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II.
Passai la domenica chiuso in casa a Milano. Non feci altro che dormire e giocare ai videogame. C’era nebbia fuori e dentro di me. Chiamai più volte Ingrid senza successo: dovetti accontentarmi della sua voce registrata sulla segreteria telefonica. Bevvi tutta la birra che mi andò di bere e stramaledissi il mio lavoro e il mio destino.
Lunedì mattina c’era aria di burrasca alla Genesis. Persino i robot ce l’avevano con me. Morphero mi venne incontro lungo il corridoio, bilanciandosi maldestramente sulle articolazioni meccaniche e spostando a piccoli scatti le videocamere rotanti per individuare gli ostacoli e calcolare le distanze. Andava ripetendo ossessivamente il jingle campionato (il solito O mein Papa), per indicarmi che c’era un messaggio sul suo visualizzatore frontale: «Egon con urgenza da Marti.»
Aura aveva una faccia da funerale. «L’hai fatta grossa, ragazzo. Il capo ti vuole parlare, e subito.»
«E tu, hai niente da dirmi?»
«Cosa vuoi che ti dica? Sei riuscito a commettere in un colpo solo un miliardo di infrazioni. Alcool. Ore piccole. Donne. Trasferimenti da un albergo all’altro. Bugie. E chissà quant’altro.»
Era depressa. L’avevo tradita: proprio io, il prediletto. Non riusciva a nascondere il magone. Ma si riscosse, e riconquistò di colpo il suo piglio dirigenziale. «Sono le nove. Hernández ti aspetta nel suo ufficio. Se non ti butta fuori a calci, cosa che meriteresti ampiamente, fatti vedere al progress delle nove e mezzo.»
Mi allontanai a testa bassa. Ero nero. Avrei volentieri strangolato Adhémar, Arp e tutte le spie dell’universo.
Hernández era al telefono. Mi lanciò un’occhiata neutra e continuò la conversazione, senza invitarmi a sedere. Me ne stetti impalato davanti alla scrivania ad aspettare il momento di fuoco, come un bambino in attesa del castigo.
A un certo punto disse al telefono qualcosa che mi lasciò di stucco: «Mi sembra una soluzione impraticabile. Sto per licenziarlo. Fra cinque minuti sarà un ex agente della Genesis.»
Parlava di me?
Parlava di me.
«Ma non c’è una soluzione alternativa? Te l’ho detto: il ragazzo è inaffidabile.» Mi lanciò un’altra occhiata mentre pronunciava «ragazzo».
«Ho capito. Vedrò quello che posso fare. Maledizione.»
Giù l’apparecchio, come se volesse frantumarlo. Mi squadrò con gli occhi piccoli piccoli infossati nel faccione.
«Alexandris, lei è uno stronzo.»
«Non ho fatto niente di male.»
«Stia zitto. O abbia almeno il coraggio di ammettere che ha preso una sbandata. Grossa.»
«Sono licenziato?»
Colpì forte il tavolo col palmo di una mano. «Chiuda il becco! L’unico autorizzato a parlare, qui dentro, sono io!»
Tenni il becco chiuso.
Citofonò alla segretaria. «Mi mandi Marti. Immediatamente.»
Ci fronteggiammo cupi e in silenzio finché la convocata non varcò la soglia.
«Aura, toglimi dai piedi questo buffone. Affibbiagli il nome della settimana: Stronzo può andare benissimo. E spediscilo ad Amsterdam di corsa. Hanno trovato una deficiente che muore dalla voglia di scoparselo. O lui o nessuno.»
Aura era sollevata, anche se non lo dava a vedere. Mi ordinò di uscire e chiudere la porta. Rimase nell’ufficio di Hernández.
Per ingannare l’attesa presi un po’ in giro Morphero. «Morphero con urgenza da Lukas. Morphero con urgenza da Lukas.» Il robot elaborò il messaggio, fece dietrofront e si allontanò coi suoi passetti da scemo. Sapevo che Lukas era in vacanza, ma Morphero non aveva abbastanza immaginazione per distinguere un comando serio da uno scherzo.
Finalmente ricomparve Aura. Senza guardarmi si affrettò verso la sua stanza, facendomi cenno di seguirla.
Si sedette e, sempre senza guardarmi, prese a scrivere appunti e a parlarmi simultaneamente. «Questa settimana ti chiami Johann. Ficcatelo bene in testa. Johann. Missione speciale ad Amsterdam.»
«Che devo fare?»
«Sostituire un certo Étienne Ethan. Pare che sia scomparso dalla circolazione. Lo stanno cercando da una ventina di giorni, inutilmente.»
«Perché proprio io?»
«Perché hai una fortuna sfacciata. Questo Ethan ti ha salvato il culo, ragazzo. Tu e lui siete gli unici agenti del pianeta che corrispondano al briefing.»
«Se si tratta di prestazioni particolari, non ci sto.»
«Non fare lo spiritoso. Ringrazia la sorte, invece. La signora van Helde esige un partner biologicamente simile al marito. Ha fornito dati antropometrici, radiografie e analisi del sangue del signor van Helde e i numeri corrispondono quasi perfettamente ai tuoi e a quelli di Ethan.»
«Per un lavoruccio accurato sarebbe stato più utile confrontare i codici genetici.»
«Piantala con le burle. Sai bene che non si scherza con le sequenze del DNA. Per noi e per i nostri utenti sono rivelazioni tabù.»
«Questo Ethan è di Amsterdam?»
«Nossignore. Risulta nel catalogo di Berlino. Ma a Berlino non sanno niente di lui. Accidenti a te: non sono fatti che ti riguardano.»
«Grazie.»
«Non ringraziarmi. Non sono stata io a tirarti fuori dai guai.»
«Pensi che Hernández mi avrebbe licenziato sul serio?»
«Com’è vero che esisti. Passa in segreteria per il volo e l’alloggio. E attento ai passi falsi.»
«Ci saranno ancora quell’Adhémar e quell’Arp a spiarmi?»
«Non ne so niente. Alza i tacchi, per favore. E fa’ in modo di non darmi un altro dispiacere.»
«Ricevuto. Quanti appuntamenti ho con la signora van Helde?»
«Non lo so. Chiedi al caposervizio di Amsterdam e telefonami. Ho bisogno di conoscere con esattezza impegni e spostamenti del nostro personale.»
«Come faccio a telefonarti? Ho perso il cellulare.»
«Bravo, ci mancava anche questa. Usa gli apparecchi pubblici.»
Amsterdam!
Non vedevo l’ora di mettere le mani su Claude e Sanguisuga Fox. Era il caso a portarmi sul luogo della vendetta? O in quella trasferta c’era il loro zampino? Più ci pensavo e meno ne venivo a capo.
Era tutto così balzano. Claude mi aveva indotto, direttamente o indirettamente, alle trasgressioni più aborrite dal network. Non ero andato a letto con Ingrid solo perché lei me l’aveva impedito. Che ragione c’era di indurmi in errore per poi denunciarmi? E chi era il tizio che voleva mangiarsi vivo Adhémar al Futura Light? E perché Adhémar se n’era andato in fretta e furia: c’era qualche relazione con l’episodio del club? Aveva paura di quel tipo? E come mai non si faceva trovare? E qual era l’esatto ruolo di Arp in tutta la storia? Che fine avevano fatto i miei oggetti personali?
Fra tutti quei misteri, l’unico dato piacevole era la scoperta di Ingrid. Me la sognavo come se fosse la donna della mia vita, e mi sentivo perso. Le avevo mentito. Desideravo rivederla e trovare il coraggio di dirle tutto di me. La verità. Ma neanche lei doveva essere un gran modello di sincerità. Eravamo pari: non sapevo di lei più di quanto lei sapesse di me. Perché era così guardinga allo Schwarzloch? Da chi temeva di essere osservata o seguita? Da Claude? Da Arp? Doveva aver visto uno di loro. Uno di loro forse era lì: le delazioni sul mio conto erano troppo circostanziate. «Ore piccole», aveva detto Aura. Qualcuno mi aveva tenuto d’occhio tutto il tempo? Chi altri sapeva, in quella sala da ballo, che dormivo all’Akzidenz?
Ero deciso a rivedere Ingrid, a ogni costo. Magari facendo un salto a Zurigo nel weekend. Ma come potevo resistere senza di lei una settimana intera?
Mi avevano fissato ben quattro appuntamenti con la signora van Helde, ed ero stato opzionato per eventuali repliche nei suoi periodi fecondi finché non fosse rimasta in stato interessante. Voleva proprio un figlio da me. O da Étienne Ethan, nel caso che il latitante fosse rispuntato all’orizzonte.
Dopo le istruzioni ricevute alla Genesis, telefonai ad Aura Marti. «Ne ho per un pezzo. Mercoledì, giovedì, venerdì e sabato. Spero di farcela.»
«Chiedi una delle nuove tute elettriche per ogni evenienza. Ma soprattutto non fare scemenze in giro. Lo sai che non puoi permetterti sregolatezze.»
Riattaccai. Chiesi a una segretaria di poter parlare con Adhémar.
«È a Berlino, credo.»
Chiesi di Fox Arp.
Mi accolse a braccia aperte. «Lucien! Che sorpresa vederti qui!»
«Chiamami Johann. Non ci davamo del lei?»
«Ma adesso sei nel mio regno. Amici?»
«Amici un cazzo. Odio le spie.»
«Hai ragione: anch’io. Non è il mio mestiere. Non lo so fare.»
«Te la cavi magnificamente, invece. Per poco non mi hanno sbattuto fuori dal sistema.»
«Mi dispiace. Davvero. Prendi un caffè con me?»
«Con tutti tranne che con te.»
«È stato per fare un favore a Claude. Mi ha tanto raccomandato di tenerti d’occhio. Per il tuo bene.»
«Siete due angeli. Due angeli custodi.»
«Via, non prendertela. Mi farò perdonare, vedrai. Ti porterò nei posti più carini della città.»
«No, grazie. Niente posti carini. E soprattutto non con te, né con Claude. A proposito: cosa è andato a fare a Berlino?»
«A cercare un certo Ethan. Un ragazzaccio che quando cambia indirizzo non avverte nessuno.»
«E non lo ha ancora trovato? Mi stupisce. Un ficcanaso così zelante.»
«Non dovresti giudicarlo così. Agisce a fin di bene.»
«Te l’ha detto che lo hanno picchiato in quel club?»
Cadde dalle nuvole. «Picchiato? Chi lo ha picchiato?»
«Un gentiluomo di cento chili con l’orecchino su una tempia.»
Diventò color cenere. «Ti dispiace chiudere la porta?», sussurrò. Mi chiusi la porta alle spalle. Da un cassetto della scrivania tirò fuori una copia del Posteuro Daily. Lo aprì alle pagine di cronaca e mi mostrò una foto. «Uno così?»
Guardai bene. Era proprio lui, il simpaticone del Futura Light.
Si chiamava Max Stoltz. Il suo cadavere era stato ripescato nell’Aare fra Solothurn e Büren, poco più di trenta chilometri a nord di Berna.
***
Con le mani in tasca camminavo lungo i canali, osservando sulla superficie dell’acqua i riflessi delle vecchie case rossobrune. L’inverno era umido e mite: così mite che l’acqua non si era ghiacciata quell’anno, procurando qualche delusione ai maniaci del pattinaggio. Battelli, chiatte e barconi si muovevano al rallentatore. Il tempo aveva scelto Amsterdam per lasciarsi andare pigramente alla deriva. Ma erano ozi solo apparenti: c’era un movimento di furgoni e biciclette dappertutto, e i mercatini erano variopinti e affollati come a primavera. Cinque o sei ragazzini si rincorrevano su un ponte. Mi domandavo quanti fossero stati generati con la partecipazione di un padre a pagamento. Mi sentivo terribilmente vuoto. Mi era stato affidato il compito di contribuire alla ripopolazione del mondo, ma nessuno si occupava veramente di me. Ero solo. Avevo poco da fare, e quel poco che avevo da fare non mi dava in cambio un granché, a parte il denaro. Mi attaccavo al pensiero di Ingrid: fantasticavo. Forse Ingrid era una possibilità. Ma era una possibilità remota. Era più chiusa e inaccessibile di me. È vero, mi aveva dedicato un po’ del suo tempo. Chissà perché mi aveva dato spago; forse ero per lei una compagnia come un’altra. Me ne avrebbe dato ancora? O mi aveva già dimenticato?
Decisi di provare a richiamarla da un posto pubblico. Non avevo voluto farlo dalla foresteria dove alloggiavo. Giona, uno che lavorava con me a Milano e che ne faceva di tutti i colori senza farsi beccare come il sottoscritto, una volta mi aveva messo in guardia dicendomi che i telefoni delle foresterie della Genesis erano tutti sotto controllo. Un piccolo café sull’Herengracht era quello che ci voleva per bere qualcosa di caldo e telefonare a Ingrid. Avevo il sospetto di essere seguito. Non da Arp, né da uno dei soliti occhialuti in doppiopetto blu. Era una biondina esile e piuttosto insignificante: impermeabile viola, berretto plastificato dello stesso colore. Vediamo se entra anche lei, mi dissi varcando la soglia del bar. Sedetti a un tavolino d’angolo e ordinai una cioccolata calda. C’erano pochi avventori. Le pareti rivestite di legno, il parquet consunto, le sedie old Americae le lampade verdi sospese sopra il bancone sembravano ignorare del tutto gli umori e i clamori del ventunesimo secolo. Dopo pochi minuti, la ragazza dall’impermeabile viola si fece viva. Andò a piazzarsi due tavolini più in là, in una posizione da cui non era difficile controllarmi senza dare nell’occhio, e finse di immergersi nella lettura di un libro. Si fece servire un bicchiere di latte alla menta. La osservai per cinque minuti. Dopodiché mi alzai, presi la mia cioccolata, attraversai lo spazio che ci separava e andai a sedermi, con molta faccia tosta, al suo tavolino. Non era poi così anonima: i tratti erano delicati e graziosi. Era una di quelle bellezze poco vistose, che si rivelano a poco a poco soltanto a chi sa scrutare oltre le apparenze.
«L’ho vista tutta sola e mi sono detto: con questo freddo, forse non le dispiacerà di scaldarsi con un buon whisky.»
«Ho già il mio latte alla menta. E lei la sua cioccolata.»
«Posso sedermi?»
«Si è già seduto, temo.»
«Davvero non ha voglia di qualcosa di forte? Non so: un jenever al limone, oppure un advokaat.»
«L’alcool è sempre sconsigliabile. Di mattina, poi, è veleno allo stato puro.»
«Di solito mi fanno pedinare da maschietti dall’aspetto serio e noioso. Lei è un’eccezione inaspettata.»
Si mosse un po’ sulla sedia. Era chiaramente a disagio. Chiuse il libro che stava leggendo: Sportswriter del vecchio Richard Ford, uno dei miei classici preferiti.
«Desidero soltanto prendermi cura di lei.»
«Ne sono onorato. Che tipo di cura?»
«Evitarle di farsi del male. Per esempio bevendo gli aperitivi sbagliati.»
«È Fox Arp che la manda?»
«No, era stabilito nel progress. Semplice routine.»
«Come si chiama?»
«Francesca.»
«Mi tolga una curiosità, Francesca. Com’è che per quattordici mesi nessuno si è accorto di me e da una settimana, all’improvviso, non posso più muovere un passo senza trovarmi un santo protettore tra i piedi?»
«Si sbaglia, signor Johann. Il fatto è che ci si accorge di essere osservati solo quando si desidera commettere qualche irregolarità.»
Parlava come una maestrina. Non era il mio tipo, ma mi faceva venir voglia di baciarla. Così, tanto per smeccanizzarla.
«Sta cercando di dirmi che agli scrutatori della Genesis non è sfuggita nessuna delle mie ultime tremila pipì?»
«La prego, signor Johann.»
«Mi risponda, se può», incalzai.
«Ogni agente ha diritto a un regolare piano di protezione. Anche lei, signor Johann. Mi sono già occupata di lei in occasione di altre sue visite ad Amsterdam.»
«Non ci credo. E non mi chiami signor Johann, suona stupido.»
«L’anno scorso ero sempre seduta dietro di lei quando andava al cinema. Vuole che le ricordi i titoli dei film?»
«Mi risparmi le sue memorie, dolcezza. Mi commuovo facilmente.»
«Lei passeggia sempre molto, signor... Mi scusi.»
Aveva dato un altro sorso al suo latte color turchese e poi aveva abbassato lo sguardo.
«Lasci perdere i nomi d’arte. Mi chiami Egon e basta, senza signor. Se non è contrario al regolamento può anche darmi del tu.»
«Non è contrario al regolamento, ma preferisco continuare a darle del lei, se non la offende. Lei mi intimidisce un po’.»
«E che altro ha notato di me, oltre al fatto che la intimidisco e che mi piace fare il turista lungo i canali?»
«Ho notato che lei è una persona perbene, signor Egon.»
«Egon: niente signor. Perbene in che senso?»
«Non ho mai avuto il dispiacere di dover segnalare suoi comportamenti disdicevoli nei miei rapporti alla direzione. Gliene sono infinitamente grata.»
«Ci sono colleghi che la costringono a scrivere storie più eccitanti?»
«Eccitanti non direi. Le solite scappatelle, se posso chiamarle così.»
«Di che scappatelle si tratta?»
«Niente di particolare.»
«Si è mai occupata di Étienne Ethan?»
«Non ho avuto il piacere di conoscerlo.»
«Dove si è cacciato? La signora van Helde avrebbe fatto carte false per una sveltina con lui.»
Arrossì. Ripose Richard Ford nella borsetta e fece per alzarsi. Le presi un braccio e la costrinsi a sedersi di nuovo. La sua voce diventò implorante.
«La prego, signor... La prego, Egon, il suo linguaggio mi imbarazza. E poi non dovrei star qui a parlare con lei, capisce? Mi rimuoveranno dall’incarico. Dovrà farsi proteggere da altre persone, io non sono più affidabile.»
«Chiedo scusa. Cosa sa di questo Ethan?»
«Ma niente.»
«Cosa sa dirmi di lui?», insistetti avvicinando il volto al suo e guardandola negli occhi teneramente.
«Perché lo vuol sapere?»
«Sono curioso.»
«Nel video sembra un ragazzo a posto. Carino. Capelli corti, occhi azzurri, espressione gentile. Non so dirle altro.»
«Si sforzi», sussurrai avvicinandomi di più. I rari avventori se n’erano andati. La cameriera ci voltava le spalle. D’impulso le posi una mano dietro la nuca, la attirai contro di me e la baciai appassionatamente sulle labbra. Cercò di divincolarsi. Trattenni a lungo lei e il respiro, poi lasciai andare la presa. Era color fiamma. Si guardò intorno in preda a una profonda agitazione.
«Non doveva farlo, signor Egon. Non doveva.»
«Ormai è fatta. Dimentichi.»
Stava quasi per mettersi a piangere. Sperando di farla sentire meglio, mi lasciai andare a una confessione: «Lo sa, Francesca? Questo è il mio primo bacio da sette anni a questa parte.»
Evitava il mio sguardo. Era ostile e confusa. A un mio cenno, la cameriera arrivò con il conto. Pagai per tutti e due.
Nell’alzarsi disse a bassa voce, come se si sentisse intimamente colpevole: «Dovrò scrivere tutto nel rapporto.»
«Tutto cosa? Ho commesso qualche imprudenza? Ho bevuto solo una cioccolata.»
«Dovrò riportare che c’è stata una conversazione fra noi. Che lei si è accorto della mia sorveglianza.»
«Scriverà anche che l’ho baciata?»
Abbassò ancora di più la voce. Tutta la mestizia dell’inverno si era condensata dentro di lei. «Dovrò fare il mio dovere. Mi costerà il posto.»
«Via, Francesca. Non è necessario entrare nei dettagli. E non deve correre rischi per colpa mia. Volevo solo sentire cosa si prova a baciare una ragazza: era una sensazione che avevo dimenticato.»
«Non scherzi su queste cose.»
«Oh, c’è poco da scherzare. Ha mai provato a baciare qualcuno con una Silent Face incollata sul viso? È impossibile, glielo assicuro.»
«Addio, signor Egon.»
«Arrivederci.» L’accompagnai sulla soglia e si allontanò come un cane bastonato. Rientrai nel caffè per chiamare Ingrid.
Al telefono era più cupa del solito. La sua voce era velluto nero. Era già mezzogiorno, ma non doveva essersi svegliata da molto.
«Ah, sei tu», mormorò. Non sembrava sorpresa. Avrei pagato qualunque cifra per suscitare in lei una reazione più calorosa.
«Sono ad Amsterdam. Ho una mezza idea di raggiungerti a Zurigo domenica. Se non hai altri impegni.»
«Che ci fai ad Amsterdam?»
Si sentiva che era una domanda come un’altra. Il tono era indifferente. Ma trovavo sensuale persino la sua indifferenza.
«I soliti affari barbosi. Dicevo che verrei volentieri a Zurigo, se ti fa piacere.»
«Non venire a Zurigo. È un mortorio. Comincio a odiare questa città.»
La possibilità di rivederla stava andando a farsi friggere. Ma, con mia meraviglia, aggiunse: «Vengo io dalle tue parti. Sei mai stato ad Haarlem? Potremmo vederci domenica al museo Frans Hals. Aprono all’una in punto.»
Anche accecato e mummificato con la Silent Face, percepivo nitidamente che la signora van Helde mi subiva con un sentimento di orrore. Non c’era la minima collaborazione. Era immobile come il legno, gelida come metallo ghiacciato: tanto da farmi sentire un necrofilo. La sua inerzia stava mettendo a dura prova la mia efficienza professionale. E dire che avevo rifiutato la tuta elettrica: applicata al sesso, la tecnologia mi spaventava. Temevo di rimetterci la pelle per un cortocircuito: e il reparto clinico della Genesis, almeno per i miei gusti, non era il posto più accogliente per congedarsi dall’esistenza.
Mi concentrai un po’ su Ingrid, un po’ sul bacio strappato a Francesca. Il buio forzato della situazione aveva almeno questo di buono: che potevi dare sfogo alla fantasia, farla divagare liberamente. Uscii da quell’incontro come da una dimensione surreale. Metà incubo, metà sogno. Metà dolore, metà piacere. E mi sentivo dimezzato anch’io: il corpo da una parte, la coscienza dall’altra. Johann di qua, Egon di là.
La signora svanì in un silenzio ancora più notturno di quello che ci aveva tenuti insieme. Se ne andò e indugiai sul letto più a lungo che potei, senza neanche togliermi la maschera azzurra. Non avevo nessun desiderio di alzarmi, nessun desiderio di niente. Ignorai gli inviti della voce registrata a riprendere la mia libertà. L’unica libertà che mi premeva era starmene lì immobile, nell’oscurità più profonda, a sforzarmi di immaginare un futuro diverso: una donna da poter baciare, da poter guardare, con cui uscire o stare in casa secondo l’estro del momento. Ingrid: ma una Ingrid felice di esistere, una Ingrid dal sorriso più facile e aperto, una donna da guidare e che sapesse guidarmi, darmi consigli e idee, farmi provare emozioni, aiutarmi a trovare nella vita qualche significato, qualche certezza.
***
Chiesi alla centralinista di chiamare la Genesis di Berlino e di passarmi Claude.
«Il dottor Adhémar non è più a Berlino», rispose senza smettere di scrivere al computer.
«Mi dica dov’è, allora.»
«Non saprei.»
Andai a bussare alla porta di Fox Arp. Gli chiesi a bruciapelo dove fosse finito Claude Adhémar.
«È in viaggio per Chicago: dovrebbe essere lì prima di sera. C’è qualcosa che vuoi chiedergli?»
«Solo sentire come sta. Da Zurigo è schizzato via senza nemmeno salutarmi.»
«Se si fa vivo, riferirò.»
«Che voleva quello Stoltz da lui?»
«Non ne ho idea.»
Sembravano tutti indaffarati. E tutti reticenti. Nemmeno Fox Arp mostrava più il minimo segno di interesse nei miei confronti. Ero nessuno. Più nessuno che mai, se così si può dire.
Max Stoltz, stando alla scarna nota di cronaca del Posteuro, era impiegato alla Weltbibliothek di Berna. Abitava da solo in uno chalet nei pressi di Burgdorf. Nessun precedente penale. Prima di gettarlo nelle acque dell’Aare, gli avevano spappolato il polmone sinistro con una Glaser Safety Slug: devastante cartuccia «a frattura intrasomatica», costituita da un proiettile di zinco ripieno di pallini vogliosi di far scempio. Il colpo era partito a distanza ravvicinata da una 38 Special. La stampa federale non era più tornata sulla notizia nei giorni successivi al ritrovamento. Pensai che, robusto e violento com’era, Stoltz dovesse conoscere l’aggressore e fidarsene al punto di farsi cogliere di sorpresa. La sua sorte aveva qualcosa a che fare con Claude? Mi sforzai di ricordare se la sera che l’avevo visto al Futura Light Stoltz fosse solo o in compagnia. Il locale era affollato e lui stava seduto a un tavolo lungo, di quelli che vengono occupati anche da avventori che non si conoscono tra loro fino all’esaurimento dei posti disponibili. Quando era stato messo alla porta, nessuno lo aveva difeso o seguìto.
Rimuginavo su Stoltz, sul suo destino e sugli eventi di quegli ultimi giorni nella penombra di un soggiorno in miniatura, al terzo piano di una casa stretta, antica e leggermente inclinata sul Singel. Si diceva che gli appartamenti destinati dalla Genesis all’alloggio degli agenti di passaggio fossero stati abitati, in passato, da prostitute eccentriche, use a mostrarsi nude ai vetri delle finestre. Mi sentivo un po’ nudo anch’io, e non del tutto fuori luogo in quell’angolo di mondo dove il tempo aveva deciso di assopirsi. Gli stessi arredi della casa facevano pensare alla storia, più che al presente. Logore tappezzerie fiamminghe, lampade finto-liberty, mobili decrepiti e invasi dai tarli. Era però un posticino caldo, in tutti i sensi. Di quelli dove uno si sente provvisoriamente al sicuro. Protetto dal legno, dai canali, dalle muffe del passato. La radio trasmetteva a basso volume una vecchia ballata per pianoforte: malinconia pura, distillata da dita che conoscevano l’arte di spezzarti il cuore.
Bussarono alla porta, sommessamente. Trasalii. Chi poteva cercarmi? Schiusi l’uscio con un lieve senso di apprensione. Era Francesca, con l’indice sulle labbra: mi faceva segno di tacere. Spalancai la porta sollevato e mi feci da parte per lasciarla entrare; ma lei mi esortò a uscire, sempre a gesti. Era guardinga, come lo era stata al caffè; era guardinga ventiquattr’ore su ventiquattro. Mi buttai sulle spalle il giaccone e la seguii giù per le scale, aggiungendo il mio silenzio al suo.
Lungo il canale si spiegò. «Spero di non averla disturbata. È questione di minuti. Ho qualche confidenza da farle, ma è più prudente a cielo aperto.»
Giona mi aveva parlato di telefoni sotto controllo. C’erano anche dei microfoni nascosti? Lo chiesi a Francesca.
«Non si sa mai», si limitò a rispondere. E dopo un po’: «Non so se faccio bene. Anzi sono sicura di no.»
Stavo sulle spine, ma non le forzai la mano. Attesi pazientemente che trovasse il coraggio di aprirsi. Ero certo che l’avrebbe fatto: aveva già osato abbastanza, dopotutto.
«Ho pensato che le stesse a cuore quella faccenda di Étienne Ethan. Così mi sono detta: forse non c’è niente di male se gliene parlo.»
Aveva proprio bisogno di un incoraggiamento. Un’auto sfrecciò a due passi da lei; istintivamente la trassi accanto a me sul marciapiede, e non staccai il mio braccio dal suo. Ai passanti che ci incrociavano apparivamo forse come una tranquilla coppia di fidanzati, o di sposi freschi in viaggio di nozze nella città dei sogni.
Quel contatto semplice e tutto sommato spontaneo la rinfrancò un poco. «La storia è cominciata alla Genesis di San Francisco qualche tempo fa», esordì.
Raccontò che un’impiegata addetta agli archivi video di quella sede aveva riconosciuto, in Ethan, un’altra persona. Doveva esserci un errore di registrazione, dal momento che l’uomo del provino non era affatto Étienne Ethan ma tale Vernon Ray, che lei aveva conosciuto casualmente a Chicago. Aveva segnalato l’errore al suo direttore.
«Continui», esortai con dolcezza.
«La Genesis di San Francisco non aveva mai avuto niente a che fare né con Étienne Ethan, né con Vernon Ray. Entrambi erano localmente degli emeriti sconosciuti, come per ciascuno di noi la maggior parte degli agenti che affollano il nostro database.»
«Errori di questo genere possono sempre capitare», dissi per liberarla da quella tensione esagerata. «Ogni giorno c’è un viavai di informazioni e aggiornamenti che si incrociano lungo le linee di comunicazione del network. Gli operatori sono centinaia, e i lavativi non mancano. Può succedere che qualche sottotitolo vada a finire, per distrazione, sotto le immagini sbagliate; e che l’errore si propaghi in tempo reale fra tutte le sedi del circuito, installandosi nel traffico dei dati finché non arrivi, casualmente, la prima richiesta di prestazioni.»
«È andata proprio così. Nessuno aveva dato peso alla cosa finché la signora van Helde, fornendo un identikit del partner ideale, non ha costretto il computer a rimettere in pista Ethan, o Vernon Ray, o chi per lui.»
«Procediamo con ordine. Ha detto che nessuno aveva dato peso alla cosa. C’erano altri a conoscenza dell’errore?»
«Praticamente i vertici di tutte le sedi Genesis del mondo. Il direttore di San Francisco aveva prontamente avvertito via mail i colleghi del network, per indurre chiunque conoscesse Vernon Ray o il vero Ethan a correggere i dati.»
«La ricerca aveva dato dei frutti?»
«Da Chicago erano arrivate notizie circostanziate su Vernon Ray. Confermavano che l’uomo del provino era inequivocabilmente Ray, e non Étienne Ethan. Di più: sostenevano che Vernon Ray doveva essere eliminato definitivamente dal database.»
«E perché mai?»
«Perché è morto nel ’50 in un incidente aereo, prima ancora di cominciare la professione. Era stato appena assunto a Chicago, ma non aveva ancora ricevuto nessun incarico. Non ne aveva avuto il tempo.»
«E il vero Ethan? Non è risultato nulla che potesse essere utile a identificarlo correttamente?»
«Può darsi che il dottor Adhémar ne sappia qualcosa. Le mie informazioni si fermano qui.»
«Perché Adhémar?»
«Credo che August van der Voort, il nostro direttore generale, gli abbia affidato il compito di rintracciare Ethan.»
«Se questo Ethan esiste, e se è un babymaker della Genesis, non dovrebbe essere così difficile pescarlo.»
«È quello che penso anch’io.»
«Allora i casi sono due. O Étienne Ethan non esiste...»
«Oppure qualche filiale ha deciso, per ragioni che ignoriamo, di non diffondere informazioni sul suo conto.»
Restai sorpreso per la sua perspicacia. Dietro quell’aria timida e fragile, faceva ruotare i motori della fantasia a velocità apprezzabile. Cominciavo a credere che Francesca si appassionasse a quel gioco d’indagine mentale almeno quanto me, se non di più.
«Francesca, lei è semplicemente straordinaria. Ma perché pensa che ci sia del losco in questa storia?»
«Losco?», mormorò smarrita. Mi resi conto di aver posto una domanda idiota; rischiavo di perdere il contatto che eravamo riusciti a stabilire tra noi. «Non credo di aver accennato a niente di losco.»
«Mi correggo: intendevo dire che forse è una faccenda più sciocca che misteriosa. Ma lei me ne parla in modo così... così cauto.»
«È senz’altro una storia sciocca, e non c’è niente di misterioso. Tant’è vero che tutti i direttori di filiale sono stati avvertiti dello scambio di persona. Un segreto condiviso tra cento persone non è più un segreto.»
«E del resto anche lei — che non è un direttore — ne è informata.»
«Ormai la questione di Étienne Ethan e Vernon Ray è quasi di dominio pubblico. Ogni direttore ne avrà parlato con alcuni dei suoi dirigenti, o anche dei semplici controller, come ha fatto il signor van der Voort, allo scopo di raccogliere testimonianze utili alla soluzione del problema.»
«Ragioniamo. Claude Adhémar deve aver scoperto qualcosa a Zurigo... Lei ha freddo, Francesca. Non conosce un posto tranquillo, dove si possa mandar giù una zuppa di piselli e una buona boeren omelet senza incrociare nessun rompiscatole della ditta?»
Avanzò una proposta audace. «Ho una macchina a due passi da qui. Potremmo fare un salto fuori città, mangiare qualcosa in fretta e rientrare prima delle dieci. A patto che ciascuno paghi per sé. A Zaandam conosco una birreria senza pretese, dove si preparano piatti semplici e tradizionali. Sempre che lei non sia abituato a ristoranti più ricercati.»
«Odio il prestigio. Prendiamo la macchina e andiamo.»
Aveva una Fordine Elektra ultraleggera con la carrozzeria color turchese e i profili in alluminio anodizzato. Tenuta con cura, con l’abitacolo pulito e deodorato. Ci stavamo così stretti da sfiorarci i gomiti, ma la cosa non mi dispiaceva. Guidava un po’ tesa, con la schiena forzatamente eretta, intenta a scrutare puntigliosamente la strada.
«È sicura di non volermi dare del tu? Ormai siamo diventati non solo amici, ma anche complici.»
«Complici! A volte lei usa parole che mi allarmano, signor... Che mi allarmano, Egon.»
«Si rilassi.»
«Lei mi dia del tu. Io vorrei prima assuefarmi all’idea: poi, al momento giusto, forse le darò del tu anch’io senza farci caso. Sempre che ci capiti di incontrarci ancora, naturalmente.»
«Davvero non le dà fastidio se le do del tu?»
«No. Anzi.»
«Anzi cosa?»
«Anzi, mi fa piacere», sussurrò senza perdere d’occhio la strada.
«Bene: allora ti do del tu.»
La birreria di Zaandam si chiamava Tulip ed era ancora più spartana di quanto mi aspettassi. Una matrona spiritosa serviva sveltamente ai tavoli: il buonumore in persona. Rideva per niente e faceva sussultare il doppio mento, come se anche la gola vibrasse di argento vivo. Le luci erano piatte e sfacciate. C’era un televisore acceso ad alto volume. Ma nonostante la rumorosa euforia del Tulip, si creò ugualmente, fra me e Francesca, una corrente di intimità.
In attesa della zuppa la mia compagna mangiò avidamente due fette di pane integrale: l’appetito non le mancava. Stavo per spalmare del burro sul mio pane, e tentò di impedirmelo.
«Per favore, Egon, non cominci a sconfinare. Lasci perdere il burro.»
«Che male vuoi che faccia un po’ di burro a un perticone di ventiquattro anni, tutto sauna e palestra?»
«D’accordo, chiudo un occhio sul burro: ma che sia la prima e l’ultima trasgressione.»
«Facciamo la penultima.» Adescai la gigantessa col più accattivante dei sorrisi, e lei approdò da noi con un volteggio. «Birra, alstublieft. Per tutti e due.»
A Francesca andò un boccone di traverso. «Sta esagerando. Tutta colpa mia.»
«Fai finta di non aver visto. Non ti piace la birra?»
«Che c’entra? A me non è proibita.» Finalmente rise. «Stava dicendo che il dottor Adhémar ha scoperto qualcosa a Zurigo.»
«È solo una supposizione. Doveva fermarsi fino a sabato ma il mercoledì, all’improvviso, è partito.»
«E noi sappiamo dove è andato.»
«Da Zurigo a Berlino, da Berlino a Chicago. Con Berlino e Chicago i conti tornano: Ethan risultava in forza alla Genesis di Berlino.»
«E Chicago era la città di Vernon Ray.»
«Rimane Zurigo.»
«Forse Ethan ha qualcosa a che fare anche con quella città.»
«Forse.»
«Qui si ferma davvero il nostro gioco», concluse delusa. «Almeno per quanto ne sappiamo fino ad ora.»
«Hai mai sentito parlare di un certo Stoltz? Max Stoltz?»
«No.»
«C’è una cosa che non ho mai capito bene. Come vengono registrate le sessioni? Insomma, gli incontri con la clientela?»
«In appositi file riservati. Nomi e date.»
«E una come te è in grado di accedere a questi file?»
«Solo a quelli di Amsterdam. Ogni sede conserva e protegge le proprie registrazioni, senza diffonderle in rete.»
«Che peccato.»
«In ogni caso non servirebbero a niente. Gli agenti non vengono citati con il vero nome, ma con gli pseudonimi settimanali. E anche le clienti usano spesso degli pseudonimi. Non crederà che la signora van Helde si chiami davvero van Helde.»
«Questo vuol dire che Ethan, se esiste e ha avuto appuntamenti professionali — metti a Zurigo, o a Berlino — non è mai citato né come Étienne né come Ethan, ma con nomi del cavolo che, oltretutto, cambiano di settimana in settimana rendendo impossibile trovare un filo conduttore della sua esistenza.»
«È così.»
«Come se ciò non bastasse, gli pseudonimi passano da un maker all’altro indifferentemente; oggi io sono Johann, ma ci sono stati e ci saranno altri Johann prima e dopo di me.»
«Non solo. Possono esserci anche diversi Johann contemporaneamente.»
«E scommetto che i responsabili del progressnon registrano in nessun documento permanente l’attribuzione degli pseudonimi a Tizio e Caio.»
«Esatto.»
«Sicché, tutto ciò che resterà dei miei appuntamenti con la signora van Helde è che la signora van Helde ha incontrato quattro volte un certo Johann. Nessuno ricorderà mai di quale Johann si trattava, e nessuno conosce o conoscerà mai la vera identità della signora van Helde.»
«Sacrosanto.»
«Aspetta: c’è qualcosa che non quadra. Come fa la signora a firmare un assegno, o una carta di credito, o a dare disposizioni alla sua banca per un bonifico, senza usare il suo vero nome? Non vorrai farmi credere che le clienti pagano i conti salati della Genesis portandosi appresso una valigia piena di banconote! In amministrazione devono pur sapere a chi intestare le fatture e da chi farsi pagare.»
«Le persone che desiderano mantenere l’incognito si affidano a intermediari di fiducia. Commercialisti, avvocati, notai, medici curanti, semplici amici: chiunque.»
«Dunque non ci resta che mangiare la zuppa di piselli.»
«E la frittata con pancetta e patate.»
«Ti rivedrò?»
«Se non mi licenziano può ritrovarmi al piano sotto il suo, nella stessa casa sul Singel.»
Scossi il capo stupito. «Non gli bastano i microfoni. Riempiono le foresterie anche di spie in carne e ossa!»
Ridemmo tutti e due.
***
Sabato mattina, il telefono del miniappartamento squillò di buon’ora. Ero immerso nei sogni e dovette gracchiare un bel po’, prima di farsi percepire dalla mia assonnata coscienza.
Era Julio Hernández. Non mi aveva mai chiamato direttamente. Mi predisposi alla batosta di turno.
Invece no. Hernández non era furioso per niente. Era soltanto molto serio. Troppo.
«Ho bisogno di vederla al più presto», si limitò a dire nel tono più ufficiale.
«Ho un ultimo appuntamento con la signora van Helde alle cinque del pomeriggio. Devo chiedere al dottor van der Voort di annullare l’impegno?»
«Niente affatto. Prendo il primo volo per Amsterdam e sono da lei all’ora di pranzo.» Riattaccò senza altre spiegazioni. Precipitai in un abisso di perplessità e non trovai di meglio da fare che grattarmi la nuca.
Erano solo le sette, ma non c’era più verso di riprendere sonno. Mi alzai, riempii la vasca da bagno, versai tutte le schiume profumate che trovai, agitai l’acqua e entrai con la gamba destra in quel lago d’oblio. Ma prima che potessi sollevare la sinistra, udii picchiettare alla porta. Rimasi immobile in quella ridicola posizione, senza sapere che fare.
Bussarono di nuovo. Era Francesca? A quell’ora?
Ritrassi la gamba bagnata, mi avvolsi un asciugamano intorno ai fianchi e mi accostai alla porta. «Chi è?», domandai, tendendo l’orecchio.
«Io», rispose lei con un filo di voce.
Aprii senza altro indugio: vedendomi seminudo, Francesca si sforzò di guardare altrove. La presi per un braccio e la tirai dentro, energicamente. Mi fece il solito segno con l’indice sulle labbra: non si poteva parlare liberamente, lì dentro. Cavò di tasca un foglietto ripiegato e me lo consegnò. Lo aprii e lessi il messaggio: «La chiamerà il dott. Hernández, se non lo ha già fatto. Ho ricevuto certe istruzioni dal dott. van der Voort e mi sono comportata di conseguenza. Dal momento che tutto è stato fatto per il suo bene, la prego di non giudicarmi male.»
Cosa era stato fatto per il mio bene? A quali istruzioni si riferiva? Avevo una gran voglia di sottoporla a un terzo grado, ma l’idea di quei fottuti microfoni mi bloccò. Presi una penna e scrissi nervosamente sul retro del foglio, sbandierandoglielo subito dopo sotto il naso: «Stavo facendo il bagno. Facciamolo insieme. Poi ci rivestiamo e andiamo a parlare fuori.»
Scosse il capo ripetutamente in segno di diniego. Allora a gesti le feci capire di aspettarmi in soggiorno finché non avessi finito. Prima di rientrare in bagno, chiusi a doppia mandata la porta principale e portai la chiave con me.
Mi immersi nella vasca, incredulo di quanto mi andava capitando. Mi sentivo scemo. E terribilmente deluso. Francesca, non so come e perché, doveva avermi tradito, o usato per chissà quale macchinazione con i dirigenti.
Chiusi gli occhi e scivolai nella schiuma fino al mento. Non volevo pensare più a nulla. Tanto meno a Francesca. Dopotutto non era niente per me. Solo una insulsa e ambigua vigilante. Imbottita di regolamenti e procedure dalla testa ai piedi. Non era certo la donna del mio avvenire. Ingrid, Ingrid sì che lo era; non ne avevo mai dubitato, nemmeno nell’intimità del Tulip con Francesca, a Zaandam. Perso nei rancori e nell’acqua calda, non mi accorsi di lei finché non mi accarezzò i capelli. Era entrata in punta di piedi. Aprii gli occhi. Stava seduta sul bordo della vasca e mi guardava con afflizione. E continuava a carezzarmi i capelli. Poi si chinò su di me, mi prese il mento bagnato, lo sollevò e mi baciò con tutta la tenerezza che poteva. Prima che io potessi lanciarmi in qualsiasi tipo di iniziativa, si alzò e uscì dalla stanza.
Ero iscritto all’albo come procreatore professionista, ma era destino che la mia vita privata fosse votata alla castità. Così non si andò oltre quel bacio: il secondo della mia età adulta. Ero turbato e con un diavolo per capello. Non feci niente, nemmeno dopo il bagno, per dare un seguito a quel fugace e inatteso preludio.
Francesca era ancora più mortificata del solito. Aveva urgenza di farsi perdonare qualcosa e, alla luce del giorno, sembrava più preoccupata di quanto non lo fosse stata di sera. Il suo momento migliore era stato al Tulip: vi si era liberata fino a concedermi di bere una birra dopo l’altra e a riderne con me. Ora invece, lungo il Singel e sotto un triste piovigginare, non faceva altro che guardarsi alle spalle e guidarmi chissà dove, con passo spedito, precedendomi di un metro. Seguivo il suo impermeabile e il suo berretto viola con le mani affondate in tasca. Tutti gli incantesimi di Amsterdam si erano dissolti irrimediabilmente.
Rallentò solo al mercato dei fiori. I più mattinieri avevano già aperto le loro botteghe galleggianti e esposto in bell’ordine le loro mercanzie. Qualcuno scaricava merci dai furgoni. Era presto ma l’animazione era già alquanto vivace. Alla pioggia sottile si mescolavano i vapori caldi delle griglie e il profumo di caldarroste e salsicce sfrigolanti. Francesca si fermò a un chiosco e ordinò un cartoccio di patatine alla maionese. Mi avvicinai per chiedere la stessa cosa, e lei mi rivolse la parola senza guardarmi.
«Alcune delle cose che abbiamo vissuto insieme in questi giorni erano previste e altre no», disse. Preso il cartoccio, si mosse lentamente fingendo di osservare con interesse le confezioni di bulbi allineate sugli appositi espositori. La seguivo come un turista stanco. «Il nostro primo incontro era programmato», riprese. Non avevo parole. Lei ne aveva, ma le cedeva a piccole dosi, e a tappe. «Ti ho pedinato sapendo di non passare inosservata, e quando sono entrata in quel caffè ero pronta a scommettere che mi avresti, come dire?, smascherata.»
«Congratulazioni», commentai con tutta l’ironia di cui ero capace. Il cielo era viola come il suo lucido abbigliamento.
«I baci non erano previsti», mormorò come per riscattarsi.
«E la cena al Tulip?»
«Sì».
«E questo tour dei mercatini?»
«No. Nessuno deve sapere che ci siamo visti stamattina.»
«Sentiamo. Sono assetato di rivelazioni, ma non mi hai ancora detto niente di sconvolgente», dissi masticando le patatine.
«Volevo solo assicurarti che ti sono amica.»
«Grazie tante, non ho bisogno di amicizie.»
Con i polpastrelli passò in rassegna una collezione di vecchie cartoline illustrate con soggetti floreali e sistemate in una scatola, ma non ne vedeva nessuna. Stava quasi per piangere.
«Sapevamo che non ti va di fare il babymaker tutta la vita, e così qualcuno ha pensato di sottoporti a un test per vedere se... per vedere se sei la persona adatta a gestire un certo problema.»
«Sapevamo chi? Da che parte stai? Tutti questi misteri mi danno il mal di pancia.»
«Claude Adhémar ha bisogno di aiuto.»
«Claude Adhémar può andare sulla forca.»
«È stato lui a segnalarti a van der Voort. C’è stata una sua telefonata da Berlino.»
«Che c’entra la signora van Helde in questa storia?»
«È stata ingannata a fin di bene. Le è stato detto che avevi le stesse caratteristiche biologiche di Étienne Ethan, ma non è vero. Un pretesto ufficiale per farti venire qui, insomma.»
«E sottopormi ai vostri test del cazzo.»
«Ti prego. Non parlare così.»
«E cosa avete desunto dai vostri giochini?»
«Che sei la persona giusta.»
«Giusta per fare cosa?»
«Per dare un’occhiata in giro a Berlino. Non so altro. Hernández sarà più preciso in proposito.»
«Perché proprio io?»
«Perché hai visto quel tale. Il tizio che hanno assassinato a Zurigo.»
«Di Fox Arp c’è da fidarsi?»
«In questa fase è meglio fidarsi solo di van der Voort e di Hernández.»
«E di te?» La domanda era provocatoria.
«Fidati di me solo se te lo dice van der Voort, o Hernández. E adesso, ti prego, non seguirmi più. Non dobbiamo né vederci né sentirci, salvo eventuali istruzioni dall’alto in questo senso.»
«A proposito di sentirci. Sai niente del mio cellulare e del mio computer?»
«Non capisco. Che cosa dovrei sapere?»
«Che me li hanno rubati.»
«Meglio così. Una traccia di meno per chiunque volesse rintracciarti con cattive intenzioni.»
«Di chi stai parlando?»
«Magari lo sapessi.»
«Allora addio.»
Senza rispondere si affrettò fino all’angolo con la Vijzel-Straat, chiamò un taxi e scomparve.
Tornai alla foresteria, mi buttai sul letto senza togliermi né i vestiti né le scarpe e lasciai scorrere i pensieri disordinatamente, con le mani sotto la nuca e lo sguardo rivolto al soffitto. Il sonno andava e veniva come voleva, e io lo assecondavo inerte, come una barca che si dondola passivamente sulle onde. Dopo chissà quanto tempo, uno squillo mi scosse da quel torpore. Era Hernández. Voleva essere raggiunto al ristorante giapponese del Krasnapolsky, un grande albergo per turisti sul Dam.
Quando arrivai aveva già ordinato per tutti e due. E andò subito al nocciolo: Julio Hernández non amava perdere tempo. Era rude come al solito, ma sembrava aver messo da parte l’ira e il disprezzo con cui mi aveva accolto a Milano l’ultima volta.
«Alexandris, quando ci siamo visti la prima volta lei mi ha detto che considerava temporanea la sua occupazione.»
«Esatto.»
«Ora ha la possibilità di dimostrare il suo eventuale talento in qualcosa di più importante.»
«La ringrazio per questa opportunità.»
«C’è qualcosa che non funziona nel network. Guardi che questa è una confidenza molto riservata.»
«Può contare su di me.»
«Adhémar è un ispettore del gruppo. È un uomo fidato ed è molto vicino ai quartieri generali della Genesis. Ha bisogno di una mano e ha indicato lei.»
«Qual è il mio compito specifico?»
«Indagare su certe irregolarità che si sono verificate alla sede di Berlino.»
«Cosa potrei fare io se non ci è riuscito lui, con tutta la sua abilità e la sua esperienza?»
«Abbiamo motivo di pensare, invece, che ci sia riuscito benissimo. Non si spiegherebbe altrimenti la sua scomparsa.»
Un brivido mi corse lungo la schiena.
Senza scomporsi, il capo prese un gamberetto fritto tra le dita e lo succhiò avidamente.
«Claude Adhémar non dà più notizie di sé. Mario Stern sostiene che sia partito per Chicago, ma a Chicago nessuno lo ha visto. Inoltre, non c’era una sola ragione al mondo per precipitarsi a Chicago.»
«Chi è Mario Stern?»
«Il direttore generale della Genesis di Berlino.»
«Perché dice che non c’era ragione di volare a Chicago? Vernon Ray, alias Étienne Ethan, alias l’agente su cui pare che Claude stesse indagando, era di Chicago.»
«E con ciò? Tutto quello che c’era da sapere su Vernon Ray lo sappiamo da un pezzo. Non c’è altro da scoprire a Chicago.»
«Dove può essere finito Adhémar?»
«Di sicuro non ha mai avuto né il bisogno né l’intenzione di volare a Chicago. Abbiamo controllato presso tutte le compagnie aeree: a nessuna risulta una prenotazione con quel nome e quella destinazione.»
«Potrebbe essere rimasto a Berlino.»
«Potrebbe essergli capitato qualcosa di poco chiaro.»
«Per esempio?»
«Non so: un contrattempo. Ci aiuti a ritrovare Adhémar.»
«Non saprei da dove cominciare.»
«Potrebbe cominciare da Berna e Zurigo. Saperne un po’ di più su quel tale che hanno ritrovato nel fiume.»
«Adhémar non aveva mai fatto parola su di lui?»
«Eccome. Non ne era certo, ma pensava che Stoltz fosse un ex maker di Berlino.»
«Lo ha scoperto dalla banca dati?»
«Abbiamo passato in rassegna le facce di tutti gli agenti degli ultimi sei anni. Non c’è nessuno Stoltz, e nessuno che gli somigli.»
«Potrebbe aver tratto le sue conclusioni dalle registrazioni degli appuntamenti con la clientela?»
«Non vedo come potrebbe averlo fatto.»
«Francesca sostiene che i nomi registrati delle clienti sono, nella maggior parte dei casi, non meno fasulli di quelli dei babymaker.»
«Confermo. Quanto a Francesca, voglio darle un consiglio.»
Mi misi istintivamente in allarme.
Continuò, fissandomi col più penetrante degli sguardi e un gamberetto inalberato a mezz’aria. «Si azzardi a sfiorarla con un dito, e giuro che l’ammazzo. Francesca è mia figlia. Se lo ricordi bene.»
Restai a bocca aperta per mezzo minuto buono. «Sua figlia?»
«Sissignore. Se lo ficchi bene in quella zucca. Non sopporto l’idea che un pornodivo da strapazzo possa entrare troppo in confidenza con lei.»
Ne avevo già inghiottiti di bocconi amari. Inghiottii anche quello.
«Ricevuto», sospirai con un filo di voce. «Torniamo a Berlino.»
«Mario Stern non mi piace. Spara una bugia dopo l’altra. Che non ricorda molto di quell’Ethan, per esempio.»
«Forse Ethan ha fornito poche prestazioni ed è stato dimenticato.»
«Balle. Non si arriva a quelle poltrone senza avere una memoria di ferro.»
«Alla Genesis di Berlino lavora un sacco di altra gente. Qualcuno ricorderà le cose che Stern tende a scordarsi.»
«È quel che penso anch’io, e certamente Adhémar ha rovistato ovunque potesse. La sua curiosità non deve essere stata apprezzata.»
«Se posso permettermi una piccola confidenza, vorrei confessarle che Adhémar non si è reso simpatico neanche a me. Ha un modo così invadente di intrufolarsi negli affari degli altri.»
«Fa il suo lavoro. Quanto a lei, Alexandris, la mia opinione la conosce: è uno stronzo.»
«Spero di farle cambiare idea», azzardai.
Guardò l’orologio e ripose il tovagliolo. Chiamò imperiosamente il cameriere e chiese il conto. «È tardi: non ho intenzione di perdere il primo volo di ritorno.»
«Ancora un paio di informazioni. Per piacere», implorai.
«Sentiamo.»
«Con che scusa mi presento a Berlino?»
«Dimenticavo. Questo pomeriggio, dopo l’ultima sessione con la signora van Helde, si faccia vedere da van der Voort. Le darà le istruzioni necessarie. E si muova con circospezione: se la van Helde viene a sapere, Dio sa come, che lei non corrisponde per niente al suo modello nuziale, tutta la Genesis affonda come un Titanic. La protezione delle informazioni delicate è l’unico fondamento su cui si basa la nostra credibilità. Un solo errore e si chiude bottega per sempre.»
«A proposito di protezione delle informazioni: sa dirmi niente sull’assegnazione dei nomi della settimana? Chi li decide? È una scelta casuale?»
Pagò il conto e si fermò ancora qualche minuto. «Bella domanda: lei non mi piace, ma grazie al cielo non è del tutto stupido. I nomi vengono decisi al Datacentrum di New York.»
«Addirittura? Vuol dire che io mi chiamo Lucien, o Johann, o Peterpan, per ordini che arrivano dalla sede centrale?»
«Proprio così.»
«Ma allora dov’è la difficoltà? I computer del Datacentrum possono risalire in tempo reale ai veri nomi di chiunque.»
«Sì e no. Le clienti, per esempio, sono autorizzate a usare con noi degli pseudonimi, e spesso non c’è modo di risalire alle loro vere generalità né ai loro indirizzi. Quanto agli agenti...»
«Quanto agli agenti?»
«Innanzitutto gli pseudonimi ruotano a casaccio: oggi lei è Johann, ma è possibile che ci siano altri Johann in qualche altra sede, o che ci siano stati, o che ci saranno. E poi il Datacentrum è blindato. Non rilascia questo tipo di informazioni per nessuna ragione al mondo. A meno che non vi siano elementi che provino, con certezza assoluta, che è stato commesso un reato grave. Questi elementi, a tutt’oggi, non sussistono.»
«Ma Stoltz è stato assassinato! Non è un reato?»
«Intanto occorre dimostrare, in modo inequivocabile, che Stoltz abbia prestato i suoi servizi alla Genesis. Ma non basta. Bisogna anche provare che l’omicidio sia in qualche modo collegabile alle attività della Genesis. Se il fesso si è fatto accoppare da un semplice rapinatore, o per altri motivi che riguardano la sua sfera privata, il Datacentrum rimane serrato come un’ostrica.»
«Anche per la polizia?»
«Anche per la polizia. Bilanci amministrativi a parte, i dati delle agenzie di riproduzione sono legalmente protetti. Procurarsi un figlio con l’aiuto di un’agenzia, e mantenere il segreto sulle relative modalità e circostanze, fa parte delle libertà fondamentali acquisite dai cittadini di tutto il mondo.»
«Un’ultima domanda sugli pseudonimi settimanali. Secondo lei, sono ricavati da una specie di formula o sono del tutto casuali?»
«Non lo sapremo mai. Qualche volta me lo sono chiesto anch’io. E ho pensato: se devono essere casuali, tanto vale inventarseli ufficio per ufficio. Qualsiasi Aura Marti sarebbe in grado di trovare nomi sul calendario, o di inventarseli di sana pianta.»
«Forse a New York hanno una regola. Un metodo che permetta di ricostruire le identità.»
«Non si illuda. Le ripeto che il Datacentrum è inaccessibile. Faccia conto che non esiste nemmeno. E ora non perdiamo altro tempo: devo andare.»
«Che mi dice di Fox Arp?»
«È un imbecille come un altro. Stia alla larga. Anche se, senza saperlo, ci è stato utile.»
«Come e quando?»
«Abbiamo saputo da lui che Adhémar era stato aggredito da Stoltz in quel club di Zurigo, e che lei era presente. Alexandris, non mi rompa più le scatole. Sappia soltanto che abbiamo scelto lei per questa missione. Non quel deficiente di Arp.»
Se ne andò senza salutare. Quando fu sparito dai miei orizzonti, mi feci servire del sakè e scoprii che non era niente male.
Prima di lasciare il Krasnapolsky, chiesi alla centralinista l’elenco degli abbonati di Zurigo e cercai il numero del Futura Light. Lo trascrissi e lo chiamai da uno dei telefoni pubblici della hall. Una voce registrata mi avvertì che il club apriva alle sette di sera.
Uscii, presi un taxi e mi feci portare alla Genesis.
***
L’ultimo incontro con la signora van Helde fu meno penoso dei precedenti. Ero eccitato. Pensavo al bacio mattutino di Francesca, alla schiuma sulla pelle, al senso di frustrazione che mi aveva accompagnato tutto il giorno, e quell’amplesso impiegatizio mi sembrò la naturale (anche se tardiva) conclusione di un gioco crudelmente interrotto.
Van der Voort era l’esatto contrario di Hernández: caldo, gioviale. Rosso di pelle e di capelli. Il suo ufficio era meno essenziale di quello del mio capo: quadri di valore alle pareti, qualche mobile di antiquariato, tappeti orientali. Era uno che evidentemente sapeva apprezzare anche altre cose, oltre albusiness.
A Berlino dovevo dare una mano a Mathias, il responsabile del videocontrol, e sostituirlo nelle emergenze fuori orario e durante le assenze. Era un lavoro part time, soggetto però a orari irregolari; ogni mattina avrei ricevuto istruzioni dalla responsabile del progress, una certa Trudi Albrecht.
Van der Voort mi spiegò senza fretta l’organizzazione della Genesis di Berlino, consegnandomi un elenco di tutto il personale in servizio con l’indicazione delle funzioni: a partire da Mario Stern, il direttore generale, fino alle segretarie e al robot-factotum. Su una lista separata erano elencati gli agenti che si erano avvicendati a Berlino negli ultimi anni; quelli ancora in servizio erano contrassegnati con un asterisco. Di ciascun agente ebbi in consegna anche un ritratto riprodotto dal video. Osservai con attenzione quelle facce e non ne trovai alcuna che somigliasse, neppur vagamente, a Max Stoltz. C’era anche Vernon Ray, il falso Ethan, in una foto di pessima qualità. «Impari a memoria tutto quello che può e distrugga al più presto elenchi e fotografie», continuò van der Voort. «Il suo lavoro comincia lunedì fra Berna e Zurigo e prosegue la settimana successiva a Berlino. Non dica di essere stato ad Amsterdam. Non conosce nessuno di noi: né me, né Adhémar, né Arp, né Francesca. Può invece confermare tranquillamente di aver fatto l’agente a Milano fino a ieri, che non ne poteva più di quel lavoro e che ha accettato volentieri questa opportunità di cambiamento. Hernández l’ha molto raccomandata a Stern; le referenze sono ineccepibili. Per rendere meno sospetta la sua carriera alla rovescia — da soggetto pagato profumatamente a impiegato di terza categoria — Hernández ha sostenuto che si tratta di una sistemazione provvisoria, in attesa di una posizione più confacente ai suoi studi e alle sue capacità.»
Mi disse poi ciò che sapeva di Ethan, l’agente che figurava in video sotto l’aspetto di Vernon Ray. «Un tale di nome Étienne Ethan ha realmente prestato servizio, per un breve periodo, alla Genesis di Berlino: risulta chiaramente dai dati amministrativi. Nessuna traccia di Stoltz, invece. Il vecchio indirizzo di Ethan corrisponde a un palazzo in demolizione; i proprietari non ricordano nessuno con quel nome.» Mi feci dare, ad ogni buon conto, anche quell’indirizzo.
Infine aprì un cassetto della scrivania e ne trasse un plico alquanto spesso. Sorrise. «Contanti. Li usi con parsimonia e senza dare nell’occhio. Attento a non farsi derubare: Berlino è piena di sbandati. Stia lontano dai quartieri malfamati. E, soprattutto, dimentichi le carte di credito. Anzi, me le consegni subito. Le terrò in cassaforte e gliele renderò quando questa storia sarà finita.»
Mi avevano prenotato un alberghetto di terz’ordine, ma era meglio che stare in una foresteria: avrei potuto usare il telefono senza il timore di controlli. E dovevo riferire a lui, van der Voort, qualunque informazione ritenessi utile. Fossero saltate a galla cose grosse, o avessi avuto bisogno di altro denaro, mi sarei limitato a pronunciare al telefono una frase concordata e improvvisare una breve conversazione insignificante. Van der Voort in persona, o Francesca, mi avrebbe immediatamente raggiunto a Berlino. Era inteso che, alla prima ricomparsa di Adhémar, sarei stato avvertito e avrei ricevuto nuove istruzioni.
«Non sarebbe meglio se avessi un telefono? Il mio l’ho perso.»
«Lasci perdere. Sarebbe come muoversi a portata di radar.»
Alle sette e un quarto telefonai al Futura Light da una cabina pubblica e chiesi di Kurt. Era il nome con cui Claude e Ingrid avevano chiamato uno dei camerieri.
«Sono un amico di Max Stoltz. Non lo sento da un pezzo e ho bisogno di parlargli con una certa urgenza. A casa non risponde nessuno. L’ultima volta che l’ho visto mi ha detto che veniva spesso da voi e che potevo cercarlo lì. È stato lui a darmi il suo nome.»
Kurt se ne stette senza fiatare una mezza eternità prima di farmi giungere la sua voce.
«È strano che possa averle detto di rivolgersi a me. Non sono mai stato in confidenza col signor Stoltz.»
«Può passarmi qualcuno che lo conosce e che sappia dirmi dove posso trovarlo?»
«A dire il vero non era molto alla mano col personale. L’ho visto parlare un paio di volte con la nostra cantante. Ma a quest’ora non c’è, di solito arriva sul tardi.»
Diventai di ghiaccio. «Pensa che sia un amico della cantante?»
«Amico non direi: una volta li ho sorpresi a litigare di brutto. Ma temo che non possa aiutarla neanche lei. Vede, il signor Stoltz...»
Forse stava per dirmi che Stoltz era morto.
«Il signor Stoltz è incorso in un incidente pochi giorni fa. Ci ha rimesso la pelle, purtroppo. Spero di non averle dato un dispiacere.»
Era la voce di una persona gentile e amareggiata. Ringraziai e chiusi.
© Pasquale Barbella
(2 - Continua)