solo di quegli oggetti?

Mi aggirai nella sala dei rinfreschi in cerca di Adhémar. Non c’era. Bevvi due caffè. Chiesi di Claude a un tipo che avevo visto parlare con lui il giorno prima. «È dovuto rien­trare ad Amsterdam», ri­spose. Si chiamava Fox Arp e, secondo il suo badge, faceva parte dello Psychoteam di Am­sterdam. «Lo hanno richia­mato d’ur­genza.»

Nell’intervallo di colazione chiamai Ingrid dal telefono della hall. Si era appena svegliata. Volle sa­pere dov’ero. Stavo per fare il nome dell’Akzidenz, ma mi bloccai in tempo. Mentii: dissi che ero in giro per affari e che chiamavo da una cabina pubblica. Lei odiava i babymaker, e avrebbe potuto scoprire che all’Akzidenz era in corso un convegno che li riguardava. «Perché da una cabina? Non hai un cellulare?». Le risposi che non lo avevo a portata di mano in quel momento. Poi le chiesi come fosse andata a finire la nostra notte di follie. Mi ero ritrovato a letto senza ricordare né come né perché. «Al night dormivi con la testa sul tavolo», disse con una punta di sarcasmo nella voce. «Era tardi, ero stanca e ti ho piantato in asso. Prima o poi si sveglierà, ho pensato.»

«E stasera che fai?», le chiesi. «Sei di turno al club?». Disse che non se la sentiva di cantare quella sera, e che aveva una mezza idea di mandare all’aria l’impegno. Mi chiese dove potesse rintrac­ciarmi: mi avrebbe richiamato prima di sera, con le idee più chiare. «Aspetta un momento». Cercai l’elenco telefonico, lo sfogliai rapida­mente e sparai il numero del Chrono, l’albergo dove scen­devo di solito.

Feci altre due telefonate. La prima per riservare una camera al Chrono. La se­conda alla Genesis di Amsterdam. Chiesi di Claude Adhémar. Dovetti attendere la ri­sposta per almeno quattro minuti e sorbirmi diversi giri di O mein Papa, l’inno ufficiale del network, registrato nella segreteria. Infine una voce femminile mi in­formò che il dot­tor Adhémar era in viaggio e che non sarebbe rien­trato prima di lunedì.

Riempii la valigia, indossai sciarpa e giaccone e mi precipitai al pian­terreno. Chiesi il check-out. L’im­piegato consultò il computer e mi fece cor­tesemente notare che ero prenotato fino a sabato. Inventai una scusa per annullare la pre­notazione. Stavo fir­mando la cedola della carta di credito quando qual­cuno mi si avvi­cinò. Era Fox Arp. «Lucien! Che fa, se ne va an­che lei?» Non ci vo­leva. Mi scostai dal banco pren­den­dolo per un gomito e, con aria di com­pli­cità, gli sussurrai che l’Akzidenz mi met­teva di ma­lu­more. «È de­primente, preferi­sco tra­sferirmi al Chrono. Là mi conoscono, mi sento a casa.» Arp annuì: «Ha ragione. Questo albergo non piace nean­che a me. L’atmosfera è gelida.» Ma non mi mollava: «Tornerà per il conve­gno?». «Vado e vengo», lo rassi­cu­rai. «Vuole che l’accompagni?». «Oh, no! Voglio dire: grazie, non ce n’è alcun biso­gno.»

Me lo tolsi dai piedi con un arrivederci e una brusca virata. Passai ol­tre la porta gi­revole; fuori nevicava di nuovo. Mentre aspettavo il taxi, San­guisuga Fox ri­com­parve al mio fianco. Quella presenza non richiesta mi dava sui nervi. «Non le dà fa­stidio se vengo con lei? Vorrei dare un’oc­chiata al Chrono. Magari cambio albergo an­ch’io.»

Prendemmo il taxi insieme. La neve veniva giù fitta, ma Fox doveva essere un tipo san­guigno. Era l’unico essere umano che circolasse per Zurigo senza cappotto. «Non ha freddo?», gli chiesi. «Così così», rispose. Ma si ve­deva benissimo che era tutto un bri­vido.

Con mio grande dispetto, decise di installarsi al Chrono anche lui. Poi tornammo in­sieme all’Akzidenz per seguire i lavori del pomeriggio. Era di turno una tavola ro­tonda. Giu­risti e filosofi discutevano di bioetica. Le ban­che del seme erano state messe al bando dopo decenni di scan­dali sanitari e di duri at­tacchi alla fe­condazione artifi­ciale. Il babymaking suscitava pole­miche al­trettanto bol­lenti, ma trattandosi di una pratica naturale la sua le­gittimità sembrava fuori discus­sione. I sostenitori più convinti gio­cavano la carta della soprav­vivenza della specie. Dire stop al babymaking era come dare via libera all’e­stinzione dell’homo sapiens.

Dopo la tavola rotonda, uno specialista americano di immunologia in­trattenne punti­gliosamente lo stanco uditorio sugli sviluppi di V-21a, V-21b e V-21c, la famiglia di virus che aveva soppiantato il vecchio e di­menticato HIV negli incubi di tutto il mondo. Fra uno sbadiglio e l’altro, presi diligenti ap­punti per il dot­tor Ferrari. Dovetti usare carta e matita, due strumenti scolastici ai quali non ero più abituato.

Nei brevi incontri di quei giorni con la signora Albers, non feci che pensare in­ten­samente a Ingrid.

La rividi tutte le sere, fino all’ultimo giorno del convegno. Non c’e­rano grandi con­versazioni fra noi. Misurava le parole col bilan­cino, e nean­ch’io ero molto ciarliero. Ma mi faceva bene stare con lei. Be­vevo un paio di birre al Futura per sentirla cantare, poi mangiavamo qualcosa insieme e infine andavamo allo Schwarzloch per i soliti quattro salti. Il sabato sera — la mia ultima sera a Zurigo — do­vette accorgersi della mia malinco­nia. Quando a mezzanotte l’accompagnai a casa, m’invitò a salire. Accettai con entusiasmo. «Ma non farti illusioni», precisò. «Niente sesso. Al mas­simo un goccio di whisky.» Ero de­luso, ma era meglio di niente.

© Pasquale Barbella

(1 - continua)

Gli ultimi padri. II

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II.

Passai la domenica chiuso in casa a Milano. Non feci altro che dormire e giocare ai vi­deogame. C’era nebbia fuori e dentro di me. Chiamai più volte Ingrid senza suc­cesso: dovetti accontentarmi della sua voce regi­strata sulla segreteria telefonica. Bevvi tutta la birra che mi andò di bere e stramaledissi il mio lavoro e il mio destino.

Lunedì mattina c’era aria di burrasca alla Genesis. Persino i robot ce l’avevano con me. Morphero mi venne incontro lungo il corridoio, bilan­cian­dosi maldestramente sulle articolazioni meccaniche e spostando a pic­coli scatti le videocamere rotanti per indi­viduare gli ostacoli e calcolare le di­stanze. Andava ripetendo os­sessivamente il jingle campio­nato (il solito O mein Papa), per indicarmi che c’era un messaggio sul suo visualizzatore frontale: «Egon con ur­genza da Marti.»

Aura aveva una faccia da funerale. «L’hai fatta grossa, ragazzo. Il capo ti vuole par­lare, e subito.»

«E tu, hai niente da dirmi?»

«Cosa vuoi che ti dica? Sei riuscito a commettere in un colpo solo un miliardo di infra­zioni. Al­cool. Ore pic­cole. Donne. Trasferimenti da un albergo all’al­tro. Bugie. E chissà quant’altro.»

Era depressa. L’avevo tradita: proprio io, il predi­letto. Non riu­sciva a nascon­dere il magone. Ma si riscosse, e riconquistò di colpo il suo piglio di­ri­genziale. «Sono le nove. Her­nández ti aspetta nel suo uffi­cio. Se non ti butta fuori a calci, cosa che meri­tere­sti ampia­mente, fatti ve­dere al progress delle nove e mezzo.»

Mi allontanai a testa bassa. Ero nero. Avrei volentieri strangolato Adhémar, Arp e tutte le spie dell’universo.

Hernández era al telefono. Mi lanciò un’occhiata neutra e continuò la conversa­zione, senza invitarmi a sedere. Me ne stetti impalato davanti alla scrivania ad aspet­tare il mo­mento di fuoco, come un bambino in attesa del castigo.

A un certo punto disse al telefono qualcosa che mi lasciò di stucco: «Mi sembra una solu­zione imprati­cabile. Sto per licenziarlo. Fra cin­que mi­nuti sarà un ex agente della Genesis.»

Parlava di me?

Parlava di me.

«Ma non c’è una soluzione alternativa? Te l’ho detto: il ragazzo è inaf­fidabile.» Mi lanciò un’altra occhiata mentre pronunciava «ragazzo».

«Ho capito. Vedrò quello che posso fare. Maledizione.»

Giù l’apparecchio, come se volesse frantumarlo. Mi squadrò con gli oc­chi pic­coli pic­coli infossati nel faccione.

«Alexandris, lei è uno stronzo.»

«Non ho fatto niente di male.»

«Stia zitto. O abbia almeno il coraggio di ammettere che ha preso una sbandata. Grossa.»

«Sono licenziato?»

Colpì forte il tavolo col palmo di una mano. «Chiuda il becco! L’unico autoriz­zato a parlare, qui dentro, sono io!»

Tenni il becco chiuso.

Citofonò alla segretaria. «Mi mandi Marti. Immediata­mente.»

Ci fronteggiammo cupi e in silenzio finché la convocata non varcò la so­glia.

«Aura, toglimi dai piedi questo buffone. Affibbiagli il nome della settimana: Stronzo può an­dare benis­simo. E spediscilo ad Amsterdam di corsa. Hanno trovato una defi­ciente che muore dalla voglia di scopar­selo. O lui o nes­suno.»

Aura era sollevata, anche se non lo dava a vedere. Mi ordinò di uscire e chiudere la porta. Rimase nell’ufficio di Hernández.

Per ingannare l’attesa presi un po’ in giro Morphero. «Morphero con urgenza da Lukas. Morphero con urgenza da Lukas.» Il robot elaborò il mes­saggio, fece dietrofront e si allon­tanò coi suoi passetti da scemo. Sapevo che Lukas era in vacanza, ma Morphero non aveva abbastanza imma­ginazione per distin­guere un comando serio da uno scherzo.

Finalmente ricomparve Aura. Senza guardarmi si affrettò verso la sua stanza, fa­cendomi cenno di se­guirla.

Si sedette e, sempre senza guardarmi, prese a scrivere appunti e a par­larmi si­mul­tane­amente. «Questa settimana ti chiami Johann. Ficcatelo bene in testa. Johann. Mis­sione spe­ciale ad Amsterdam.»

«Che devo fare?»

«Sostituire un certo Étienne Ethan. Pare che sia scomparso dalla circo­lazione. Lo stanno cercando da una ventina di giorni, inutilmente.»

«Perché proprio io?»

«Perché hai una fortuna sfacciata. Questo Ethan ti ha salvato il culo, ragazzo. Tu e lui siete gli unici agenti del pianeta che corrispondano al brie­fing.»

«Se si tratta di prestazioni particolari, non ci sto.»

«Non fare lo spiritoso. Ringrazia la sorte, invece. La signora van Helde esige un partner biologicamente simile al marito. Ha fornito dati antropometrici, radiografie e analisi del san­gue del signor van Helde e i numeri corrispondono quasi perfettamente ai tuoi e a quelli di Ethan.»

«Per un lavoruccio accurato sarebbe stato più utile confrontare i codici genetici.»

«Piantala con le burle. Sai bene che non si scherza con le sequenze del DNA. Per noi e per i nostri utenti sono rivelazioni tabù.»

«Questo Ethan è di Amsterdam?»

«Nossignore. Risulta nel catalogo di Berlino. Ma a Berlino non sanno niente di lui. Ac­cidenti a te: non sono fatti che ti riguardano.»

«Grazie.»

«Non ringraziarmi. Non sono stata io a tirarti fuori dai guai.»

«Pensi che Hernández mi avrebbe licenziato sul serio?»

«Com’è vero che esisti. Passa in segreteria per il volo e l’alloggio. E at­tento ai passi falsi.»

«Ci saranno ancora quell’Adhémar e quell’Arp a spiarmi?»

«Non ne so niente. Alza i tacchi, per favore. E fa’ in modo di non darmi un altro dispia­cere.»

«Ricevuto. Quanti appuntamenti ho con la signora van Helde?»

«Non lo so. Chiedi al caposervizio di Amsterdam e telefonami. Ho bi­sogno di conoscere con esat­tezza impegni e spostamenti del nostro perso­nale.»

«Come faccio a telefonarti? Ho perso il cellulare.»

«Bravo, ci mancava anche questa. Usa gli apparecchi pubblici.»

Amsterdam!

Non vedevo l’ora di mettere le mani su Claude e Sanguisuga Fox. Era il caso a portarmi sul luogo della vendetta? O in quella trasferta c’era il loro zampino? Più ci pensavo e meno ne venivo a capo.

Era tutto così balzano. Claude mi aveva indotto, direttamente o indi­ret­tamente, alle trasgressioni più aborrite dal network. Non ero andato a letto con Ingrid solo per­ché lei me l’aveva impedito. Che ra­gione c’era di in­durmi in errore per poi denun­ciarmi? E chi era il ti­zio che voleva man­giarsi vivo Adhémar al Futura Light? E per­ché Adhémar se n’era andato in fretta e furia: c’era qualche relazione con l’episodio del club? Aveva paura di quel tipo? E come mai non si faceva trovare? E qual era l’esatto ruolo di Arp in tutta la storia? Che fine avevano fatto i miei oggetti personali?

Fra tutti quei misteri, l’unico dato piacevole era la scoperta di Ingrid. Me la sognavo come se fosse la donna della mia vita, e mi sentivo perso. Le avevo mentito. Desideravo rivederla e trovare il coraggio di dirle tutto di me. La verità. Ma neanche lei doveva es­sere un gran modello di sincerità. Eravamo pari: non sapevo di lei più di quanto lei sa­pesse di me. Perché era così guar­dinga allo Schwarzloch? Da chi temeva di essere os­ser­vata o seguita? Da Claude? Da Arp? Doveva aver visto uno di loro. Uno di loro forse era lì: le dela­zioni sul mio conto erano troppo circostanziate. «Ore piccole», aveva detto Aura. Qualcuno mi aveva tenuto d’occhio tutto il tempo? Chi altri sapeva, in quella sala da ballo, che dormivo all’Akzidenz?

Ero deciso a rivedere Ingrid, a ogni costo. Magari facendo un salto a Zu­rigo nel weekend. Ma come po­tevo resistere senza di lei una settimana in­tera?

Mi avevano fissato ben quattro appuntamenti con la signora van Helde, ed ero stato op­zionato per eventuali repliche nei suoi periodi fecondi finché non fosse rima­sta in stato inte­ressante. Voleva proprio un figlio da me. O da Étienne Ethan, nel caso che il latitante fosse rispuntato all’oriz­zonte.

Dopo le istruzioni ricevute alla Genesis, telefonai ad Aura Marti. «Ne ho per un pezzo. Mercoledì, giovedì, venerdì e sabato. Spero di farcela.»

«Chiedi una delle nuove tute elettriche per ogni evenienza. Ma soprat­tutto non fare scemenze in giro. Lo sai che non puoi permetterti sregola­tezze.»

Riattaccai. Chiesi a una segretaria di poter parlare con Adhémar.

«È a Berlino, credo.»

Chiesi di Fox Arp.

Mi accolse a braccia aperte. «Lucien! Che sorpresa vederti qui!»

«Chiamami Johann. Non ci davamo del lei?»

«Ma adesso sei nel mio regno. Amici?»

«Amici un cazzo. Odio le spie.»

«Hai ragione: anch’io. Non è il mio mestiere. Non lo so fare.»

«Te la cavi magnificamente, invece. Per poco non mi hanno sbattuto fuori dal sistema.»

«Mi dispiace. Davvero. Prendi un caffè con me?»

«Con tutti tranne che con te.»

«È stato per fare un favore a Claude. Mi ha tanto raccomandato di te­nerti d’oc­chio. Per il tuo bene.»

«Siete due angeli. Due angeli custodi.»

«Via, non prendertela. Mi farò perdonare, vedrai. Ti porterò nei posti più carini della città.»

«No, grazie. Niente posti carini. E soprattutto non con te, né con Claude. A pro­posito: cosa è andato a fare a Berlino?»

«A cercare un certo Ethan. Un ragazzaccio che quando cambia indirizzo non av­verte nes­suno.»

«E non lo ha ancora trovato? Mi stupisce. Un ficcanaso così zelante.»

«Non dovresti giudicarlo così. Agisce a fin di bene.»

«Te l’ha detto che lo hanno picchiato in quel club?»

Cadde dalle nuvole. «Picchiato? Chi lo ha picchiato?»

«Un gentiluomo di cento chili con l’orecchino su una tempia.»

Diventò color cenere. «Ti dispiace chiudere la porta?», sussurrò. Mi chiusi la porta alle spalle. Da un cassetto della scrivania tirò fuori una copia del Posteuro Daily. Lo aprì alle pa­gine di cronaca e mi mostrò una foto. «Uno così?»

Guardai bene. Era proprio lui, il simpaticone del Futura Light.

Si chiamava Max Stoltz. Il suo cadavere era stato ripescato nell’Aare fra So­lothurn e Bü­ren, poco più di trenta chilometri a nord di Berna.

***

Con le mani in tasca camminavo lungo i canali, osservando sulla su­perficie del­l’acqua i riflessi delle vecchie case rossobrune. L’inverno era umido e mite: così mite che l’acqua non si era ghiacciata quell’anno, procu­rando qualche delusione ai maniaci del pattinaggio. Battelli, chiatte e bar­coni si muovevano al rallenta­tore. Il tempo aveva scelto Amsterdam per la­sciarsi andare pigra­mente alla deriva. Ma erano ozi solo ap­parenti: c’era un movi­mento di furgoni e biciclette dappertutto, e i mercatini erano va­rio­pinti e affollati come a primavera. Cinque o sei ragaz­zini si rincorrevano su un ponte. Mi doman­davo quanti fossero stati generati con la partecipazione di un pa­dre a paga­mento. Mi sentivo ter­ri­bilmente vuoto. Mi era stato affidato il com­pito di con­tribuire alla ripopolazione del mondo, ma nessuno si occupava veramente di me. Ero solo. Avevo poco da fare, e quel poco che avevo da fare non mi dava in cambio un granché, a parte il de­naro. Mi attaccavo al pensiero di Ingrid: fan­tasticavo. Forse In­grid era una possibilità. Ma era una possibilità re­mota. Era più chiusa e inac­cessibile di me. È vero, mi aveva dedicato un po’ del suo tempo. Chissà perché mi aveva dato spago; forse ero per lei una com­pagnia come un’altra. Me ne avrebbe dato ancora? O mi aveva già dimenticato?

Decisi di provare a richiamarla da un posto pubblico. Non avevo vo­luto farlo dalla fo­resteria dove alloggiavo. Giona, uno che lavo­rava con me a Milano e che ne fa­ceva di tutti i colori senza farsi beccare come il sotto­scritto, una volta mi aveva messo in guardia dicendomi che i telefoni delle foresterie della Genesis erano tutti sotto con­trollo. Un piccolo café sull’He­rengracht era quello che ci voleva per bere qualcosa di caldo e telefonare a In­grid. Avevo il sospetto di essere seguito. Non da Arp, né da uno dei soliti occhialuti in dop­piopetto blu. Era una biondina esile e piuttosto in­signifi­cante: impermea­bile viola, berretto plastificato dello stesso colore. Vediamo se entra anche lei, mi dissi varcando la so­glia del bar. Sedetti a un tavo­lino d’angolo e ordinai una cioccolata calda. C’erano pochi avven­tori. Le pareti rivestite di legno, il parquet consunto, le sedie old Americae le lampade verdi sospese sopra il bancone sembravano ignorare del tutto gli umori e i clamori del ventunesimo secolo. Dopo pochi minuti, la ragazza dall’im­permeabile viola si fece viva. Andò a piazzarsi due tavolini più in là, in una posizione da cui non era diffi­cile controllarmi senza dare nell’occhio, e finse di immergersi nella lettura di un libro. Si fece servire un bicchiere di latte alla menta. La osservai per cin­que mi­nuti. Do­podiché mi alzai, presi la mia cioccolata, attraversai lo spazio che ci se­parava e an­dai a se­dermi, con molta faccia tosta, al suo tavolino. Non era poi così ano­nima: i tratti erano delicati e graziosi. Era una di quelle bellezze poco vi­stose, che si ri­velano a poco a poco soltanto a chi sa scrutare oltre le apparenze.

«L’ho vista tutta sola e mi sono detto: con questo freddo, forse non le dispiacerà di scal­darsi con un buon whisky.»

«Ho già il mio latte alla menta. E lei la sua cioccolata.»

«Posso sedermi?»

«Si è già seduto, temo.»

«Davvero non ha voglia di qualcosa di forte? Non so: un jenever al limone, op­pure un advokaat.»

«L’alcool è sempre sconsigliabile. Di mattina, poi, è veleno allo stato puro.»

«Di solito mi fanno pedinare da maschietti dall’aspetto serio e noioso. Lei è un’ecce­zione inaspet­tata.»

Si mosse un po’ sulla sedia. Era chiaramente a disagio. Chiuse il libro che stava leggendo: Sportswriter del vecchio Richard Ford, uno dei miei classici preferiti.

«Desidero soltanto prendermi cura di lei.»

«Ne sono onorato. Che tipo di cura?»

«Evitarle di farsi del male. Per esempio bevendo gli aperitivi sbagliati.»

«È Fox Arp che la manda?»

«No, era stabilito nel progress. Semplice routine.»

«Come si chiama?»

«Francesca.»

«Mi tolga una curiosità, Francesca. Com’è che per quattordici mesi nes­suno si è accorto di me e da una setti­mana, all’improvviso, non posso più muovere un passo senza tro­varmi un santo protet­tore tra i piedi?»

«Si sbaglia, signor Johann. Il fatto è che ci si accorge di essere osservati solo quando si desidera commettere qualche irregolarità.»

Parlava come una maestrina. Non era il mio tipo, ma mi faceva venir voglia di ba­ciarla. Così, tanto per smeccanizzarla.

«Sta cercando di dirmi che agli scrutatori della Genesis non è sfuggita nessuna delle mie ultime tremila pipì?»

«La prego, signor Johann.»

«Mi risponda, se può», incalzai.

«Ogni agente ha diritto a un regolare piano di protezione. Anche lei, signor Johann. Mi sono già occupata di lei in occasione di altre sue visite ad Amsterdam.»

«Non ci credo. E non mi chiami signor Johann, suona stupido.»

«L’anno scorso ero sempre seduta dietro di lei quando andava al ci­nema. Vuole che le ri­cordi i titoli dei film?»

«Mi risparmi le sue memorie, dolcezza. Mi commuovo facilmente.»

«Lei passeggia sempre molto, signor... Mi scusi.»

Aveva dato un altro sorso al suo latte color turchese e poi aveva abbas­sato lo sguardo.

«Lasci perdere i nomi d’arte. Mi chiami Egon e basta, senza signor. Se non è con­trario al regolamento può anche darmi del tu.»

«Non è contrario al regolamento, ma preferisco continuare a darle del lei, se non la of­fende. Lei mi intimidisce un po’.»

«E che altro ha notato di me, oltre al fatto che la intimidisco e che mi piace fare il tu­rista lungo i canali?»

«Ho notato che lei è una persona perbene, signor Egon.»

«Egon: niente signor.  Perbene in che senso?»

«Non ho mai avuto il dispiacere di dover segnalare suoi comportamenti disdicevoli nei miei rapporti alla direzione. Gliene sono infinitamente grata.»

«Ci sono colleghi che la costringono a scrivere storie più eccitanti?»

«Eccitanti non direi. Le solite scappatelle, se posso chiamarle così.»

«Di che scappatelle si tratta?»

«Niente di particolare.»

«Si è mai occupata di Étienne Ethan?»

«Non ho avuto il piacere di conoscerlo.»

«Dove si è cacciato? La signora van Helde avrebbe fatto carte false per una svel­tina con lui.»

Arrossì. Ripose Richard Ford nella borsetta e fece per alzarsi. Le presi un braccio e la co­strinsi a sedersi di nuovo. La sua voce diventò implorante.

«La prego, signor... La prego, Egon, il suo linguaggio mi imbarazza. E poi non dovrei star qui a parlare con lei, capisce? Mi rimuoveranno dal­l’in­carico. Dovrà farsi proteggere da altre persone, io non sono più affida­bile.»

«Chiedo scusa. Cosa sa di questo Ethan?»

«Ma niente.»

«Cosa sa dirmi di lui?», insistetti avvicinando il volto al suo e guar­dandola negli occhi tenera­mente.

«Perché lo vuol sapere?»

«Sono curioso.»

«Nel video sembra un ragazzo a posto. Carino. Capelli corti, occhi az­zurri, espres­sione gentile. Non so dirle altro.»

«Si sforzi», sussurrai avvicinandomi di più. I rari avventori se n’erano andati. La ca­meriera ci voltava le spalle. D’impulso le posi una mano dietro la nuca, la attirai contro di me e la baciai appassiona­tamente sulle lab­bra. Cercò di divincolarsi. Trat­tenni a lungo lei e il respiro, poi la­sciai an­dare la presa. Era color fiamma. Si guardò in­torno in preda a una profonda agita­zione.

«Non doveva farlo, signor Egon. Non doveva.»

«Ormai è fatta. Dimentichi.»

Stava quasi per mettersi a piangere. Sperando di farla sentire meglio, mi lasciai an­dare a una con­fessione: «Lo sa, Francesca? Questo è il mio primo ba­cio da sette anni a questa parte.»

Evitava il mio sguardo. Era ostile e confusa. A un mio cenno, la came­riera arrivò con il conto. Pagai per tutti e due.

Nell’alzarsi disse a bassa voce, come se si sentisse intimamente colpe­vole: «Dovrò scri­vere tutto nel rapporto.»

«Tutto cosa? Ho commesso qualche imprudenza? Ho bevuto solo una ciocco­lata.»

«Dovrò riportare che c’è stata una conversazione fra noi. Che lei si è accorto della mia sorve­glianza.»

«Scriverà anche che l’ho baciata?»

Abbassò ancora di più la voce. Tutta la mestizia dell’inverno si era con­densata dentro di lei. «Dovrò fare il mio dovere. Mi costerà il posto.»

«Via, Francesca. Non è necessario entrare nei dettagli. E non deve cor­rere rischi per colpa mia. Vo­levo solo sentire cosa si prova a baciare una ra­gazza: era una sensa­zione che avevo dimenticato.»

«Non scherzi su queste cose.»

«Oh, c’è poco da scherzare. Ha mai provato a baciare qualcuno con una Silent Face in­collata sul viso? È impossibile, glielo assicuro.»

«Addio, signor Egon.»

«Arrivederci.» L’accompagnai sulla soglia e si allontanò come un cane bastonato. Rien­trai nel caffè per chiamare Ingrid.

Al telefono era più cupa del solito. La sua voce era velluto nero. Era già mezzo­giorno, ma non doveva essersi svegliata da molto.

«Ah, sei tu», mormorò. Non sembrava sorpresa. Avrei pagato qualun­que cifra per susci­tare in lei una reazione più calorosa.

«Sono ad Amsterdam. Ho una mezza idea di raggiungerti a Zurigo do­menica. Se non hai altri impe­gni.»

«Che ci fai ad Amsterdam?»

Si sentiva che era una domanda come un’altra. Il tono era indifferente. Ma tro­vavo sen­suale persino la sua indifferenza.

«I soliti affari barbosi. Dicevo che verrei volentieri a Zurigo, se ti fa pia­cere.»

«Non venire a Zurigo. È un mortorio. Comincio a odiare questa città.»

La possibilità di rivederla stava andando a farsi friggere. Ma, con mia meravi­glia, ag­giunse: «Vengo io dalle tue parti. Sei mai stato ad Haarlem? Potremmo vederci do­menica al museo Frans Hals. Aprono all’una in punto.»

Anche accecato e mummificato con la Silent Face, percepivo nitida­mente che la signora van Helde mi subiva con un sentimento di orrore. Non c’era la minima collabo­razione. Era immobile come il legno, ge­lida come metallo ghiacciato: tanto da farmi sentire un necrofilo. La sua inerzia stava mettendo a dura prova la mia effi­cienza professionale. E dire che avevo rifiutato la tuta elettrica: applicata al sesso, la tecnologia mi spa­ventava. Temevo di rimetterci la pelle per un cortocircuito: e il re­parto cli­nico della Genesis, almeno per i miei gusti, non era il posto più accogliente per congedarsi dall’esistenza.

Mi concentrai un po’ su Ingrid, un po’ sul bacio strappato a Francesca. Il buio for­zato della situazione aveva almeno questo di buono: che potevi dare sfogo alla fan­ta­sia, farla di­vagare liberamente. Uscii da quell’in­con­tro come da una dimensione sur­reale. Metà incubo, metà sogno. Metà do­lore, metà piacere. E mi sentivo dimezzato an­ch’io: il corpo da una parte, la co­scienza dall’altra. Johann di qua, Egon di là.

La signora svanì in un silenzio ancora più notturno di quello che ci aveva tenuti insieme. Se ne andò e indugiai sul letto più a lungo che potei, senza neanche to­gliermi la maschera az­zurra. Non avevo nessun desiderio di alzarmi, nessun deside­rio di niente. Ignorai gli inviti della voce registrata a riprendere la mia libertà. L’unica libertà che mi pre­meva era star­mene lì immobile, nell’oscurità più profonda, a sfor­zarmi di im­maginare un futuro diverso: una donna da poter baciare, da poter guar­dare, con cui uscire o stare in casa secondo l’estro del momento. Ingrid: ma una Ingrid felice di esi­stere, una Ingrid dal sorriso più facile e aperto, una donna da gui­dare e che sa­pesse guidarmi, darmi consigli e idee, farmi pro­vare emozioni, aiu­tarmi a trovare nella vita qualche significato, qualche certezza.

***

Chiesi alla centralinista di chiamare la Genesis di Berlino e di passarmi Claude.

«Il dottor Adhémar non è più a Berlino», rispose senza smettere di scrivere al computer.

«Mi dica dov’è, allora.»

«Non saprei.»

Andai a bussare alla porta di Fox Arp. Gli chiesi a bruciapelo dove fosse finito Claude Adhémar.

«È in viaggio per Chicago: dovrebbe essere lì prima di sera. C’è qual­cosa che vuoi chiedergli?»

«Solo sentire come sta. Da Zurigo è schizzato via senza nemmeno sa­lutarmi.»

«Se si fa vivo, riferirò.»

«Che voleva quello Stoltz da lui?»

«Non ne ho idea.»

Sembravano tutti indaffarati. E tutti reticenti. Nemmeno Fox Arp mo­strava più il mi­nimo segno di interesse nei miei confronti. Ero nessuno. Più nessuno che mai, se così si può dire.

Max Stoltz, stando alla scarna nota di cronaca del Posteuro, era impie­gato alla Weltbi­bliothek di Berna. Abitava da solo in uno chalet nei pressi di Burgdorf. Nessun precedente penale. Prima di gettarlo nelle ac­que dell’Aare, gli avevano spap­polato il polmone sinistro con una Glaser Safety Slug: devastante cartuccia «a frattura intrasomatica», costituita da un proiettile di zinco ripieno di pallini vogliosi di far scempio. Il colpo era par­tito a distanza ravvicinata da una 38 Special. La stampa federale non era più tornata sulla notizia nei giorni succes­sivi al ri­trova­mento. Pensai che, robusto e violento com’era, Stoltz do­vesse co­no­scere l’aggressore e fi­dar­sene al punto di farsi cogliere di sorpresa. La sua sorte aveva qualcosa a che fare con Claude? Mi sforzai di ricordare se la sera che l’a­vevo visto al Futura Light Stoltz fosse solo o in compagnia. Il lo­cale era affollato e lui stava seduto a un tavolo lungo, di quelli che ven­gono oc­cupati anche da avventori che non si conoscono tra loro fino all’e­sauri­mento dei po­sti di­sponi­bili. Quando era stato messo alla porta, nes­suno lo aveva difeso o se­guìto.

Rimuginavo su Stoltz, sul suo destino e sugli eventi di quegli ultimi giorni nella penom­bra di un sog­giorno in miniatura, al terzo piano di una casa stretta, antica e leg­germente incli­nata sul Singel. Si diceva che gli appar­tamenti destinati dalla Genesis al­l’alloggio degli agenti di passaggio fossero stati abitati, in passato, da prostitute eccen­triche, use a mostrarsi nude ai ve­tri delle finestre. Mi sentivo un po’ nudo an­ch’io, e non del tutto fuori luogo in quel­l’angolo di mondo dove il tempo aveva deciso di assopirsi. Gli stessi arredi della casa facevano pensare alla storia, più che al pre­sente. Logore tap­pezzerie fiamminghe, lam­pade finto-liberty, mobili decrepiti e in­vasi dai tarli. Era però un posticino caldo, in tutti i sensi. Di quelli dove uno si sente prov­viso­riamente al sicuro. Protetto dal legno, dai canali, dalle muffe del pas­sato. La radio tra­smet­teva a basso volume una vecchia ballata per piano­forte: malinconia pura, distil­lata da dita che conoscevano l’arte di spezzarti il cuore.

Bussarono alla porta, sommessamente. Trasalii. Chi poteva cercarmi? Schiusi l’uscio con un lieve senso di apprensione. Era Francesca, con l’indice sulle labbra: mi faceva segno di tacere. Spalancai la porta sollevato e mi feci da parte per lasciarla en­trare; ma lei mi esortò a uscire, sempre a gesti. Era guardinga, come lo era stata al caffè; era guardinga ventiquat­tr’ore su venti­quattro. Mi buttai sulle spalle il giaccone e la seguii giù per le scale, aggiun­gendo il mio silenzio al suo.

Lungo il canale si spiegò. «Spero di non averla disturbata. È questione di minuti. Ho qualche confi­denza da farle, ma è più prudente a cielo a­perto.»

Giona mi aveva parlato di telefoni sotto controllo. C’erano anche dei microfoni nasco­sti? Lo chiesi a Francesca.

«Non si sa mai», si limitò a rispondere. E dopo un po’: «Non so se fac­cio bene. Anzi sono sicura di no.»

Stavo sulle spine, ma non le forzai la mano. Attesi pazientemente che trovasse il corag­gio di aprirsi. Ero certo che l’avrebbe fatto: aveva già osato abbastanza, dopo­tutto.

«Ho pensato che le stesse a cuore quella faccenda di Étienne Ethan. Così mi sono detta: forse non c’è niente di male se gliene parlo.»

Aveva proprio bisogno di un incoraggiamento. Un’auto sfrecciò a due passi da lei; istin­tivamente la trassi accanto a me sul marciapiede, e non staccai il mio brac­cio dal suo. Ai passanti che ci in­crociavano appari­vamo forse come una tran­quilla coppia di fi­danzati, o di sposi freschi in viaggio di nozze nella città dei so­gni.

Quel contatto semplice e tutto sommato spontaneo la rinfrancò un poco. «La sto­ria è co­minciata alla Genesis di San Francisco qualche tempo fa», esordì.

Raccontò che un’impiegata addetta agli archivi video di quella sede aveva rico­no­sciuto, in Ethan, un’altra persona. Doveva esserci un errore di registrazione, dal mo­mento che l’uomo del provino non era affatto Étienne Ethan ma tale Vernon Ray, che lei aveva conosciuto casualmente a Chicago. Aveva segnalato l’errore al suo direttore.

«Continui», esortai con dolcezza.

«La Genesis di San Francisco non aveva mai avuto niente a che fare né con Étienne Ethan, né con Ver­non Ray. Entrambi erano localmente degli emeriti scono­sciuti, come per cia­scuno di noi la maggior parte degli agenti che affollano il nostro data­base.»

«Errori di questo genere possono sempre capitare», dissi per liberarla da quella tensione esagerata. «Ogni giorno c’è un viavai di informazioni e aggiornamenti che si incrociano lungo le linee di comunica­zione del network. Gli operatori sono centinaia, e i lavativi non mancano. Può succe­dere che qualche sottotitolo vada a finire, per di­stra­zione, sotto le im­magini sbagliate; e che l’errore si propaghi in tempo reale fra tutte le sedi del cir­cuito, installandosi nel traffico dei dati finché non arrivi, casual­mente, la prima richiesta di prestazioni.»

«È andata proprio così. Nessuno aveva dato peso alla cosa finché la si­gnora van Helde, fornendo un identikit del partner ideale, non ha costretto il computer a ri­met­tere in pi­sta Ethan, o Vernon Ray, o chi per lui.»

«Procediamo con ordine. Ha detto che nessuno aveva dato peso alla cosa. C’e­rano altri a conoscenza dell’errore?»

«Praticamente i vertici di tutte le sedi Genesis del mondo. Il direttore di San Francisco aveva pron­tamente avvertito via mail i col­leghi del network, per indurre chiunque conoscesse Vernon Ray o il vero Ethan a correggere i dati.»

«La ricerca aveva dato dei frutti?»

«Da Chicago erano arrivate notizie circostanziate su Vernon Ray. Con­fermavano che l’uomo del provino era inequivocabilmente Ray, e non Étienne Ethan. Di più: so­stenevano che Vernon Ray doveva es­sere elimi­nato definitivamente dal database.»

«E perché mai?»

«Perché è morto nel ’50 in un incidente aereo, prima ancora di co­min­ciare la pro­fes­sione. Era stato appena assunto a Chi­cago, ma non aveva an­cora rice­vuto nessun incarico. Non ne aveva avuto il tempo.»

«E il vero Ethan? Non è risultato nulla che potesse essere utile a iden­tificarlo cor­ret­tamente?»

«Può darsi che il dottor Adhémar ne sappia qualcosa. Le mie informa­zioni si fermano qui.»

«Perché Adhémar?»

«Credo che August van der Voort, il nostro direttore generale, gli abbia affidato il compito di rin­tracciare Ethan.»

«Se questo Ethan esiste, e se è un babymaker della Genesis, non do­vrebbe essere così dif­ficile pescarlo.»

«È quello che penso anch’io.»

«Allora i casi sono due. O Étienne Ethan non esiste...»

«Oppure qualche filiale ha deciso, per ragioni che igno­riamo, di non diffondere infor­mazioni sul suo conto.»

Restai sorpreso per la sua perspicacia. Dietro quell’aria timida e fra­gile, faceva ruotare i motori della fantasia a velocità apprezzabile. Comin­ciavo a credere che Fran­ce­sca si appassionasse a quel gioco d’indagine men­tale almeno quanto me, se non di più.

«Francesca, lei è semplicemente straordinaria. Ma perché pensa che ci sia del lo­sco in questa sto­ria?»

«Losco?», mormorò smarrita. Mi resi conto di aver posto una domanda idiota; ri­schiavo di perdere il contatto che eravamo riusciti a stabilire tra noi. «Non credo di aver accennato a niente di losco.»

«Mi correggo: intendevo dire che forse è una faccenda più sciocca che misteriosa. Ma lei me ne parla in modo così... così cauto.»

«È senz’altro una storia sciocca, e non c’è niente di misterioso. Tant’è vero che tutti i di­rettori di fi­liale sono stati avvertiti dello scambio di per­sona. Un segreto con­diviso tra cento persone non è più un se­greto.»

«E del resto anche lei — che non è un direttore — ne è informata.»

«Ormai la questione di Étienne Ethan e Vernon Ray è quasi di domi­nio pubblico. Ogni direttore ne avrà parlato con alcuni dei suoi dirigenti, o anche dei semplici con­troller, come ha fatto il signor van der Voort, allo scopo di raccogliere testimonianze utili alla soluzione del problema.»

«Ragioniamo. Claude Adhémar deve aver scoperto qualcosa a Zurigo... Lei ha freddo, Francesca. Non conosce un posto tranquillo, dove si possa mandar giù una zuppa di piselli e una buona boeren omelet senza incro­ciare nessun rompiscatole della ditta?»

Avanzò una proposta audace. «Ho una macchina a due passi da qui. Po­tremmo fare un salto fuori città, mangiare qualcosa in fretta e rien­trare prima delle dieci. A patto che ciascuno pa­ghi per sé. A Zaandam cono­sco una birreria senza pretese, dove si pre­parano piatti semplici e tradi­zionali. Sem­pre che lei non sia abi­tuato a ristoranti più ricercati.»

«Odio il prestigio. Prendiamo la macchina e andiamo.»

Aveva una Fordine Elektra ultraleggera con la carrozzeria color tur­chese e i pro­fili in alluminio anodizzato. Tenuta con cura, con l’abitacolo pu­lito e deodo­rato. Ci sta­vamo così stretti da sfiorarci i gomiti, ma la cosa non mi di­spiaceva. Guidava un po’ tesa, con la schiena forzata­mente eretta, intenta a scrutare puntigliosamente la strada.

«È sicura di non volermi dare del tu? Ormai siamo diventati non solo amici, ma anche complici.»

«Complici! A volte lei usa parole che mi allarmano, signor... Che mi allarmano, Egon.»

«Si rilassi.»

«Lei mi dia del tu. Io vorrei prima assuefarmi all’idea: poi, al mo­mento giusto, forse le darò del tu anch’io senza farci caso. Sempre che ci ca­piti di in­contrarci ancora, natu­ralmente.»

«Davvero non le dà fastidio se le do del tu?»

«No. Anzi.»

«Anzi cosa?»

«Anzi, mi fa piacere», sussurrò senza perdere d’occhio la strada.

«Bene: allora ti do del tu.»

La birreria di Zaandam si chiamava Tulip ed era ancora più spartana di quanto mi aspettassi. Una matrona spiritosa serviva svelta­mente ai ta­voli: il buonumore in persona. Rideva per niente e faceva sus­sultare il dop­pio mento, come se anche la gola vi­brasse di argento vivo. Le luci erano piatte e sfacciate. C’era un televisore acceso ad alto volume. Ma nono­stante la rumo­rosa euforia del Tulip, si creò ugualmente, fra me e Francesca, una corrente di intimità.

In attesa della zuppa la mia compagna mangiò avidamente due fette di pane in­tegrale: l’appetito non le mancava. Stavo per spalmare del burro sul mio pane, e tentò di impedirmelo. 

«Per favore, Egon, non cominci a sconfi­nare. Lasci perdere il burro.»

«Che male vuoi che faccia un po’ di burro a un perticone di ventiquat­tro anni, tutto sauna e palestra?»

«D’accordo, chiudo un occhio sul burro: ma che sia la prima e l’ultima trasgressione.»

«Facciamo la penultima.» Adescai la gigantessa col più accattivante dei sorrisi, e lei approdò da noi con un volteggio. «Birra, alstublieft. Per tutti e due.»

A Francesca andò un boccone di traverso. «Sta esagerando. Tutta colpa mia.»

«Fai finta di non aver visto. Non ti piace la birra?»

«Che c’entra? A me non è proibita.» Finalmente rise. «Stava dicendo che il dot­tor Adhémar ha sco­perto qualcosa a Zurigo.»

«È solo una supposizione. Doveva fermarsi fino a sabato ma il merco­ledì, al­l’improv­viso, è par­tito.»

«E noi sappiamo dove è andato.»

«Da Zurigo a Berlino, da Berlino a Chicago. Con Berlino e Chicago i conti tor­nano: Ethan risultava in forza alla Genesis di Berlino.»

«E Chicago era la città di Vernon Ray.»

«Rimane Zurigo.»

«Forse Ethan ha qualcosa a che fare anche con quella città.»

«Forse.»

«Qui si ferma davvero il nostro gioco», concluse delusa. «Almeno per quanto ne sappiamo fino ad ora.»

«Hai mai sentito parlare di un certo Stoltz? Max Stoltz?»

«No.»

«C’è una cosa che non ho mai capito bene. Come vengono registrate le sessioni? Insomma, gli incontri con la clientela?»

«In appositi file riservati. Nomi e date.»

«E una come te è in grado di accedere a questi file?»

«Solo a quelli di Amsterdam. Ogni sede conserva e protegge le proprie registra­zioni, senza diffon­derle in rete.»

«Che peccato.»

«In ogni caso non servirebbero a niente. Gli agenti non vengono citati con il vero nome, ma con gli pseudonimi settimanali. E anche le clienti usano spesso degli pseudo­nimi. Non crederà che la signora van Helde si chiami davvero van Helde.»

«Questo vuol dire che Ethan, se esiste e ha avuto appuntamenti pro­fessionali — metti a Zurigo, o a Berlino — non è mai citato né come Étienne né come Ethan, ma con nomi del cavolo che, oltretutto, cambiano di settimana in settimana rendendo impos­sibile trovare un filo con­duttore della sua esistenza.»

«È così.»

«Come se ciò non bastasse, gli pseudonimi passano da un maker all’altro in­diffe­rentemente; oggi io sono Johann, ma ci sono stati e ci sa­ranno altri Johann prima e dopo di me.»

«Non solo. Possono esserci anche diversi Johann contemporanea­mente.»

«E scommetto che i responsabili del progressnon registrano in nessun docu­mento perma­nente l’attri­buzione degli pseudonimi a Tizio e Caio.»

«Esatto.»

«Sicché, tutto ciò che resterà dei miei appuntamenti con la signora van Helde è che la signora van Helde ha incontrato quattro volte un certo Johann. Nessuno ricor­derà mai di quale Johann si trattava, e nessuno cono­sce o co­noscerà mai la vera iden­tità della signora van Helde.»

«Sacrosanto.»

«Aspetta: c’è qualcosa che non quadra. Come fa la signora a firmare un assegno, o una carta di credito, o a dare disposizioni alla sua banca per un bonifico, senza usare il suo vero nome? Non vorrai farmi credere che le clienti pagano i conti salati della Genesis portandosi appresso una valigia piena di banconote! In amministrazione devono pur sapere a chi intestare le fatture e da chi farsi pagare.»

«Le persone che desiderano mantenere l’incognito si affidano a inter­mediari di fiducia. Commercialisti, avvocati, notai, medici curanti, semplici amici: chiunque.»

«Dunque non ci resta che mangiare la zuppa di piselli.»

«E la frittata con pancetta e patate.»

«Ti rivedrò?»

«Se non mi licenziano può ritrovarmi al piano sotto il suo, nella stessa casa sul Singel.»

Scossi il capo stupito. «Non gli bastano i microfoni. Riempiono le fore­sterie an­che di spie in carne e ossa!»

Ridemmo tutti e due.

***

Sabato mattina, il telefono del miniappartamento squillò di buon’ora. Ero im­merso nei sogni e dovette gracchiare un bel po’, prima di farsi perce­pire dalla mia as­sonnata co­scienza.

Era Julio Hernández. Non mi aveva mai chiamato direttamente. Mi predisposi alla ba­tosta di turno.

Invece no. Hernández non era furioso per niente. Era soltanto molto serio. Troppo.

«Ho bisogno di vederla al più presto», si limitò a dire nel tono più uffi­ciale.

«Ho un ultimo appuntamento con la signora van Helde alle cinque del pomerig­gio. Devo chiedere al dottor van der Voort di annullare l’impe­gno?»

«Niente affatto. Prendo il primo volo per Amsterdam e sono da lei al­l’ora di pranzo.» Riattaccò senza altre spiegazioni. Precipitai in un abisso di perplessità e non trovai di meglio da fare che grattarmi la nuca.

Erano solo le sette, ma non c’era più verso di riprendere sonno. Mi al­zai, riempii la va­sca da bagno, versai tutte le schiume profumate che trovai, agitai l’acqua e entrai con la gamba destra in quel lago d’o­blio. Ma prima che potessi sollevare la sinistra, udii picchiet­tare alla porta. Rimasi immobile in quella ridicola posizione, senza sapere che fare.

Bussarono di nuovo. Era Francesca? A quell’ora?

Ritrassi la gamba bagnata, mi avvolsi un asciugamano intorno ai fian­chi e mi ac­costai alla porta. «Chi è?», domandai, tendendo l’orecchio.

«Io», rispose lei con un filo di voce.

Aprii senza altro indugio: vedendomi seminudo, Francesca si sforzò di guardare al­trove. La presi per un braccio e la tirai dentro, energicamente. Mi fece il solito se­gno con l’indice sulle lab­bra: non si poteva parlare libera­mente, lì dentro. Cavò di ta­sca un foglietto ripie­gato e me lo consegnò. Lo aprii e lessi il messaggio: «La chia­merà il dott. Hernández, se non lo ha già fatto. Ho ricevuto certe istruzioni dal dott. van der Voort e mi sono compor­tata di conseguenza. Dal momento che tutto è stato fatto per il suo bene, la prego di non giudicarmi male.»

Cosa era stato fatto per il mio bene? A quali istruzioni si rife­riva? Avevo una gran vo­glia di sotto­porla a un terzo grado, ma l’idea di quei fot­tuti microfoni mi bloccò. Presi una penna e scrissi ner­vo­samente sul retro del foglio, sbandierando­glielo subito dopo sotto il naso: «Stavo facendo il bagno. Fac­ciamolo insieme. Poi ci ri­vestiamo e andiamo a par­lare fuori.»

Scosse il capo ripetutamente in segno di diniego. Allora a gesti le feci ca­pire di aspettarmi in soggiorno finché non avessi finito. Prima di rientrare in bagno, chiusi a doppia mandata la porta princi­pale e portai la chiave con me.

Mi immersi nella vasca, incredulo di quanto mi andava capitando. Mi sentivo scemo. E terribilmente deluso. Francesca, non so come e perché, do­veva avermi tra­dito, o usato per chissà quale macchinazione con i dirigenti.

Chiusi gli occhi e scivolai nella schiuma fino al mento. Non volevo pensare più a nulla. Tanto meno a Francesca. Dopotutto non era niente per me. Solo una insulsa e ambigua vigi­lante. Imbottita di regola­menti e proce­dure dalla testa ai piedi. Non era certo la donna del mio avvenire. Ingrid, Ingrid sì che lo era; non ne avevo mai dubitato, nemmeno nell’intimità del Tulip con Francesca, a Zaandam. Perso nei rancori e nell’acqua calda, non mi accorsi di lei finché non mi accarezzò i capelli. Era entrata in punta di piedi. Aprii gli occhi. Stava seduta sul bordo della vasca e mi guar­dava con afflizione. E continuava a carez­zarmi i capelli. Poi si chinò su di me, mi prese il mento ba­gnato, lo sollevò e mi ba­ciò con tutta la tenerezza che poteva. Prima che io potessi lanciarmi in qual­siasi tipo di inizia­tiva, si alzò e uscì dalla stanza.

Ero iscritto all’albo come procreatore professionista, ma era destino che la mia vita pri­vata fosse vo­tata alla castità. Così non si andò oltre quel bacio: il secondo della mia età adulta. Ero turbato e con un diavolo per capello. Non feci niente, nem­meno dopo il bagno, per dare un seguito a quel fugace e inatteso preludio.

Francesca era ancora più mortificata del solito. Aveva urgenza di farsi perdo­nare qual­cosa e, alla luce del giorno, sembrava più preoccupata di quanto non lo fosse stata di sera. Il suo momento migliore era stato al Tu­lip: vi si era liberata fino a conce­dermi di bere una birra dopo l’altra e a riderne con me. Ora invece, lungo il Singel e sotto un triste piovigginare, non fa­ceva altro che guardarsi alle spalle e guidarmi chissà dove, con passo spe­dito, preceden­domi di un metro. Seguivo il suo impermeabile e il suo ber­retto viola con le mani affondate in tasca. Tutti gli incantesimi di Am­ster­dam si erano dissolti irrime­diabilmente.

Ral­lentò solo al mercato dei fiori. I più mattinieri ave­vano già aperto le loro bot­teghe galleggianti e esposto in bell’ordine le loro mercanzie. Qualcuno scaricava merci dai furgoni. Era presto ma l’animazione era già alquanto vivace. Alla pioggia sottile si mescolavano i vapori caldi delle griglie e il pro­fumo di caldarroste e salsicce sfri­go­lanti. Francesca si fermò a un chio­sco e ordinò un cartoccio di patatine alla maionese. Mi avvicinai per chiedere la stessa cosa, e lei mi rivolse la parola senza guardarmi.

«Alcune delle cose che abbiamo vissuto insieme in questi giorni erano previste e altre no», disse. Preso il cartoccio, si mosse lentamente fingendo di osservare con inte­resse le confezioni di bulbi allineate sugli appositi espositori. La se­guivo come un turi­sta stanco. «Il no­stro primo incontro era programmato», ri­prese. Non avevo parole. Lei ne aveva, ma le cedeva a piccole dosi, e a tappe. «Ti ho pedinato sapendo di non pas­sare inosser­vata, e quando sono entrata in quel caffè ero pronta a scommettere che mi avresti, come dire?, sma­sche­rata.»

«Congratulazioni», commentai con tutta l’ironia di cui ero capace. Il cielo era viola come il suo lucido abbigliamento.

«I baci non erano previsti», mormorò come per riscattarsi.

«E la cena al Tulip?»

«Sì».

«E questo tour dei mercatini?»

«No. Nessuno deve sapere che ci siamo visti stamattina.»

«Sentiamo. Sono assetato di rivelazioni, ma non mi hai ancora detto niente di sconvolgente», dissi masticando le patatine.

«Volevo solo assicurarti che ti sono amica.»

«Grazie tante, non ho bisogno di amicizie.»

Con i polpastrelli passò in rassegna una collezione di vecchie carto­line illu­strate con soggetti floreali e si­ste­mate in una sca­tola, ma non ne vedeva nessuna. Stava quasi per piangere.

«Sapevamo che non ti va di fare il babymaker tutta la vita, e così qual­cuno ha pensato di sottoporti a un test per vedere se... per vedere se sei la persona adatta a ge­stire un certo problema.»

«Sapevamo chi? Da che parte stai? Tutti questi misteri mi danno il mal di pan­cia.»

«Claude Adhémar ha bisogno di aiuto.»

«Claude Adhémar può andare sulla forca.»

«È stato lui a segnalarti a van der Voort. C’è stata una sua telefonata da Ber­lino.»

«Che c’entra la signora van Helde in questa storia?»

«È stata ingannata a fin di bene. Le è stato detto che avevi le stesse ca­ratteristi­che biologiche di Étienne Ethan, ma non è vero. Un pretesto uffi­ciale per farti venire qui, in­somma.»

«E sottopormi ai vostri test del cazzo.»

«Ti prego. Non parlare così.»

«E cosa avete desunto dai vostri giochini?»

«Che sei la persona giusta.»

«Giusta per fare cosa?»

«Per dare un’occhiata in giro a Berlino. Non so altro. Hernández sarà più preciso in proposito.»

«Perché proprio io?»

«Perché hai visto quel tale. Il tizio che hanno assassinato a Zurigo.»

«Di Fox Arp c’è da fidarsi?»

«In questa fase è meglio fidarsi solo di van der Voort e di Hernández.»

«E di te?» La domanda era provocatoria.

«Fidati di me solo se te lo dice van der Voort, o Hernández. E adesso, ti prego, non se­guirmi più. Non dobbiamo né vederci né sentirci, salvo even­tuali istruzioni dal­l’alto in questo senso.»

«A proposito di sentirci. Sai niente del mio cellulare e del mio computer?»

«Non capisco. Che cosa dovrei sapere?»

«Che me li hanno rubati.»

«Meglio così. Una traccia di meno per chiunque volesse rintracciarti con cattive intenzioni.»

«Di chi stai parlando?»

«Magari lo sapessi.»

«Allora addio.»

Senza rispondere si affrettò fino all’angolo con la Vijzel-Straat, chiamò un taxi e scomparve.

Tornai alla foresteria, mi buttai sul letto senza togliermi né i vestiti né le scarpe e la­sciai scorrere i pensieri disordinatamente, con le mani sotto la nuca e lo sguardo ri­volto al sof­fitto. Il sonno andava e ve­niva come voleva, e io lo assecondavo inerte, come una barca che si dondola passiva­mente sulle onde. Dopo chissà quanto tempo, uno squillo mi scosse da quel tor­pore. Era Hernández. Voleva essere rag­giunto al ri­storante giappo­nese del Krasnapolsky, un grande albergo per turisti sul Dam.

Quando arrivai aveva già ordinato per tutti e due. E andò subito al nocciolo: Ju­lio Her­nández non amava perdere tempo. Era rude come al so­lito, ma sembrava aver messo da parte l’ira e il disprezzo con cui mi aveva accolto a Milano l’ultima volta.

«Alexandris, quando ci siamo visti la prima volta lei mi ha detto che conside­rava temporanea la sua occupazione.»

«Esatto.»

«Ora ha la possibilità di dimostrare il suo eventuale talento in qualcosa di più impor­tante.»

«La ringrazio per questa opportunità.»

«C’è qualcosa che non funziona nel network. Guardi che questa è una confidenza molto riservata.»

«Può contare su di me.»

«Adhémar è un ispettore del gruppo. È un uomo fidato ed è molto vi­cino ai quartieri ge­nerali della Genesis. Ha bisogno di una mano e ha indi­cato lei.»

«Qual è il mio compito specifico?»

«Indagare su certe irregolarità che si sono verificate alla sede di Ber­lino.»

«Cosa potrei fare io se non ci è riuscito lui, con tutta la sua abilità e la sua espe­rienza?»

«Abbiamo motivo di pensare, invece, che ci sia riuscito benissimo. Non si spie­gherebbe altrimenti la sua scomparsa.»

Un brivido mi corse lungo la schiena.

Senza scomporsi, il capo prese un gamberetto fritto tra le dita e lo suc­chiò avida­mente.

«Claude Adhémar non dà più notizie di sé. Mario Stern sostiene che sia partito per Chicago, ma a Chicago nessuno lo ha visto. Inoltre, non c’era una sola ragione al mondo per precipitarsi a Chicago.»

«Chi è Mario Stern?»

«Il direttore generale della Genesis di Berlino.»

«Perché dice che non c’era ragione di volare a Chicago? Vernon Ray, alias Étienne Ethan, alias l’a­gente su cui pare che Claude stesse indagando, era di Chicago.»

«E con ciò? Tutto quello che c’era da sapere su Vernon Ray lo sap­piamo da un pezzo. Non c’è altro da scoprire a Chicago.»

«Dove può essere finito Adhémar?»

«Di sicuro non ha mai avuto né il bisogno né l’intenzione di volare a Chicago. Ab­biamo control­lato presso tutte le compagnie aeree: a nessuna ri­sulta una prenota­zione con quel nome e quella destina­zione.»

«Potrebbe essere rimasto a Berlino.»

«Potrebbe essergli capitato qualcosa di poco chiaro.»

«Per esempio?»

«Non so: un contrattempo. Ci aiuti a ritrovare Adhémar.»

«Non saprei da dove cominciare.»

«Potrebbe cominciare da Berna e Zurigo. Saperne un po’ di più su quel tale che hanno ri­trovato nel fiume.»

«Adhémar non aveva mai fatto parola su di lui?»

«Eccome. Non ne era certo, ma pensava che Stoltz fosse un ex maker di Ber­lino.»

«Lo ha scoperto dalla banca dati?»

«Abbiamo passato in rassegna le facce di tutti gli agenti degli ultimi sei anni. Non c’è nessuno Stoltz, e nessuno che gli somigli.»

«Potrebbe aver tratto le sue conclusioni dalle registrazioni degli appun­tamenti con la clientela?»

«Non vedo come potrebbe averlo fatto.»

«Francesca sostiene che i nomi registrati delle clienti sono, nella mag­gior parte dei casi, non meno fasulli di quelli dei babymaker.»

«Confermo. Quanto a Francesca, voglio darle un consiglio.»

Mi misi istintivamente in allarme.

Continuò, fissandomi col più penetrante degli sguardi e un gamberetto inal­be­rato a mez­z’aria. «Si az­zardi a sfiorarla con un dito, e giuro che l’am­mazzo. Francesca è mia figlia. Se lo ricordi bene.»

Restai a bocca aperta per mezzo minuto buono. «Sua figlia?»

«Sissignore. Se lo ficchi bene in quella zucca. Non sopporto l’idea che un pornodivo da stra­pazzo possa en­trare troppo in confidenza con lei.»

Ne avevo già inghiottiti di bocconi amari. Inghiottii anche quello.

«Ricevuto», sospirai con un filo di voce. «Torniamo a Berlino.»

«Mario Stern non mi piace. Spara una bugia dopo l’altra. Che non ri­corda molto di quel­l’Ethan, per esempio.»

«Forse Ethan ha fornito poche prestazioni ed è stato dimenticato.»

«Balle. Non si arriva a quelle poltrone senza avere una memoria di ferro.»

«Alla Genesis di Berlino lavora un sacco di altra gente. Qualcuno ri­corderà le cose che Stern tende a scordarsi.»

«È quel che penso anch’io, e certamente Adhémar ha rovistato o­vun­que po­tesse. La sua curiosità non deve essere stata apprezzata.»

«Se posso permettermi una piccola confidenza, vorrei confessarle che Adhémar non si è reso simpa­tico neanche a me. Ha un modo così inva­dente di intrufolarsi negli affari degli al­tri.»

«Fa il suo lavoro. Quanto a lei, Alexandris, la mia opinione la conosce: è uno stronzo.»

«Spero di farle cambiare idea», azzardai.

Guardò l’orologio e ripose il tovagliolo. Chiamò impe­riosamente il ca­meriere e chiese il conto. «È tardi: non ho intenzione di perdere il primo volo di ri­torno.»

«Ancora un paio di informazioni. Per piacere», implorai.

«Sentiamo.»

«Con che scusa mi presento a Berlino?»

«Dimenticavo. Questo pomeriggio, dopo l’ultima sessione con la signora van Helde, si fac­cia vedere da van der Voort. Le darà le istruzioni necessa­rie. E si muova con cir­cospezione: se la van Helde viene a sa­pere, Dio sa come, che lei non corrisponde per niente al suo modello nu­ziale, tutta la Genesis affonda come un Titanic. La prote­zione delle informazioni deli­cate è l’unico fondamento su cui si basa la nostra credibi­lità. Un solo errore e si chiude bottega per sempre.»

«A proposito di protezione delle informazioni: sa dirmi niente sull’as­segnazione dei nomi della set­timana? Chi li decide? È una scelta casuale?»

Pagò il conto e si fermò ancora qualche minuto. «Bella do­manda: lei non mi piace, ma grazie al cielo non è del tutto stupido. I nomi vengono de­cisi al Datacentrum di New York.»

«Addirittura? Vuol dire che io mi chiamo Lucien, o Johann, o Peterpan, per ordini che arrivano dalla sede centrale?»

«Proprio così.»

«Ma allora dov’è la difficoltà? I computer del Datacentrum possono ri­sa­lire in tempo reale ai veri nomi di chiunque.»

«Sì e no. Le clienti, per esempio, sono autorizzate a usare con noi degli pseudo­nimi, e spesso non c’è modo di risalire alle loro vere generalità né ai loro indirizzi. Quanto agli agenti...»

«Quanto agli agenti?»

«Innanzitutto gli pseudonimi ruotano a casaccio: oggi lei è Johann, ma è possibile che ci siano altri Johann in qualche altra sede, o che ci siano stati, o che ci saranno. E poi il Datacen­trum è blindato. Non ri­lascia questo tipo di informazioni per nessuna ragione al mondo. A meno che non vi siano elementi che pro­vino, con certezza asso­luta, che è stato commesso un re­ato grave. Questi elementi, a tutt’oggi, non sussi­stono.»

«Ma Stoltz è stato assassinato! Non è un reato?»

«Intanto occorre dimostrare, in modo inequivocabile, che Stoltz abbia prestato i suoi servizi alla Genesis. Ma non basta. Biso­gna anche provare che l’omicidio sia in qualche modo collegabile alle at­tività della Genesis. Se il fesso si è fatto accoppare da un semplice rapina­tore, o per altri motivi che ri­guardano la sua sfera privata, il Data­cen­trum rimane serrato come un’o­strica.»

«Anche per la polizia?»

«Anche per la polizia. Bilanci amministrativi a parte, i dati delle agen­zie di ri­produ­zione sono le­galmente protetti. Procu­rarsi un figlio con l’aiuto di un’a­genzia, e mantenere il se­greto sulle relative modalità e circostanze, fa parte delle libertà fonda­mentali acquisite dai citta­dini di tutto il mondo.»

«Un’ultima domanda sugli pseudonimi settimanali. Secondo lei, sono ricavati da una specie di for­mula o sono del tutto casuali?»

«Non lo sapremo mai. Qualche volta me lo sono chiesto anch’io. E ho pensato: se devono essere ca­suali, tanto vale inventarseli ufficio per ufficio. Qualsiasi Aura Marti sarebbe in grado di trovare nomi sul calendario, o di inventarseli di sana pianta.»

«Forse a New York hanno una regola. Un metodo che permetta di ri­costruire le iden­tità.»

«Non si illuda. Le ripeto che il Datacentrum è inaccessibile. Fac­cia conto che non esiste nemmeno. E ora non perdiamo altro tempo: devo andare.»

«Che mi dice di Fox Arp?»

«È un imbecille come un altro. Stia alla larga. Anche se, senza saperlo, ci è stato utile.»

«Come e quando?»

«Abbiamo saputo da lui che Adhémar era stato aggredito da Stoltz in quel club di Zu­rigo, e che lei era presente. Alexandris, non mi rompa più le scatole. Sappia sol­tanto che ab­biamo scelto lei per questa missione. Non quel deficiente di Arp.»

Se ne andò senza salutare. Quando fu sparito dai miei orizzonti, mi feci servire del sakè e sco­prii che non era niente male.

Prima di lasciare il Krasnapolsky, chiesi alla centralinista l’e­lenco degli abbonati di Zurigo e cer­cai il numero del Futura Light. Lo tra­scrissi e lo chiamai da uno dei tele­foni pub­blici della hall. Una voce regi­strata mi av­vertì che il club apriva alle sette di sera.

Uscii, presi un taxi e mi feci portare alla Genesis.

***

L’ultimo incontro con la signora van Helde fu meno pe­noso dei prece­denti. Ero eccitato. Pensavo al bacio mattutino di Francesca, alla schiuma sulla pelle, al senso di frustrazione che mi aveva accompa­gnato tutto il giorno, e quell’am­plesso impiegatizio mi sembrò la naturale (anche se tar­diva) con­clusione di un gioco crudelmente inter­rotto.

Van der Voort era l’esatto contrario di Hernández: caldo, gioviale. Rosso di pelle e di capelli. Il suo ufficio era meno essenziale di quello del mio capo: quadri di valore alle pareti, qualche mobile di antiqua­riato, tap­peti orientali. Era uno che evidente­mente sapeva apprez­zare anche altre cose, ol­tre albu­siness.

A Berlino dovevo dare una mano a Mathias, il responsabile del video­control, e sosti­tuirlo nelle emergenze fuori orario e durante le assenze. Era un lavoro part time, soggetto però a orari irregolari; ogni mattina avrei ri­cevuto istruzioni dalla responsabile del progress, una certa Trudi Albrecht.

Van der Voort mi spiegò senza fretta l’organizzazione della Genesis di Berlino, conse­gnandomi un elenco di tutto il personale in servizio con l’in­dicazione delle fun­zioni: a partire da Mario Stern, il diret­tore generale, fino alle segretarie e al robot-facto­tum. Su una lista se­parata erano elencati gli agenti che si erano avvicendati a Berlino negli ultimi anni; quelli an­cora in servizio erano contrassegnati con un asteri­sco. Di ciascun agente ebbi in conse­gna anche un ritratto riprodotto dal video. Osservai con attenzione quelle facce e non ne tro­vai alcuna che somi­gliasse, neppur vagamente, a Max Stoltz. C’era anche Vernon Ray, il falso Ethan, in una foto di pessima qualità. «Impari a memoria tutto quello che può e di­strugga al più presto elen­chi e fotografie», continuò van der Voort. «Il suo lavoro comincia lu­nedì fra Berna e Zu­rigo e prosegue la settimana successiva a Berlino. Non dica di es­sere stato ad Amster­dam. Non conosce nes­suno di noi: né me, né Adhémar, né Arp, né Francesca. Può in­vece confermare tranquilla­mente di aver fatto l’agente a Mi­lano fino a ieri, che non ne poteva più di quel lavoro e che ha accettato vo­lentieri que­sta opportunità di cambia­mento. Hernández l’ha molto racco­mandata a Stern; le referenze sono inecce­pibili. Per rendere meno sospetta la sua car­riera alla rovescia — da soggetto pagato pro­fumata­mente a impiegato di terza categoria — Hernández ha so­stenuto che si tratta di una si­stema­zione provvi­soria, in attesa di una posizione più con­fa­cente ai suoi studi e alle sue ca­pa­cità.»

Mi disse poi ciò che sapeva di Ethan, l’agente che figurava in vi­deo sotto l’a­spetto di Vernon Ray. «Un tale di nome Étienne Ethan ha real­mente prestato servi­zio, per un breve periodo, alla Gene­sis di Berlino: ri­sulta chiaramente dai dati ammi­ni­strativi. Nes­suna traccia di Stoltz, in­vece. Il vecchio indirizzo di Ethan corrisponde a un palazzo in demo­lizione; i proprietari non ricordano nessuno con quel nome.» Mi feci dare, ad ogni buon conto, anche quell’indirizzo.

Infine aprì un cassetto della scrivania e ne trasse un plico alquanto spesso. Sor­rise. «Contanti. Li usi con parsimonia e senza dare nel­l’occhio. Attento a non farsi de­rubare: Ber­lino è piena di sbandati. Stia lontano dai quartieri malfamati. E, soprat­tutto, dimentichi le carte di credito. Anzi, me le consegni subito. Le terrò in cassaforte e gliele ren­derò quando questa storia sarà finita.»

Mi avevano prenotato un alberghetto di terz’ordine, ma era me­glio che stare in una foresteria: avrei potuto usare il telefono senza il ti­more di con­trolli. E dovevo rife­rire a lui, van der Voort, qua­lunque infor­mazione rite­nessi utile. Fossero saltate a galla cose grosse, o avessi avuto bi­sogno di altro de­naro, mi sarei limitato a pronunciare al telefono una frase concordata e improvvisare una breve conver­sazione insignificante. Van der Voort in persona, o Fran­ce­sca, mi avrebbe immedia­tamente rag­giunto a Ber­lino. Era in­teso che, alla prima ricomparsa di Adhémar, sarei stato avvertito e avrei ri­cevuto nuove istru­zioni.

«Non sarebbe meglio se avessi un telefono? Il mio l’ho perso.»

«Lasci perdere. Sarebbe come muoversi a portata di radar.»

Alle sette e un quarto telefonai al Futura Light da una cabina pubblica e chiesi di Kurt. Era il nome con cui Claude e Ingrid avevano chiamato uno dei camerieri.

«Sono un amico di Max Stoltz. Non lo sento da un pezzo e ho bisogno di parlargli con una certa urgenza. A casa non risponde nessuno. L’ultima volta che l’ho visto mi ha detto che veniva spesso da voi e che po­tevo cercarlo lì. È stato lui a darmi il suo nome.»

Kurt se ne stette senza fiatare una mezza eternità prima di farmi giun­gere la sua voce.

«È strano che possa averle detto di rivolgersi a me. Non sono mai stato in confi­denza col signor Stoltz.»

«Può passarmi qualcuno che lo conosce e che sappia dirmi dove posso tro­varlo?»

«A dire il vero non era molto alla mano col personale. L’ho visto par­lare un paio di volte con la no­stra cantante. Ma a quest’ora non c’è, di solito arriva sul tardi.»

Diventai di ghiaccio. «Pensa che sia un amico della cantante?»

«Amico non direi: una volta li ho sorpresi a litigare di brutto. Ma temo che non possa aiutarla nean­che lei. Vede, il signor Stoltz...»

Forse stava per dirmi che Stoltz era morto.

«Il signor Stoltz è incorso in un incidente pochi giorni fa. Ci ha ri­messo la pelle, purtroppo. Spero di non averle dato un dispiacere.»

Era la voce di una persona gentile e amareggiata. Ringraziai e chiusi.


© Pasquale Barbella

(2 - Continua)


Gli ultimi padri. III

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III.

All’una meno cinque di domenica ero davanti all’ingresso del Frans Hals Mu­seum di Haarlem, con­fuso tra schiere vocianti di turisti in attesa dell’apertura. Un pallido sole ri­schiarava la città. Quando il museo aprì i battenti, Ingrid non si era an­cora fatta viva. Entrai ugualmente e mi misi a bighellonare tra le sale. Nel giro di un quarto d’ora, i visitatori diventarono una moltitudine. Non erano solo turisti; c’era molta gente del posto, intere famigliole attratte da una specie di festa che si teneva lì dentro. Oltre alla mostra per­manente delle collezioni del museo, era in corso un’e­spo­sizione di arte contempora­nea ispirata ai tuli­pani e ai vecchi mulini a vento. Non solo: in diverse sale, allievi del conser­vatorio si esibivano in brevi saggi di musica da ca­mera. Un’adolescente dall’aria angelica e ve­stita di bianco pizzi­cava l’arpa. Era una visione incantevole, e sembrava ca­talizzare non solo l’atten­zione degli astanti in carne e ossa, ma anche quella degli ufficiali della mili­zia civica di San Gior­gio raffigurati nel famoso di­pinto di Hals. Almeno nove dei dodici personaggi ave­vano l’aria di trascu­rare la mensa intorno alla quale sede­vano per volgere lo sguardo verso l’a­mabile esecu­trice.
Frans Hals, Banchetto degli ufficiali della guardia civica di San Giorgio a Haarlem, 1616. Haarlem, Frans Hals Museum.

Ingrid arrivò alle due, quando avevo quasi perso la speranza di rive­derla. Me ne stavo con le mani in tasca di fronte al ritratto di gruppo dei reggenti dell’ospizio degli anziani: sembravano de­crepiti baby­maker del XVII secolo in pensione. E mi lasciavo cullare da pensieri oziosi. Non mi ero mai chiamato Frans con la esse fi­nale, meditavo, ma una volta ero stato Franz. A proposito di nomi: ero certo che dopo Johann sarebbe stato il turno di Iannis, che ritornava periodicamente ogni quattordici set­timane. Fossi stato presente alla prossima riunione di progress, avrei stupito Aura mo­strando di in­do­vi­nare il nuovo pseudo­nimo prima che lei potesse annun­ciarmelo. Mi veniva da ri­dere, immaginan­domi la sua reazione scon­certata.

Ingrid mi sfiorò la spalla con una mano. Era bellissima, ma diversa da come l’a­vevo sempre vista. Il trucco era assai più leggero del solito e questo la faceva apparire più chiara e vulnerabile, di un pallore quasi diafano. Le mancava l’aura tenebrosa che le conoscevo. In com­penso la sentivo più umana e raggiun­gi­bile, come se si fosse tolta una ma­schera.

Uscimmo all’aperto e andammo a sederci su una panchina del giar­dino. Il museo era si­stemato nel­l’Oudemannehuis, che nel Seicento era stato un ospizio di vecchi, e il trascorrere dei secoli non aveva alterato il senso di quiete che vi aleggiava. Ingrid aprì la borsa di vernice, prese lo spec­chio e i suoi ar­nesi da trucco, si ripulì il viso e comin­ciò a rifarsi il maquil­lage. La osser­vavo in­curiosito e le chiesi perché si stesse ritruc­cando.

«Lo faccio spesso. Mi distende i nervi», rispose laconicamente.

«Vuoi dire che cambi trucco più volte al giorno?»

«Dipende. A volte sì, per ingannare il tempo e la noia.»

«Perché proprio adesso? Ti dà noia stare con me?»

«Niente affatto. La tua compagnia non mi dispiace mai.»

Era la prima cosa carina che mi avesse mai detto.

«Non hai altri amici?»

«Ne ho avuti.»

Mi pareva incredibile che una donna così speciale conducesse una vita solitaria.

«Ti va di mangiare qualcosa? Sono passate da un pezzo le due.»

«Se vuoi», rispose. Procedeva rapidamente, con sapiente sicurezza; e già si deli­neava l’altro volto di Ingrid, quello più teatrale. Rimmel, ma­scara, rosso per labbra: il lookespres­sionista della cantante di cabaret andava a poco a poco riaffiorando. La ra­gazza fragile ap­parsa al mio fianco davanti al quadro di Hals era già scomparsa.

Entrammo in un ristorante a caso, il primo che trovammo sulla Spaarne. Il posto era ac­cogliente: c’e­rano fiori sui tavoli, candide tovaglie di fiandra, dalle finestre en­travano raggi di sole. Ma Ingrid non aveva niente di solare. Disse alla cameriera di non avere molta fame e ordinò sol­tanto un’insalata, un pez­zetto di goudsekaas e del vino fran­cese. Il vino lo lasciai scegliere a lei; non ne avevo mai bevuto in vita mia e non sapevo da quale cominciare. Io invece avevo una fame da lupo: ordinai delle ostriche, una zuppa di aspa­ragi, merluzzo fritto, e elencai le mie preferenze con tale enfasi che non solo la cameriera, ma per­sino Ingrid sor­rise. Avevo la precisa sensazione che non mi considerasse per niente un po­ten­ziale partner, e nean­che un amico, ma solo un ragazzino, una specie di nipote con cui doversi intratte­nere di tanto in tanto e scambiare frasi di cir­costanza. Aveva certo più anni di me, an­che se non troppi; ma i suoi trenta o trentadue doveva averli molto vissuti, tanto che niente sembrava scalfire la sua freddezza.

Dopo averci molto pensato, decisi di osare l’inosabile e le proposi di an­dare in­sieme in un al­bergo, subito dopo la colazione. Rispose di no ma, per fortuna, non reagì in modo ostile. Volle solo chiarire, a mio beneficio, il suo punto di vista.

«Non te la prendere, Egon. Immagino di averti un po’ incoraggiato e non mi stupi­sce che tu voglia por­tarmi a letto. Ma preferisco di no. Restiamo amici e basta.»

«Non ti piaccio neanche un po’?»

Dietro tutto quel mascara c’era un filo di tenerezza. Mi guardò triste e protet­tiva. «Mi piaci mol­tissimo. Ma non insistere.»

«Preferisci andare a letto con le donne?»

Rise in modo aperto ma ritornò subito seria: «Pre­ferisco an­dare a letto con nes­suno. Il letto può dare piacere, non lo nego; ma anche delusioni. E adesso non par­liamone più.»

«Una volta», ricominciai cautamente, «dicesti di odiare i babymaker.»

«Odio tutti e nessuno. Sei uno di loro?»

«Lo sono stato.»

«E cosa ti ha fatto cambiare idea, o mestiere?»

«Tu.»

«Io?»

«Hai detto che detestavi quella gente. Io non voglio essere detestato da te.»

«Oh, fa’ pure ciò che ti pare. Non cambia niente tra noi.»

«Niente niente?»

«Niente niente», disse bevendo del vino. Il suo calice incrociò un rag­gio di sole; tutti i rubini del mondo scintillarono insieme. «E adesso giura di non ripren­dere mai più questo discorso con me, al­trimenti sarà meglio non vederci più.»

Più che una minaccia era un’implorazione. Mi versai del vino. «Allora non mi re­sta che ubriacarmi. Dovrai portarmi fuori di qua sulle tue spalle, povera Ingrid.»

Nel locale c’era gente felice. Immaginavo la felicità come un corpo acquatico, una spe­cie di feno­meno idrografico, dotato della stessa volubilità delle maree e della pioggia. La feli­cità che vedevo intorno a noi era una felicità domenicale. Con ogni probabilità si sarebbe diluita verso sera per lasciare spazio alle piccole o grandi inquietudini che ciascuno porta con sé, quoti­diane e inevitabili come le chiavi di casa. C’erano mille domande che vo­levo rivol­gere a Ingrid, ma avevo paura di rompere qualcosa di pre­zioso e delicato. La nostra amicizia, se si poteva dire amicizia, era fragile come il cri­stallo dei bic­chieri sulla tavola. Che cosa rappresen­tavo per lei? Perché era venuta fino ad Haarlem, se la distanza fra noi era comunque incol­ma­bile?

Le domandai di Claude. «Siete amici da molto tempo?»

«Vuoi sapere se ci sono andata a letto?»

«No. Era una domanda come un’altra.»

«Ci sono andata a letto.»

Odiai Claude Adhémar con tutte le mie forze. Era colpa mia se Ingrid non mi conside­rava degno di lei: non ci sapevo fare con le donne. Con loro potevo avere sol­tanto rapporti or­ganizzati da un bureau, nego­ziati fredda­mente a tavolino da persone che decidevano della mia esistenza. Ingrid per­cepì le ombre che mi offuscavano l’a­nima e fece un tentativo di recu­pero.

«Non è stato niente di importante. Né per me né per lui.»

«Lo è per me», dissi allontanando il piatto di merluzzo fritto. Non avevo più ap­petito.

«Ascoltami bene, Egon», disse lei posando i gomiti sul tavolo e sporgendosi un poco verso di me. «Non sono la donna per te. Vorrei che tu lo capissi. Ci tengo. Trovati una ragazza più adatta e cerca di dimenticarmi.»

«Sei venuta fin qui per dirmi questo?»

«No. Sono venuta ad Haarlem per tutt’altra ragione.»

«Quale, se è lecito? I quadri di Hals non li hai degnati di uno sguardo.»

«Hals non c’entra. Sono venuta per incontrare un tale. Il gestore di un club. Una possibi­lità di con­tratto.»

«Vuoi trasferirti qui?»

«Sì. No. Si vedrà. Col mio lavoro giro un po’ dappertutto.»

«E il Futura Light?»

«Mi ha stancato. Non appena trovo una scrittura decente gli dico grazie e arrive­derci.»

«A che ora devi vedere questo tizio?»

«L’ho già visto stamattina, prima di incontrarti.»

«Come si chiama il club?»

«Id.»

«Com’è andata?»

«La proposta che mi hanno fatto non è un granché. Devo pensarci.»

«Mi illudevo che fossi venuta per me.»

«È stata una coincidenza. Ti ho rivisto volentieri, lo sai.»

«Sei stata a letto anche con Max Stoltz?»

Si rabbuiò. «C’è un treno alle quattro. Io adesso mi alzo e vado alla sta­zione. Tu resta qui seduto e tranquillo.» Si alzò: era gelida e inaccessibile. Max Stoltz ci aveva di­visi, forse per sempre. Mi sarei preso a schiaffi per aver fatto quella domanda così inu­tilmente provoca­toria e infantile.

«Scusami, Ingrid, davvero. Non avevo intenzione di offenderti.»

«Non sono offesa. E non conosco nessuno con quel nome.»

«Ti accompagno.»

«I saluti alla stazione mi deprimono. Ti prego di startene buono. Non muoverti di qui.»

«Ci rivedremo ancora?»

«Chi può dirlo? Ci sveglieremo in città di grandi cubi bordeaux, senza porte e senza fi­nestre.»

Mi sorrise, prese la sua roba e se ne andò senza voltarsi indietro.

Pagai il conto. Cinque minuti dopo ero a bordo di un taxi diretto alla stazione. Mi aggi­rai febbril­mente fra la bi­glietteria e la banchina del primo binario, in cerca di lei. Consultai il tabel­lone delle par­tenze: nessun treno partiva alle quattro, per nessuna destinazione. Fi­nalmente la vidi. Istinti­vamente mi ritrassi dal suo potenziale campo visivo, nascon­dendomi die­tro un gruppo di viaggia­tori in attesa. Usciva dal deposito bagagli con una sacca voluminosa. La se­guii all’e­sterno. Montò su un taxi. Ne presi uno anch’io e pre­gai il condu­cente di seguire il suo tenendosi a distanza. Attraversammo la città e ne uscimmo in direzione nord. A poca distanza dall’a­bitato sorgeva un com­plesso edili­zio di recente costruzione: basse palazzine con mattoni a vista color rosso scuro, disposte intorno a un fabbri­cato più alto. Alberi sempreverdi in­gentilivano il luogo. Il taxi di In­grid svoltò a destra e prese uno dei vialetti che conduce­vano all’edi­ficio centrale. Chiesi al mio autista di accostare a de­stra e di fer­marsi all’inizio del viale, in modo che Ingrid non potesse ve­dermi. Lei re­cuperò il borsone, pagò e entrò nel palazzo; il suo taxi ri­tornò nella nostra direzione. Chiesi al mio conducente se cono­scesse il posto in cui eravamo; non sembrava un complesso residenziale.

«È l’ospedale sperimentale di Haarlem», rispose. «Il migliore d’Olanda per certe ma­lattie, e uno dei più all’avanguardia della Federazione, dicono.»

«Che malattie?»

«Infezioni da virus di recente scoperta, a cominciare dalla famiglia V-21.»

Il vino che avevo bevuto mi salì al cervello; un’ondata di calore mi investì al­l’im­prov­viso. Ero con­fuso da un senso di spossatezza. Mi abban­donai contro il sedile senza sapere più cosa fare.

«Dove andiamo?», chiese l’autista.

La risposta gli arrivò dopo almeno trenta secondi di silenzio.

«Torniamo in città. Conosce un club di nome Id?»

«Certo. Ma sono le quattro e venti: non aprono prima delle otto.»

«Andiamoci lo stesso.»

L’Id era chiuso al pubblico, ma dalla strada si vedevano luci ac­cese. Suonai. Un tizio si affacciò sulla soglia tenendo la porta se­mi­chiusa e mi av­vertì che era troppo presto.

«Lo so», dissi, «vorrei solo chiedere un’informazione al direttore.»

«Può dire a me.»

«È una questione privata. Posso vederlo solo per un minuto?»

Aprì la porta con riluttanza per farmi passare. Il direttore si fece aspet­tare cin­que lun­ghissimi minuti. Non avevo mai visto un vec­chio più vecchio. Si reg­geva a mala­pena su un bastone rosso. Era esile e curvo, i capelli giallo uovo, la giacca rossa dama­scata, una voce color ruggine. Le mezze luci dell’atrio davano al suo volto di cera un aspetto sinistro. Mi scrutava come se volesse leggermi dentro. Ma forse era un effetto del vino e del malessere che mi portavo in corpo.

«In cosa posso esserle utile?»

«Cerco una persona. Una cantante di nome Ingrid Schumacher.»

«Forse la cerca nel club sbagliato. Il nostro cantante è un uomo e si chiama Chri­stiaan Janssen.»

«Lo so. Ma Ingrid mi aveva detto che intendeva consultarvi per una eventuale scrittura, e volevo sa­pere se si è già fatta viva con voi.»

«Lo escludo. Mi occupo personalmente dei contratti coi musicisti, e nessuna Schumacher ha mai chiesto di esibirsi all’Id.»

«Mi scusi per il disturbo.»

Ringraziai e mi avviai a piedi verso la stazione, determinato a pren­dere il primo treno per Amster­dam. Di là mi sarei fatto condurre all’aero­porto. Avevo buone spe­ranze di trovare entro sera un volo per Milano.

Era quasi mezzanotte quando arrivai alla Malpensa. Telefonai ad Aura Marti.

«Egon! Che ti succede a quest’ora?»

«Hernández ti ha avvertita del mio trasferimento?»

«L’ho saputo stamattina.» La sua voce non era più allegra della mia.

«Sono alla Malpensa. Ho comprato una bottiglia di Dom Pérignon. Vorrei sa­lu­tarti come si deve.»

«Stavo andando a letto.»

«Una volta mi hai promesso che, se facevo il bravo, prima o poi mi avresti invi­tato a cena a casa tua.»

«L’ora di cena è passata da un pezzo.»

«Non metterla giù dura. Ho bisogno di venire a piangere sulla tua spalla.»

Sospirò. «Quand’è così, mi rivesto e ti aspetto. Ce l’hai l’indirizzo?»

«Ce l’ho. Sono da te fra mezz’ora. Quaranta minuti al massimo.»

Passai prima da casa mia. C’era la solita posta — pieghevoli pubblici­tari, estratti conto della banca, richieste di offerte da parte di istituti di benefi­cenza — e la carto­lina di un Marley Hotel jamaicano con la spiag­gia privata, le palme e la piscina. Era Lukas: beato lui. Sul retro aveva scritto, nel suo ita­liano stentato: «Un saluto al ultimo amico que me es rimasto.»Neanche l’e­suberanza vacanziera dei Caraibi riusciva a cancellare del tutto la lacrimo­sità dell’anima slava. Mi liberai del ba­gaglio, mi diedi una rinfrescata al viso e mi precipitai di nuovo in ascensore. Ero ansioso di rimettermi al volante della Vanta, la mia Su­perfiat adorata.

Aura abitava a Milano Blu. Molti lo consideravano un quartiere elegante. Io lo tro­vavo de­primente. A quell’ora, i parallelepipedi blu-oceano rischia­rati dai neon e dalla luna sembravano sorgere dal centro di un de­serto meta­fisico. Gli immensi slarghi fra i grat­tacieli erano cieli caduti e moltiplica­vano al­l’infinito la sensazione di vuoto che da quel pomeriggio si era im­pa­dronita di me.

«È calda: mettila nel freezer», dissi ad Aura porgendole la bottiglia di champagne.

«Hai appena smesso di fare il babymaker, e hai già preso le abitu­dini degli ex. Il soggiorno è da quella parte; accomodati dove ti pare.»

La stanza era grande e accogliente. Ero stanco e mi sdraiai sul divano per tutta la sua lunghezza.

«Togliti le scarpe, se vuoi.»

Me le tolsi, mi sdraiai di nuovo e chiusi gli occhi.

«Devi essere a pezzi, ragazzo.» Spense le luci centrali, accese una lam­pada d’an­golo e si sedette in poltrona. «Qualcosa di grave?»

«Non lo so.»

«Dovresti essere al settimo cielo. Non avevi sempre detto che fare l’a­gente non ti pia­ceva?»

«Infatti sono contento.»

«Non si direbbe. Avanti, sentiamo che fuoco ti brucia.»

«Aura, sei mai stata innamorata?»

«E chi non lo è stato?»

«È vero quello che dicono alla Genesis? Che avevi preso una sbandata per Her­nán­dez?»

«Lascia perdere, è acqua passata. Chi è il farabutto che va dicendo in giro queste cose?»

«Ma se lo sanno tutti. Persino Morphero.»

«Ragazzo, vacci piano. È vero che è passata mezzanotte e sei senza scarpe in casa mia, ma non azzardarti a mancarmi di rispetto.»

Aprii gli occhi e la guardai.

«Non ti mancherei mai di rispetto, Aura. Non dovrei neanche essere a Milano. Ho fatto un tour de force perché avevo voglia di vedere solo te.»

«Allora è proprio grave. Beh, ti auguro di cuore di non avere le batoste che ho avuto io dalla vita. Sta’ in guardia.»

«Non me li faresti due spaghetti aglio-olio-e-peperoncino? Ho un buco nello sto­maco, oltre che nella testa.»

«D’accordo. Non addormentarti, ci metto due minuti.»

«Non dormirò più né adesso né mai. Ho già dormito per ventiquattro anni: voglio sve­gliarmi.» Saltai su dal divano come una molla e la seguii in cu­cina, scalzo e con la ca­micia fuori dai calzoni.

«Hai gli occhi rossi», mi disse aprendo gli sportelli della dispensa.

«Anche tu.»

«Non farci caso. Io so cavarmela. Tu invece mi dai da pensare. Sembri piovuto da un’a­stronave sul pianeta sbagliato.»

«A proposito di pianeti lontani: New York è già informata del mio tra­sferi­mento?»

«E come potrebbe? La decisione è stata presa soltanto durante il week­end.»

«Quindi è già pronto per me il nome della settimana, anche se non mi serve più.»

«Senza dubbio. Domattina il computer sputerà fuori i nomi di tutti, compreso il tuo.»

«Me lo fai un piacere? Ti telefono domani e mi dici che nome è.»

«A che ti serve saperlo?»

«Credo di saperlo già. Aspetto solo una conferma.»

«Ti metti a giocare agli indovinelli?»

«Iannis. Vedrai che il nome è Iannis.»

«Ne dubito. Quel nome ti è già capitato troppe volte.»

«Appunto. Ogni quattordici settimane. Voglio vedere se il fenomeno si ripete puntual­mente.»

«Non dirmi che prendi nota degli pseudonimi. Lo sai che è proibito.»

«Le cose proibite mi mandano in delirio.»

«Di’, non ti sarai mica imbarcato con quella cantante di cabaret?»

«Non cambiamo discorso. Aura, adesso che non sono più uno stal­lone da monta puoi es­sere sincera con me. Ti faccio una domanda profes­sionale: prometti di non dirmi una palla.»

«Sentiamo.»

«Davvero non conservi nessun documento da cui risultino cronologi­camente le attribu­zioni dei nomi a Tizio e Caio?»

«Certo che no.»

«E perché?»

«Questa è bella: perché il regolamento vuole così.»

«Il regolamento! Via, Aura, che ragionamento è? Supponiamo che un Charles o un Johann l’anno scorso abbia rubato il portafoglio a una cliente e che quella pianti una causa alla Genesis. Come diavolo fai a ricordarti chi era Charles o Johann, se non l’hai scritto da nessuna parte?»

«Devi essere matto. Nessuno è così scemo da farsi fregare il portafoglio per re­clamare un anno dopo.»

«Beh, ho fatto l’esempio sbagliato. Ma può succedere qualcosa per cui diventa ne­cessa­rio ricostruire il chi, il cosa, il quando e il dove. Non so se mi spiego.»

«Apri quel cassetto, c’è una tovaglia. Stendila sul tavolo. Le posate sono nel se­condo cassetto: prendi una forchetta anche per me. Egon, possi­bile che tu non abbia ancora capito co­s’è un’agenzia di riprodu­zione? È un posto dove le coppie senza figli si fanno aiutare da un estraneo. Ti rendi conto di cosa vuol dire questo per i nostri clienti? Per loro è una decisione traumatica. La protezione del segreto è fondamentale. Segreto in tutti i sensi: non a caso si usano delle maschere. Beh, anche i nomi sono ma­schere. Il sistema fa sì che se domani incontri ai giardinetti un uomo e una donna con tuo figlio nella carrozzella, non possiate in alcun modo ri­cono­scervi. Solo così si pre­vengono turbamenti che possono compromettere seriamente la loro sere­nità e — ag­giungo — anche la tua.»

«Secondo te, perché il nome Iannis capita sempre e soltanto al sotto­scritto?»

«Il computer di New York tira i nomi alla cieca.»

«Non ci credo. E non ci credi neanche tu.»

«Non so come funziona. E, comunque funzioni, la cosa non ha impor­tanza. Chi se ne frega se per una settimana sei Iannis o Leonardo da Vinci? Ciò che conta è come si è dentro, per tutta la vita. Tu sei tu, io sono io e questa pentola è una pen­tola.»

«C’è mai stato un altro Iannis?»

«Sì, ma non ci sarà mai un altro te. Nessuno potrà mai duplicare una persona vera.»

«Allora un altro Iannis c’è stato. Chi era?»

«Tre anni fa abbiamo avuto un agente che ogni tanto veniva identifi­cato con quel nome.»

«Come si chiamava realmente?»

«Rex Caputo. Un giorno, invece di venire in ufficio, bussò al portone di un mona­stero. Gli aprirono, entrò e, per quanto ne so, non ne è ancora uscito.»

«Rex Caputo. Scommetto che gli toccava Iannis ogni nove settimane.»

«Non ci ho badato. In effetti si chiamava spesso così.»

«Mi sono scervellato sulla cadenza delle quattordici settimane. E mi è venuta in mente una coinci­denza un po’ scema: per scrivere Egon Alexan­dris ci vogliono in tutto quattordici let­tere.»

«Siediti, la pasta è pronta. E cosa ne hai desunto?»

«Che forse c’è una relazione fra il nome vero e gli pseudonimi, e che questa rela­zione è scandita dalle singole lettere che compongono il nome vero.»

«Figlio mio, sei troppo complicato a quest’ora di notte.»

«Mi rendo conto che la mia è un’idea cretina. I tuoi spaghetti sono for­midabili, invece. Senti: Rex Ca­puto e Egon Alexandris hanno in comune la R, la E, la X, la A e la O. Se la mia tesi non è del tutto demen­ziale, Iannis cor­risponde sempre alla X.»

«E perché non alla R o alla O?»

«Perché tutti e due conosciamo un sacco di babymaker che hanno nel nome o nel cognome la R, la E, la A o la O, e nessuno di loro si è mai chia­mato Iannis. Io invece non conosco nessuno con la X, e tu conosci solo Rex e me, e guarda caso tutti e due ci siamo chiamati Iannis più d’una volta.»

«È un discorso senza senso. Allora perché la X è sempre Iannis, men­tre la A può essere qualunque al­tro nome?»

«È questo che non riesco a capire.»

«Beviamoci sopra», concluse Aura. Si alzò e andò a prendere dal free­zer il Dom Péri­gnon.

Avevo giurato di non dormire mai più, ma bastarono due giri di champagne per farmi scivolare in un abisso di piombo. Mi buttai di nuovo sul divano, sfibrato e privo di ogni volontà. Aura mi distese addosso un lenzuolo e una coperta, mi mise a portata di mano un bicchiere e una botti­glia di acqua mine­rale, mi consigliò di spo­gliarmi, mi mostrò l’interruttore della lam­pada, mi indicò il bagno, mi salutò e se ne andò a letto. Mi limitai a slacciare la cravatta e a sciogliere la cintura; spensi la luce e mi abbando­nai al sonno, felice di dimenti­care me stesso e le ore spettrali di Haarlem.

Mi svegliai nello stesso silenzio che mi aveva inghiottito tutta la notte. Accesi la lam­pada, guar­dai l’orologio e sobbalzai: era quasi mezzogiorno. Spalancai le persiane: dormiva anche il cielo, invisibile oltre la coperta di nuvole. Aura mi aveva lasciato un messaggio scritto. «In cucina è pronta la colazione. Devi solo scal­darti il latte e preparare il caffè. Muoviti come se fossi a casa tua. Re­sta quanto vuoi e telefonami tu. Non voglio sve­gliarti.»

Indugiai venti minuti sotto la doccia. In cucina c’era cibo sufficiente per una fa­miglia intera. Uova, pancetta, brioche, fette biscottate, cereali, confet­ture varie, miele, frutta esotica, formaggi... Mangiai per due e telefonai alla Genesis. Aura mi salutò con un «Ciao, Iannis: tutto a posto?»

Iannis: ci avrei giurato.

«Resta al telefono: Hernández vuole parlarti. Quando te ne vai lascia la chiave in por­tineria. Buona fortuna.»

Mi passò Hernández. Avrei preferito che Aura non fosse andata a spif­ferargli della notte trascorsa insieme.

Il capo era meno sgradevole del solito. «Mi è stato riferito che non sta troppo bene. Si prenda un giorno o due di riposo. Penso io ad avvertire van der Voort.» Riat­taccò bruscamente: aveva deciso di essere ma­gnanimo, ma non voleva strafare.

Avevo un po’ di tempo per me. Ci voleva. Ero impreparato a tutto, e sentivo il biso­gno di ristabi­lire un contatto con me stesso. L’ultimo in­contro con Ingrid, e ciò che ne era se­guìto, mi pesava addosso come un in­cubo. Stavo perdendo il senso della re­altà. Non riuscivo ad afferrare il significato delle cose. Ero perso, più perso di quanto fossi normalmente. Perso e stu­pido. Il mondo circostante mi era estraneo. Mi sovra­stava con una specie di incomprensibile immobi­lità. Personaggi sfuggenti entravano e uscivano continuamente di scena: Claude, Ingrid, Stoltz, Arp, Francesca, la signora Al­bers, la signora van Helde... E i luoghi e gli eventi si incrocia­vano e si so­vrapponevano nella mappa di una città inverosimile: Milano Blu con l’o­spedale rosso, il Futura Light con il Tulip, lo Schwarzloch con l’Id, le stanze cieche della Genesis con il tetro in­verno del cuore, il Singel con il ge­lido Aare e il suo cadavere nella corrente...

Solo la Vanta non mi nascondeva niente. E non mi tradiva. Era calda e silen­ziosa, com­plice e veloce. Con lei ero al sicuro. Con lei io ero io. Niente maschere. Niente nomi inventati. Niente misteri. Era­vamo due e tutt’uno. Non che attribuissi alle macchine le virtù di una persona. Non ero e non sono né feticista, né mentecatto. Solo che mi sentivo una macchina an­ch’io. Vanta, Egon: due macchine. Pura energia, movi­mento puro in uno spazio senza energia e senza movimento.

Di giorno, Milano Blu era ancora più morta che di notte. Ce la la­sciammo alle spalle in un soffio. Le torri blu sfi­lavano mute negli specchi retrovisori. Si allontana­vano da noi e da sé stesse. Scompa­rivano per sem­pre, affondate nello stesso oblio da cui sorge­vano. Fuori dal blu, la città riac­quistava un minimo di desolazione vitale. At­traversammo un vec­chio quartiere in demolizione. Oltre i cumuli di ma­cerie, si vede­vano ancora in piedi gli ul­timi vecchi condo­mini condannati a morte. Avevano la pelle gonfia e sfiorita: un tempo erano state case abitate da corpi, voci, musica, og­getti, sen­timenti; ora erano de­crepite rose di ce­mento e calcestruzzo, pronte ad afflosciarsi in una nuvola di dissolu­zione. Più avanti ci vennero incontro gli spacciatori di sogni, con ogni genere di merce proibita. E poi quelli che non ave­vano niente da vendere e niente da comprare. Infine la città di chi poteva permettersi un pas­sato e un presente, e magari anche la speranza di un futuro. La città dove tutte le ore erano l’ora di punta, e nulla stava fermo, come se ogni essere vivente e ogni cosa sapes­sero dove andare e per­ché.

Ci inoltrammo — Vanta ed Egon — dove s’infoltivano tutti, nell’onda del movi­mento ge­nerale. Prendemmo per la sopraelevata, scalando spi­rali di svincoli e pun­tando in direzione nord. Sotto di noi le vie, le case e i monumenti del centro storico cu­sto­divano antiche illusioni. Volevo qual­cosa di antico anche per me. Radici. Scavi. Pa­role. Sguardi. Qualcosa.

***

Mio padre e mia madre abitavano ancora nella casa dov’ero cresciuto, fuori Monza, vi­cino a uno sta­bilimento per la torrefazione del caffè. Era una casa grande e poco luminosa, piena di ombre e di stoffe: tap­peti, tendaggi, arazzi consunti, oltre alle scorte di tessuti che i miei genitori usavano per confezionare vestiti. Lavoravano per conto di un’industria di abbiglia­mento locale, ma le cose non andavano più come una volta. C’era sempre meno da fare, e come se ciò non bastasse avevano dovuto accet­tare una umiliante ridu­zione dei compensi.

Li vedevo poco. E anche quando li vedevo, l’unica con cui potessi an­cora scam­biare due parole era mia madre. Il vecchio non mi parlava da due anni. Se prendeva le mie telefonate, passava l’apparecchio alla mamma senza dirmi neanche ciao. Non aveva mai digerito la mia attività. Da quando avevo messo piede alla Diskret ero come morto per lui. Si era aspet­tato per me un avvenire diverso, e devo ammettere che neanch’io mi rico­noscevo un granché nel futuro che mi ero costruito: o, meglio, che si era co­struito da sé, senza consultarmi fino in fondo. Mio padre mi aveva imma­ginato ingegnere, professioni­sta di successo, vo­tato a una vita ordinata e si­cura, lon­tana dagli in­quinamenti fisici e morali della mo­dernità. Gli man­cava il senso dei tempi. La sua casa-laboratorio era una specie di rifugio: non aveva nessuna intenzione di scendere a patti con la re­altà. Ap­parteneva al­l’ultima generazione dei fertili e aveva avuto la chance di pro­durre un fi­glio fertile, una rarità; l’estinzione della specie era un’ipotesi che non lo ri­guar­dava e non doveva riguardare nemmeno suo figlio. Per lui la fine del mondo ero io col mio tradi­mento, non quella oggettiva­mente minac­ciata dalla collettiva crisi ge­netica e dal­l’a­vanzata dei nuovi virus. Mia ma­dre condivideva in lungo e in largo le sue idee, ma almeno non usava il si­len­ziatore e continuava a esprimere a voce alta disapprova­zioni e malu­mori. Il suo rancore nei miei confronti era temperato da un velo di commi­sera­zione. Non tutto era per­duto con lei.

Mi abbracciò sulla soglia e si lasciò scappare una lacrima. L’aroma del caffè tor­re­fatto era ine­briante. Disse che ero troppo sciupato e mi rimpro­verò come se fosse colpa mia. Mio pa­dre era intento a un solitario con le carte: neanche si alzò dalla se­dia. Volse appena il capo per accertarsi che ero io e si ri­tuffò in quel gioco meccanico e surreale. Se ne stava incaponito come un robot a un’estremità del lungo tavolo da la­voro, in gran parte in­gombrato da rotoli di seta sin­tetica di diverso colore: giallo, arancio, scar­latto.

«Ho cambiato attività», dissi a mia madre a voce abbastanza alta perché mi sen­tisse an­che lui. «Di’ a mio padre che non faccio più il babymaker.»

Lei e io eravamo ancora in piedi, come statue in un museo chiuso da anni. Si portò en­trambe le mani sul viso, trattenne il respiro e i suoi oc­chi diventarono più chiari: così almeno mi parve. Mio padre considerò a lungo la carta da gioco che aveva in mano, come se non riu­scisse a decifrarla cor­rettamente. Poi la posò sul tavolo, tirò accanto a sé una sedia e mi disse di avvicinarmi. Pronunciò proprio due parole: «Vieni qua». Andammo a se­derci tutti e due, mia madre e io, accanto a lui. Si sfilò dal polso l’orologio, un vecchio Blancpain che gli aveva lasciato suo padre, e me lo porse. Ero imbarazzato: sapevo quanto tenesse a quell’orologio, non me la sentivo proprio di ac­cettarlo. «Non è il caso», gli dissi; «tienilo tu, per favore, ne ho uno bellissimo an­ch’io: vedi?»

«Ti ho detto di prenderlo», ordinò. E mia madre, di rincalzo: «Egon, non discu­tere con tuo padre. Ha fatto un voto. Ha giurato che ti avrebbe dato l’orologio il giorno che avresti cambiato mestiere.»

«Non ho fatto niente per meritare la tua rabbia e niente per meri­tare il tuo orolo­gio», fu tutto quello che mi venne da dire. Sollevò la mano più nodosa del mondo e mi colpì violentemente sul collo, ap­pena sotto la nuca. Il gesto mi colse di sorpresa: non mi aveva mai picchiato in vita sua. Mia madre ne fu più sconvolta e ama­reggiata di me, e lo investì con un in­sulto dopo l’altro. «Prenditi l’orologio, idiota», ripeté lui; «io la mia fortuna l’ho già avuta. Chi ne ha bisogno adesso sei tu.»

Mi aveva quasi scardinato il collo, ma ca­pivo che la guerra era fi­nita. Presi l’oro­logio. Era vero: avevo bi­sogno di fortuna. Più di quanto lui po­tesse immagi­nare. Ero andato a trovarli per tante ragioni. Ma soprattutto perché mi sen­tivo istinti­va­mente in pericolo.


© Pasquale Barbella

(3 - Continua)

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