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La luce superiore della contabilità

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L’inaugurazione.

Dieci minuti prima dell’inizio dello spettacolo, i ventiquattro lampioni di Piazza Industriale si spensero di colpo. La vasta terra di nessuno disseminata di stabilimenti morti e di parcheggi per camion fu inghiottita dal buio. Il Teatro della Luce, che inauguravano quella sera, rimase l’unica sorgente luminosa ancora accesa, e il suo atrio spalancato lampeggiava come la bocca di un gigantesco mangiafuoco extraterrestre. La nebbiolina intorno al vortice di luce, malata di smog, sembrava una sfera di latte incandescente. Eravamo lontani ancora un trecento metri e il percorso sullo sterrato non era dei più comodi. Adele inciampò in un sasso e feci giusto in tempo a ghermirle un braccio e impedirle di cadere. Rise: non di contentezza ma di dolore, a causa della caviglia offesa. Torniamo indietro, proposi senza successo. La macchina era a pochi passi dietro di noi. L’idea di andare a sentire la senatrice Lavinia era stata sua. «Voglio vedere l’aspetto che ha.» Senatrice? A me non piacevano i comizi e Adele lo sapeva. Non è un comizio, aveva risposto. E lei non è una senatrice, anche se la chiamano così. Questa Lavinia, che nessuno sembrava aver visto di persona e di cui non esistevano ritratti pubblicati, curava una rubrica (Non rubare) su Futura, scarna rivista mensile stampata su carta riciclata e distribuita gratuitamente porta a porta, nelle cassette della posta. Le mie copie finivano al volo nel secchio della carta straccia. Adele invece ci dava volentieri un’occhiata e sosteneva che Lavina era un’opinionista sui generis, una specie di predicatrice impegnata nel rinnovamento morale della nazione. Al Teatro della Luce, ex mattatoio ristrutturato in fretta e furia, la presunta senatrice esordiva come conferenziera e showgirl. Il programma prometteva choc mirabolanti. «L’onorevole Lavinia ha scelto questa città come base di partenza per una lunga e capillare tournée. Il suo show La luce che conta cambierà il nostro modo di vedere e interpretare le cose del mondo.»

Era un’esperienza che Adele a tutti i costi voleva concedersi. Mi trovava recalcitrante e prevenuto, e forse non aveva tutti i torti. Ma se ami una donna devi compiacerla almeno un po’. Seguirla in qualche azzardo, prima che ti giudichi vile o noioso. Fu così che, in capo a qualche minuto, emergemmo dalla notte oscura e ci lasciammo assorbire da quel tripudio di watt. Come temevo, il teatro era di una bruttezza provinciale e insolente. I responsabili della “ristrutturazione” avevano giocato su due carte sicure: la parsimonia e il cattivo gusto. Le appliquesalle pareti erano sormontate da teste di manzo. Strinsi i denti e varcai la folla – il tipico assembramento da ingresso libero. La platea era piena di poltroncine nuove ma già labili e scricchiolanti, tutte occupate da persone in carne e ossa ma anche da borse e giacconi. Litigai con una vecchia strega che pretendeva di tenere occupata mezza fila con le sue cianfrusaglie e riuscii a strapparle un posto per offrirlo ad Adele. La caviglia le faceva male. Le dissi di non preoccuparsi per me, preferivo stare in piedi, a portata d’uscita e di bar. Scelsi con cura il punto di sosta più strategico, in vista di un’eventuale fuga; e mentre mi ci avvicinavo, vidi uno spettatore ubriaco fendere a grandi passi il corridoio centrale. Proprio nel bel mezzo della sala proiettò dinanzi a sé una lunga fiammata di vomito, decorando almeno quattro metri di linoleum. Gli astanti ne uscirono illesi per un pelo e l’uomo liberato fece dietrofront e se la diede a gambe per non dover sorreggere, sulle sue povere spalle, il peso del disprezzo universale. Un aspro sentore di vino maldigerito si espanse rapidamente per tutto il locale, intrudendosi specialmente nei tessuti – i tendaggi, gli abiti, le sciarpe. Una squadra di ragazzi solerti, in tute color arancio con la scritta SECURITY, irruppe armata di secchi e ramazze nella zona umiliata. Altri invasero il campo con bombolette spray, indaffarati a sparare effluvii di lavanda nell’aria.

Le nove erano passate da un pezzo quando, finalmente, si spensero le luci e si alzò il sipario su quattro musicanti da banda comunale. Un quinto personaggio, barbuto e in sovrappeso, con la camicia bianca metà dentro i jeans e metà fuori, entrò in scena al solo scopo di disporvi un piccolo podio da lettura e abbassare l’asta del microfono di venti o trenta centimetri. «Occazzo, Lavinia è una nana», esclamò un invisibile spettatore nel gruppo in piedi vicino a me. Invece no: era solo una bambina. Una bizzarra creatura di dieci o undici anni. Sbucò da dietro le quinte indossando un costume carnevalesco e agitando una frusta schioccante. Con quella si avventò sui musicisti, sferzandoli senza pietà, e nella foga citò un Dante ammorbato di errori. «Guai a voi, anime brave! Non ci sperate mai veder lo cielo...» Dispersi i suonatori (l’ultimo, trombettiere, sanguinava dal naso e si leniva un occhio col fazzoletto), la bambina Lavinia si calmò e si avvicinò al microfono con l’aria più paciosa del mondo. Un lieve sorriso le si stampò sulle labbra. Posò una mano sull’altra e attese il momento giusto per attaccare la sua tiritera, quale che fosse. Solo allora gli spettatori le dedicarono, all’unisono, un oh! di meraviglia. Lavinia sembrava una Monna Lisa in miniatura. Lo stesso vestito, lo stesso marron, la stessa scollatura, la stessa postura, le stesse due bande di capelli lisci ai lati del viso. «In alto le mani!», comandò all’improvviso, con la voce più stridula del mondo. Per tutta risposta, la platea esplose in una risata. La bimba fece la faccia feroce. «Fatemi vedere le mani, ho detto!» Quando una selva di braccia si sollevò dalle poltrone come una pattuglia di piante al rallentatore in un documentario naturalistico, di nuovo Lavinia esibì il sorriso – amabile e sarcastico – della Gioconda. Investita com’era dai riflettori non poteva scorgere altro che un bosco di tenui ombre; eppure, soddisfatta, sentenziò: «Bravi, così. Le vostre mani sono opache. Non vorreste averle più luminose?»

Il pubblico taceva. Lei ripetè: «Vi ho chiesto se volete una pelle opaca o luminosa. Rispondete. E state tranquilli, non vendo creme idratanti. Sono la vostra guida spirituale, non una spacciatrice di erbe, tisane e cosmetici. Allora: le volete o no, le mani più lucenti?»

«Sì», gridò un coro di fan.

«Sono la senatrice del vostro futuro. Dite con me: odiamo il furto. Odiamo lo spreco.»

«Odiamo il furto! Odiamo lo spreco!», rispose la folla divertita.

«Bugiardi!», accusò la bambina, puntando un indice contro la platea. «Voi non conoscete la purezza. Ma io sono qui per aiutarvi a riconoscere la vostra opacità. Non siete malvagi, siete soltanto ignari della luce che conta. Siete stati ingannati per generazioni. Siete in buonafede, ma ciechi. Per dimostrarvelo, farò delle semplici domande ad alcuni di voi. Chi si offre volontario o volontaria? Voglio qui un artista, se c’è. Pittore, scultore, musicista: non importa.»

Silenzio.

«Nessun volontario? Nessuna volontaria? Mi accontento anche di uno scrittore. O di un architetto.»

Silenzio.

«Che vi dicevo? Avete tutti, ma proprio tutti, qualcosa da nascondere.»

La provocazione funzionò. Un signore panciuto di mezza età, dall’aspetto professorale, si mosse dall’ultima fila, attraversò a testa alta il corridoio, si avvicinò al palcoscenico e montò con cautela i pochi gradini bui che lo separavano dalla piccola presuntuosa.

«Benvenuto, signore. Un applauso per il suo coraggio.»

La platea obbedì felice.

«Ecco la prima domanda, facile facile. Che ne pensa delle fontane pubbliche?»

Il signore sembrò perplesso, ma solo per un attimo. «Cosa vuoi che ne pensi, piccola mia? Sono belle. Decorative. Ornano le città.»

«Non mi chiami “piccola mia”: non sono la piccola sua. Sono Lavinia e basta. Se proprio ci tiene a essere gentile, mi chiami senatrice. Bene: le fontane ornano le città. Si è mai chiesto quanto costano?»

«A dire il vero non ci ho mai pensato, senatrice.»

«Ci avrei giurato. Abbiamo disoccupati a più non posso e ci permettiamo il lusso delle fontane decorative. E mi dica: che genere di artista è lei?»

«Non sono un artista, mi limito a insegnare storia dell’arte.»

«L’arte è l’oppio dei popoli.»

«Veramente quella era la religione...»

«Non faccia lo spiritoso. Un oppio non esclude l’altro. Siamo intossicati da diverse varietà di oppio: arte, religione, musica, letteratura, cinema, teatro, moda, profumi, cosmetici, balli... E non pensiamo mai ai costi di tutto questo. Alla vanità di questi orpelli. Io vi annuncio un mondo diverso. Spartano. Io vi annuncio la luce superiore della contabilità, in un mondo contaminato dalla corruzione e dallo spreco.»

Dalla platea si levò un applauso scrosciante. Io mi sentivo le vene piene di mosche. Tenevo i pugni serrati in tasca e mi sognavo infanticida. Il linguaggio degli adulti scaturiva da quella boccuccia di latte e rose come un torrente di acido solforico.

Il professore (e pensavo a Unrat nelle spire perverse di Lola-Lola) sembrava dissentire dalla tesi della bambina. «Senatrice, mi permette una piccola riflessione? Lei dice che l’arte è un male. Ma si è vista allo specchio? Lei stessa è un’opera d’arte. Non si è forse travestita da Monna Lisa? La Gioconda in formato mignon?»

Il volto della piccola senatrice si contrasse in una smorfia di disgusto. «Sapevo che l’avrebbe detto. L’opacità vi rende prevedibili. Non somiglio affatto a quella donna, ma cerco di imitarne l’atteggiamento per ricordare a quelli come lei che c’è più senso nella vita vera che nella vita dipinta. Gli opachi dipingono una vita e una società irreali per togliere di mezzo la luce superiore della contabilità.»

«Posso farle io delle domande?»

«Una sola. Ci sono altri contribuenti che vorrebbero salire su questo palco.»

«Come fa a parlare di cose complesse come la ragioneria, alla sua età?»

«Mi sono diplomata a otto anni e sarei prossima a laurearmi, se esistesse un’università adatta ai miei principii.»

«Sa già come si compila un bilancio?»

«Ho detto: una sola domanda. Adesso può andare. Comunque sì, so quando un bilancio è trasparente e quando non lo è. E le dirò una cosa, perché lei la impari una volta per tutte: nessun bilancio è trasparente. L’ideale per il quale stiamo combattendo è illuminarlo.»

Salirono poi sul palco, per fede o derisione, altri masochisti non meno audaci del professore. Lavinia se ne servì per illustrare le sue teorie sulla luce che conta. Disse che dei sette peccati capitali l’avarizia, intesa come cupidigia, avidità e ladrocinio, è il più ripugnante: più della superbia e della lussuria, dell’invidia e della gola, dell’accidia e dell’ira, che anzi, se praticate con moderazione e controllo, diventano virtù. Ma doveva essere appassionata di paradossi perché, dopo aver sostenuto che l’avarizia è il peggiore dei vizi, annunciò che era anche il più luminoso dei valori, una potente difesa naturale contro ogni sperpero.

Intonò un’invettiva particolarmente tagliente sull’inevitabile destino delle politiche e dei governi, quello del potere che contamina e corrode e rivela il ladro nascosto in ciascuno di noi. Esortò l’uditorio a proclamare in coro, per sette volte di seguito, lo slogan «Piove o c’è il sole, governo ladro». La luce che conta era la luce dell’onestà, della temperanza e del risparmio: «Bisogna portare rispetto al denaro, specialmente a quello degli altri. Bisogna rispettare il contribuente, perché il contribuente è nostro fratello.» La contabilità pura e trasparente «dev’essere la nostra fede, il nostro impegno, il nostro futuro.»

Le luci si riaccesero in sala in un dissonante concerto di applausi e strilli di entusiasmo; a fischiare eravamo in pochi. Andai a recuperare Adele. Il suo buonumore collideva con il mio stato di svuotamento. Mi chiese se avessi osservato la gente delle prime file, i seguaci della senatrice in erba. No, non avevo voglia di osservare nessuno, non m’interessavano, volevo solo uscire da quella bolgia. Tanta fu la sua insistenza che fui costretto a forzare la marea umana in uscita per andare, controcorrente, a spiare gli spettatori in prima linea, ancora inchiodati alle poltrone nell’assurda speranza che lo spettacolo continuasse fino alla fine dei tempi. Erano tutti – uomini, donne e bambini – repliche esatte della Gioconda leonardesca. Intere famigliole giocondizzate a immagine e somiglianza della loro ispiratrice, improbabile leader di una setta tanto fanciullesca quanto minacciosa. Monne Lise e Monni Lisi in adorazione di quel residuo postumo di Shirley Temple: solo che Shirley bamboleggiava in un paradiso fiabesco di riccioli d’oro, mentre questa si dava arie da moralizzatrice e non esitava a sbandierare il primato della «sana economia» su qualsiasi altro valore o bisogno umano – la pace, la solidarietà, il rifiuto della violenza nelle sue accezioni più tragiche e tradizionali.

La festa del No.

La prefettura fu molto criticata, ma sottovoce, per aver concesso il permesso di celebrare la Festa del No nello spazio più grande della città. Fin dalle prime ore del mattino Piazza Industriale si presentava come un variopinto luna park. Ci andai con Adele per scattare delle foto: ne valeva la pena, l’area era allestita in modo persino più suggestivo di quanto potessero fantasticare un De Chirico e un Dalí messi insieme. Al centro dello spiazzo ardeva a fuoco lento un’arpa da concerto a pedali. Le corde roventi si sganciavano a turno dalla cornice in fiamme, gemendo e contorcendosi. I più mattinieri giuravano che il falò del pianoforte – uno Steinway gran coda, ormai ridotto in brace ­– era stato ancora più spettacolare. Tra le attrazioni più popolari (ma anche più deludenti) c’era un padiglione con l’insegna «Il destino dei dischi volanti». Un cartello avvertiva: «Ingresso libero a tuo rischio e pericolo.» Ai margini del piazzale c’erano pantere della polizia e autoambulanze pronte a qualsiasi evenienza. I dischi volanti altro non erano che semplici long playing in vinile, scagliati in rapida successione contro il pubblico da una macchina sputaoggetti caricata a mano. Non tutti, tra il pubblico, riuscivano a scansare quella raffica di frisbee impropri: si usciva dal padiglione feriti a colpi di Zappa e di Elvis, ma anche di Mozart (Exsultate! Jubilate!) e di Armstrong, di Brahms e di Nirvana. L’amore per la musica avrà fatto le sue vittime, ma l’odio per la musica può farne di più.

I mercanti scacciavano Gesù da un tempio posticcio, eretto alla buona con materiali scenografici da museo del cinema. Posticci erano anche i costumi d’epoca indossati per la messinscena, ma le percosse a Gesù erano più vere del vero, e lo straniero che impersonava il Nazareno non sembrava subirle di propria volontà: a ogni tentativo di fuga veniva riacciuffato e obbligato a ripetere il suo ruolo dal principio. Fu proprio mentre riprendevo l’ennesimo linciaggio che un energumeno della sedicente security mi piombò addosso, mi strappò di mano la Canon e me la distrusse con i tacchi dei suoi stivali. Le proteste mie e di Adele produssero un risultato inatteso: la polizia, richiamata dagli strepiti, si schierò dalla parte del cattivo e ci impose di lasciare immediatamente la piazza. Alternativa: manette, furgone e gattabuia.

Ce ne andammo sì da quell’inferno, io senza Canon, Adele con un taglietto sul sopracciglio destro – un elleppì di John Lennon, credo Imagine.

La riforma dei vizi e delle virtù.

Subito dopo l’abolizione delle festività civili e religiose, sostenuta a gran voce dai nuovi dissidenti e concessa da governo e parlamento per qualche forma di prudenza pre-elettorale, la rivista Governo Ladro, «organo ufficiale della trasparenza», uscì in edizione speciale con l’elenco – ampiamente corredato di note esplicative – delle nuove virtù teologali e dei nuovi vizi capitali. Le virtù coincidevano con i principii contabili fissati dal codice civile per la redazione di un corretto bilancio d’esercizio: continuità, prudenza, competenza, separazione, costanza, prevalenza della sostanza sulla forma; a queste sei voci tecniche si aggiungeva una settima più metaforica, «luce». I vizi erano in apparenza gli stessi di prima, ma sensibilmente ritoccati: superbia culturale, avidità manageriale, promiscuità con l’estero (ex lussuria), invidia per chi sciala, indulgenza alla gola e al fumo, ira ideologica di stampo sociocomunista, accidia valutaria.

La cover story prendeva molte pagine del giornale; uno spazio minore, ma rispettabile, era dedicato al servizio «Giuda e i trenta denari. Inchiesta sull’equità del compenso.»

L’incubo della Gioconda.

Non c’era più bisogno di trucchi e costumi stravaganti per alludere al famoso ritratto di Leonardo. La creatura era facile da imitare: bastavano l’atteggiamento pacioso, il sorriso sarcastico, quel certo modo di tenere le mani. Quando nel bar del mio quartiere comparvero le prime Gioconde “in borghese” seminarono qualche incertezza, ma la curiosità fu di breve respiro e non allarmò nessuno (all’infuori di me). Del resto erano pochi gli argomenti in voga in quel bar così periferico rispetto al centro della città e ai centri del sapere. La mattina era cominciata nel più quadrato dei modi. Si era discusso con fervore dell’ultima squadra di calcio venduta ai cinesi, ovviamente. Anche il bar, del resto, era passato in mano cinese, come qualcuno non mancò di sottolineare. Se ne dedusse, quasi coralmente, che presto l’Italia intera sarebbe diventata una colonia di Pechino; e molto si scherzò sull’argomento, ma senza gioia. Uno disse che presto avremmo avuto preti gialli a dir messa; un altro profetizzò l’avvento d’un partito chiamato Pci, niente a che vedere col Pci d’una volta, semplicemente un Partito Cinese di nome e di fatto. Fingevo di leggere il libro ma ascoltavo le loro divagazioni, interessato non tanto al destino del football o della chiesa quanto alla reputazione dei cinesi nell’opinione degli avventori. Uno sosteneva che fossero «dei gran lavoratori», come se quel riconoscimento fosse il risultato di un’indagine minuziosa e diffidente. L’efficienza della giovane coppia d’Oriente, lui al bancone e lei al registratore di cassa, era motivo d’uno stupore condiviso; un genere di stupore mai riservato con altrettanta spontaneità ai gestori italiani che si erano alternati nel tempo, per quanto io sapessi. C’erano tre tavolini occupati da una decina di habitué, sette uomini e tre donne, piccoli pensionati dalla voce squillante. A quattro metri di distanza andò ad accomodarsi una coppia appena entrata, due quarantenni talmente somiglianti da far pensare che fossero fratello e sorella.

«Devono essere forestieri», disse uno dal naso imponente.

«E perché?», domandò una donna dai capelli radi, tinti d’un rosso aranciato, che poco prima aveva espresso accoramento per i tanti bar lombardi caduti «sotto bandiera cinese».

«Non li ho mai visti prima.»

«Ma va!», lo canzonò la rossa, «non lo riconosci? è il figlio della Pina.»

«La Pina ha un figlio così grande e grosso?»

«Sembra un commendatore ma è un giovanotto. Deve avere sui trentacinque, trentasei anni.»

«E quella è la sorella?»

«Ma quale sorella e sorella! La Pina ha solo due maschi, questo è il più grande.»

«Sembrano due gocce d’acqua. O la Pina o suo marito devono essersi dati da fare. Certe volte un solo nido non basta.»

La signora Beretti, che si dava arie da estetista e si truccava di conseguenza, emerse in tutta la sua magrezza per dire la sua.

«Lui fa il contabile in una ditta di articoli sanitari.»

«Un venditore di cessi?»

«No, una persona per bene», assicurò madame, come se i venditori di cessi appartenessero a una setta diabolica.

«Mi ricorda qualcuno», buttò lì la rossa dai capelli radi.

«Non dirmi che somiglia a sua madre. Non ci somiglia nemmeno un po’. E neanche al padre, per come lo ricordo.»

«Ma è sputato qualcun altro. Forse uno della televisione.»

«Televisione no», mormorò la terza donna, che godeva fama di implacabile osservatrice. «Ma ha una faccia famosa. Specialmente quando sorride.»

«Cioè sempre», fece notare madame Beretti. «Da quando è entrato non fa che sorridere.»

«In effetti ha sulle labbra una specie di smorfia che sembra un sorriso.»

«Dipende da quello che si stanno dicendo», puntualizzò l’osservatrice. «Non lo vedi che sorride anche lei? Allo stesso modo?»

«Ecco perché si somigliano», proruppe Naso Imponente. «Il modo di ghignare è lo stesso, un po’ da prete e un po’ da Gioconda. Per il resto sono abbastanza diversi.»

«Hai detto Gioconda? La Gioconda di Leonardo?»

«Guarda come tiene le mani. Uguali e precise.»

«Anche lei!»

«O Dio di misericordia, due Gioconde in un colpo solo!»

«Monna Lisa e Monno Liso.»

«Scappati da un quadro.»

Guardai meglio in direzione del tavolo più lontano. C’era qualcosa di vero in ciò che dicevano. I due avventori misteriosi avevano un’aura rinascimentale. Volti rotondi su corpi rotondi, un sorriso tra lo scettico e il papale, un palpabile sarcasmo – bonario o fintobonario – disegnato sui volti. A un certo punto l’uomo si alzò, senza cambiare espressione, e si tolse la giacca e la cravatta. Non tanto per il caldo, pensai, quanto per liberarsi di un impiccio, di una costrizione sgradevole.

La signora truccata si stava tormentando le mani, e non staccava gli occhi dalla coppia.

«Mercoledì sono andata in un laboratorio di analisi a farmi una radiografia del torace», disse a voce bassa, roca e uniforme. Alcuni s’informarono premurosi del suo stato di salute. La salute era un argomento vincente, specialmente tra le donne della sua età.

«No, è che fumo troppo», tagliò corto. «Ma quello che volevo dire è che alla reception c’era un’altra Monna Lisa.»

«Ommadonna, dev’essere un’invasione.»

«Io ho visto una Gioconda nella palestra dove vado per la fisiatria», disse il più vecchio di tutti, uno che stava in piedi per miracolo. «Ma non era proprio la Gioconda di Leonardo, era un uomo pieno di muscoli.»

«E che sarà mai!», sbottò uno che cominciava a scocciarsi di quei discorsi. «Leonardo da Vinci è stato da queste parti, ne ha fatte di cotte e di crude perché l’era un genio. Si vede che si è portato dietro quella Gioconda lì e che la sciura ha seminato discendenti a iosa.»

«Non dire stupidaggini», lo redarguì la rossa, e anche le altre due donne del gruppo gli regalarono un’occhiata di disapprovazione. «Voi uomini ne dite di castronerie. Io piuttosto penso che dev’essere una moda, di sforzarsi col contegno e il sorrisetto di imitare Monna Lisa.»

«E che c’entrano i maschi? Sono froci?»

«Froci chi?»

«Quello seduto lì e il tizio della fisiatria.»

«Il figlio della Pina è mica gay.»

«E dove sta scritto?»

«Sta scritto che se fosse gay l’avremmo saputo.»

La chiacchiera aveva preso, come al solito, una piega così lontana dal bon ton da risultare farsesca. Persi ogni interesse, pagai il mio spritz e lasciai la compagnia. La stazione ferroviaria era a due passi. Ci andai con l’idea di comprare le sigarette e una rivista. Già che c’ero, passeggiai un po’ su una delle banchine senza alcun motivo pratico: i treni mi hanno sempre affascinato, e ce n’era uno lunghissimo in attesa del segnale di partenza. Mi piaceva perdermi nel fermento dei ritardatari, degli abbracci scambiati, dei ferrovieri in divisa. Non potei non notare le persone affacciate ai finestrini. Mi sbaglierò, ma almeno quattro individui sembravano Monne Lise in cornice, indipendentemente dal sesso e dall’età.

La stessa notte sognai la Gioconda, quella originale, che usciva dal quadro e avanzava verso di me su pattini a rotelle, senza alterare l’espressione del volto e la posizione delle braccia e delle mani. C’era un che di allarmante nel suo modo di procedere. Il ghigno, ammirato da secoli e generazioni, nel sogno era una minaccia bella e buona. «Che vuoi da me?», devo averle chiesto dormendo e respirando malissimo. E lei: «Voglio tutto.» «Tutto cosa?» «Gli scontrini, le fatture, la dichiarazione dei redditi.» «Sei una commercialista?» «Sono l’anima della contabilità vergine.» «Lasciami dormire in pace. Tornatene nella tua galleria di Parigi.» «Non mi ami nemmeno un po’?» «No.» «Allora vaffanculo», concluse con voce dolcissima.

Mi svegliai di soprassalto, sudato come una spugna. Mi accesi una sigaretta – erano le quattro e qualcosa, credo di non aver mai fumato a quell’ora – e fui preso da una risatina nervosa. Immaginai il nostro mondo popolarsi all’improvviso di Gioconde e Giocondi in carne e ossa. Alti, bassi, giovani, anziani, donne, uomini – ma tutti con un tocco leonardesco nei tratti e nelle posture. Sorridevano in modo inquietante. Odiai il dipinto.

Tirai mattina sfogliando libri d’arte e sbadigliando, con gli occhi bruciati dall’insonnia. Non vedevo l’ora che facesse giorno. Volevo uscire al più presto da quella specie di prigione che era il mio appartamento da single e controllare l’aspetto dei passanti. Andavo pianificando, tra me e me, un programma di ricognizione senza precedenti. Contare le Monne Lise, prendere appunti sul mio taccuino, lanciare – se necessario – un allarme mondiale. Presi tra le mani, meccanicamente, la rivista che avevo comprato alla stazione. Sbigottito, osservai meglio la copertina. Un ritratto femminile, fotografico, ma tale e quale al dipinto di Leonardo. Una donna dei nostri tempi, un odierno clone di quell’altra. Non brutta né bella – con quella sottile ombra, o luce, di disumanità che distingue le figure dipinte da quelle reali. La rivista parlava di una donna di successo, una imprenditrice tentata dalla carriera politica «per moralizzare il potere». Gettai la rivista ai piedi del letto, tra i calzini e le mutande, e decisi di sottopormi a una doccia più lunga del solito per svegliarmi meglio dal torpore che mi soffocava.

Giunse finalmente quell’ora mattutina in cui certi tratti di strada profumano di torrefazione e di brioche appena sfornate. Non esiste momento migliore per chi conduce vite semisolitarie: meglio se insidiate da qualche rancore o incertezza (dovrei proporre ad Adele di venire a vivere con me, ma ho paura di un diniego). Entrai nel bar: il “mio” bar, presidiato dai ragazzi cinesi che fantasticavo di aver adottato (ho adottato un po’ di avvenire, mi scappava di pensare ogni volta che li vedevo sorridere – cioè di rado).

Come temevo, il bar era stato preso d’assalto da una comitiva di Gioconde. Rinunciai al caffé e alla brioche, con una retromarcia degna di un cavallo in crisi di panico. Varcata la soglia, per poco non fui investito da una Lisa in bicicletta, transitante senza freni sul marciapiede. Le urlai qualcosa di offensivo. Per tutta risposta si voltò appena, sempre pedalando, e mi gratificò di un sorriso ancora più ambiguo di quello eternato sulla celebre tavola del Louvre. Ero così fuori fase che trascurai di osservare se tenesse le mani sul manubrio in modo ortodosso o se procedesse a mani conserte, col solo movimento delle gambe. Mi precipitai all’edicola della stazione aspettandomi rivelazioni, opinioni e scoop sul fenomeno in corso – l’invasione delle Lise Gherardini. Non ero in grado di capirne il senso, la portata, la sostanza. Realtà o allucinazione? Mia o collettiva? No, non poteva essere solo mia: il pomeriggio del giorno prima erano stati altri a sottolineare la “giocondità” di quei due avventori. Erano stati altri, prima di me, a meravigliarsi di quella proliferazione surreale.

Mentre attraversavo la strada senza badare al semaforo rosso, i miei nervi furono scossi da un fischio imperioso. Era un vigile urbano che ce l’aveva con me. Prima fermò il traffico con la paletta, poi mi venne incontro a grandi passi, mi afferrò per il gomito e mi risospinse bruscamente sul marciapiede da cui provenivo. «Lei è un incosciente», disse. Era un omaccione con i baffi all’insù, ma sotto i baffi era tale e quale a Monna Lisa versione Duchamp. Compilò un verbale e mi multò, ma erano le sue mani a suscitare il mio interesse. Mani grassocce e femminee, fiorite da polsi senza neanche l’ombra di un pelo. «Chi siete?», domandai fissandolo negli occhi. «Chi siete chi? Mi dia del lei.» Non c’era niente di gentile nella sua voce e nel suo atteggiamento. «Sembrate tutti figli di Monna Lisa», azzardai. Si arrabbiò di brutto, come se gli avessi dato del figlio di puttana. Mi accusò di oltraggio a pubblico ufficiale, tentò di arrestarmi; ma quando, vigliaccamente, gli chiesi scusa, lasciò perdere e mi consigliò di farmi visitare al più presto. «L’ospedale è a meno di cento metri in quella direzione», concluse, come se non lo sapessi.

Lo presi alla lettera. M’incamminai verso l’ospedale meditando sulle parole che avrei usato al check-in del pronto soccorso. «Vedo Gioconde dappertutto» era da escludere, mi avrebbero messo la camicia di forza. Meglio denunciare qualcosa di vago, per esempio un’emicrania persistente e refrattaria alle aspirine.

«Ho un violento mal di testa», comunicai ansioso alla Monna Lisa di turno. «Sento che sto per svenire.»

«Tutto qui?», rispose. «Ha provato con l’aspirina?»

«Non funziona.»

«Oggi è solo giovedì. Dovrebbe consultare il medico di base, invece di venire qui.»

«Perché?», domandai stupidamente.

«Non la vede la folla che c’è? Dovrei assegnarle un codice bianco, e lei rischierebbe di aspettare fino a stasera prima che arrivi il suo turno.»

«Ma ho bisogno di un codice rosso», replicai. «O almeno giallo.»

«Si fidi di me, signore: vada in farmacia, se non può consultare subito il medico curante. E si rilassi. Qui c’è gente che sta morendo, non c’è tempo per i mal di testa.»

«Mi dia un codice rosso. O almeno giallo. Sto male, ne ho il diritto.»

La donna fece riposare le mani esattamente come nel quadro. Senza perdere la pazienza e senza rinunciare al dolce sguardo bovino, pronunciò qualcosa di materno e definitivo: «Signor mio, forse non se ne rende conto ma sta rubando tempo e risorse a me e ai contribuenti in coda dietro di lei.»

Rubando tempo e risorse. Contribuenti. Decisi di tornare al bar, sperando che la comitiva metafisica si fosse nel frattempo dileguata.

Sì, non c’era più. Respirai rinfrancato. Ordinai un espresso doppio e una brioche e mi adagiai su una sedia, stanco come un bradipo dimentico di albe, di tramonti, di orari. Sentivo le palpebre appesantite, il cuore alla deriva. Ripresi un po’ dell’energia perduta quando entrò qualcuno che mi era familiare. La signora magrissima, vestita e truccata di prima mattina come per andare a una cena di gala. Madame, come la chiamavano tutti. Dopo un cenno di saluto si accomodò di fronte a me. Sottovoce, per non farsi sentire dai cinesi, sussurrò due parole semplici come tagli di coltello: «Siamo circondati.» Forse impallidii e forse no, ero fuori dal campo dello specchio finto-liberty che faceva da sfondo a una devota della Coca-Cola.

«Sì, ma chi sono?», le domandai. Le donne sanno sempre qualcosa che gli uomini non sanno.

«Vengono da un altro pianeta», asserì tranquillamente.

«Come può il figlio della Pina venire dallo spazio?»

«Non è il figlio della Pina.»

«Ieri ne sembravate convinti.»

«Ieri era ieri. Si è guardato intorno, oggi, mentre veniva qui?»

Annuii sfiduciato. «Ma che vogliono da noi?»

«Questo non lo so. Ma dicono che siamo ladri. Tutti ladri.»

«Non rubare...»

«Non hanno studiato bene il catechismo. Dei dieci comandamenti, gli interessa solo il numero 7.»

«Come se lo spiega?»

«Sono moralisti specializzati. La loro specializzazione è la lotta al furto.»

«Fosse così, mi sentirei più sereno. I ladri mi fanno paura e, paura o non paura, mi danno fastidio.»

«Già. Ma se ci attaccano?»

«Perché dovrebbero attaccarci? Né lei né io siamo ladri.»

«Se prendessero piede, potrebbero decidere di appoggiare forze e governi ostili alla democrazia...»

«Sembra fantascienza.»

«La chiami come vuole. Ma io non mi fido dei moralisti antifurto.»

«Perché mai?»

«Credo nella molteplicità dei peccati e dei reati. Credo che non uccidere sia più importante che non rubare.»

«Non vorrà mica dirmi che i cloni di Monna Lisa abbiano intenzione di ucciderci...»

«No, mio caro, l’idea di ucciderci non li sfiora neppure. Non hanno progetti così drastici. Ma se prendono il potere...»

«Se prendono il potere ci tagliano la gola?»

«Non dica sciocchezze e mi stia a sentire, santo cielo! Sia un po’ più serio! Se prendono il potere si concentrano sul ladrocinio, sulla truffa, sull’imbroglio, sulla corruzione, sullo spreco, e lasciano andare in malora tutto il resto. Mi sono spiegata?»

«Cosa intende per tutto il resto

«Zitto.»

I due Giocondi erano entrati di nuovo. Li vedevo anch’io. Si erano piazzati allo stesso tavolo del giorno prima. Stavano cospirando qualcosa, era evidente. Avevano mani levigate ed enormi, più grandi di come m’erano parse la prima volta. Presiedevano in silenzio il silenzio, come in attesa di complici. E dopo cinque minuti, infatti, un’altra coppia li raggiunse. Identica a loro. Due Giocondi e due Gioconde, decisi a modificare la vita sul pianeta. Si moltiplicavano in modo esponenziale. Due. Quattro. Otto. Sedici. Trentadue... Granelli di sabbia su una scacchiera di 64 caselle. Quando avranno occupato l’ultima, un grande Sahara ci sommergerà.

Tiro a indovinare come andrà a finire questa storia. Cortei di protesta in costume, Monna blocks, assalti ai musei, agguati ai politici, alle sedi di partito, ai sindacalisti, alle banche. E infine un superbo rogo di libri in tutti i villaggi e tutte le città. Una nuova era, fatta di registri immacolati e lampioni spenti, di lapidazioni lampo e alleanze interrotte, di bambini grotteschi e adulti allucinati, sta per aprirsi alla storia. Non ci resterà che la fitness.

È deciso. Oggi stesso proporrò ad Adele di sposarmi. Non voglio rimanere solo, durante il coprifuoco.

Epilogo.

Il fermo proposito di sposare Adele, assunto alle 10:45 di una mattina di maggio, durò esattamente sei ore e quindici minuti. Decadde nel momento stesso in cui c’incontrammo nel luogo dell’appuntamento, una sala da tè dalle pareti dipinte di fresco.

«Sei stata dal parrucchiere», sussurrai.

Quello è, di solito, il momento in cui una donna ti chiede come la trovi, mettendosi di profilo e assumendo un’aria civettuola. Lei si limitò a sorridere.

Le ordinai un tè coi suoi pasticcini preferiti. Io ingoiai un caffè liscio, senza zucchero e senza entusiasmo. Si era fatta stirare i capelli e tirare una riga proprio al centro della testa. La portai al cinema a vedere un film suggerito da lei, e dormii tutto il tempo. Quando mi svegliò con un tocco di gomito, capii che il film era finito.

© Pasquale Barbella






La morte in cantiere

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Un muratore esce di casa per andare al cantiere, passa la mattina a posare mattone su mattone, in pausa pranzo consuma la mi­nestra di riso e fagioli che si è portato dietro, riprende il lavoro, cade da un ponteggio e muore «contromano, disturbando il traf­fico». Che la giornata, cominciata nel modo più ordinario, dovesse concludersi male lo si avverte fin dall’inizio, dalla descrizione drammatica di gesti semplici e quotidiani:

Quella volta amò come se fosse l’ultima,
Baciò sua moglie come se fosse l’ultima,
Ed ogni figlio suo come se fosse l’unico,
E attraversò la via con il suo passo timido.
Salì sul ponteggio come se fosse macchina,
Sopra la base eresse quattro pareti solide
Mattone su mattone in un disegno magico
Con gli occhi gonfi di cemento e lacrime.
Sedette a riposare come se fosse sabato,
Mangiò fagioli e riso come se fosse un principe,
Bevve e singhiozzò come se fosse un naufrago,
Ballò e canticchiò come ascoltando musica
Ed inciampò nel cielo come se fosse sbronzo.
E fluttuò nell’aria come se fosse un passero,
E andò a finire a terra come un sacco flaccido,
Agonizzò nel mezzo del marciapiede pubblico,
Morì contromano disturbando il traffico.

Censuratissimo capolavoro della canzone di protesta brasiliana, concepito in un pe­riodo in cui protestare era pericoloso. Buar­que, che aveva già scritto Funeral de um lavrador, torna a occuparsi dei poveracci delle favelhas e della morte facile. Special­mente nei cantieri: la canzone nasce infatti in un momento di massima espansione edili­zia e di minima attenzione alla sicurezza, con incidenti sul lavoro che si contano a centinaia di migliaia.



Buarque in un ritratto giovanile. 


Construçãoè una grande “costruzione” (6 minuti e 24 secondi di emozioni in cre­scendo) non solo dal punto di vista della denuncia sociale, ma anche da quello schiettamente poetico e musicale. Dopo aver raccontato per intero la storia della vittima, Buarque la riprende due volte dall’inizio con un bril­lante lavoro di “decostruzione” e “ricostruzione” dei significati: riutilizza le azioni, le parole e le metafore della prima parte ma montandole in modo sempre diverso, con un singolare effetto spiazzante:

Quella volta amò come se fosse l’ultimo,
Baciò sua moglie come se fosse l’unica,
E ogni figlio suo come se fosse il prodigo,
E attraversò la via con il suo passo sbronzo.
Salì sul ponteggio come se fosse solido,
Sopra la base eresse quattro pareti magiche,
Mattone su mattone in un disegno logico
Con gli occhi gonfi di cemento e traffico.
Sedette a riposare come se fosse un principe,
Mangiò fagioli e riso come se fosse il massimo,
Bevve e singhiozzò come se fosse macchina,
Ballò e canticchiò come se fosse il prossimo.
Ed inciampò nel cielo come ascoltando musica,
E fluttuò nell’aria come se fosse sabato,
E andò a finire a terra come un pacco timido.
Agonizzò in mezzo al marciapiede naufrago,
Morì contromano disturbando il pubblico.

Quella volta amò come se fosse macchina,
Baciò sua moglie come se fosse logico,
Sopra la base eresse quattro pareti flaccide,
Sedette a riposare come se fosse un passero
E fluttuò nell’aria come se fosse un principe,
E finì a terra come un pacco sbronzo,
Morì contromano disturbando il sabato.

La musica, apparentemente semplice e ripetitiva come nelle folk song, serba anch’essa non poche sorprese: come quando passa all’improvviso dalla dimensione inti­mistica a quella epica, con l’inaspettato in­tervento di una grande orchestra e di un lussureggiante quanto drammatico arran­giamento ritmo-sinfonico. Il tutto tenuto insieme dalle percussioni tipiche del samba e dei suoi derivati, che qui si fanno incal­zanti come il passo del destino. E non finisce lì: l’epilogo si snoda su un tema melodico diverso dal primo e introduce, dopo la descrizione del fatto di cronaca, un sarcastico ringraziamento ai padroni, alle istituzioni, alla malasorte:

Per questo pane da mangiare,
questo suolo per dormire,
il certificato di nascita
e il permesso di sorridere;
perché mi fate respirare
e mi lasciate esistere,
Dio vi ricompensi.
Per l’alcol gratis
che ci tocca ingoiare,
per il fumo e la sventura
che ci fanno tossire,
per il ponte sospeso
da cui tutti cadremo,
Dio vi ricompensi.
Per la donna lamentosa
che ci loda e sputa addosso,
per il bacio delle mosche
che ci coprono la pelle,
e la quiete che alla fine
a redimerci verrà,
Dio vi ricompensi.

Nato a Rio de Janeiro nel 1944, Chico Buarque – che è anche poeta, sceneggiatore e romanziere – aveva esordito come cantautore a vent’anni. Per il suo impegno politico sotto la dittatura militare fu arrestato nel 1968. L’anno successivo riparò in Europa; trascorse un anno d’esilio anche in Italia dove pubblicò due album, di cui uno arrangiato e curato da Ennio Morricone.

Da noi ebbe enorme successo, nel 1966, una sua canzone interpretata da Mina, A banda. Pur trattandosi di un’opera minore nella produzione di Chico Buarque, A bandaè forse la sua canzone più nota in assoluto, specialmente fuori dal Brasile. «Una marchinha un po’ antiquata» secondo Caetano Veloso, «in cui [Buarque] nostalgicamente rievocava una banda di musica ottocentesca che sfilava in una strada di un quartiere povero, illuminando per un momento la misera esistenza dei suoi abitanti. Era anche un’efficace metafora, apparentemente casuale, della capacità della musica brasiliana di risollevare gli animi di un popolo del quale costituisce l’unica vera fonte di allegria.» E più avanti: «A banda poteva servire per conquistare, attraverso la televisione, un pubblico più ampio e per rendere più accessibile alla gente comune il personaggio di Chico, sempre avvolto in quell’atmosfera un po’ lirica, ma non rappresentava certo l’espressione più elevata del suo sofisticato talento di compositore.» (C. Veloso, Verità tropicale. Musica e rivoluzione nel mio Brasile, 1997; ed. it. Feltrinelli, 2003).

Le osservazioni di Veloso, molto educate a distanza di trent’anni dall’epoca cui si riferiscono, rievocano solo in parte il clima rovente (musicale e politico) in cui si agitò la canzone brasiliana negli anni sessanta, sotto il regime militare. Il samba aveva subìto trasformazioni radicali con la bossa nova di Antônio Carlos Jobim e João Gilberto. E poi erano venuti i ragazzi più ardenti e arrabbiati, i Gilberto Gil e i Veloso, fondatori del movimento rivoluzionario e libertario Tropicalia: slogan, capelli lunghi e chitarre elettriche come armi da fuoco puntate contro il potere, la repressione, la censura, la cultura del passato. Buarque (del cui spirito sinceramente democratico nessuno ha mai osato dubitare: delle sue canzoni, due su tre venivano regolarmente bandite dai Goebbels del regime) fu contestato più dai colleghi che dal pubblico. Era e rimase l’idolo degli studenti e il simbolo del dissenso, anche quando – dopo l’exploit di A banda– la stampa attribuì proprio a Veloso un giudizio tagliente: «Chico Buarque è soltanto un bel ragazzo con gli occhi verdi.» Veloso compose una parodia della marcetta di Buarque, Alegria, alegria, adottandone ironicamente il ritmo, la struttura e l’atmosfera: ma la sorte, ancora più ironica, ha voluto che gli restasse appiccicata addosso come una sigla, così come A bandaè rimasta appiccicata addosso al suo autore.

Finirono tutti in esilio, nonostante le rivalità e i dissapori ideologici: Caetano Veloso, Gilberto Gil, Vinicius de Moraes, oltre a Chico Buarque de Hollanda. Alla vigilia del Sessantotto, i suoi dischi circolavano come feticci tra i cosiddetti «gruppuscoli dell’area extraparlamentare»: maoisti, marxisti-leninisti, etc., insieme al libretto rosso di Mao e agli scritti di Che Guevara. La sua canzone più amata da queste minoranze non era naturalmente A banda, ma Funeral de um lavrador, il «funerale d’un lavoratore».

© P. Barbella



L’ultima biglia

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“Solitary man” courtesy of pxleyes.com

Colta di sorpresa dalla morte di mio padre, la mia esistenza si tinse di grigio pallido, il colore della provvisorietà. Frequentai il liceo per altri due anni, fino al diploma, e subito dopo scivolai in una seconda fase d’incertezza, questa volta del tutto incolore. Sapevo di non potermi permettere l’università e avevo già messo in conto la ricerca di un’occupazione: la famiglia non poteva continuare a sostenermi, anzi aveva bisogno d’un mio contributo per tenersi a galla. Uno dei professori di liceo trovò scandalosa la mia intenzione di mollare gli studi. Suggerì un compromesso: un impiego part-time e qualche sacrificio per tirare fino alla laurea senza gravare su nessuno. Mi accompagnò di persona nella grande città, mi spinse nella tana di un vecchio libraio dalla pelle di tartaruga che gli doveva dei favori e gli strappò la promessa di darmi un lavoro. In cambio di imprecisate provvigioni e senza alcun rimborso spese, fui promosso dalla condizione di principe povero a quella di infimo schiavo. Avrei dovuto persuadere insegnanti di ogni ordine e grado all’adozione di testi scolastici pubblicati da editori di cui il vecchio libraio era l’agente di zona. Dopo mesi di porta-a-porta duro e umiliante, sofferti setacciando a piedi la grande città con un carico di vocabolari sulle spalle, chiesi al mio negriero il compenso che mi spettava, senza nemmeno sapere a quanto ammontasse. Taccagno com’era, l’orco obiettò che non mi doveva nulla di nulla: pretese, anzi, che gli rimborsassi il costo dei pochi libri ceduti, a mo’ di campione, ad alcuni docenti. La lezione m’insegnò che quella città non aveva niente di buono in serbo per me.

Mi spostai, ingenuo, in un capoluogo più defilato e ancor meno amichevole del primo, sempre nel sud ma insolitamente gelido e tetro. L’autunno era solo un altro nome dell’inverno. Era una città fatta di scale e di vento. Un vento che si accaniva a spingere, con odio accanito e innaturale, la schiena di chi da alte scalinate discendeva a valle. Occorreva aggrapparsi saldamente ai corrimano per mantenersi in equilibrio. Avevo trovato impiego come magazziniere in una concessionaria d’automobili, dotata anche di officina per le riparazioni. Stavo seduto alla scrivania davanti a una grande vetrata. Niente a che fare con gli uffici ai piani superiori di Manhattan con vista panoramica sullo skyline. Io stavo al pianterreno su un tratturo sghembo e pieno di sassi, tutto in discesa, e davanti ai miei occhi si svolgeva l’incessante viavai di ruspe, bulldozer e autocarri in servizio nel cantiere adiacente. Un giorno l’ultima ruota d’un mezzo pesante prese di striscio un macigno e lo fece schizzare contro la vetrata. Una palla di cannone. Mi chinai per rispondere al telefono giusto in tempo per evitare il proiettile. Lo sentii fischiare nell’orecchio sinistro un millesimo di secondo prima che sfondasse il kardex alle mie spalle, all’altezza esatta in cui avrebbe dovuto intercettare la mia testa. Osservai gli effetti del big bang con la faccia di Buster Keaton e la mente perplessa. Una montagna di vetri infranti, un’altra di pezzi di ricambio Alfa Romeo in caduta libera. Non ebbi modo di scoprire chi fosse stato il mio inconsapevole salvatore telefonico. Gli avrei mandato volentieri due bottiglie di vino, o un mazzo di fiori.

Dormivo in una pensioncina pervasa di tanfo e priva di riscaldamento, incappottato di notte come di giorno. Non incrociai mai l’altro ospite della maison, il Ragioniere Triste. Avrei scambiato volentieri qualche parola con lui, se i rispettivi orari fossero stati meno incompatibili. L’alloggio siberiano era presidiato da due padroni, la Donna del Ring e il suo Cane da Gestapo. Lei era una specie di Seconda Carnera: aveva la stazza e i bicipiti del Primo. A differenza del famoso campione dei pesi massimi, però, era refrattaria al sorriso e sembrava odiare il prossimo come sé stessa. Con il Cane aveva stipulato un patto d’alleanza fondato sui principii della rabbia e della rissa, dell’insurrezione e del castigo. Il Cane non sopportava lo squillo del campanello d’ingresso e l’irruzione di intrusi nel suo territorio. Quando, a sera inoltrata, tornavo dal lavoro e dalla più dimessa delle trattorie, o addirittura dal cinema, per lui ero carne da sbranare. Prima che l’uscio si aprisse per accogliermi, subivo dal pianerottolo lo strepito di colluttazioni furibonde. I due padroni si rotolavano avvinghiati sul pavimento scambiandosi, nelle rispettive lingue, oscenità e bestemmie. Ad avere la meglio era sempre la Donna del Ring, con o senza spargimento di sangue e saliva. I duelli si concludevano invariabilmente con l’imposizione di guinzaglio e museruola al ribelle sconfitto.

Non poteva durare. Meglio l’esilio. Della mia famiglia, le ultime a trasferirsi a nord erano state mia madre e le mie sorelle, a bordo di un camion zeppo di mobili e vettovaglie. Ero contento di non averle viste partire. Di non sapere se si fossero messe in viaggio col sole o con la pioggia. Propendevo per la seconda: nessun film in bianco e nero può fare a meno della pioggia, pensavo, se aspira a un minimo di drammaticità. Decisi di mandare a farsi fottere il mondo inospitale di cui era prigioniero e di raggiungere a mia volta i paradisi industriali del Settentrione. Annunciai al mio datore di lavoro la data dell’addio, verso la fine del mese di maggio. Prima di quella scadenza pianificai l’ultima visita all’ultima casa d’affitto in cui ero vissuto con i miei, sull’altopiano delle Murge. Qualcosa di mio vi era rimasto – libri, scartoffie, dischi, una branda e poco altro – e bisognava darci un’occhiata per decidere cosa salvare e cosa lasciare, prima di restituire le chiavi al proprietario dell’appartamento. E soprattutto c’era Madame Nostalgia, l’invisibile sovrana del pathos, ad aspettarmi con le sue braccia flaccide e vuote, per un ultimo abbraccio.

«Ultimo», avrebbe poi detto Leonardo, un amico, «è un aggettivo onnipresente nei pensieri e nei discorsi dei vecchi. Ma che sciocchezza. È per quelli della nostra età che ogni giorno finisce qualcosa.» Non aveva torto. Lo disse, del resto, in una delle sue ultime conversazioni con me: per quanto salda fosse la nostra amicizia, sarebbe scomparsa di colpo – e per sempre – al primo sferragliare del treno separatore.

Per il saluto definitivo a Canosa, il luogo in cui ero cresciuto e dove ogni cambiamento era stato un passaggio da ultimi ieri a nuovi domani, avevo scelto l’unica chance possibile, quella delle festività pasquali. Da salutare, però, c’erano più fantasmi che persone in carne e ossa: quasi tutti i miei compagni avevano già preso il treno di Rocco e i suoi fratelli prima di me. Mi restava Leonardo, l’ultimo: forse il più simile a me, almeno sotto certi aspetti – la magrezza legnosa e surreale, l’ossessione per la poesia; – ma già segnato da un disincanto mascherato da ironia, da uno scetticismo virale, dalle pagine di Schopenhauer e altri filosofi poco inclini alla consolazione dei ventenni disorientati. C’erano anche delle ragazze nel nostro gruppo, certo; le fidanzate fanno bene alla salute. Ma erano tutte perdutamente innamorate di altri ragazzi della nostra cerchia, più veloci di noi nell’arte della seduzione. Era già un conforto ballarci insieme nelle festicciole casalinghe della domenica, feriti a morte dagli acuti di Tony Williams, solista dei Platters, in Smoke gets in your eyes.

Che Pasqua è la Pasqua di chi non crede alle resurrezioni? Né Leonardo né io ci credevamo. Per noi la festa, se festa era, finiva in cima al Calvario. All’insegna delle corone di spine, degli Stabat Mater e delle ciambelle confettate, quei giorni non mi risparmiarono una piccola, personale via crucis.

Molto si camminò e molto si discusse, Leonardo e io, di autori amati, di passioni frustrate, di ragazze irraggiungibili e di ignoti destini. Ci eravamo iscritti entrambi, per reciproca solidarietà e per dimezzare la spesa dei libri, allo stesso corso di laurea, in lingue e letterature straniere. Insieme avevamo studiato Lessing, Schiller, Brecht, Molière e i lirici minori dell’Ottocento italiano: questi ultimi stimolavano la nostra arroganza, perché ci facevano sentire (probabilmente a torto) più bravi di loro. Ma io stavo meditando per la seconda volta di tagliare i ponti con l’università e lui, quando glielo dissi, annunciò l’intenzione di cambiare facoltà e passare a lettere e filosofia. La sera del venerdì santo, esausti per il troppo vagare e sazi di paradossi, di sigarette, di delusioni, di calembours, di Sartre e di Rimbaud, decidemmo di sospendere i voli pindarici e atterrammo, come gabbiani storditi e degradati, al Pidocchio. Era questo un ex teatrino popolare fallito due volte, prima con le marionette e poi con l’avanspettacolo più cochon. Nessuno ne ricordava più il nome o i nomi di cui s’era fregiato in passato; era Pidocchio e basta, per via della sporcizia e della rovina che vi avevano a lungo regnato. Verso la fine dei cinquanta qualcuno aveva comprato quella topaia, marcita e morta da tempo immemorabile, e le aveva dato una ripulita. Nella platea sventrata erano stati piazzati dei tavoli da biliardo nuovi di zecca. C’era anche un piano superiore con ufficio, bagno e stufa affacciati su un ballatoio da saloon. I luoghi, al contrario delle persone, a volte risorgono.

Con gli amici avevo frequentato di tanto in tanto, nelle sere di noia, quella sala giochi, sul tardi. Con le stecche ero una schiappa, ma con le boccette avevo imparato a cavarmela. Non che fossi proprio devoto alle biglie e al velluto verde; solo che a una cert’ora non si sapeva che altro fare. Leonardo era sempre sul depresso, forse era nato con un’impronta congenita di malumore. Rideva spesso ed era anche un parlatore irrefrenabile, ma la sua era un’euforia sarcastica, da teenager colto e infelice. Al Pidocchio e in mia compagnia sembrava rianimarsi un po’.

Trovare libero un tavolo da biliardo non era facile. Il locale era sempre pieno, a quell’ora. Bisognava mettersi in coda e aspettare che altri si togliessero di torno. Alcuni si installavano lì come se fosse l’ultimo riparo concesso ai superstiti della fine del mondo, e dal pomeriggio a mezzanotte non c’era verso di schiodarli. Altri avevano l’aria di teppisti ed era prudente tenersene a distanza, attenti a non cedere alle provocazioni. Non era esattamente il posto più adatto ai ragazzi inoffensivi: tali eravamo, sebbene in lutto permanente per James Dean e surriscaldati dalle ultime braci della gioventù bruciata. Giravano maschere truci e, nell’aria satura di fumo, volavano insulti taglienti. Per fortuna non si servivano alcolici. Pagavi e giocavi – nient’altro. Se qualcuno faceva troppo lo smargiasso doveva vedersela con Barabba, il custode del regno. Che ovviamente non si chiamava Barabba, ma chissà come. Del resto, a chi potevano importare i suoi dati anagrafici? O la sua biografia? Barabba era Barabba e basta, con bicipiti tatuati a dovere e un’autorevolezza che nessuno avrebbe osato mettere in discussione.

Succedeva spesso che entravi e in capo a tre minuti facevi dietro-front, perché vedevi tutti i tavoli da gioco occupati e, dalla mobilità espressiva dei giocatori, capivi che erano troppo eccitati per rinunciare presto alla postazione. Quella sera, come per miracolo, trovammo un tavolo sgombro invece di fare la solita coda. Sembrava che stesse aspettando proprio noi, prodigo di promesse più verdi di qualsiasi speranza. Leonardo era più in forma che mai. Era confortante vederlo così preciso nei tiri e persino un po’ strafottente. Al diavolo le malinconie. Quel gioco, e il fatto di vincere due volte su tre, lo metteva su di giri. Una specie di terapia, per quel che poteva durare.

Tumpf, tumpf, tumpf. La sala era tutta un concerto di biglie scontrate, di sponde colpite, di buche violate, di voci e di echi. Non mi dispiaceva quella musica. Erano festosi i colori delle sfere, così vividi sotto la luce al neon. Stavo giusto calcolando un tiro assassino quando, a un lato del biliardo, comparve un trio di canaglie. Il più basso, che aveva una faccia di tufo, domandò a bruciapelo se avessimo finito. Lo informai che avevamo appena incominciato. E quello: «Beh, adesso avete finito. Stop.»

Continuammo a trastullarci con le biglie fingendo di non aver sentito. Ma sbagliai vistosamente il tiro e avvampai di vergogna. I tre provocatori risero in modo sguaiato. Faccia di Tufo incalzò: «Non è gioco per bambine. Fuori dai coglioni, tocca a noi.» Azzardai un vaffanculo. Dalla parte opposta del rettangolo, Leonardo ci mise del suo: «Signori, non vi sarà sfuggito che siamo in un luogo pubblico, governato da regole superiori. Se e quando gli dei dell’Olimpo vorranno, verrà il vostro turno.» Si esprimeva sempre in modo forbito e classicheggiante: per innata gentilezza, ma soprattutto per spiazzare gli avversari. Usava la letteratura come altri usano il tritolo. Capitava anche a lui, ogni tanto, di reagire con scatti nervosi e imprecazioni, preferibilmente in tedesco, se qualcuno lo indignava con frasi fatte, osservazioni volgari, ironie di bassa lega. Non era quello il caso: la situazione richiedeva un discreto autocontrollo. «Hai sentito?», disse il bassetto a uno dei suoi servi, che aveva il viso ricoperto di pustole. «Posto pubblico, ha detto. Però si comporta come se il posto fosse suo.»

Eravamo agnelli troppo fieri per darla vinta al primo lupo cattivo incontrato lungo il fiume. Seguitammo a tirare boccette, ad abbattere birilli, a elaborare figurazioni complicate e a misurare con le mani le distanze fra le biglie e il pallino, ignorando gli scocciatori. L’onore, quella sera, era lucido e sferico, bianco rosso e blu, e rotolava danzando sul prato verde dell’armonia. Più tardi ho elaborato la convinzione che il segreto della bellezza, la sensazione della felicità e dell’equilibrio dipendano, in sostanza, dal nostro modo di percepire le forme geometriche. Se impariamo a mondarle del superfluo, a rappresentarcele nella più pura delle nudità, si accende un led su qualche display, per informarci che la luce delle idee è a portata di mano. La ragione, l’amore, la vita stessa non sono che disegni tracciati con mano leggera e decisa: i calligrafi d’Oriente devono averlo intuito qualche millennio prima di me, e assai meno confusamente.

Come per incanto, i nostri Achei si tolsero dai piedi. Però bollivo di rabbia repressa e, senza darlo a vedere, stavo in guardia, con tutti i sensori all’erta. Ero naïf, ma non fino al punto di credere che si arrendessero così facilmente. Dov’era il cavallo di legno? Ed ecco che, a un certo punto, qualcosa accadde. Sul nostro rettangolo perfetto si abbatté, con un suono brutale appena attutito dal velluto, un miserabile ciocco di legno. Un ceppo della stufa, lanciato dal ballatoio. «Zum Teufel!», sbottò Leonardo. Levammo lo sguardo e li vedemmo lassù tutti e tre, i cecchini, sghignazzanti come iene.

Uno di loro minacciava di scagliare un secondo proiettile. Fu allora che andai a cercare Barabba. «Ci penso io», disse il gigante senza esitare e senza un’ombra di emozione. Giocammo fino a dopo mezzanotte, senza pensare più a quell’Iliade da strapazzo. I tre persecutori erano scomparsi da un pezzo. Quando uscimmo a riveder le stelle, mi accorsi di aver finito le sigarette. A Leonardo ne era rimasta una, l’ultima. Volle a tutti i costi che la prendessi io. «Dividiamocela, almeno», proposi. «No, dev’essere tua. Tua e basta.» Era una Nazionale Esportazione, tratta da un molle pacchetto verde adornato dalla sagoma nera di un veliero. Era sempre stato così, tra noi: chi aveva le sigarette le condivideva con l’altro. C’erano state domeniche quasi da ricchi, e allora giravano le Astor, le Macedonia, le Turmac, le Mercedes. Altri tempi. Ci saremmo rivisti, un giorno? A fumare Astor sulla spiaggia di Barletta, magari? Sembravamo convinti di sì. Ci salutammo tenendo a bada qualsiasi tentazione retorica, avviandoci in direzioni opposte.

Accesi quel regalo inaspettato – l’ultima sigaretta di un’epoca in fuga – e m’incamminai per la mia strada. Un chilometro nella quiete di una notte banale e al tempo stesso irripetibile. A passo lento sotto le stelle. Pensavo a Saint-John Perse, che quell’anno aveva vinto il Nobel letterario «per l’ambizioso volo e le evocative immagini della sua poesia», e all’effetto che aveva prodotto su Leonardo. «Hai letto l’Anabasi?», mi aveva chiesto. No, non avevo ancora letto nulla di Saint-John Perse. Leonardo lo aveva fatto, e subito dopo aveva dato fuoco al proprio quaderno di poesie. Attraversai il centro deserto, chiedendomi che senso avesse avuto quel mio ritorno a Itaca (già, adesso mi sentivo più greco che troiano) e a cosa mai potesse giovarmi la nostalgia. Avevo lo stomaco vuoto e la testa piena di niente. Pensai alle due arance che mi aspettavano per cena, alla valigia lasciata semiaperta sul pavimento, a tutta quell’assenza di suono e di rumore. Stavo costeggiando la cancellata della villa comunale, il punto più romantico e meno abitato del percorso, quando percepii lo scalpiccio alle mie spalle. Decisi di non voltarmi. Qualcuno mi posò una mano sulla spalla sinistra. Dovetti fermarmi e subire quel risolino inconcludente. Faccia di Tufo, che ora mi stava di fronte, mi parlava come si parla a un fratello minore.

«Che bel visetto che hai», disse. «Però non sei stato gentile. Devi ammetterlo.»

«Vieni al dunque».

«E come faccio a venire al dunque? Il dunque fa male. Hai l’aria di uno che corre subito a frignare dai carabinieri, se ti guasto il faccino. Tu che ne dici?»

«Non ho niente da dirti.»

«Sicuro?»

«Spicciamoci. Vado di fretta.»

«Adesso non hai niente da dirmi. Ma lì mi hai detto vaffanculo. O sbaglio?»

«Vaffanculo di nuovo.»

A un suo cenno, i lacchè mi afferrarono per le braccia, uno da destra e uno da sinistra. Il nano mi sgambettò facendomi crollare sull’asfalto, sotto il marciapiede, e mi sferrò uno, due, tre pugni sul naso e sulle labbra, come a volermi sfigurare. Quante volte avevo visto la stessa scena, nei film! Era tutto un déjà-vu, con me nella parte del soccombente e loro in quella dei ladri di bestiame. Cadendo avevo perso gli occhiali e mi ero aggrappato al pullover del furfante: lo trascinai giù con tutte le forze per avere la faccia di tufo a portata di pugno. Da quella posizione scomoda tirai dei colpi alla cieca con la mano libera. Ma la fiducia in me stesso era prossima al suo minimo storico. Non ero fatto per la guerra, ero nato con una colomba stampata nell’anima. Mi avrebbero ridotto a pezzi se non si fosse materializzata, alla luce dei lampioni, un’ombra in bicicletta.

Il ciclista puntò diritto verso il groviglio di corpi nel buio, scampanellando a ripetizione. I picchiatori si dileguarono all’istante. L’uomo scese dalla bici e aiutò la vittima a rimettersi in piedi e a recuperare gli occhiali. Ci riconoscemmo a vicenda, con stupore. Era proprio lui, il Sarto. Il mio padrino di cresima. «Fammi vedere», disse prendendomi il mento tra le dita. «Stai sanguinando. Vieni, andiamo in bottega. Ce la fai a camminare?»

«Sì che ce la faccio. Non è niente, non mi fa male.»

Quella che chiamava bottega era il suo laboratorio, in verità modestissimo, di taglio e cucito. Attraversammo la strada e, dopo un centinaio di passi, l’uomo si chinò con la chiave e tirò su la saracinesca. «Attento a dove metti i piedi», disse prima di accendere la luce. Mi fece sedere. «Apri la bocca.» Un filo di sangue mi colava lungo il mento e il collo, macchiandomi anche il maglione. Cercò dell’ovatta e delle garze, mi ripulì nei punti più compromessi, tamponò a colpetti qua e là. «Hai un labbro gonfio, ma i denti sembrano a posto. Chi erano quelli?»

Gli raccontai la storia.

«L’ho visto, il tuo nano», disse. «Non è uno di qui, ma so chi è. Ha un banco di formaggi al mercato. Quando non è in galera.»

«In galera?»

«Stagli alla larga. Deve avere una fedina da schifo. Non è il nemico che fa per te. Ma tu che ci fai qui? Ti credevo a Bari. O a Potenza. Perché non mi hai avvisato che eri qui? Come mai non sei venuto a trovarci? Hai già cenato?»

Rispondevo all’interrogatorio con qualche verità e qualche bugia. «Domani, comunque, ti voglio assolutamente a pranzo da noi», concluse. «Poi, per sicurezza, ti converrà sparire per qualche tempo.» Mastro Gerardo aveva ogni diritto di rimproverarmi. La sua bottega era la mia seconda casa. Un giorno ci avrei anche dormito, in quella sartoria, nel corso di un breve e insensato soggiorno alla ricerca di radici smarrite; e lui avrebbe addirittura piazzato, accanto alla mia branda improvvisata, un ritratto di mio padre sotto la luce di una nuda lampadina: «per non sentirti solo», avrebbe spiegato. Ed eccomi lì a farmi curare le ferite dal signore che mi aveva cucito la parte più chic del guardaroba, a partire dal «principe di Galles» con pantaloni alla zuava, quelli che a quindici anni facevano di te, ufficialmente, un adulto. Nel mio sud di allora non c’erano né D&G né Hugo Boss a prendersi cura di milioni di ignudi da vestire, ma gli dèi del bottone erano assai più numerosi di quanti ci assistono adesso. Solo che la maggior parte era invisibile. Madri, zie e nonne si davano da fare in casa con l’ago, il filo, il ditale e la Singer, per procurare alla famiglia il giusto fabbisogno di mutande, sottane, camicie, calzoni – e toppe per la loro manutenzione. Ma non finiva lì. Al mio paese c’erano più sartorie (e saloni da barbiere, veri gentlemen’s club da conversazione mattutina) che negozi di alimentari. Per le sue creazioni Mastro Gerardo, mio couturier nonché compare di cresima, occupava un seminterrato sotto casa sua, in via Bovio. Aperto fino a tarda ora nella torrida estate, l’uscio era protetto da una rezza, specie di sipario costituito da lunghe e sonanti catenelle di cannellini di plastica: non era roba da Triennale di Milano ma garantiva un minimo di frescura e di privacy, oltre a fungere da barriera antimosche. Armato di forbici smisurate, il patron eseguiva il taglio delle stoffe con concentrazione ieratica e gesto sicuro lungo percorsi tracciati col gesso; l’altare di tale celebrazione era un tavolo di abbondante lunghezza, quasi da refettorio conventuale. Il rito era benedetto da un quadro appeso alla parete retrostante, raffigurante Sant’Omobono di Cremona, protettore della categoria. Tra il sacro tavolo e l’ingresso cicalava una ridente scolaresca di cucitrici operose. Il maestro aveva sposato la più brava.

Gerardo, come i suoi concorrenti del luogo, non aveva studiato in nessuna maison di Parigi o Firenze ma si era fatto le ossa, ancora adolescente, nel laboratorio d’un altro maestro, Pasquale di Cerignola; e guadagnava dalla sua arte così poco da non potersi permettere un atelier all’altezza del suo talento. Nel suo covo potevi comunque palpare, concupire e ordinare le stoffe più pregiate e à la page: rotoli di Zegna e Marzotto, lane e lini, tweed e fustagni, grisaglie e gessati, scozzesi e rigati, per farti cucire addosso qualcosa che facesse girare la testa alle ragazze. Due volte all’anno, l’umile Sarto partiva per il nord (allora era un gran viaggio) per documentarsi sulle nuove collezioni di stagione, e tornava a casa carico di campioni e di cataloghi: che allora si chiamavano figurini e non contenevano fotografie, ma stilizzate illustrazioni degne di Vogue e Apparel Arts. Era così bravo che una volta vinse il Premio Marzotto per aver realizzato un impeccabile «completo monopetto per conformazione molto grassa», per dirla con le parole della motivazione.

La mattina del sabato raccontai della mia scazzottata ai primi ex compagni di scuola incontrati per strada. Quando descrissi Faccia di Tufo, e accennai al banco dei formaggi, Nunzio esclamò: «O cazzo! Proprio stamattina l’ho visto al mercato. Aveva un cerotto enorme tra il naso e un orecchio.»Me lo feci ripetere, gongolando segretamente di gioia. Nunzio invece non gongolava affatto: «L’hai sistemato, ma ho paura che non te la fa passare liscia. Se vuoi un consiglio da amico, fai la valigia e squagliati.»

Ma non potevo andarmene all’improvviso. Ero tornato con un programma ben definito – impegni burocratici, gente da salutare, oggetti da recuperare. Ero in allarme. Talmente in allarme che, non ricordo né come né dove, mi procurai un coltello di quelli pieghevoli, a serramanico. «Non si sa mai», andavo dicendo a me stesso.Feci anche la posta a un agente di polizia, sulla strada della stazione. Uno che conoscevo, il fidanzato di un’amica di famiglia. Volevo consigliarmi con lui, in via del tutto ufficiosa. Gli domandai se conoscesse un poco di buono, alto all’incirca un metro e sessanta, che vendeva formaggi al mercato.

«Se lo conosco! Entra ed esce di cella.»

Gli dissi che aveva pestato e minacciato un amico; che l’amico si era difeso e gli aveva procurato una ferita sul volto. «Che succede se il mio amico lo denuncia?»

«Succede che lo prendiamo, lo fermiamo per una notte e domani è di nuovo a piede libero.»

«Anche se è già schedato?»

«Anche se è già schedato. Lo so che dovrei essere l’ultima persona al mondo a parlarti così. Ma non mi va di vederti vittima di qualche vendetta. Quello è un delinquente coi fiocchi.» Aveva capito al volo che l’antagonista del formaggiaio ero io. Ci tenne a farmi sapere che il nano, se denunciato, sarebbe stato assai più pericoloso di come già era.

Per quei pochi, ultimi giorni in paese, evitai – specialmente la sera – di andarmene in giro da solo in zone poco frequentate. Mi feci scortare da frotte di coetanei, stavo sempre in gruppo anche se non si trattava degli amici di sempre. E, senza dirlo a nessuno, accarezzavo con le dita il manico del coltellino ripiegato in tasca. Pensavo a come lo avrei usato, in caso di bisogno. Non ero esperto in materia. Dovevo colpire alla pancia? Al torace? Alla gola? No, alla gola no: avrei dovuto alzare un po’ il braccio, anche se l’avversario era un tappo, lasciando scoperta buona parte del tronco. Addestrato com’era, il nano avrebbe avuto tempo e modo di bloccarmi. Senza contare che aveva due guardie del corpo. Ma quelli, mi dicevo per farmi coraggio, erano dei gregari, delle nullità, e al primo fiotto di sangue sarebbero scappati via. Il ventre mi sembrava più abbordabile, più facile da trafiggere, perché lì la carne è molle e non oppone resistenza. Mi perdevo in questi pensieri da cavalleria rusticana, fantasticando su mille varianti di attacco e difesa.

Di notte faticavo a prender sonno. Mi sforzavo di immaginare non solo la scena cruciale, ma anche le sue conseguenze. Tra un brivido e l’altro, inserivo qualche speranza. L’avrei scampata se fossi riuscito a sopravvivere fino al lunedì dell’Angelo, giorno fissato per la partenza. Dopotutto non era ancora successo niente di tragico, ed erano già passati due giorni dalla prima imboscata. Mi dispiacque di aver evitato la compagnia di Leonardo, dopo l’ultimo incontro. Ma non volevo mettere a repentaglio la sua sicurezza. Io ero prossimo a partire ma Leonardo sarebbe rimasto lì, in balia dei predatori.Cominciavo ad aver paura anche del mio coltello. Sapevo bene di non esserne all’altezza. Qualunque arma, nelle mie mani, si sarebbe ritorta – in un modo o nell’altro – contro di me. Ma non mi decidevo a disfarmene.

Il giorno di Pasqua ripassai a salutare il Sarto e la sua famiglia. Quanto dovevo a quelle persone! Non solo per il salvataggio e il lauto pranzo, ma per tutto il sostegno che mi avevano dato nei giorni peggiori. Non avevo soldi per un regalo decente. Allora regalai al maestro una confessione, perché il poveruomo si stava mostrando fin troppo apprensivo sul destino di quel figlioccio.

«Se mi tocca di nuovo», dichiarai con una certa vaghezza, «gliene faccio passare la voglia.»

«Stagli lontano e basta. Non puoi farcela contro uno di quella specie.»

«Ne sei certo?»

Con un mezzo sorriso, mi sfilai di tasca il coltello a serramanico e lo feci scattare con un bel clic.

Quanto si arrabbiò, il Sarto! Tante me ne disse e tanto alzò la voce che riuscì a farsi consegnare il coltello. Probabilmente era ciò che desideravo fin dal principio, anche se non capivo perché mai l’avessi presa tanto alla larga. Avrei potuto semplicemente lasciare quell’oggetto nella casa vuota, o gettarlo nella fogna. Ma mi sentivo un po’ eroe, per aver avuto l’idea di attrezzarmi allo scontro. Adesso ero di nuovo disarmato, ma per decreto di una forza superiore. Il fatalismo ebbe il sopravvento sull’angoscia. Vado inerme al macello, mi dicevo, e ne esco bene anche da morto: tre contro uno, se tutto va male. Uno contro tutti, se per miracolo la scampo.

Venne il lunedì della partenza. Avevo salutato le persone più care, sapendo che molte non le avrei più riviste. Il vecchio autobus della Sila partiva di prima mattina e il viaggio era lungo. Ero sano, salvo, allegro e triste. Temprato, anche. Il luogo in cui ero cresciuto mi stava scaricando per sempre, lasciandomi per ultimo ricordo uno schizzo di sangue. Sì, ero al sicuro – almeno dagli aggressori. Potevo finalmente concentrarmi su altre insicurezze. Ma per quelle c’era più tempo. Potevo permettermi il lusso di soffrire un po’ alla volta, in caso di necessità. Se hai dieci problemi che ti assillano, pensavo, preoccupati solo del primo. Gli altri nove contano meno di zero.

Con quella bella scoperta mi lasciai cullare dalla corriera, che intanto si era messa in movimento. In pochi minuti, l’abitato scomparve alle mie spalle. Amici e nemici impallidivano, a poco a poco, nei vapori della memoria. Ero un altro. Cominciavo a rotolare nel futuro come una biglia in moto perpetuo, rimasta sola e senza tiratore su una pianura di velluto verde disseminata di buche.

Nella città di scale e di vento, una domenica sera, un tale mi venne incontro in mezzo alla folla del corso, con un largo sorriso stampato sul volto. Per un po’ finsi di non vederlo. Accennai anche a un cambio di rotta, nell’estremo quanto patetico tentativo di evitare quella seccatura.Faccia di Tufo era al settimo cielo. «Che combinazione!», andava ripetendo, incredulo. Mi si attaccò al braccio, come si fa con un fratello ritrovato dopo anni di prigionia. Mi sospinse nel bar più vicino e mi offrì da bere.

© Pasquale Barbella









I 100 migliori film degli anni ’80

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Michelle Pfeiffer e John Malkovich ne Le relazioni pericolose di Stephen Frears.

La graduatoria parte dal basso. Per altre decadi cliccare su quaranta, cinquanta, sessanta e settanta.


100 - Body Heat (Brivido caldo). Regia: Lawrence Kasdan. Sceneggiatura: Lawrence Kasdan. Fotografia: Richard H. Kline. Musica: John Barry. Interpreti: William Hurt, Kathleen Turner, Richard Crenna, Ted Danson, J.A. Preston, Mickey Rourke. USA, 1981.

99 - Le Grand bleu. Regia: Luc Besson. Sceneggiatura: Luc Besson, Robert Garland, Marilyn Goldin, Jacques Mayol, Marc Perrier. Fotografia: Carlo Varini. Musica: Eric Serra. Interpreti: Rosanna Arquette, Jean-Marc Barr, Jean Reno, Paul Shenar, Sergio Castellitto. Francia-USA-Italia, 1988.

98 - The Untouchables (The Untouchables - Gli intoccabili). Regia: Brian De Palma. Sceneggiatura: David Mamet, dal libro di Oscar Fraley e Eliot Ness. Fotografia: Stephen H. Burum. Musica: Ennio Morricone. Interpreti: Kevin Costner, Sean Connery, Charles Martin Smith, Andy Garcia, Robert De Niro. USA, 1987.

97 - One From the Heart (Un sogno lungo un giorno). Regia: Francis Ford Coppola. Sceneggiatura: Armyan Bernstein, Francis Coppola. Fotografia: Vittorio Storaro. Musica: Tom Waits. Interpreti: Frederic Forrest, Teri Garr, Raul Julia, Nastassja Kinski, Lainie Kazan, Harry Dean Stanton. USA, 1982.

96 - Gandhi. Regia: Richard Attenborough. Sceneggiatura: John Briley. Fotografia: Ronnie Taylor, Billy Williams. Musica: Ravi Shankar. Interpreti: Ben Kingsley, Candice Bergen, Edward Fox, John Gielgud, Trevor Howard, John Mills, Martin Sheen. Regno Unito-India, 1982.

95 - Rok spokojnego słońca (L’anno del sole quieto). Regia: Krzyzstof Zanussi. Sceneggiatura: Krzyzstof Zanussi. Fotografia: Slawomir Idziak. Musica: Wojciech Kilar. Interpreti: Maja Komorowska, Scott Wilson, Hanna Skarzanka, Ewa Dalkowska. Polonia-USA-Germania, 1984.

94 - La ley del deseo (La legge del desiderio). Regia: Pedro Almodóvar. Sceneggiatura: Pedro Almodóvar. Fotografia: Ángel Luis Fernández. Interpreti: Eusebio Poncela, Carmen Maura, Antonio Banderas, Miguel Molina. Spagna, 1987.

93 - Back to the Future (Ritorno al futuro). Regia: Robert Zemeckis. Sceneggiatura: Robert Zemeckis, Bob Gale. Fotografia: Dean Cundey. Musica: Alan Silvestri. Interpreti: Michael J. Fox, Christopher Lloyd, Lea Thompson, Crispin Glover. USA, 1985.

92 - Scarface. Regia: Brian De Palma. Sceneggiatura: Oliver Stone. Fotografia: John A. Alonzo. Musica: Giorgio Moroder. Interpreti: Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, Mary Elizabeth Mastrantonio, Robert Loggia, Miriam Colon, F. Murray Abraham. USA, 1983.

91 - Rumble Fish (Rusty il selvaggio). Regia: Francis Ford Coppola. Sceneggiatura: Francis Ford Coppola (da S.E. Hinton). Fotografia: Stephen H. Burum. Musica: Stewart Copeland. Interpreti: Matt Dillon, Mickey Rourke, Diane Lane, Dennis Hopper, Diana Scarwid, Vincent Spano, Nicolas Cage, Chris Penn, Laurence Fishburne.USA, 1983.

90 - Les Favoris de la lune (I favoriti della luna). Regia: Otar Ioseliani. Sceneggiatira: Otar Ioseliani, Gérard Brach. Fotografia: Philippe Théaudière. Musica: Nicholas Zourabichvili. Interpreti: Katja Rupé, Alix de Montaigu, François Michel. Francia-Italia-URSS, 1984.

89 - Sex, Lies, and Videotape (Sesso, bugie e videotape). Regia: Steven Soderbergh. Sceneggiatura: Steven Soderbergh. Fotografia: Walt Lloyd. Musica: Cliff Martinez. Interpreti: James Spader, Andie MacDowell, Peter Gallagher, Laura San Giacomo. USA, 1989.

88 - Querelle (Querelle de Brest). Regia: Rainer Werner Fassbinder. Sceneggiatura: Rainer Werner Fassbinder, Burkhard Driest, dal romanzo di Jean Genet. Fotografia: Xaver Schwarzenberger, Josef Vavra. Musica: Peer Raben. Interpreti: Brad Davis, Franco Nero, Jeanne Moreau, Laurent Malet. Germania-Francia, 1982.

87 - Silkwood. Regia: Mike Nichols. Sceneggiatura: Nora Ephron, Alice Arlen. Fotografia: Miroslav Ondrícek. Musica: Georges Delerue. Interpreti: Meryl Streep, Kurt Russell, Cher. USA, 1983.

86 - Dead Ringers (Inseparabili). Regia: David Cronenberg. Sceneggiatura: David Cronenberg, Norman Snider. Fotografia: Peter Suschitzky. Musica: Howard Shore. Interpreti: Jeremy Irons, Geneviève Bujold, Heidi von Palleske, Barbara Gordon. Canada-USA, 1988.

85 - Heaven’s Gate (I cancelli del cielo). Regia: Michael Cimino. Sceneggiatura: Michael Cimino. Fotografia: Vilmos Zsigmond. Musica: David Mansfield. Interpreti: Kris Kristofferson, Christopher Walken, John Hurt, Sam Waterston, Brad Dourif, Isabelle Huppert, Joseph Cotten, Jeff Bridges. USA, 1980.

84 - 84 Charing Cross Road. Regia: David Hygh Jones. Sceneggiatura: Hugh Whitemore (da Helene Hanff). Fotografia: Brian West. Musica: George Fenton. Interpreti: Anne Bancroft, Anthony Hopkins, Judi Dench. Regno Unito-USA, 1986.

83 - O melissokomos (Il volo). Regia: Theodoros Angelopoulos. Sceneggiatura: Theodoros Angelopoulos, Tonino Guerra, Dimitris Nollas. Fotografia: Giorgos Arvanitis. Musica: Eleni Karaindrou. Interpreti: Marcello Mastroianni, Nadia Mourouzi, Serge Reggiani. Grecia-Francia-Italia, 1986.

82 - Ordinary People (Gente comune). Regia: Robert Redford. Sceneggiatura: Alvin Sargent, Nancy Dowd. Fotografia: John Bailey. Interpreti: Donald Sutherland, Mary Tyler Moore, Judd Hirsch, Timothy Hutton, M. Emmet Walsh, Elizabeth McGovern. USA, 1980.

81 - Christine (Christine la macchina infernale). Regia: John Carpenter. Sceneggiatura: Bill Phillips, da Stephen King. Fotografia: Donald M. Morgan. Musica: John Carpenter. Interpreti: Keith Gordon, John Stockwell, Alexandra Paul, Robert Prosky, Harry Dean Stanton. USA, 1983.

80 - Rain Man (Rain Man - L’uomo della pioggia). Regia: Barry Levinson. Sceneggiatura: Barry Morrow, Ronald Bass. Fotografia: John Seale. Musica: Hans Zimmer. Interpreti: Dustin Hoffman, Tom Cruise, Valeria Golino. USA, 1988.

79 - Wall Street. Regia: Oliver Stone. Sceneggiatura: Stanley Weiser, Oliver Stone. Fotografia: Robert Richardson. Musica: Stewart Copeland. Interpreti: Michael Douglas, Charlie Sheen, Daryl Hannah, Martin Sheen, Hal Holbrook, Terence Stamp, Sean Young, James Spader. USA, 1987.

78 - Dead Calm (Ore 10: calma piatta). Regia: Phillip Noyce. Sceneggiatura: Terry Hayes, dal romanzo di Charles Williams. Fotografia: Dean Semler. Musica: Graeme Revell. Interpreti: Nicole Kidman, Sam Neill, Billy Zane. Australia, 1989.

77 - Khane-ye doust kodjast? (Dov’è la casa del mio amico?). Regia: Abbas Kiarostami. Sceneggiatura: Abbas Kiarostami. Fotografia: Farhad Saba. Musica: Amine Allah Hessine. Interpreti: Babek Ahmed Poor, Ahmed Ahmed Poor, Kheda Barech Defai. Iran, 1987.

76 - A Room with a View (Camera con vista). Regia: James Ivory. Sceneggiatura: Ruth Prawer Jhabvala, dal romanzo di E.M. Forster. Fotografia: Tony Pierce-Roberts. Musica: Richard Robbins. Interpreti: Maggie Smith, Helena Bonham Carter, Denholm Elliott, Julian Sands, Simon Callow, Judi Dench, Daniel Day-Lewis. Regno Unito, 1985.

75 - Der Name der Rose (Il nome della rosa). Regia: Jean-Jacques Annaud. Sceneggiatura: Gérard Brach, Alain Godard, Howard Franklin, Andrew Birkin, da Umberto Eco. Fotografia: Tonino Delli Colli. Musica: James Horner. Interpreti: Sean Connery, Christian Slater, F. Murray Abraham, Helmut Qualtinger, Elya Baskin, Michael Lonsdale. Italia-Francia-Germania, 1986.

74 - Monsieur Hire (L’nsolito caso di Mr Hire). Regia: Patrice Leconte. Sceneggiatura: Patrice Leconte, Patrick Dewolf, da un romanzo di Georges Simenon. Fotografia: Denis Lenoir. Musica: Michael Nyman. Interpreti: Michel Blanc, Sandrine Bonnaire, Luc Thuillier, André Wilms. Francia, 1989.

73 - Die bleierne Zeit (Anni di piombo). Regia: Margarethe von Trotta. Sceneggiatura: Margarethe von Trotta. Fotografia: Franz Rath. Musica: Nicolas Economou. Interpreti: Jutta Lampe, Barbara Sukowa, Rüdiger Vogler. Germania, 1981.

72 - The Purple Rose of Cairo (La rosa purpurea del Cairo). Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Gordon Willis. Musica: Dick Hyman. Interpreti: Mia Farrow, Jeff Daniels, Danny Aiello, Irving Metzman, Stephanie Farrow. USA, 1985.

71 - Indiana Jones and the Last Crusade (Indiana Jones e l’ultima crociata). Regia: Steven Spielberg. Sceneggiatura: Jeffrey Boam. Fotografia: Douglas Slocombe. Musica: John Williams. Interpreti: Harrison Ford, Sean Connery, Denholm Elliott, Alison Doody, John Rhys-Davies, Julian Glover, River Phoenix. USA, 1989.

70 - Offret (Sacrificio). Regia: Andrej Tarkovskij. Sceneggiatura: Andrej Tarkovskij. Fotografia: Sven Nykvist. Interpreti: Erland Josephson, Susan Fleetwood, Allan Edwall. Svezia-Regno Unito-Francia, 1986.

69 - Cry Freedom (Grido di libertà). Regia: Richard Attenborough. Sceneggiatura: John Briley, da due libri di Donald Woods. Fotografia: Ronnie Taylor. Musica: George Fenton, Jonas Gwangwa. Interpreti: Kevin Kline, Penelope Wilton, Denzel Washington. Regno Unito, 1987.

68 - Koyaanisqatsi. Documentario. Regia: Godfrey Reggio. Sceneggiatura: Ron Fricke, Godfrey Reggio, Michael Honig, Alton Walpole. Fotografia: Ron Fricke. Musica: Philip Glass. USA, 1982.

67 - Chariots of Fire (Momenti di gloria). Regia: Hugh Hudson. Sceneggiatura: Colin Welland. Fotografia: David Watkin. Musica: Vangelis. Interpreti: Nicholas Farrell, Nigel Havers, Ian Charleson, Ben Cross, Daniel Gerroll, Ian Holm, John Gielgud. Regno Unito, 1981.

66 - Lili Marleen. Regia: Rainer Werner Fassbinder. Sceneggiatura: Manfred Purzer, Rainer Werner Fassbinder, da un libro di Lale Andersen. Fotografia: Xaver Schwarzenberger, Michael Ballhaus. Musica: Peer Raben. Interpreti: Hanna Schygulla, Giancarlo Giannini, Mel Ferrer. Germania, 1981.

65 - Missing (Missing - Scomparso). Regia: Costa-Gavras. Sceneggiatura: Constantin Costa-Gavras, Donald Stewart, da un libro di Thomas Hauser. Fotografia: Ricardo Aronovich. Musica: Vangelis. Interpreti: Jack Lemmon, Sissy Spacek, Melanie Mayron. USA, 1982.

64 - Kiss of the Spider Woman (Il bacio della donna ragno). Regia: Hector Babenco. Sceneggiatura: Leonard Schrader, dal romanzo di Manuel Puig. Fotografia: Rodolfo Sánchez. Musica: Nando Cordeiro, John Neschling. Interpreti: William Hurt, Raul Julia, Sonia Braga. Brasile-USA, 1985.

63 - The Big Chill (Il grande freddo). Regia: Lawrence Kasdan. Sceneggiatura: Lawrence Kasdan, Barbara Benedek. Fotografia: John Bailey. Interpreti: Tom Berenger, Glenn Close, Jeff Goldblum, William Hurt, Kevin Kline, Mary Kay Place. USA, 1983.

62 - Blood Simple (Blood Simple - Sangue facile). Regia: Ethan Coen, Joel Coen. Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen. Fotografia: Barry Sonnenfeld. Musica: Carter Burwell. Interpreti: John Getz, Frances McDormand, Dan Hedaya, M. Emmet Walsh. USA, 1984.

61 - Shoah. Documentario. Regia: Claude Lanzmann. Sceneggiatura: Claude Lanzmann. Fotografia: Dominique Chapuis, Jimmy Glasberg, William Lubtchansky, Phil Gries. Francia-Regno Unito, 1985.

60 - Crimes and Misdemeanors (Crimini e misfatti). Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Sven Nykvist. Interpreti: Woody Allen, Anjelica Huston, Martin Landau, Claire Bloom, Alan Alda, Sam Waterston, Mia Farrow. USA, 1989.

59 - Nuovo Cinema Paradiso. Regia: Giuseppe Tornatore. Sceneggiatura: Giuseppe Tornatore, Vanna Paoli. Fotografia: Blasco Giurato. Musica: Ennio Morricone. Interpreti: Salvatore Cascio, Philippe Noiret, Antonella Attili, Enzo Cannavale, Isa Danieli, Leo Gullotta. Italia-Francia, 1988.

58 - My Beautiful Laundrette. Regia: Stephen Frears. Sceneggiatura: Hanif Kureishi. Fotografia: Oliver Stapleton. Musica: Ludus Tonalis. Interpreti: Saeed Jaffrey, Roshan Seth, Daniel Day-Lewis. Regno Unito, 1985.

57 - Birdy (Birdy - Le ali della libertà). Regia: Alan Parker. Sceneggiatura: Sandy Kroopf, Jack Behr (da William Wharton). Fotografia: Michael Seresin. Musica: Peter Gabriel. Interpreti: Matthew Modine, Nicolas Cage, John Harkins. USA, 1984.

56 - Prince of the City (Il principe della città). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Sidney Lumet e Jay Presson Allen, da un libro di Robert Daley. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Paul Chihara. Interpreti: Treat Williams, Jerry Orbach. USA, 1981.

55 - Berliner Alexanderplatz. Miniserie tv. Regia: Rainer Werner Fassbinder. Sceneggiatura: Rainer Werner Fassbinder, dal romanzo di Alfred Döblin. Fotografia: Xaver Schwarzenberger. Musica: Peer Raben. Interpreti: Günter Lamprecht, Claus Holm, Hanna Schygulla. Germania-Italia, 1980.

54 - Le Dernier métro (L’ultimo metrò). Regia: François Truffaut. Sceneggiatura: François Truffaut, Suzanne Schiffman, Jean-Claude Grumberg. Fotografia: Nestor Almendros. Musica: Georges Delerue. Interpreti: Catherine Deneuve, Gérard Depardieu, Jean Poiret, Andréa Ferréol, Paulette Dubost. Francia, 1980.

53 - Ragtime. Regia: Milos Forman. Sceneggiatura: Michael Weller, da E.L. Doctorow e Heinrich von Kleist. Fotografia: Miroslav Ondricek. Musica: Randy Newman. Interpreti: James Cagney, Brad Dourif, Moses Gunn, Elizabeth McGovern, Kenneth McMillan, Jeff Daniels, Mandy Patinkin. USA, 1981.

52 - The Elephant Man. Regia: David Lynch. Sceneggiatura: Christopher De Vore, Eric Bergren, David Lynch. Fotografia: Freddie Francis. Musica: John Morris. Interpreti: Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft, John Gielgud, Wendy Hiller. USA, 1980.

51 - L’Argent. Regia: Robert Bresson. Sceneggiatura: Robert Bresson, da un racconto di Lev Tolstoj. Fotografia: Pasqualino De Santis, Emmanuel Machuel. Musica: Johann Sebastian Bach. Interpreti: Christian Patey, Vincent Risterucci, Caroline Lang, Sylvie van den Elsen. Francia-Svizzera, 1983.

50 - Do the Right Thing (Fa’ la cosa giusta). Regia: Spike Lee. Sceneggiatura: Spike Lee. Fotografia: Ernest R. Dickerson. Musica: Bill Lee. Interpreti: Danny Aiello, Ossie Davis, Ruby Dee, Richard Edson, Giancarlo Esposito, Spike Lee, Bill Nunn, John Turturro. USA, 1989.

49 - Danton. Regia: Andrzej Wajda. Sceneggiatura: Jean-Claude Carrière, Andrzej Wajda, Agnieszka Holland, Boleslaw Michalek, Jacek Gasiorowski, dal dramma L’affare Danton di Stanislawa Przybyszewska. Fotografia: Igor Luther. Musica: Jean Prodromidès. Interpreti: Gérard Depardieu, Wojciech Pszoniak, Anne Alvaro, Roland Blanche, Patrice Chéreau. Francia-Polonia, 1983.

48 - Merry Christmas, Mr. Lawrence / Senjo no Merry Christmas (Furyo). Regia: Nagisa Ôshima. Sceneggiatura: Nagisa Ôshima, Paul Mayersberg, da un romanzo di Laurens van der Post. Fotografia: Toichiro Narushima. Musica: Ryûichi Sakamoto. Interpreti: David Bowie, Tom Conti, Ryûichi Sakamoto, Takeshi Kitano, Jack Thompson. Giappone-Regno Unito-Nuova Zelanda, 1983.

47 - Henry V (Enrico V). Regia: Kenneth Branagh. Sceneggiatura: da William Shakespeare. Fotografia: Kenneth MacMillan. Musica: Patrick Doyle. Interpreti: Derek Jacobi, Kenneth Branagh, Simon Shepherd, James Larkin, Brian Blessed. Regno Unito, 1989.

46 - Trading Places (Una poltrona per due). Regia: John Landis. Sceneggiatura: Timothy Harris, Herschel Weingrod. Fotografia: Robert Paynter. Musica: Elmer Bernstein. Interpreti Dan Aykroyd, Eddie Murphy, Ralph Bellamy, Don Ameche, Denholm Elliott, Jamie Lee Curtis. USA, 1983.

45 - Nostalghia. Regia: Andrej Tarkovskij. Sceneggiatura: Andrej Tarkovskij, Tonino Guerra. Fotografia: Giuseppe Lanci. Interpreti: Oleg Yankovskij, Erland Josephson, Domiziana Giordano, Patrizia Terreno, Laura De Marchi, Delia Boccardo, Milena Vukotic. Italia-URSS, 1983.

44 - Witness (Witness - Il testimone). Regia: Peter Weir. Sceneggiatura: Earl W. Wallace, William Kelley. Fotografia: John Seale. Musica: Maurice Jarre. Interpreti: Harrison Ford, Kelly McGillis, Josef Sommer, Lukas Haas, Jan Rubes, Alexander Godunov, Danny Glover. USA, 1985.

43 - Człowiek z żelaza (L’uomo di ferro). Regia: Andrzej Wajda. Sceneggiatura: Aleksander Scibor-Rylski. Fotografia: Edward Klosinski. Musica: Andrzej Korzynski. Interpreti: Jerzy Radziwilowicz, Krystyna Janda, Marian Opania, Wieslawa Kosmalska, Irena Byrska, Boguslaw Linda, Lech Walesa. Polonia, 1981.

42 - Empire of the Sun (L’impero del sole). Regia: Steven Spielberg. Sceneggiatura: Tom Stoppard, dal romanzo di J.G. Ballard. Fotografia: Allen Daviau. Musica: John Williams. Interpreti: Christian Bale, John Malkovich, Miranda Richardson, Nigel Havers, Joe Pantoliano. USA, 1987.

41 - La historia oficial (La storia ufficiale). Regia: Luis Puenzo. Sceneggiatura: Aída Bortnik, Luis Puenzo. Fotografia: Félix Monti. Musica: Atilio Stampone. Interpreti: Héctor Alterio, Norma Aleandro, Analia Castro, Chunchuna Villafañe, Hugo Arana. Argentina, 1985.

40 - Une Affaire de femmes (Un affare di donne). Regia: Claude Chabrol. Sceneggiatura: Claude Chabrol, Colo Tavernier. Fotografia: Jean Rabier. Musica: Matthieu Chabrol. Interpreti: Isabelle Huppert, François Cluzet, Marie Trintignant. Francia, 1988.

39 - Dekalog (Decalogo). Miniserie tv in 10 episodi. Regia: Krzyzstof Kieslowski. Sceneggiatura: Krzysztof Piesiewicz, Krzyzstof Kieslowski. Fotografia: Wieslaw Zdort. Musica: Zbigniew Preisner. Interpreti: Artur Barcis, Olgierd Lukaszewicz, Olaf Lubaszenko, Piotr Machalica, Jan Tesarz, Katarzyna Piwowarczyk, Henryk Baranowski. Polonia-Germania, 1988-1990.

38 - The Last Emperor (L’ultimo imperatore). Regia: Bernardo Bertolucci. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Enzo Ungari, Mark Peploe. Fotografia: Vittorio Storaro. Musica: Ryûichi Sakamoto. Interpreti: John Lone, Joan Chen, Peter O’Toole, Ruocheng Ying, Victor Wong, Dennis Dun, Ryûichi Sakamoto. Regno Unito-Italia-Cina-Francia, 1987.

37 - The Cook, the Thief, His Wife & Her Lover (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante). Regia: Peter Greenaway. Sceneggiatura: Peter Greenaway. Fotografia: Sacha Vierny. Musica: Michael Nyman. Interpreti: Richard Bohringer, Michael Gambon, Helen Mirren, Alan Howard, Tim Roth. Regno Unito-Francia, 1989.

36 - Gallipoli (Gli anni spezzati). Regia: Peter Weir. Sceneggiatura: David Williamson, Peter Weir. Fotografia: Russell Boyd. Musica: Brian May. Interpreti: Mel Gibson, Mark Lee, Bill Kerr, Harold Hopkins, Charles Lathalu Yunipingu. Australia, 1981.

35 - Blue Velvet (Velluto blu). Regia: David Lynch. Sceneggiatura: David Lynch. Fotografia: Frederick Elmes. Musica: Angelo Badalamenti. Interpreti: Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan, Dennis Hopper, Laura Dern, Hope Lange, Dean Stockwell. USA, 1986.

34 - The Mission (Mission). Regia: Roland Joffé. Sceneggiatura: Robert Bolt. Fotografia: Chris Menges. Musica: Ennio Morricone. Interpreti: Robert De Niro, Jeremy Irons, Ray McAnally, Aidan Quinn, Cherie Lunghi. Regno Unito, 1986.

33 - Ran. Regia: Akira Kurosawa. Sceneggiatura (liberamente ispirata a Re Lear di William Shakespeare): Akira Kurosawa, Hideo Oguni, Masato Ide. Fotografia: Takao Saitô, Masaharu Ueda, Asakazu Nakai. Musica: Tôru Takemitsu. Interpreti: Tatsuya Nakadai, Akira Terao, Jinpachi Nezu, Daisuke Ryû, Mieko Harada. Giappone-Francia, 1985.
Una scena da Ran di Akira Kurosawa.

32 - The Draughtsman’s Contract (I misteri del giardino di Compton House). Regia: Peter Greenaway. Sceneggiatura: Peter Greenaway. Fotografia: Curtis Clark. Musica: Michael Nyman. Interpreti: Anthony Higgins, Janet Suzman, Anne-Louise Lambert, Hugh Fraser, Neil Cunningham. Regno Unito, 1982.

31 - Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino). Regia: Wim Wenders. Sceneggiatura: Wim Wenders, Peter Handke. Fotografia: Henri Alekan. Musica: Jurgen Knieper. Interpreti: Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Otto Sander, Curt Bois, Peter Falk. Germania-Francia, 1987.

30 - Fanny och Alexander (Fanny e Alexander). Regia: Ingmar Bergman. Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist. Musica: Daniel Bell. Interpreti: Pernilla Allwin, Bertil Guve, Börje Ahlstedt, Allan Edwall, Ewa Fröling, Lena Olin, Harriet Andersson, Gunnar Björnstrand. Svezia-Germania-Francia, 1982.

29 - Dangerous Liaisons (Le relazioni pericolose). Regia: Stephen Frears. Sceneggiatura: Christopher Hampton, dal romanzo di Choderlos de Laclos. Fotografia: Philippe Rousselot. Musica: George Fenton. Interpreti: Glenn Close, John Malkovich, Michelle Pfeiffer, Swoosie Kurtz, Keanu Reeves, Mildred Natwick, Uma Thurman. USA-Regno Unito, 1988.

28 - Zelig. Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Gordon Willis. Musica: Dick Hyman. Interpreti: Woody Allen, Mia Farrow, Patrick Horgan, John Buckwalter, Marvin Chatinover. USA, 1983.

27 - The Fly (La mosca). Regia: David Cronenberg. Sceneggiatura: Charles Edward Pogue, David Cronenberg. Fotografia: Mark Irwin. Musica: Howard Shore. Interpreti: Jeff Goldblum, Geena Davis, John Getz. USA, 1986.

26 - Out of Rosenheim (Bagdad Café). Regia: Percy Adlon. Sceneggiatura: Percy Adlon, Eleonore Adlon. Fotografia: Bernard Heinl. Musica: Bob Telson. Interpreti: Marianne Sägebrecht, CCH Pounder, Jack Palance, Christine Kaufmann. Germania, 1987.
Marianne Sägebrecht e CCH Pounder in Bagdad Café di Percy Adlon.

25 - Stand by Me (Stand by Me - Ricordo di un’estate). Regia: Rob Reiner. Sceneggiatura: Raynold Gideon, Bruce A. Evans, da una novella di Stephen King. Fotografia: Thomas Del Ruth. Musica: Jack Nitzsche. Interpreti: Wil Weathon, River Phoenix, Corey Feldman, Jerry O’Connell, Kiefer Sutherland. USA, 1986.

24 - Reds. Regia: Warren Beatty. Sceneggiatura: Warren Beatty, Trevor Griffiths. Fotografia: Vittorio Storaro. Musica: Stephen Sondheim, Dave Grusin. Interpreti: Warren Beatty, Diane Keaton, Jack Nicholson. USA, 1981.

23 - Bird. Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Joel Olianski. Fotografia: Jack N. Green. Musica: Lennie Niehaus. Interpreti: Forest Whitaker, Diane Venora, Michael Zelniker, Samuel E. Wright, Keith David, USA, 1988.

22 - Fitzcarraldo. Regia: Werner Herzog. Sceneggiatura: Werner Herzog. Fotografia: Thomas Mauch. Musica: Popol Vuh. Interpreti: Klaus Kinski, Claudia Cardinale, José Lewgoy, Miguel Ángel Fuentes, Paul Hittscher. Germania-Peru, 1982.

21 - Kagemusha (Kagemusha, l’ombra del guerriero). Regia: Akira Kurosawa. Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Masato Ide. Fotografia: Takao Saitô, Shôji Ueda. Musica: Shinichirô Ikebe. Interpreti: Tatsuya Nakadai, Tsutomu Yamazaki, Ken’ichi Hagiwara, Jinpachi Nezu, Hideji Ôtaki, Daisuke Ryû. Giappone-USA, 1980.

20 - Round Midnight / Autour de minuit (Round Midnight / A mezzanotte circa). Regia: Bertrand Tavernier. Sceneggiatura: Bertrand Tavernier, David Rayfiel. Fotografia: Bruno de Keyzer. Musica: Herbie Hancock. Interpreti: Dexter Gordon, François Cluzet, Gabrielle Haker, Lonette McKee, Herbie Hancock, Philippe Noiret, Martin Scorsese, Wayne Shorter, Ron Carter. Francia-USA, 1986.

19 - Gloria (Gloria - Una notte d’estate). Regia: John Cassavetes. Sceneggiatura: John Cassavetes. Fotografia: Fred Schuler. Musica: Bill Conti. Interpreti: Gena Rowlands, John Adames, Buck Henry. USA, 1980.
Gena Rowlands e il piccolo John Adames in Gloriadi John Cassavetes.

18 - The Killing Fields (Urla del silenzio). Regia: Roland Joffé. Sceneggiatura: Bruce Robinson. Fotografia: Chris Menges. Musica: Mike Oldfield. Interpreti: Sam Waterston, Haing S. Ngor, John Malkovich. Regno Unito, 1984.

17 - Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull’orlo di una crisi di nervi). Regia: Pedro Almodóvar. Sceneggiatura: Pedro Almodóvar. Fotografia: José Luis Alcaine, Alfredo Mayo. Musica: Bernardo Bonezzi. Interpreti: Carmen Maura, Antonio Banderas, Julieta Serrano, María Barranco, Rossy de Palma. Spagna, 1988.

16 - The Year of Living Dangerously (Un anno vissuto pericolosamente). Regia: Peter Weir. Sceneggiatura: C.J. Koch, Peter Weir, David Williamson. Fotografia: Russell Boyd. Musica: Maurice Jarre. Interpreti: Mel Gibson, Sigourney Weaver, Linda Hunt, Michael Murphy. Australia-USA, 1982.
Sigourney Weaver e Mel Gibson in Un anno vissuto pericolosamente di Peter Weir.

15 - Raging Bull (Toro scatenato). Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura: Paul Schrader, Mardik Martin, dalle memorie di Jake LaMotta. Fotografia: Michael Chapman. Musica: Pietro Mascagni. Interpreti: Robert De Niro, Cathy Moriarty, Joe Pesci, Frank Vincent, Nicholas Colasanto, Theresa Saldana. USA, 1980.

14 - E.T. The Extra-Terrestrial (ET - L’extraterrestre). Regia: Steven Spielberg. Sceneggiatura: Melissa Mathison. Fotografia: Allen Daviau. Musica: John Williams. Interpreti: Dee Wallace, Henry Thomas, Peter Coyote, Drew Barrymore, C. Thomas Howell. USA, 1982.

13 - Au revoir les enfants (Arrivederci ragazzi). Regia: Louis Malle. Sceneggiatura: Louis Malle. Fotografia: Renato Berta. Interpreti: Gaspard Manesse, Raphael Fejtö, Francine Racette, Stanislas Carré de Malberg, Philippe Morier-Genoud, Irène Jacob. Francia, 1987.

12 - My Left Foot (Il mio piede sinistro). Regia: Jim Sheridan. Sceneggiatura: Shane Connaughton, Jim Sheridan. Fotografia: Jack Conroy. Musica: Elmer Bernstein. Interpreti: Daniel Day-Lewis, Brenda Fricker, Alison Whelan, Kirsten Sheridan, Declan Croghan. Irlanda-Regno Unito, 1989.

11 - Full Metal Jacket. Regia: Stanley Kubrick. Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Michael Herr, Gustav Hasford. Fotografia: Douglas Milsome. Musica: Abigail Mead (alias Vivian Kubrick). Interpreti: Matthew Modine, Adam Baldwin, Vincent D’Onofrio, R. Lee Ermey, Dorian Harewood. Regno Unito-USA, 1987.

10 - Hannah and Her Sisters (Hannah e le sue sorelle). Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Carlo Di Palma. Interpreti: Woody Allen, Barbara Hershey, Carrie Fisher, Michael Caine, Mia Farrow, Dianne Wiest, Maureen O’Sullivan, Lloyd Nolan, Max von Sydow, John Turturro, Richard Jenkins. USA, 1986.
Mia Farrow, Barbara Hershey e Diane Wiest in Hannah e le sorelle di Woody Allen.

9 - The Blues Brothers (The Blues Brothers - I fratelli Blues). Regia: John Landis. Sceneggiatura: Dan Aykroyd, John Landis. Fotografia: Stephen M. Katz. Musica: AAVV. Interpreti: John Belushi, Dan Aykroyd, James Brown, Cab Calloway, Ray Charles, Aretha Franklin. USA, 1980.

8 - Babettes Gaestebud (Il pranzo di Babette). Regia: Gabriel Axel. Sceneggiatura: Gabriel Axel, da un racconto di Karen Blixen (Isak Dinesen). Fotografia: Henning Kristiansen. Musica: Per Norgard. Interpreti: Stéphane Audran, Bodil Kjer, Birgitte Federspiel, Jarl Kulle, Jean-Philippe Lafont, Bibi Andersson. Danimarca, 1987.
Stéphane Audran ne Il pranzo di Babette di Gabriel Axel.

7 - Once Upon a Time in America (C’era una volta in America). Regia: Sergio Leone. Sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli, Franco Ferrini, Sergio Leone, Stuart Kaminsky. Fotografia: Tonino Delli Colli. Musica: Ennio Morricone. Interpreti: Robert De Niro, James Woods, Elizabeth McGovern, Joe Pesci, Burt Young, Tuesday Weld, Treat Williams, Danny Aiello. Italia-USA, 1984.

6 - Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta). Regia: Steven Spielberg. Sceneggiatura: Lawrence Kasdan, George Lucas, Philip Kaufman. Fotografia: Douglas Slocombe. Musica: John Williams. Interpreti: Harrison Ford, Karen Allen, Paul Freeman, Ronald Lacey, John Rhys-Davies, Denholm Elliott, Alfred Molina. USA, 1981.

5 - Dead Poets Society (L’attimo fuggente). Regia: Peter Weir. Sceneggiatura: Tom Schulman. Fotografia: John Seale. Musica: Maurice Jarre. Interpreti: Robin Williams, Robert Sean Leonard, Ethan Hawke, Josh Charles, Gale Hansen. USA, 1989.

4 - Amadeus. Regia: Milos Forman. Sceneggiatura: Peter Shaffer. Fotografia: Miroslav Ondrícek. Musica: Wolfgang Amadeus Mozart. Interpreti: F. Murray Abraham, Tom Hulce, Elizabeth Berridge, Simon Callow, Roy Dotrice. USA, 1984.

3 - Blade Runner. Regia: Ridley Scott. Sceneggiatura: Hampton Fancher, David Webb Peoples, da un romanzo di Philip K. Dick. Fotografia: Jordan Cronenweth. Musica: Vangelis. Interpreti: Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young, Edward James Olmos, M. Emmet Walsh, Daryl Hannah. USA-Hong Kong-Regno Unito, 1982.

2 - Heimat - Eine deutsche Chronik. Serie tv in 11 episodi. Regia:Edgar Reitz. Sceneggiatura: Egar Reitz, Peter Steinbach. Fotografia: Gernot Roll. Musica: Nikos Mamangakis. Interpreti: Alexander Scholz, Arno Lang, Dieter Schaad, Eva Maria Bayerwaltes, Eva-Maria Schneider, Gabriele Blum, Gertrud Bredel. Germania, 1984.
Una scena da Heimat.

1 - The Shining (Shining). Regia: Stanley Kubrick. Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Diane Johnson, da un romanzo di Stephen King. Fotografia: John Alcott. Musica: Béla Bartok, Wendy Carlos, Rachel Elkind. Interpreti: Jack Nicholson, Shelley Duvall, Danny Lloyd, Barry Nelson, Barry Dennen. Regno Unito/USA, 1980.


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I 100 migliori film delle origini

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Certo, non è come vedere Il padrino o Shining. Più di cent’anni dopo la nascita, Nascita di una nazione può causare crisi di intolleranza e Intolerance può addormentare una nazione. Ma Fantozzi ha torto quando dice che Potëmkinè «una cagata pazzesca»: senza quella corazzata il cinema non sarebbe ciò che è diventato, e non sarebbe esistito nemmeno Fantozzi. Il cinema di oggi sta al cinema delle origini come gli e-book stanno alle tavolette di creta dei sumeri: la sua evoluzione è stata però assai più veloce della scrittura, perché fin dall’inizio brulicano i fermenti – artistici, narrativi, tecnologici, industriali – di una nuova, stupefacente modernità. Basta poco più di un trentennio dal primo esperimento pubblico dei fratelli Lumière a Parigi perché il cinema sforni già un primo catalogo di idee memorabili, seppure ancora mute (ma solo fino al 1927). Questo elenco rivela il ritratto di un’Europa capace di emozionare il mondo e di un’America pronta a imparare la lezione, importare talenti e mettere in piedi un business da miliardi di dollari fondato su una vulcanica mistura di genio e volgarità.

C’è di tutto nell’infanzia e nell’adolescenza del cinema. Méliès inventa il fantasy, l’Italia il kolossal, Chaplin lavora sul versante malinconico della comicità, Griffith si lancia nell’epos nazionale e nelle grandi narrazioni etiche, i tedeschi affrontano il dark side dell’individuo inaugurando la rotta del noir e dell’orrore. Si applicano al movimento le meraviglie della fotografia (Vertov, Ruttmann), le avanguardie artistiche (l’espressionismo tedesco, il surrealismo di Buñuel e degli artisti francesi), le manipolazioni del tempo narrativo (il montaggio di Ėjzenštejn), le ideologie (il realismo socialista). Si sperimentano tutti i generi narrativi tuttora in voga, dall’avventuroso (Il ladro di Bagdad, La maschera di ferro) al fantascientifico (Metropolis, capolavoro senza tempo). Si colgono ispirazioni nella storia (Napoléon) e nella letteratura (Anna Karenina). Di suo, Hollywood aggiunge l’efficacia – necessaria anche se spesso cinica – del marketing e promuove le leve del marchio di fabbrica (Fox, Paramount, Warner, Metro, RKO...), della contrattualistica, del divismo (Lillian Gish, Douglas Fairbanks senior, Rudolph Valentino, Gloria Swanson, Marion Davies, John Gilbert, Greta Garbo...)

L’industria delle emozioni si affaccia al mondo quasi in sordina il 28 dicembre 1895, al Grand Café sul Boulevard des Capucines di Parigi, dove i fratelli Lumière fanno proiettare dieci frammenti di immagini in movimento (il primo presenta l’uscita degli operai dalla loro fabbrica). Ed è subito choc. Presto si piangerà e si riderà nelle sale cinematografiche che il mondo va fabbricando e allestendo a spron battuto.

Questa shortlist non è fatta solo di capolavori indiscutibili ma anche di titoli che hanno contribuito a costruire la storia artistica e commerciale del cinema, a cominciare da La Sortie des usines Lumière– uno spot archeologico di soli 60 secondi. Il cantante di jazzpuò meritare lo sprezzo di Fantozzi senza turbare nessuno, ma entra in lista perché è il primo esperimento ufficiale (anche se parziale e un po’ grezzo) di film sonoro. Ma le gag di Chaplin, di Buster Keaton, di Harold Lloyd e dei fratelli Marx fanno ancora ridere di cuore, e si ammirano senza riserve i lavori di Murnau, Fritz Lang, Dreyer e altri maestri.

La graduatoria, arbitraria ma valevole come promemoria per gli studenti e i curiosi di cinema, parte dal basso. Per chi è interessato ad altri periodi: cliccare su


I 100 migliori film dei pionieri del cinema (1895-1929)

100 - La Sortie de l’usine Lumière à Lyon (L’uscita dalle fabbriche Lumière). Cortometraggio di un minuto. Il primo prodotto cinematografico proiettato in pubblico; perduto e ritrovato a Lione nel 1985. Regia: Louis Lumière. Francia, 1895.
I fratelli Lumière.

99 - Little Old New York. Regia: Sidney Olcott. Sceneggiatura: Luther Reed, da una commedia di Rida Johnson Young. Fotografia: Ira H. Morgan, Gilbert Warrington. Interpreti: Marion Davies, Stephen Carr, J.M. Kerrigan. USA, 1923.

98 - Der Weg zur Schande / The Flame of Love. Fotografia: Heinrich Gärtner, Bruno Mondi, Otto Baecker. Versione tedesca - Regia: Richard Eichberg. Sceneggiatura: Ludwig Wolff. Interpreti: Anna May Wong, Francis Lederer, Georg H. Schnell, Hermann Blaß. Versione britannica - Regia: Walter Summers. Sceneggiatura: Monckton Hoffe. Interpreti: Anna May Wong, Georg H. Schnell, John Longden, Percy Standing. Germania-Regno Unito, 1929.

97 - When the Clouds Roll by (Quando le nuvole volano via). Regia: Victor Fleming. Sceneggiatura: Thomas J. Geraghty, Victor Fleming, Douglas Fairbanks. Fotografia: William C. McGann, Harris Thorpe. Interpreti: Douglas Fairbanks, Albert MacQuarrie, Kathleen Clifford. USA, 1919.

96 - Lights of Old Broadway. Regia: Monta Bell. Sceneggiatura: Carey Wilson, Joseph Farnham, da una commedia di Laurence Eyre. Fotografia: Ira H. Morgan. Interpreti: Marion Davies, Conrad Nagel, Frank Currier. USA, 1925.
Marion Davies in Lights of Old Broadway.

95 - J’accuse! (Per la patria). Regia: Abel Gance. Sceneggiatura: Abel Gance. Fotografia: Marc Bujard, Léonce-Henri Burel, Maurice Forster. Interpreti: Romuald Joubé, Maxime Desjardins, Séverin-Mars. Francia, 1919.

94 - Il fauno. Regia: Febo Mari. Sceneggiatura: Febo Mari. Fotografia: Giuseppe Vitrotti. Interpreti: Febo Mari, Nietta Mordeglia, Helena Makowska. Italia, 1917.

93 - Humoresque. Regia: Frank Borzage. Sceneggiatura: Frances Marion, Fannie Hurst. Fotografia: Gilbert Warrenton. Interpreti: Gaston Glass, Vera Gordon, Alma Rubens. USA, 1919.

92 - Der Knabe in Blau (Il ragazzo in blu). Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Sceneggiatura: Edda Ottershausen. Fotografia: Karl Freund, Carl Hoffman. Interpreti: Ernst Hoffmann, Blandine Ebinger, Margit Barnay. Germania, 1919.

91 - Der müde Tod (Il signore delle tenebre). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Thea von Harbou. Fotografia: Bruno Mondi, Erich Nitzschmann, Herrmann Saalfrank, Bruno Timm, Fritz Arno Wagner. Interpreti: Lil Dagover, Walter Janssen, Bernhard Goetzke. Germania, 1921.
Una scena da Der müde Tod.

90 - Spione (L’inafferrabile). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Thea von Harbou. Fotografia: Fritz Arno Wagner. Interpreti: Rudolf Klein-Rogge, Gerda Maurus, Lien Deyers, Louis Ralph. Germania, 1928.

89 - The Sheik (Lo sceicco). Regia: George Melford. Sceneggiatura: Monte M. Katterjohn, da Edith Maude Hull. Fotografia: William Marshall. Interpreti: Rudolph Valentino, Agnes Ayres, Ruth Miller. USA, 1921.

88 - The Son of the Sheik (Il figlio dello sceicco). Regia: George Fitzmaurice. Sceneggiatura: George Marion Jr., Frances Marion, Fred De Gresac, da un romanzo di Edith Maude Hull. Fotografia: George Barnes. Interpreti: Rudolph Valentino, Vilma Bánky, George Fawcett, Montagu Love. USA, 1926.

87 - Le Voyage dans la lune (Viaggio nella luna). Cortometraggio di 13’. Regia: Georges Méliès. Sceneggiatura: Georges Méliès, da Jules Verne e H.G. Wells. Fotografia: Théophile Michaut, Lucien Tainguy. Interpreti: Victor André, Bleuette Bernon, Brunnet. Francia, 1902.

86 - Brown of Harvard. Regia: Jack Conway. Sceneggiatura: Donald Ogden Stewart, A.P. Younger, da una pièce teatrale di Rida Johnson Young. Fotografia: Ira H. Morgan. Interpreti: William Haines, Jack Pickford, Mary Brian. USA, 1926.

85 - The River (Il fiume). Regia: Frank Borzage. Sceneggiatura: Dwight Cummins, Philip Klein, John Hunter Booth, da un romanzo di Tristram Tupper. Fotografia: Ernest Palmer. Interpreti: Charles Farrell, Mary Duncan, Ivan Linow. USA, 1928.

84 - Der Golem, wie er in die Welt kam (Il golem - Come venne al mondo). Regia: Paul Wegener, Carl Boese. Sceneggiatura: Paul Wegener, Henrik Galeen. Fotografia: Karl Freund, Guido Seeber. Interpreti: Paul Wegener, Albert Steinrück, Lyda Salmonova. Germania, 1920.

83 - Beyond the Rocks. Regia: Sam Wood. Sceneggiatura: Jack Cunningham. Fotografia: Alfred Gilks. Interpreti: Rudolph Valentino, Gloria Swanson, Edythe Chapman. USA, 1922.

82 - The Road to Ruin. Regia: Dorothy Davenport. Sceneggiatura: Norton S. Parker, da un soggetto di Willis Kent. Fotografia: Henry Cronjager. Interpreti: Helen Foster, Grant Withers, Florence Turner. USA, 1929.

81 - The Thief of Bagdad (Il ladro di Bagdad). Regia: Raoul Walsh. Sceneggiatura: Achmed Abdullah, Douglas Fairbanks, James T. O’Donohoe, Lotta Woods. Fotografia: Arthur Edeson. Interpreti: Douglas Fairbanks, Snitz Edwards, Charles Belcher, Anna May Wong. USA, 1924.
Douglas Fairbanks senior in The Thief of Bagdad.

80 - The Jazz Singer (Il cantante di jazz). Regia: Alan Crosland. Sceneggiatura: Samson Raphaelson, Alfred A. Cohn, Jack Jarmuth. Fotografia: Hal Mohr. Interpreti: Al Jolson, May McAvoy, Warner Oland. USA, 1927.

79 - Dr. Jack. Regia: Fred C. Newmeyer, Sam Taylor. Sceneggiatura: Hal Roach, Sam Taylor, Jean C. Havez, H.M. Walker. Fotografia: Walter Lundin. Interpreti: Harold Lloyd, Mildred Davis, John T. Prince. USA, 1922.
Harold Lloyd (al centro, con occhiali) in Dr. Jack.

78 - West of Zanzibar (La serpe di Zanzibar). Regia: Tod Browning. Sceneggiatura: Elliott J. Clawson, Joseph Farnham, Waldemar Young. Fotografia: Percy Hilburn. Interpreti: Lon Chaney, Lionel Barrymore, Mary Nolan, Warner Baxter. USA, 1928.
Lon Chaney in West of Zanzibar.

77 - Wings (Ali). Regia: William A. Wellman. Sceneggiatura: Hope Loring, Louis D. Lighton, John Monk Saunders. Fotografia: Harry Perry. Interpreti: Clara Bow, Charles ‘Buddy’ Rogers, Richard Arlen, Gary Cooper. USA, 1927.

76 - A Woman of Affairs (Il destino). Regia: Clarence Brown. Sceneggiatura: Michael Arlen, Marian Ainslee, Ruth Cummings. Fotografia: William H. Daniels. Interpreti: Greta Garbo, John Gilbert, Lewis Stone, Johnny Mack Brown, Douglas Fairbanks Jr. USA, 1928.

75 - The Champion (Charlot eroe del ring). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Harry Ensign. Interpreti: Charles Chaplin, Edna Purviance, Ernest Van Pelt, Lloyd Bacon. USA, 1915.

74 - Underworld (Le notti di Chicago). Regia: Josef von Sternberg. Sceneggiatura: Charles Furthman, Howard Hawks, Ben Hecht, Robert N. Lee, George Marion Jr., Josef von Sternberg. Fotografia: Bert Glennon. Interpreti: George Bancroft, Evelyn Brent, Clive Brook. USA, 1927.

73 - Saturday Night. Regia: Cecil B. DeMille. Sceneggiatura: Jeanie Macpherson. Fotografia: Karl Struss, Alvin Wyckoff. Interpreti: Leatrice Joy, Conrad Nagel, Edith Roberts. USA, 1922.

72 - Au Bonheur des Dames (Il tempio delle tentazioni). Regia: Julien Duvivier. Sceneggiatura: Noël Renard, dal romanzo di Émile Zola. Fotografia: André Dantan, René Guichard, Armand Thirard, Emile Pierre. Interpreti: Dita Parlo, Ginette Maddie, Andrée Brabant, Pierre de Guingand. Francia, 1929.

71 - The Love Parade (Il principe consorte). Regia: Ernst Lubitsch. Sceneggiatura: Ernest Vajda, Guy Bolton. Fotografia: Victor Milner. Interpreti: Maurice Chevalier, Jeanette MacDonald, Lupino Lane, Lillian Roth. USA, 1929.
Maurice Chevalier in The Love Parade.

70 - Blackmail (Ricatto). Regia: Alfred Hitchcock. Sceneggiatura: Benn W. Levy, Michael Powell, Alfred Hitchcock, da una pièce di Charles Bennett. Fotografia: Jack E. Cox. Interpreti: Anny Ondra, Sara Allgood, Charles Paton. Regno Unito, 1929.
Una inquadratura da Blackmail.

69 - So This Is Paris (La vita è un charleston). Regia: Ernst Lubitsch. Sceneggiatura: Rob Wagner, da Ludovic Halévy. Fotografia: John J. Mescall. Interpreti: Monte Blue, Patsy Ruth Miller, Lilyan Tashman, George Beranger, Myrna Loy. USA, 1926.

68 - Hamlet. Regia: Svend Gade, Heinz Schall. Sceneggiatura: Erwin Gepard, E. Vining, da William Shakespeare. Fotografia: Curt Courant, Axel Graatkjaer. Interpreti: Asta Nielsen, Paul Conradi, Mathilde Brandt. Germania, 1920.

67 - 7th Heaven (Settimo cielo). Regia: Frank Borzage. Sceneggiatura: Benjamin Glazer, Katherine Hilliker, H.H. Caldwell, da una pièce di Austin Strong. Fotografia: Ernest Palmer, Joseph A. Valentine. Interpreti: Janet Gaynor, Charles Farrell, Albert Gran, David Butler. USA, 1927.

66 - Frau im Mond (Una donna nella Luna). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Thea von Harbou, Hermann Oberth. Fotografia: Curt Courant, Oskar Fischinger, Konstantin Irmen-Tschet, Otto Kanturek. Interpreti: Klaus Pohl, Willy Fritsch, Gustav von Wangenheim. Germania, 1929.

65 - The Docks of New York (I dannati dell’oceano). Regia: Josef von Sternberg. Sceneggiatura: Jules Furthman, Julian Johnson. Fotografia: Harold Rosson. Interpreti: George Bancroft, Betty Compson, Olga Baclanova. USA, 1928.

64 - Chang: A Drama of the Wilderness (Chang: La giungla misteriosa). Documentario. Regia: Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack. Sceneggiatura: Achmed Abdullah, Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack. USA, 1927.

63 - The Merry Widow (La vedova allegra). Regia: Erich von Stroheim. Sceneggiatura: Erich von Stroheim, Benjamin Glazer. Fotografia: Oliver T. Marsh. Interpreti: Mae Murray, John Gilbert, Roy D’Arcy. USA, 1925.

62 - The Four Feathers (Le quattro piume). Regia: Merian C. Cooper, Lothar Mendes, Ernest B. Schoedsack. Sceneggiatura: Hope Loring, Howard Estabrook, John Farrow, Julian Johnson, dal romanzo di A.E.W. Mason. Fotografia: Robert Kurrle, Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack. Interpreti: Richard Arlen, Fay Wray, Clive Brook, William Powell. USA, 1929.

61 - The Great Moment. Regia: Sam Wood. Sceneggiatura: Monte M. Katterjohn, da Elinor Glyn. Fotografia: Alfred Gilks. Interpreti: Gloria Swanson, Alec B. Francis, Milton Sills. USA, 1921.

60 - Sherlock, Jr. (La palla n° 13). Regia: Buster Keaton. Sceneggiatura: Jean C. Havez, Joseph A. Mitchell, Clyde Bruckman. Fotografia: Byron Houck, Elgin Lessley. Interpreti: Buster Keaton, Kathryn McGuire, Joe Keaton. USA, 1924.

59 - Foolish Wives (Femmine folli). Regia: Erich von Stroheim. Sceneggiatura: Erich von Stroheim. Fotografia: Ben F. Reynolds, William H. Daniels. Interpreti: Rudolph Christians, Miss DuPont, Maude George, Mae Busch, Erich von Stroheim. USA, 1922.
Erich von Stroheim con Miss DuPont in Femmine folli.

58 - Steamboat Bill, Jr. (Io... e il ciclone / Bill del vaporetto). Regia: Charles Reisner, Buster Keaton. Sceneggiatura: Carl Harburgh. Fotografia: Devereaux Jennings, Bert Haines. Interpreti: Buster Keaton, Tom McGuire, Ernest Torrence. USA, 1928.
Buster Keaton: Bill del vaporetto.

57 - Die Nibelungen: Siegfried (I Nibelunghi). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Thea von Harbou. Fotografia: Carl Hoffmann, Günther Rittau, Walter Ruttmann. Interpreti: Gertrud Arnold, Margarete Schön, Hanna Ralph, Paul Richter. Germania, 1924.

56 - Flesh and the Devil (La carne e il diavolo). Regia: Clarence Brown. Sceneggiatura: Benjamin Glazer, Hanns Kräly, Marian Hainslee, Frederica Sagor, da un romanzo di Hermann Sudermann. Fotografia: William H. Daniels. Interpreti: John Gilbert, Greta Garbo, Lars Hanson. USA, 1926.
Greta Garbo e John Gilbert in Flesh and the Devil.

55 - The Masks of the Devil (La maschera del diavolo). Regia: Victor Sjöström. Sceneggiatura: Frances Marion, Svend Gade, Marian Ainslee, Ruth Cummings, da un romanzo di Jakob Wassermann. Fotografia: Oliver T. Marsh. Interpreti: John Gilbert, Alma Rubens, Theodore Roberts, Eva von Berne. USA, 1928.

54 - Love (Anna Karenina). Regia: Edmund Goulding. Sceneggiatura: Lorna Moon, Marian Ainslee, Ruth Cummings, dal romanzo di Lev Tolstoj. Fotografia: William H. Daniels. Interpreti: John Gilbert, Greta Garbo, George Fawcett. USA, 1927.
Greta Garbo: Anna Karenina.

53 - Go West (Io e la vacca). Regia: Buster Keaton. Sceneggiatura: Buster Keaton, Lex Neal, Raymond Cannon. Fotografia: Bert Haines, Elgin Lessley. Interpreti: Buster Keaton, Roscoe ‘Fatty’ Arbuckle, Kathleen Myers, Howard Truesdale. USA, 1925.
Buster Keaton con Kathleen Myers in Go West.

52 - The Scarlet Letter (La lettera rossa). Regia: Victor Sjöström. Sceneggiatura: Frances Marion, dal romanzo di Nathaniel Hawthorne. Fotografia: Hendrik Sartov. Interpreti: Lillian Gish, Lars Hanson, Henry B. Walthall. USA, 1926.
Lillian Gish in The Scarlet Letter.

51 - The Wedding March (Sinfonia nuziale). Regia: Erich von Stroheim. Sceneggiatura: Erich von Stroheim, Harry Carr. Fotografia: Ray Rennahan. Interpreti: Erich von Stroheim, Fay Wray, Matthew Betz, Zasu Pitts. USA, 1928.

50 - The Four Horsemen of the Apocalypse (I quattro cavalieri dell’Apocalisse). Regia: Rex Ingram. Sceneggiatura: June Mathis, dal romanzo di Vicente Blasco Ibáñez. Fotografia: John F. Seitz. Musica: Louis F. Gottschalk. Interpreti: Rudolph Valentino, Alice Terry, Pomeroy Cannon. USA, 1921.
Valentino balla con Alice Terry ne I quattro cavalieri dellApocalisse.

49 - The Iron Mask (La maschera di ferro). Regia: Allan Dwan. Sceneggiatura: Douglas Fairbanks, Lotta Woods, dai romanzi di Alexandre Dumas padre. Fotografia: Warren Lynch, Henry Sharp. Interpreti: Douglas Fairbanks, Belle Bennett, Marguerite De La Motte. USA, 1929.

48 - Safety Last! (Preferisco l’ascensore). Regia: Fred C. Newmeyer, Sam Taylor. Sceneggiatura: Hal Roach, Sam Taylor, Tim Whelan, H.M. Walker, Jean C. Havez, Harold Lloyd. Fotografia: Walter Lundin. Interpreti: Harold Lloyd, Mildred Davis, Bill Strother. USA, 1923.
Harold Lloyd: Preferisco lascensore.

47 - Hearts and Planets. Regia: Mack Sennett. Sceneggiatura: Mack Sennett. Interpreti: Chester Conklin, Mack Sennett, Minta Durfee. USA, 1915.

46 - Broken Blossoms, or The Yellow Man and the Girl (Giglio infranto). Regia: David W. Griffith. Sceneggiatura: D. W. Griffith, da un soggetto di Thomas Burke. Fotografia: G.W. Bitzer. Interpreti: Lillian Gish, Richard Barthelmess, Donald Crisp. USA, 1919.

45 - Quo vadis? Regia: Enrico Guazzoni. Sceneggiatura: Enrico Guazzoni, dal romanzo di Henryk Sienkiewicz. Fotografia: Eugenio Bava, Alessandro Bona. Interpreti: Amleto Novelli, Gustavo Serena, Amelia Cattaneo. Italia, 1912.

44 - A Dog’s Life (Vita da cani). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Rollie Totheroh. Interpreti: Charles Chaplin, Dave Anderson, Bert Appling. USA, 1918.

43 - A Woman of Paris: A Drama of Fate (Una donna di Parigi). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Rollie Totheroh, Jack Wilson. Interpreti: Edna Purviance, Clarence Geldart, Carl Miller. USA, 1923.

42 - The Vagabond (Il vagabondo). Cortometraggio. Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin, Vincent Bryan, Maverick Terrell. Fotografia: William C. Foster, Rollie Totheroh, Frank D. Williams. Interpreti: Charles Chaplin, Edna Purviance, Eric Campbell. USA, 1916.

41 - Herr Tartüff (Tartufo). Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Sceneggiatura: Carl Mayer, da Molière. Fotografia: Karl Freund. Interpreti: Emil Jannings, Lil Dagover, Hermann Picha, Rosa Valetti. Germania, 1925.

40 - Berg-Ejvind och hans hustru (I proscritti). Regia: Victor Sjöström. Sceneggiatura: Victor Sjöström, Sam Ask, da un dramma di Jóhann Sigurjónsson. Fotografia: Julius Jaenzon. Interpreti: Victor Sjöström, Edith Erastoff, John Ekman. Svezia, 1918.

39 - Seven Years Bad Luck (Sette anni di guai). Regia: Max Linder. Sceneggiatura: Max Linder. Fotografia: Charles van Enger. Interpreti: Max Linder, Alta Allen, Ralph McCullough. USA-Francia, 1920.

38 - The Blacksmith (Il maniscalco). Regia: Buster Keaton, Malcolm St. Clair. Sceneggiatura: Buster Keaton, Malcolm St. Clair. Fotografia: Elgin Lessley. Interpreti: Buster Keaton, Virginia Fox, Joe Roberts. USA, 1922.

37 - The Cocoanuts (Noci di cocco). Regia: Robert Florey, Joseph Santley. Sceneggiatura: George S. Kaufman, Morrie Ryskind. Fotografia: George J. Folsey. Musica: Irving Berlin. Interpreti: Zeppo Marx, Groucho Marx, Harpo Marx, Chico Marx, Oscar Shaw, Mary Eaton. USA, 1929.

36 - Oktjabr (Ottobre!). Regia: Sergej Ėjzenštejn, Grigorij Aleksandrov. Sceneggiatura: Sergej Ėjzenštejn, Grigorij Aleksandrov, Boris Agapov, dal libro di John Reed. Fotografia: Eduard Tisse. Interpreti: Nikolaj Popov, Vasilij Nikandrov. URSS, 1928.

35 - Hallelujah! (Alleluja!). Regia: King Vidor. Sceneggiatura: King Vidor, Wanda Tuchock, Ramson Rideout, Richard Schayer. Fotografia: Gordon Avil. Interpreti: Daniel L. Haynes, Nina Mae McKinney, William Fountaine. USA, 1929.

34 - The Grim Game. Regia: Irvin Willat. Sceneggiatura: Walter Woods, Irvin Willat, Arthur B. Reeve, John Grey. Fotografia: Frank M. Blount, J.O. Taylor. Interpreti: Harry Houdini, Thomas Jefferson, Ann Forrest. USA, 1919.

33 - Tagebuch einer Verlorenen (Diario di una donna perduta). Regia: Georg Wilhelm Pabst. Sceneggiatura: Rudolf Leonhardt, da un romanzo di Margarete Böhme. Fotografia: Sepp Allgeier, Fritz Arno Wagner. Interpreti: Louise Brooks, André Roanne, Josef Rovenský. Germania, 1929.
Louise Brooks: Diario di una donna perduta.

32 - Cabiria. Regia: Giovanni Pastrone. Sceneggiatura: Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pastrone. Fotografia: Augusto Battagliotti, Eugenio Bava, Natale Chiusano, Segundo de Chomón, Carlo Franzeri, Giovanni Tomatis. Musica: Manlio Mazza, Ildebrando Pizzetti. Interpreti: Carolina Catena, Lidia Quaranta, Gina Marangoni, Dante Testa, Umberto Mozzato, Bartolomeo Pagano. Italia, 1914.
Il manifesto di Leopold Metlicovitz per Cabiria (Officine Grafiche Ricordi).

31 - The Lodger (Il pensionante). Regia: Alfred Hitchcock. Sceneggiatura: Eliot Stannard, da un romanzo di Marie Belloc Lowndes. Fotografia: Gaetano di Ventimiglia, Hal Young. Interpreti: Ivor Novello, Marie Ault, Arthur Chesney. Regno Unito, 1927.

30 - The Last Command (Crepuscolo di gloria). Regia: Josef von Sternberg. Sceneggiatura: Lajos Biró, John F. Goodrich, Herman J. Mankiewicz, Josef von Sternberg. Fotografia: Bert Glennon. Interpreti: Emil Jannings, Evelyn Brent, William Powell. USA, 1928.
Emil Jannings in Crepuscolo di gloria.

29 - Stachka (Sciopero). Regia: Sergej Ėjzenštejn. Sceneggiatura: Grigori Aleksandrov, Sergej Ėjzenštejn, Ilja Kravchunovskij, Valerian Pletnev. Fotografia: Vasilij Khvatov, Vladimir Popov, Eduard Tisse. URSS, 1925.

28 - Un Chien andalou. Regia: Luis Buñuel. Sceneggiatura: Luis Buñuel, Salvador Dalí. Fotografia: Albert Duverger, Jimmy Berliet. Interpreti: Simone Mareuil, Pierre Batcheff, Luis Buñuel, Salvador Dalí. Francia, 1929.
Una famosa inquadratura da Un Chien andalou.

27 - The Phantom of the Opera (Il fantasma dell’Opera). Regia: Rupert Julian. Sceneggiatura: Bernard McConville, Jasper Spearing, Elliott J. Clawson, Raymond L. Schrock, Richard Wallace, Walter Anthony, Tom Reed, Frank M. McCormack, dal romanzo di Gaston Leroux. Fotografia: Milton Bridenbecker, Virgil Miller, Charles van Enger. Interpreti: Lon Chaney, Mary Philbin, Norman Kerry. USA, 1925.
Lon Chaney in The Phantom of the Opera.

26 - The Circus (Il circo). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Rollie Totheroh. Interpreti: Charles Chaplin, Al Ernest Garcia, Merna Kennedy. USA, 1928.
Chaplin ne Il circo.

25 - Napoléon (Napoleone). Regia: Abel Gance. Sceneggiatura: Abel Gance. Fotografia: Jules Kruger, Joseph-Louis Mindviller, Léonce-Henri Burel, Nikolai Toporkoff. Musica: Arthur Honegger. Interpreti: Albert Dieudonné, Vladimir Roudenko, Edmond Van Daële, Alexandre Koubitzky, Antonin Artaud. Francia, 1927.

24 - The Cameraman (Il cameraman). Regia: Edward Sedgwick, Buster Keaton. Sceneggiatura: Clyde Bruckman, Joseph Farnham, Lew Lipton, Byron Morgan. Fotografia: Reggie Lanning, Elgin Lessley. Interpreti: Buster Keaton, Marceline Day, Harold Goodwin. USA, 1928.
Buster Keaton: The Cameraman.

23 - The Birth of a Nation (Nascita di una nazione). Regia: David W. Griffith. Sceneggiatura: Thomas F. Dixon Jr., David W. Griffith, Frank E. Woods. Fotografia: G.W. Bitzer. Interpreti: Lillian Gish, Mae Marsh, Henry B. Walthall. USA, 1915.
Lillian Gish in The Birth of a Nation.

22 - The General (Come vinsi la guerra). Regia: Clyde Bruckman, Buster Keaton. Sceneggiatura: Clyde Bruckman, Buster Keaton, Al Boasberg, Charles Henry Smith, da libri di memorie di William Pittenger. Fotografia: Bert Haines, Devereaux Jennings. Interpreti: Buster Keaton, Marion Mack, Glen Cavender. USA, 1926.
Keaton: Come vinsi la guerra.

21 - The Wind (Il vento). Regia: Victor Sjöström. Sceneggiatura: Frances Marion, dal romanzo di Dorothy Scarborough. Fotografia: John Arnold. Interpreti: Lillian Gish, Lars Hanson, Montagu Love. USA, 1928.
Lillian Gish in The Wind.

20 - Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora). Regia: Georg Wilhelm Pabst. Sceneggiatura: Joseph Fleisler, Georg Wilhelm Pabst, Ladislaus Vajda, da Lulù di Frank Wedekind. Fotografia: Günther Krampf. Musica: Stuart Oderman, William F. Perry. Interpreti: Louise Brooks, Fritz Kortner, Francis Lederer. Germania, 1929.

19 - Faust - Eine deutsche Volkssage (Faust). Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Sceneggiatura: Hans Kyser, Gerhart Hauptmann, dal dramma di Johann Wolfgang Goethe. Fotografia: Carl Hoffman. Interpreti: Gösta Ekman, Emil Jannings, Camilla Horn, Frida Richard, William Dieterle. Germania, 1926.

18 - Körkarlen (Il carrettiere della morte). Regia: Victor Sjöström. Sceneggiatura: Victor Sjöström, dal romanzo di Selma Lagerlof. Fotografia: Julius Jaenzon. Interpreti: Victor Sjöström, Hilda Borgström, Tore Svennberg, Astrid Holm. Svezia, 1921.

17 - Greed (Rapacità). Regia: Erich von Stroheim. Sceneggiatura: Erich von Stroheim, June Mathis, Joseph Farnham, da un romanzo di Frank Norris. Fotografia: William H. Daniels, Ben F. Reynolds. Interpreti: Zasu Pitts, Gibson Gowland, Jean Hersholt. USA, 1924.

16 - Nanook of the North (Nanuk l’esquimese). Regia: Robert J. Flaherty. Sceneggiatura: Robert J. Flaherty. Fotografia: Robert J. Flaherty. Interpreti: Allakariallak, Nyla, Cunayou. USA-Francia, 1922.

15 - Berlin: Die Sinfonie der Grosstadt (Berlino - Sinfonia di una grande città). Regia: Walther Ruttmann. Sceneggiatura: Carl Mayer, Karl Freund. Fotografia: Robert Baberske, Reimar Kuntze, László Schäffer, Karl Freund. Musica: Edmund Meisel. Germania, 1927.

14 - Entr’acte. Cortometraggio. Regia: René Clair. Sceneggiatura: Francis Picabia, René Clair. Fotografia: Jimmy Berliet. Interpreti: Jean Börlin, Inge Frïss, Francis Picabia, Marcel Duchamp, Man Ray, Darius Milhaud. Francia, 1924.
Duchamp e Man Ray giocano a scacchi in Entracte.

13 - The Crowd (La folla). Regia: King Vidor. Sceneggiatura: King Vidor, John V.A. Weaver, Joseph Farnham. Fotografia: Henry Sharp. Interpreti: Eleanor Boardman, James Murray, Bert Roach. USA, 1928.
James Murray ed Eleanor Boardman in The Crowd.

12 - Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Thea von Harbou, dal romanzo di Norbert Jacques. Fotografia: Carl Hoffmann. Interpreti: Rudolf Klein-Rogge, Aud Egede-Nissen, Gertrude Welcker, Alfred Abel. Germania, 1922.

11 - Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu - Il vampiro). Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Sceneggiatura: Henrik Galeen, dal romanzo di Bram Stoker. Fotografia: Fritz Arno Wagner. Interpreti: Max Schreck, Gustav von Wangenheim, Greta Schröder. Germania, 1922.
Nosferatu.

10 - Mat (La madre). Regia: Vsevolod Pudovkin. Sceneggiatura: Nathan Zarkhi, dal romanzo di Maksim Gorkij. Fotografia: Anatoli Golovnja. Interpreti: Vera Baranovskaja, Nikolai Batalov, Aleksandr Chistjakov. URSS, 1926.

9 - The Kid (Il monello). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Rollie Totheroh. Interpreti: Charles Chaplin, Jackie Coogan, Carl Miller, Edna Purviance. USA, 1921.
Jackie Coogan: Il monello.

8 - Sunrise: A Song for Two Humans (Aurora). Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Sceneggiatura: Hermann Sudermann, Carl Mayer. Fotografia: Charles Rosher, Karl Struss. Interpreti: George O’Brien, Janet Gaynor, Margaret Livingston. USA, 1927.

7 - Intolerance. Regia: David W. Griffith. Sceneggiatura: David W. Griffith, Anita Loos. Fotografia: G.W. Bitzer. Interpreti: Lillian Gish, Mae Marsh, Robert Harron. USA, 1916.

6 - Chelovek s Kino-apparatom (L’uomo con la macchina da presa). Regia: Dziga Vertov. Sceneggiatura: Dziga Vertov. Fotografia: Mikhail Kaufman. URSS, 1929.

5 - Metropolis. Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Thea von Harbou. Fotografia: Karl Freund. Interpreti: Alfred Abel, Gustav Fröhlich, Rudolf Klein-Rogge, Brigitte Helm. Germania, 1927.
Metropolis.

4 - Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dr. Caligari). Regia: Robert Wiene. Sceneggiatura: Carl Mayer, Hans Janowitz. Fotografia: Willy Hameister. Interpreti: Werner Krauss, Conrad Veidt, Friedrich Feher, Lil Dagover. Germania, 1920.

3 - Bronenosets Potëmkin (La corazzata Potëmkin). Regia: Sergej Ėjzenštejn. Sceneggiatura: Nina Agadzhanova, Nikolaj Asejev, Sergej Ėjzenštejn, Sergej Tretyakov. Fotografia: Vladimir Popov, Eduard Tisse. Interpreti: Aleksandr Antonov, Vladimir Barskij, Grigorij Aleksandrov. URSS, 1925.

2 - La Passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna d’Arco). Regia: Carl Theodor Dreyer. Sceneggiatura: Joseph Delteil, Carl Theodor Dreyer. Fotografia: Rudolph Maté. Interpreti: Maria Falconetti, Eugene Silvain, André Berley, Maurice Schutz, Antonin Artaud, Michel Simon. Francia, 1927.

1 - The Gold Rush (La febbre dell’oro). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Rollie Totheroh, Jack Wilson. Interpreti: Charles Chaplin, Mack Swain, Tom Murray, Henry Bergman. USA, 1925.
Chaplin in The Gold Rush.

P.B.


Non è leale!

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Nelle settimane in cui l’Europa è scossa dal brivido delle elezioni francesi, sui social network circola un video a dir poco avvincente. Argomento: le ineguaglianze sociali. Un gruppetto di bambini e bambine si appresta a giocare a Monopoly sotto la guida di un adulto. Costui enuncia le regole del gioco in modo alquanto arbitrario, a cominciare dal gruzzolo da distribuire: 1.500 euro per metà dei giocatori, 750 per l’altra metà. «Non è leale!», protestano i bambini. Ma non finisce lì: uno dei contendenti (purché maschio e bianco) può disporre fin dall’inizio di tre terreni e due case; un altro (a meno che non sia di pelle nera) può giocarsi una carta-premio che gli consente di evitare la casella della prigione; al bambino che porta le stampelle non sarà permesso di comprare la stazione ferroviaria; le bambine ritirano 150 euro anziché 200 ogni volta che transitano nella casella del via; i dadi del piccolo arabo hanno solo un pallino per faccia; il bimbo dalla pelle più scura potrà acquistare lotti disposti su uno solo dei quattro lati del tabellone. A nulla servono le proteste: le regole non si discutono. Il video dura poco più di due minuti e il candido stupore dei piccoli giocatori, che contestano le grossolane iniquità del regolamento, incanta gli spettatori per la sua spontaneità. Si intitola Un jeu de société ed è stato creato da un gruppo parigino che si presenta con un nome emblematico, Herezie, e il motto «agenzia di pubblicità non troppo ortodossa».

Alla fine dell’esemplare rappresentazione compaiono schermate di dati statistici: «Le minoranze riconoscibili come tali ricevono soltanto il 14% di risposte positive quando cercano alloggio»; «Il 66% dei più abbienti è proprietario di case contro il 16% dei meno abbienti»; «A parità di infrazione, i poveri rischiano la condanna tre volte più dei ricchi»; «A parità di ore lavorate, le donne guadagnano il 23% meno degli uomini»; «Nella Francia di oggi solo il 30% delle stazioni ferroviarie è accessibile ai portatori di handicap»; «I bambini sfavoriti in partenza progrediscono più lentamente: il 35% dei quattordicenni è già stato ripetente». Il pensiero di don Lorenzo Milani e dei suoi allievi di Barbiana non poteva trovare, a cinquant’anni dal dibattito che suscitò, espressione più attuale, sintetica e concreta di questa.

La rapidità, la precisione e la specifica struttura didattica del linguaggio pubblicitario riescono talvolta a chiarire in pochi secondi, se applicate a temi di pubblico interesse, concetti di notevole complessità. I casi più riusciti non si dimenticano più. In un famoso spot del 1986, il quotidiano britannico The Guardian affronta e semplifica, con una sorprendente dimostrazione-lampo, una quantità di problemi scottanti che riguardano la natura e l’etica dell’informazione: la deontologia professionale del giornalismo; i rischi della distorsione dei fatti e della manipolazione propagandistica; la vulnerabilità dell’opinione pubblica; la relazione tra fatti e opinioni. Lo spot è realizzato in bianco e nero per conferire un senso di reportage, quindi di verità, a ciò che viene mostrato. Nella prima scena vediamo uno skinhead che scatta in una corsa improvvisa sul marciapiede di una strada urbana, e ci chiediamo: «Chi è costui? Dov’è diretto?». La macchina da presa inquadra ora la stessa scena da un diverso punto di vista: notiamo che lo skinhead dall’aria minacciosa sta puntando decisamente verso un signore di mezza età, e ci prepariamo a una scena di violenza. Lo aggredirà? Gli darà uno spintone per rubargli la ventiquattrore? Lo ucciderà per vendicarsi di un torto? Ed ecco la rivelazione risolutiva: il campo visivo si allarga, siamo presso il ponteggio di un cantiere, l’uomo anziano sta per essere investito da un carico di materiali in caduta libera, lo skinhead riesce per un pelo nel suo intento – quello di salvargli la vita. La tesi di The Guardian ora è chiara: i giornali seri sono quelli che presentano il quadro completo della situazione, non quelli che trattano la notizia in modo artatamente frammentario per influenzare e fuorviare il lettore.

I temi legati alla comunicazione di massa – uno dei nodi cruciali della modernità, all’origine delle convinzioni e degli stereotipi più diffusi – si prestano più spesso di altri all’uso didattico del paradosso. Un altro quotidiano britannico, The Independent, suscita profonda impressione nel 1999, quando il suo spot Litany vince il grand prix al festival pubblicitario di Cannes. Su una serie di immagini in bianco e nero, allusive all’emarginazione, alle frustrazioni, alla solitudine e al degrado ambientale e sociale, la voce fuori campo del poeta punk John Cooper Clarke elenca, a mo’ di litania, i molteplici divieti familiari, sociali e culturali che impediscono all’individuo di essere intimamente libero e indipendente. L’ultimo divieto da infrangere è «don’t read», non leggere, e solo a questo punto compare visivamente il prodotto, il giornale, il cui nome — The Independent — basta a chiudere il cerchio del teorema. Morale: chi sottovaluta il valore dell’informazione soggiace schiavisticamente ai condizionamenti altrui, senza mai cogliere appieno il valore dell’autodeterminazione, della democrazia, della libertà.

Grande Reportagem, pubblicato dal 2003 al 2005 come inserto settimanale dei quotidiani portoghesi Diário de Notícias e Jornal de Notícias, commentò in forma di autopubblicità alcuni dei principali fenomeni geopolitici dell’epoca. Ogni paese era rappresentato dalla sua bandiera, i cui campi cromatici rimandavano a una serie di dati agghiaccianti. Potete rivedere quegli annunci in questa pagina.

© Pasquale Barbella








Cliccare sulle immagini per ingrandirle.

Credits dei lavori commentati in questo post.

Un jeu de société. – L’agenzia Herezie di Parigi è stata fondata da un copywriter italiano, Andrea Stillacci, e dal francese Pierre Calligari. Il gruppo di lavoro che ha progettato il video Un jeu de sociétéè costituito da Baptiste Clinet, Paul Marty, Jules Perron e Philippe Lesesvre.

Grande Reportagem. – La campagna qui riprodotta fu realizzata nel 2005 dall’agenzia FCB di Lisbona. Direttore creativo Luis Silva Dias, copywriter Icaro Doria, art director João Roque.

Points of view. – Lo spot per The Guardian, unanimemente riconosciuto fra i migliori di tutti i tempi, è stato ideato nel 1986 da John Webster, leggendario leader creativo della Boase Massimi Pollitt di Londra. Anche il regista, Paul Weiland, è una celebrità: entrambi hanno collezionato premi internazionali a non finire.

Litany. – Lo storico spot per The Independent è stato ideato alla Lowe di Londra da Charles Inge, nel 1998. Regia di Rob Sanders, fotografia di Bob Pendar-Hughes, casa di produzione HLA, producer Helen Langridge e Charles Crisp. La voce fuori campo è del poeta John Cooper Clarke, piuttosto popolare nel Regno Unito per le sue performance pubbliche.


Prosa fetida

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Al liceo mi facevano studiare – con prolungata insistenza – Pascoli, Carducci e D’Annunzio, una triade che noi, i ragazzacci di allora, trovavamo indigesta. Le nostre simpatie poetiche si fermavano a Leopardi e, con un po’ di buona volontà, a Ugo Foscolo: in comune avevano, secondo nostre impressioni, lo spirito adolescente, la gioventù bruciata. Leopardi e Foscolo erano fatti di carne viva, elegantemente incazzati: potevano far parte della nostra banda, avevano la nostra età. Giovanni e Giosuè ci infastidivano con quella pinguedine da professori: il primo poi, con la sua teoria del fanciullino, ci sembrava un bimbone malcresciuto; mentre l’altro lo immaginavamo piamente bovino, indifferenti com’eravamo alla placidità, alla solennità, all’ingombrante austerità dei suoi sentimenti. 
Giosuè Carducci assesta una vigorosa pedata ai suoi “importuni sollecitatori e consiglieri”, che a fine novembre 1905 annunciavano la sua prossima conversione spirituale. Disegno riprodotto in Augusto Majani, Ricordi tra due secoli, Milano, Academia, 1950, pagina 46. (Dal sito della Biblioteca digitale dell’Archiginnasio di Bologna).

Di Giosuè ci tacquero, a scuola, della sua passione per le donne e per l’arte culinaria, del suo girovagare per trattorie alpine avido di pizzoccheri e salumi: non so se questo tratto umano ce l’avrebbe reso più gradito, o più distante. Di Gabriele poi non parliamo. Provammo deferente ammirazione per la sua Pioggia nel pineto, così ben pensata da farci sentire i capelli bagnati; ma l’uomo era proprio antipatico, di un’arroganza eroica e stomachevole. La scuola ci allontanava dalla poesia. Della triade dovevamo sorbire centinaia di pagine di un testo critico curato da Fubini e Bonora: degli autori importanti si diceva, invariabilmente, che la loro opera attingeva alla sfera dell’arte. Questa sfera dell’arte, nobile quanto si vuole, ci faceva ridere. I diciottenni, di ogni epoca, sono inclementi per natura: li puoi domare soltanto se ti metti dalla loro parte, se ti impegni a tenere sotto controllo i gonfiori retorici e a scarnificarli con un po’ d’ironia.
Carducci e D’Annunzio disegnati da Augusto Majani (Nasìca). Il simposio dei poeti, disegno riprodotto in Augusto Majani, La vita bolognese nella caricatura - II, in «Strenna delle Colonie scolastiche bolognesi», 32 (1929). (Dal sito della Biblioteca digitale dell’Archiginnasio di Bologna).

E Manzoni? Giù il cappello per la prosa: magistrale. Ma il poeta? A dirla in musica, Il Cinque Maggiorulla e beccheggia come una polka di campagna – un ritmo poco confacente al dramma dell’ascesa e della morte di Napoleone. Ancor oggi temo che «orba di tanto spiro» sia il verso più indecente di tutta la poesia universale. Troppo tardi – non a scuola ma per conto mio – ho compreso che i poeti non vanno giudicati ma capiti: a giudicarli non s’impara niente, mentre se ci si sforza di capirli si entra a pie’ pari nel loro e/o nel nostro tempo, e la conoscenza solidifica la nostra coscienza, non solo per la rima e l’assonanza ma perché credo davvero che la poesia trasudi più sentimento storico di qualsiasi altra forma di espressione. Ma i ragazzi! I ragazzi in età scolastica se ne fregano del valore storico e filosofico della letteratura. I ragazzi giudicano, e il loro metro di giudizio è di misura tribale: caro Alessandro, caro Giosuè, caro Gabriele, o siete dei nostri o non lo siete. Al mio liceo si studiava anche letteratura francese, poco poco; quel tanto che bastava a instillarmi il sospetto che Baudelaire e Rimbaud fossero più “dei nostri” di Pascoli e Carducci.
Giovanni Pascoli disegnato da Augusto Majani (Nasìca). Il poeta trovò offensiva questa caricatura. (Dal sito della Biblioteca digitale dell’Archiginnasio di Bologna).

D’Annunzio si mangiò da solo l’ultimo mese prima del diploma e, per quanto attraente fosse il suo rockeggiare (Settembre, andiamo. È tempo di migrare.), non gli perdonerò mai di aver invaso lo spazio che avremmo potuto dedicare a Dino Campana. Nessuno ci parlò del povero Dino, potenziale idolo di noi peccatori in blue jeans! Emarginato dalla vita, dalla cultura del tempo e dalla scuola. Che brutta, meravigliosa storia di manicomio e Argentina, vagabondaggio e prigione, quella di Campana! Sfigati si nasce: specialmente chi consegna, col cuore trepidante di fiducia, l’unica copia del suo manoscritto a due ceffi come Giovanni Papini e Ardengo Soffici; e quelli, ingloriosi bastardi, te lo perdono. Dino minaccia coltellate se non gli rendono il frutto delle sue fatiche; è stato tanto tempo fuggitivo nelle terre del tango, par di vedere i suoi occhi lampeggiare, di sentire odore di rissa e di sangue. Andò quasi del tutto fuori orbita per lo sforzo di riscrivere a memoria l’opera scomparsa, ribattezzata Canti orfici. Queste sì che son storie da raccontare in classe. Altro che sfera dell’arte: nella Prosa fetida non c’è nessuna sfera celestiale ma la puzza di sudore e bordello, di alcol e solitudine. Morì nel 1932, a quarantasette anni, durante l’ultimo soggiorno in un ospedale psichiatrico: di setticemia, si dice, per essersi ferito lo scroto col filo spinato durante un tentativo di fuga. Dall’edizione dei Canti orficicurata da Enrico Falqui riproduco qui Prosa fetida.
Dino Campana nel 1912.

Prosa fetida
di Dino Campana

Giovan Pietro Malalana
Tipo strano quanto mai
Nel gran dì della Befana
S’ebbe tanti e tanti guai
Che alla sera, stanco morto
E infangato come un cane
Volle bere come un porco
E abbruttirsi colle ciane.

Se ne venne per le strade
Strette oscure e misteriose
Dove dietro le vetrate
Se ne stanno Gemme e Rose
Per le scale misteriose
Verticali al Paradiso
Dei soldati e delle spose
Ingannate dal marito.

Gemma e Rosa i fiori in testa
Se lo accolsero ridendo
E Matilde che alla lesta
Su da un piatto sta inghiottendo
Sollevò la bocca tinta
E gli disse in un sorriso:
Mangio ancora un po’ d’aringa
Ed ho subito finito.

Malaccorto ed ubriaco
Si sdraiò con mala grazia
Sbadigliando a perdifiato
In sul muso della... Grazia
Che seccata di quell’uomo
Dalla barba già d’un mese
A squittire prese a buono
Nel suo gergo fredianese.

Il poeta se ne frega
E si sta come un Pascià
Tra le Urì di miglior lega
Del paradiso di Allà
E alle rose in carta rosa
E alle labbra di carmino
Di madonna l’ulcerosa
Ha già fatto un sonettino.

Stanno zitte le figliole
A veder l’amor nascente
Anche Grazia – per la pace! –
Biascia l’ultimo accidente.
Il poeta è addormentato!
Da quel pazzo che fu sempre
Nel più bello s’è scordato
Che l’amore è onnipotente...

Laa Nunziaaaca – nel vedere
Il suo sesso disprezzato
Infuriata da vedere
S’è levata e l’ha scossato
Non si dorme sulle panche
O poveta capellone
Porta fuori le tue ciancie
E la sbornia sul groppone
E il decino t’un lo paghi?!...
Vàia vàia cappellone...

Se ne va il poeta stanco
Colla sbornia sul groppone
Per la scala misteriosa
Ridiscende brancolando
Dal di sopra han chiuso l’uscio
E lo stanno massacrando
Alla porta della strada
S’impunzona sospirando...

Dietro i vetri rilucenti
Stan le ciane commentando
Per la strada solitaria
Non un cane. Qualche stella
Nella notte sopra i tetti
E la notte gli par bella
E cammina il poveretto
Nella notte fantasiosa
E pur sente nella bocca
La saliva disgustosa
Sente il tanfo della casa
Ripugnante. Per le strade
Ei cammina e via cammina
Or le case son più rade
Trova l’erba e si distende
Infangato come un cane
Da lontano un ubriaco 
Canta amore alle persiane.
La scrittrice Sibilla Aleramo, con cui Dino Campana ebbe una tumultuosa relazione sentimentale.


Vanuria

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Quando Kuroski, scomparso inspiegabilmente dalla vita pubblica, fu ritrovato nella sua casa di campagna tra sentori di incipiente decomposizione, le cause della sua morte ispirarono giochi di società nei salotti della capitale. Ciascuno di coloro che lo avevano frequentato si sentì autorizzato a formulare la propria verità, sebbene la vita del poeta si fosse spenta nella solitudine di una camera da letto, senza testimoni oculari accertati. Nessuno sembrò condividere alcuna delle altrui congetture, né tanto meno la versione degli inquirenti, che avevano archiviato il caso come suicidio. Il rifiuto della conclusione ufficiale fu l’unico punto di convergenza di tutte quelle opinioni. 

«Si fa presto a dir suicidio!», andava protestando Maria Simona Arianoska con un picco di indignazione insolito per lei. La sua bonomia era non meno leggendaria della sua pinguedine e della sua ospitalità. Riceveva ogni venerdì pomeriggio nella maison più ammirata di tutta la Vanuria, arredata con finezza dal mobilificio parigino Ruhlmann e Laurent; mai lo stesso Kuroski – il più scontroso della cerchia – si sarebbe perso di propria volontà uno di quegli incontri, nemmeno nei periodi di massima irritabilità. «Il suicidio non esiste», ripeteva madame con fermezza: il gusto del paradosso stava nella zona alta delle sue specialità, accanto alla charlotte russe du désir – una versione alquanto singolare della ricetta di Carême, eppure ugualmente sublime, per unanime giudizio di chi ne aveva fatto esperienza. «Il suicidio è un’astrazione convenzionale, accettabile solo in un verbale di gendarmeria o in un referto di medicina legale. Ciò che lo rende interessante non è il veleno o il colpo di pistola, ma il motivo per cui.» Tra i vezzi di madame c’era anche quello di concludere i discorsi in modo sincopato, sebbene non fosse esattamente un’adoratrice del jazz, la nuova passione che stava soppiantando l’opera lirica e il sinfonismo germanico nel cuore dei vanuriani più scapigliati.

«Il motivo per cui, come lo chiamate voi, non può che essere di sesso femminile», sostenne quietamente l’esule Volgov, sfilandosi gli occhiali dal naso. Si era sempre presunta in lui un’indole misogina, senza che questo tratto di carattere diventasse argomento di conversazione; ma la reazione di Maria Simona Arianoska stupì l’intero uditorio per la sua tagliente schiettezza: «Non conosco un fallocrate più fallocrate di voi, amico mio; il vostro disamore per le donne vi fa pensare e dire cose che.»

«Eppure», osservò Dmitrij Volgov senza smettere di pulire accuratamente le sue lenti con una morbida pezzuola amaranto, «è nota a questo circolo la condizione in cui il povero Anatol era venuto a trovarsi, dopo che l’attrice minacciò di lasciarlo. Del resto, la loro relazione non ha mai conosciuto momenti di pace. C’era sempre di mezzo l’altra, la signora Kuroski, e c’è un bel dire che le mogli beneducate sanno chiudere un occhio sulle vicende di letto dei coniugi: non è vero, non è mai stato vero, neanche negli ambienti in cui la discrezione è sacra. Nel caso del nostro amico, poi, i limiti sono stati superati in modo abominevole. La megera ha cacciato il marito di casa esiliandolo in campagna, e sappiamo quanto lui odiasse il mondo agreste. Specialmente di questa stagione.»

Gualtieri, che aveva fama di fine dicitore, declamò quattro versi giovanili del defunto. Il suo timbro baritonale si prestò in modo appropriato alla bisogna:

«Cadaverico autunno senza
più mantelli sulla
pianura lento ti distendi
in un sussulto di necrofilia.»

Volgov, per non essere da meno, rilasciò una citazione più lunga:

«Bianco, troppo bianco,
quasi luna il sole
si liquefa e congela
l’eros e le rose.

Vedovo s’incupisce il ramo,
in rara luce al cielo si protende.
I nudi nodi offende
gramo umore di bruma.»

«Avete ragione, Dmitrij», concesse Maya, l’ex danzatrice che con gli anni diventava sempre più esile e più indulgente al trucco da vampira e alla moda maschile. «Ma non avete specificato a quale delle due signore dovremmo ascrivere la responsabilità di una simile perdita.»

L’esule chiese il permesso di accendersi un sigaro e apprezzò il garbo con cui gli venne negato (fateci la grazia di resistere, verrà il momento). «Non credo che faccia una gran differenza. I fatti sono fatti: abbiamo un triangolo fin troppo classico, un lui e due lei, e a soccombere è lui. Le superstiti non possono che essere ritenute corresponsabili della sua sorte. L’una ha aperto il fuoco, per così dire, e l’altra ha inferto il colpo di grazia. Nessun tribunale, nemmeno questo, saprebbe riconoscere una ragionevole disparità di servizio fra i membri di un medesimo plotone d’esecuzione.»

Maya rise di gusto con uno sguardo d’intesa all’amica del momento, la malinconica creatura presentata come «studiosa di spiritismo e chiromanzia». Accavallò le gambe alla maniera degli uomini, caviglia su ginocchio, mettendo bene in mostra il taglio dandy dei pantaloni neri. In assenza di collana di perle si trastullò con la cravatta policroma. «Niente musica oggi? Vorrei tanto provare il charleston col nostro Dmitrij.»

«Sapete bene che sono refrattario al ballo.»

«Peccato. Questo gioco non promette grandi rivelazioni, temo. Che fine ha fatto l’altro poeta, Simona? Il giovane macilento? Possibile che il dolore per la morte del maestro abbia ucciso anche lui?»

«Zabro è in netto anticipo sui tempi, come poeta, ma in costante ritardo agli appuntamenti. Confido che prima o poi.»

Il maggiordomo si affacciò al salone per annunciare il tè, fingendo di non udire la voce più stridula del gruppo. Che, fingendo a sua volta di ignorarlo, stava dicendo:

«E se fosse stato il maggiordomo?»

Era stata la moglie del banchiere Godin a prospettare la brillante ipotesi.

«Suvvia, Marta! Non c’era nessun maggiordomo! Il povero Kuroski aveva licenziato tutta la servitù della villa in campagna.»

«Appunto», replicò Marta, che si era sempre fatta un vanto della sua impeccabile perfidia. «A un servo licenziato non mancano ragioni di risentimento. Per non dire delle chiavi: puoi fartene fare delle copie per tornare a Itaca ogni volta che vuoi.»

«Non scherziamo», disse la padrona di casa con un marcato accento di rimprovero. «E poi, chi ha mai parlato di?»

Voleva dire «di omicidio» e fu compresa nonostante gli omissis. Marta Godin, sebbene dotata di rigogliosa capigliatura, non aveva peli sulla lingua. Suo marito taceva compunto, tenendosi le dita intrecciate sotto la maestà del ventre e guardandosi le ginocchia come se le vedesse per la prima volta.

«Tesoro, sei stata tu a escludere il suicidio – o sbaglio? Io sono d’accordo con te al mille per cento.» (Marta dava del tu a tutti, per principio). «Uno come Anatol Kuroski! Immune da qualsiasi forma di esibizionismo! Il nostro amico non può essersi tolto la vita da sé, per manifesta incapacità di suicidio.»

«Se permette», s’intromise il Gualtieri, che tutti chiamavano – alle sue spalle – Scettico Blues, sull’onda di una canzone italiana in gran voga nei tabarin della capitale, «si può morire di cose diverse dal suicidio e dall’omicidio. A volte si muore di malattia, persino in Vanuria. Per non dire dell’uso esagerato di alcolici, o di droghe, o di entrambi i generi.» (Gualtieri dava del lei a tutti, per distacco).

«Ho escluso il suicidio per la sua banalità, non per.»

«Hai escluso il suicidio per compiacerti di un sofisma delizioso, mia cara», riprese Marta Godin facendo oscillare impercettibilmente la chioma imponente (fuori moda, secondo gli esperti). «E in un certo senso hai legittimato l’opzione dell’assassinio, sia pure simbolico. Io mi sono semplicemente limitata a compiere un passetto più in qua: dal virtuale al reale. Perché cercare un colpevole moralequando puoi avere tutti i colpevoli manuali che vuoi?»

«Prima parlate del maggiordomo, al singolare, e poi vi tuffate con nonchalance nel plurale. Io proprio non vi.» Maria Simona sorrise nel farglielo notare, non solo con gli occhi ma anche con un lieve tremolio del doppio mento.

«In verità non sono certissima del maggiordomo.» Il tè veniva servito proprio in quel momento, con sincero disappunto di Dmitrij Volgov e di Scettico Blues. Entrambi detestavano quella bevanda, preferendole l’uno la vodka e l’altro il cognac, a qualsiasi ora. «Erano almeno quattro gli altri collaboratori licenziati: la femme de chambre, la guardarobiera, la cuoca, il giardiniere... E forse ne dimentico qualcuno. Tu che ne dici, Maya?»

«Sarebbe troppo facile, è un pensiero assennato ma proprio per questo imperdonabilmente kitsch. Mi chiederei, invece, perché mai il nostro amico avesse rinunciato, di punto in bianco, al personale domestico. Possibile che la sua ideologia lo avesse condotto a tanto?»

L’esule e lo scettico ottennero vodka e cognac e assunsero entrambi una postura più rilassata. Fu il secondo a prendere la parola, tra un sorso e l’altro:

«Non definirei ideologiai debiti di gioco.»

Naturalmente, tutti sapevano tutto di tutti. Altrettanto naturalmente, tutti sapevano che certe inclinazioni esigono di essere sottaciute. Poco naturalmente, furono tutti felici per l’infrazione di quel tabù. La vedova Arianoska cercò di nascondere l’eccitazione invitando chi lo desiderasse a spostarsi nella sala del fumo. Vi convennero tutti, compresi coloro che non avevano mai sfiorato un avana, una pipa o una sigaretta.

«Era così indebitato da arrivare a?»

La domanda era di quelle che preludono, più che a una risposta, a un monologo d’autore. Scettico Blues scelse la poltrona più vicina al caminetto, si accese una Reemtsma e alternò a ogni boccata un sorso di Frapin.

«Il denaro ha più poteri di qualsiasi tiranno, e il gioco d’azzardo è uno dei suoi sicari più efficienti. Kuroski era un buon giocatore. Sapeva perdere con dignità. Perdere con dignità significa tornare e ritornare sul campo di battaglia, nel suo caso il tavolo verde, come un Napoleone stregato dall’ossessione della rivincita. Voi vi chiederete: che cosa c’è di dignitoso nel suicidio di un perdente? Io vi rispondo: nulla è più dignitoso della morte. La morte è un cosmetico che cancella ogni ruga di disonore, di casinò, di Waterloo. Il poeta è vissuto grazie al denaro ed è morto quando il denaro è finito: ciò non toglie nulla al vigore della sua poesia. Dico bene, Santer?» (Santer, il critico letterario, stava fumando il suo Hoyo de Monterrey un po’ in disparte, in piedi accanto al quadro di un’eccentrica pittrice polacca, e non mostrò di gradire quel riferimento così diretto e immotivato alla sua persona: tanto più quando si avvide dei molti sguardi puntati su di lui). «Ma, riconosciuto al denaro il ruolo che gli compete, resta un insolubile dilemma sulle modalità del decesso. Cosa risulta dall’autopsia? Il responso parla di “sospetta ingestione di idrato di cloralio in associazione con rilevante quantità di alcol”. Sulla quantità di alcol si può convenire senza riserve: Kuroski era un esperto estimatore di acquaviti scozzesi e altre delizie ad alta gradazione (come molti di noi, del resto); c’è solo da meravigliarsi, ma solo fino a un certo punto, di quanto fosse scadente l’etichetta della bottiglia vuota rotolata sotto il letto. Etichetta che la dice lunga sullo stato delle sue finanze. Ma l’idrato di coralio? Che tracce lascia l’idrato di coralio nel corpo umano? Kuroski ne faceva uso? A qualcuno risulta che soffrisse d’insonnia? E poi: suicidio o accidente? Era davvero così dignitoso da cercare rivalsa e redenzione nel sonno dei sonni? La parola ai giurati.»

In tanti si accinsero a parlare, ma l’ex danzatrice ebbe il sopravvento persino sulla stridente vocalità della signora Godin. Non perché gridasse di più, ma per la sensualità della sua raucedine, che bastò da sola a calamitare l’attenzione collettiva. «Poeta è qualcuno che ha molti segreti, ma invece di tenerseli per sé li distilla, per così dire, in forma di versi. La segretezza rimane, se si indulge all’ermetismo; ma a saper decifrare la vodka non è impossibile risalire ai cereali e alle patate. La poesia di Kuroski può dirci della sua morte molto più di una sciocca autopsia.»

Di nuovo gli sguardi – alcuni educatamente furtivi, altri platealmente diretti – si volsero su Santer. Chi meglio d’un critico professionista, e di quel calibro poi!, avrebbe potuto azzardare con maggior autorevolezza la necroscopia letteraria dell’eminente cadavere?

Dall’alto della sua statura fisica e morale, l’interpellato disse la sua. «La verità è che Kuroski si è suicidato molto prima di morire. La sua ultima opera, Astio, è talmente al di sotto del Kuroski a noi più caro da sembrare il balbettio di un dilettante.»

Nessuno lo aveva dichiarato in modo esplicito, ma Santer aveva i requisiti giusti per essere considerato il principale indiziato di quel suicidio – volontario o accidentale che fosse. La sua stroncatura di Astio, in prima pagina sull’Araldo di Vanuria, aveva suscitato scalpore. Maya non andò troppo per il sottile: «Dottor Santer, vi siete chiesto come mai siete stato l’unico ad esprimere un dissenso così netto sull’ultima fatica di Kuroski?»

«Non dovete chiederlo a me ma a Kuroski in persona. Il suo lavoro parla da sé. Vi cito l’ultimo verso della raccolta, è più eloquente di qualsiasi giudizio critico: Ostia mi offro all’astio da osteria

Un mormorio – o, più precisamente, un mugugno corale – serpeggiò nel gruppo. L’ex danzatrice ritornò all’attacco:

«Santer, non è da voi servirvi di una citazione tanto sleale. Avete usato la traduzione italiana, appena pubblicata, per bastonare l’originale. Ammettetelo: è come sparare su Puškin  per interposta persona.»

«Puškin? Con tutto il rispetto per Kuroski, credo sia doveroso ristabilire certe distanze. E non è questione di traduzioni, sonorità e barocchismi: l’ultimo Kuroski è un concentrato di nichilismo, disfattismo e, lasciatemelo dire, di retroguardia. Non solo il lettore sensibile, ma l’intera Vanuria ne esce ferita nel profondo. Ma se preferite una citazione più schietta, posso leggervene una che parla apertamente di suicidio... Signora Arianoska, vi dispiacerebbe procurarmi una copia del libro?» Nell’attesa del libro, Santer precisò che il tema delle osterie, delle trattorie, dei luoghi pubblici, ricorreva spesso in Astio, come un’ossessione. Avuto il volumetto tra le mani, lo compulsò nervosamente fino a trovare la pagina che tanto lo aveva scandalizzato:

«Eccola qua: si intitola Passaggio.» Si schiarì la voce e poi:

«Millenario settembre, celebriamo i tuoi ultimi
fasti: ti annegheremo in botti di Merlot.
Già danno ottobre presso alla frontiera,
grasso bandito dagli anelli d’oro:
ottobre coi suoi sigari di rame, il doppio
mento, i riccioli, il gilet
di foglie rosse: ottobre rococò.

Le neutre geometrie di mille Düsseldorf
all’improvviso indulgono a imbiondirsi
in un raptus di birra e di lamé.

Asmatico il respiro in trattorie si sgretola
in detriti di conversazione: brumose
allusioni, mezze confessioni, anguille,
fughe in falsetto, troppo aglio forse
tra i funghi e nello spirito. L’autunno
fra le stagioni è la più scoscesa; per rapido
pendio precipita i suoi adepti.
L’umanità si crolla addosso come
una castagna sopra l’altra, si apre
suicida alla caligine del cuore.»

Calcò pesantemente la voce sulla parola «suicida». Chiuse il libro di scatto, come a volerne umiliare i contenuti.

«Temo di non capire dove volete arrivare. State accusando Kuroski di antipatriottismo?», domandò il pallido Zabro, precoce poeta tenebroso. Nessuno, a parte madame Arianoska, si era accorto del suo arrivo; ed era stato in silenzio tutto il tempo. Aveva occhi più grandi di quanto bastasse alla gracilità del volto e dell’intera figura.

«Lo ripeto: io non accuso nessuno. I poeti si confessano da sé, e la confessione di Kuroski è talmente sincera, nella sua brutalità, da sfiorare il tradimento.»

«Tradimento di quali valori?», incalzò il giovane, di cui non era passata inosservata, nelle ultime settimane, la crescente avversione per i saloni da barba. «A chi o a cosa si riferisce, secondo voi, l’astio da osteria

«Mi pare evidente lo sprezzo del poeta nei confronti degli attuali movimenti libertari e dei relativi dibattiti, che si svolgono in assoluta trasparenza, alla luce del giorno, in luoghi aperti al pubblico. Non c’è né astio né cospirazione in quei raduni.»

«Vi partecipate anche voi?»

«Talvolta. Credo sia mio dovere – di cittadino, prima ancora che di giornalista – rendermi conto di persona dei fenomeni in corso. Quella gente, giovani più o meno della vostra età, discute liberamente di valori spirituali da riportare in auge; e suggella quei convivii con manifestazioni di candida e ardente allegria, anche canora.»

«Sapete perché sono arrivato in ritardo a questa riunione?» (Zabro non era un campione di puntualità, per cui gli astanti sorrisero). «Questa mattina, di buonora, sono stato fermato da una coppia di gendarmi mentre passeggiavo nei giardini di stato.» (Gli astanti giudicarono incongrua quella notizia). «Mi hanno trattenuto in questura fino alle cinque del pomeriggio.» (Ben ti sta, pensò il critico Santer). «Mi hanno tempestato di domande assurde, reiterate; terminato l’interrogatorio mi hanno rinchiuso in una cella maleodorante. Per fortuna mi è stato concesso, sul tardi, di fare una telefonata: che sia breve, hanno detto. Devo al tempestivo intervento di un’amica, la signora Arday, la fine di quel supplizio e il ritorno all’aria aperta.» (La signora Arday: attrice anche lei. Possibile, pensò qualcuno, che i poeti non possano fare a meno delle attrici?)

«Sono turbato dal vostro racconto», disse Santer, che non sembrava turbato affatto. «Ma non scorgo alcun nesso plausibile tra l’increscioso contrattempo in cui siete incorso e l’astio di cui scrive Kuroski.»

«Davvero? Non è un mistero per nessuno la contiguità fra i libertari, come voi li definite, e le forze armate, gendarmeria inclusa.»

Era troppo. La padrona di casa intervenne senza ulteriori indugi per spianare sul nascere la piega presa da una conversazione fondata su ben altri presupposti. Scampanellò vivacemente per convocare il maggiordomo e, non appena il signor Merle fu comparso sulla soglia, gli comandò qualcosa con un semplice cenno. Ai convenuti annunciò, con festosità eccessiva, l’imminente aperitivo serale, a base di champagne, vol-au-vent e l’immancabile charlotte russe. Santer si scusò con lei: lo aspettavano a una cena di stato e temeva di far tardi. La ringraziò per l’accoglienza «amabilissima come sempre» e, con un baciamano, si fece accompagnare alla porta.

Neanche Zabro, più pallido di com’era venuto, sembrava aver tempo sufficiente per il rito in arrivo. Compilò qualcosa in gran fretta sul suo taccuino; strappò la paginetta, la ripiegò in quattro e la fece scivolare, in modo furtivo, tra le mani di Maya. Accampò subito dopo un pretesto, improvvisato all’istante senza troppa fantasia, per congedarsi a sua volta; altrettanto patetica risultò la protesta di madame Arianoska, espressa con entusiasmo inferiore ai suoi consueti parametri: «Oddio, ma è l’ora del désir! Mio giovane amico, avevate sempre detto che!»

Zabro se ne uscì di scena con le mani affondate nelle tasche del paletot, contegno che seminò nell’assemblea sentimenti diversi: dall’irrigidimento di alcuni al sorriso condiscendente di altri. La studiosa di spiritismo assunse un’espressione talmente preoccupata da sembrare una forma di panico. Maya lesse il messaggio ricevuto senza dar troppo nell’occhio. Sul foglietto, stilato con grafia rapida e nervosa, era scritto: «Un giorno cercheranno la Vanuria sugli atlanti senza trovarla. Siamo troppo piccoli e irrilevanti per lasciare qualcosa di significativo alla posterità. Scompariremo con la nostra lingua, le nostre illusioni e il nostro passato. Non ditelo a nessuno.»

«Ci mancava anche la politica», osservò l’esule Dmitrij con un’alzata di sopracciglio. «Sarebbe indiscreto chiedervi il nome del vostro sarto, Maya?»

Maya sollevò gli occhi dal foglietto appallottolandolo nel palmo di una mano. Rispose meccanicamente, come se la propria voce arrivasse dal lampadario o dalla tappezzeria floreale della stanza. «Non è un surrogato alla garçonne ciò che indosso stasera, se è questo che vi preme sapere. È un autentico due pezzi da gentiluomo, acquistato a Londra in un negozio di Regent Street. La camicia è di scuola napoletana. Il gilet e la cravatta li ho disegnati io, ispirandomi al futurismo italiano. Le scarpe...»

«...grazie, basta così. Mi chiedevo, per l’appunto, se il vostro abbigliamento fosse di manifattura maschile o femminile.»

«Ha importanza per voi?», chiese Maya con uno spruzzo di malizia molto femminile.

«In realtà non è la moda a interessarmi, quanto la vostra sicurezza. Pensate che ai libertari, come li chiama l’impareggiabile Santer, stia davvero a cuore la libertà? La libertà degli altri, intendo.»

«Champagne!», esclamò Maria Simona con un vigoroso battito di mani. «Lasciamo la politica fuori dalla. Per cortesia. Ne abbiamo già avuta fin troppa, oggi. Non?»

«D’accordo», disse Dmitrij. «Ma voi, Maria Simona, sembravate ansiosa di scoprire chi e perché abbia soppresso il nostro poeta. Possiamo davvero permetterci il lusso di escluderlo, il movente politico?»

«Voilà, eccoci arrivati al capitolo complotti! Basta con queste fantasie, vi prego. Brindiamo alla memoria di!»

E dopo aver brindato alla memoria di, si giunse alla seconda fase dei commiati. I Godin salutarono per primi. Poi fu la volta di Gualtieri, lo Scettico Blues. Dmitrij Volgov aiutò Maya a indossare la sua giacca londinese. «Non vi ho mai chiesto se eravate nei Ballets Russes», sussurrò con un sorriso velato di nostalgia.

«No, ma ho ballato con Nižinskij, una volta. Un tango argentino. A Parigi, in un salone d’albergo.»

«Dicono che concedesse volentieri un giro di danza a chiunque glielo chiedesse. Naturalmente non è vero. Le leggende fanno presto a prendere il volo sulla realtà, specialmente quando la realtà tende a incupirsi. Deve aver ballato un tango anche con Rudolph Valentino, secondo la vox populi.»

«Non saprei. Posso dirvi però che con Valentino ci ho danzato io. Era un tango anche quello. Spero di non passare per bugiarda.»

«Vi adorerei anche se lo foste.» Poi si rivolse alla spiritista triste, prendendole una mano tra le sue. «Perdonatemi. Dev’essermi sfuggito il vostro nome, quando ci hanno presentati.»

«Sarah Rosenstein», rispose lei con un filo di voce.

«Buona fortuna.»

Fuori, la pioggia cominciava a suonare il suo jazz sui tetti dei taxi.


© Pasquale Barbella




I 100 migliori film degli anni ’30

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A che servono queste liste.

Arbitrarie come sono, non servono certo a stabilire un inflessibile canone di qualità. Servono, piuttosto, a un ripasso della storia del cinema; io le compilo per fare delle ricerche, riportare alla mente ricordi sbiaditi, prendere nota di qualche film che altri hanno dato per buono ma che non ho visto e al quale vorrei dare un’occhiata. Sì, in questi elenchi ho messo anche cose non viste! Lo so che suona male, ma poi vi spiego perché.

C’è una graduatoria, ma va presa con le pinze. Diciamo tra i più quotati ci sono, più o meno, le mie passioni personali. Il resto è un mix fra il giudizio degli storici, la nostalgia e la curiosità (è qui che c’è qualcosa che mi riprometto di vedere o rivedere). Ho tenuto conto anche dell’innovazione tecnica: ai primissimi posti c’è la Biancaneve di Disney perché è il primo lungometraggio interamente animato, e poi è a colori (prima del 1937, a colori c’erano solo i corti). Il successo commerciale è stato tenuto in parziale considerazione, così come i punteggi medi pubblicati nell’Internet Movie Database: ma invano cerchereste qui Il mago di Oz, valutato molto positivamente da Imdb, perché è un film che ho sempre trovato stomachevole a parte la canzone Over the Rainbow. Similmente, se e quando compilerò le liste del nuovo millennio, mi prenderò la libertà di ignorare le saghe di Harry Potter, del Signore degli Anelli e altre meraviglie del genere, perché il fantasy non lo reggo. Il fantasy è come la cotenna di maiale: a tanti piace, a me no. Non ho invece pregiudizi sulla fantascienza.

Se volete arrabbiarvi un po’ con altre liste di questa serie, eccone i link:


I 100 migliori film degli anni ’30.

La graduatoria parte del basso.

100 - Il signor Max. Regia: Mario Camerini. Sceneggiatura: Mario Camerini, Mario Soldati, Amleto Palermi. Fotografia: Anchise Brizzi. Musica: Renzo Rossellini. Interpreti: Vittorio De Sica, Assia Noris, Rubi D’Alma, Lilia Dale, Caterina Collo, Umberto Melnati. Italia, 1937.

99 - Westfront 1918: Vier von der Infanterie (Westfront). Regia: Georg Wilhelm Pabst. Sceneggiatura: Ladislaus Vajda, Peter Martin Lampel, da un romanzo di Ernst Johannsen. Fotografia: Charles Métain, Fritz Arno Wagner. Musica: Alexander Laszlo. Interpreti: Fritz Kampers, Gustav Diessl, Hans-Joachim Möbis. Germania, 1930.

98 - Animal Crackers. Regia: Victor Heerman. Sceneggiatura: Morrie Ryskind. Fotografia: George J. Folsey. Musica: Max Reese. Interpreti: Groucho Marx, Harpo Marx, Chico Marx, Zeppo Marx, Lillian Roth, Margaret Dumont. USA, 1930.

97 - Gli uomini, che mascalzoni... Regia: Mario Camerini. Sceneggiatura: Mario Camerini, Aldo De Benedetti, Mario Soldati. Fotografia: Domenico Scala, Massimo Terzano. Musica: Cesare Andrea Bixio. Interpreti: Lia Franca, Vittorio De Sica, Cesare Zoppetti, Aldo Moschino. Italia, 1932.

96 - Queen Christina (La regina Cristina). Regia: Rouben Mamoulian. Sceneggiatura: S.N. Behrman, H.M. Harwood, Ben Hecht, Margaret P. Leving, Salka Viertel. Fotografia: William Daniels. Musica: Herbert Stothart. Interpreti: Greta Garbo, John Gilbert, Ian Keith, Lewis Stone. USA, 1933.

95 - Broken Lullaby (L’uomo che ho ucciso). Regia: Ernst Lubitsch. Sceneggiatura: Samson Raphaelson, Ernest Vajda, Reginald Berkeley, da un dramma di Maurice Rostand. Fotografia: Victor Milner. Musica: W. Franke Harling. Interpreti: Lionel Barrymore, Nancy Carroll, Phillips Holmes, Louise Carter. USA, 1932.

94 - Monkey Business. Regia: Norman Z. McLeod. Sceneggiatura: S.J. Perelman, Will B. Johnstone, Arthur Sheekman, Al Shean, J. Carver Pusey. Fotografia: Arthur L. Todd. Musica: John Leipold, Ralph Rainger. Interpreti: Groucho Marx, Harpo Marx, Chico Marx, Zeppo Marx, Rockliffe Fellowes, Harry Woods. USA, 1931.

93 - La signora di tutti. Regia: Max Ophüls. Sceneggiatura: Max Ophüls, Curt Alexander, Hans Wilhelm, dal romanzo di Salvatore Gotta. Fotografia: Ubaldo Arata. Musica: Daniele Amfitheatrof. Interpreti: Isa Miranda, Memo Benassi, Tatyana Pavlova, Friedrich Benfer. Italia, 1934.

92 - Otona no miru ehon - Umarete wa mita keredo (Sono nato, ma...). Regia: Yasujirô Ozu. Sceneggiatura: Akira Fushimi, Geibei Ibushiya, Yasujirô Ozu. Fotografia: Hideo Shigehara. Musica: Donald Sosin. Interpreti: Tatsuo Saitô, Tomio Aoki, Mitsuko Yoshikawa. Giappone, 1932.

91 - A Star Is Born (è nata una stella). Regia: William A. Wellman. Sceneggiatura: William A. Wellman, Robert Carson, Dorothy Parker, Alan Campbell, Ben Hecht, Ring Lardner Jr., John Lee Mahin, Budd Schulberg. Fotografia: W. Howard Greene. Musica: Max Steiner. Interpreti: Janet Gaynor, Fredric March, Adolphe Menjou, May Robson, Andy Devine, Lionel Stander. USA, 1937.

90 - 20th Century (XX secolo). Regia: Howard Hawks. Sceneggiatura: Ben Hecht, Charles MacArthur, da un lavoro teatrale di Charles Bruce Millholland. Fotografia: Joseph H. August. Interpreti: John Barrymore, Carole Lombard, Walter Connolly. USA, 1934.

89 - Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme). Regia: Leontine Sagan, Carl Froelich. Sceneggiatura: Christa Winsloe, Friedrich Damman. Fotografia: Reimar Kuntze, Franz Weihmayr. Musica: Hanson Milde-Meissner. Interpreti: Hertha Thiele, Dorothea Wieck, Emilia Unda. Germania, 1931.

88 - Lo squadrone bianco. Regia: Augusto Genina. Sceneggiatura: Augusto Genina, Joseph Peyré, Gino Rocca, Gino Valori, dal romanzo di Joseph Peyré. Fotografia: Anchise Brizzi, Massimo Terzano. Musica: Antonio Veretti. Interpreti: Fulvia Lanzi, Francesca Dalpe, Fosco Giachetti, Antonio Centa, Guido Celano. Italia, 1936.

87 - Dr. Jekyll and Mr. Hyde (Il dottor Jekyll). Regia: Rouben Mamoulian. Sceneggiatura: Samuel Hoffenstein, Percy Heath, da Robert Louis Stevenson. Fotografia: Karl Struss. Interpreti: Fredric March, Miriam Hopkins, Rose Hobart. USA, 1931.

86 - à nous la liberté(A me la libertà). Regia: René Clair. Sceneggiatura: René Clair. Fotografia: Georges Périnal. Musica: Georges Auric. Interpreti: Henri Marchand, Raymond Cordy, Rolla France. Francia, 1931.

85 - Gunga Din. Regia: George Stevens. Sceneggiatura: Joel Sayre, Fred Guiol, Ben Hecht, Charles MacArthur, Lester Cohen, John Colton, William Faulkner, Vincent Lawrence, Dudley Nichols, Anthony Veiller, da un poema di Rudyard Kipling. Fotografia: Joseph H. August. Musica: Alfred Newman. Interpreti: Cary Grant, Victor McLaglen, Douglas Fairbanks Jr., Sam Jaffe, Eduardo Ciannelli, Joan Fontaine. USA, 1939.

84 - The Invisible Man (L’uomo invisibile). Regia: James Whale. Sceneggiatura: R.C. Sherriff, da H.G. Wells. Fotografia: Arthur Edeson. Musica: Heinz Roemheld. Interpreti: Claude Rains, Gloria Stuart, William Harrigan, Henry Travers, Una O’Connor. USA, 1933.

83 - Ukikusa monogatari (Storie di erbe fluttuanti). Regia: Yasujirô Ozu. Sceneggiatura: Tadao Ikeda, Yasujirô Ozu. Fotografia: Hideo Shigehara. Interpreti: Takeshi Sakamoto, Chôko Iida, Kôji Mitsui. Giappone, 1934.

82 - Jezebel (Figlia del vento). Regia: William Wyler. Sceneggiatura: Clements Ripley, Abem Finkel, John Huston, Robert Buckner, da Owen Davis. Fotografia: Ernest Haller. Musica: Max Steiner. Interpreti: Bette Davis, Henry Fonda, George Brent, Margaret Lindsay, Donald Crisp. USA, 1938.

81 - Baby Face. Regia: Alfred E. Green. Sceneggiatura: Gene Markey, Kathryn Scola, da un soggetto di Darryl F. Zanuck. Fotografia: James Van Trees. Interpreti: Barbara Stanwyck, George Brent, Donald Cook. USA, 1933.

80 - The Petrified Forest (La foresta pietrificata). Regia: Archie Mayo. Sceneggiatura: Charles Kenyon, Delmer Daves, da un soggetto di Robert E. Sherwood. Fotografia: Sol Polito. Musica: Leo F. Forbstein. Interpreti: Leslie Howard, Bette Davis, Genevieve Tobin, Dick Foran, Humphrey Bogart. USA, 1936.

79 - Urlaub auf Ehrenwort (Sei ore di permesso). Regia: Karl Ritter. Sceneggiatura: Charles Klein, Felix Lützkendorf, Walter Bloem, da un romanzo di Kilian Koll. Fotografia: Günther Anders. Musica: Ernst Erich Buder. Interpreti: Ingeborg Theek, Iwa Wanja, Rolf Möbius, Fritz Kampers. Germania, 1938.

78 - Pygmalion (Pigmalione). Regia: Anthony Asquith, Leslie Howard. Sceneggiatura: W.P. Lipscomb, Cecil Lewis, dalla commedia di George Bernard Shaw. Fotografia: Harry Stradling. Musica: Arthur Honegger. Interpreti: Leslie Howard, Wendy Hiller, Wilfrid Lawson, Marie Lohr. Regno Unito, 1938.

77 - 42nd Street (Quarantaduesima strada). Regia: Lloyd Bacon. Sceneggiatura: Rian James, James Seymour, Whitney Bolton, da Bradford Ropes. Fotografia: Sol Polito. Musica: Harry Warren. Interpreti: Ginger Rogers, Dick Powell, Warner Baxter, Bebe Daniels, George Brent. USA, 1933.

76 - Captains Courageous (Capitani coraggiosi). Regia: Victor Fleming. Sceneggiatura: John Lee Mahin, Marc Connelly, Dale Van Every, da Rudyard Kipling. Fotografia: Harold Rosson. Musica: Franz Waxman. Interpreti: Freddie Bartholomew, Spencer Tracy, Lionel Barrymore, Melvyn Douglas, Charley Grapewin, Mickey Rooney, John Carradine. USA, 1937.

75 - My Man Godfrey (L’impareggiabile Godfrey). Regia: Gregory La Cava. Sceneggiatura: Morrie Ryskind, Eric Hatch. Fotografia: Ted Tetzlaff. Musica: Charles Previn, Rudy Schrager. Interpreti: William Powell, Carole Lombard, Alice Brady. USA, 1936.

74 - Make Way for Tomorrow (Cupo tramonto). Regia: Leo McCarey. Sceneggiatura: Viña Delmar, da un romanzo di Josephine Lawrence. Fotografia: William C. Mellor. Musica: George Antheil, Victor Young. Interpreti: Victor Moore, Beulah Bondi, Fay Bainter, Thomas Mitchell, Porter Hall. USA, 1937.

73 - Shanghai Express. Regia: Josef von Sternberg. Sceneggiatura: Jules Furthman. Fotografia: Lee Garmes, James Wong Howe. Musica: W. Franke Harling. Interpreti: Marlene Dietrich, Clive Brook, Anna May Wong, Warner Oland. USA, 1932.

72 - Only Angels Have Wings (Avventurieri dell’aria). Regia: Howard Hawks. Sceneggiatura: Jules Furthman. Fotografia: Joseph Walker. Musica: Dimitri Tiomkin. Interpreti: Cary Grant, Jean Arthur, Richard Barthelmess, Rita Hayworth, Thomas Mitchell. USA, 1939.

71 - The Adventures of Robin Hood (La leggenda di Robin Hood). Regia: Michael Curtiz, William Keighley. Sceneggiatura: Norman Reilly Raine, Seton I. Miller. Fotografia: Sol Polito, Tony Gaudio, Howard Green. Musica: Eric Wolfgang Korngold. Interpreti: Errol Flynn, Olivia de Havilland, Basil Rathbone, Claude Rains, Patric Knowles, Eugene Pallette, Alan Hale. USA, 1938.

70 - Sous les toits de Paris (Sotto i tetti di Parigi). Regia: René Clair. Sceneggiatura: René Clair. Fotografia: Georges Périnal, Georges Raulet. Musica: Raoul Moretti, Vincent Scotto. Interpreti: Albert Préjean, Pola Illéry, Edmond T. Gréville, Bill Bocket, Gaston Modot. Francia, 1930.

69 - All Quiet on the Western Front (All’ovest niente di nuovo). Regia: Lewis Milestone. Sceneggiatura: Maxwell Anderson, George Abbott, Del Andrews, C. Gardner Sullivan, Walter Anthony, Lewis Milestone, dal romanzo di Erich Maria Remarque. Fotografia: Arthur Edeson, Karl Freund. Interpreti: Louis Wolheim, Lew Ayres, John Wray. USA, 1930.

68 - Hell’s Angels (Gli angeli dell’inferno). Regia: Howard Hughes, Edmund Goulding, James Whale. Sceneggiatura: Harry Behn, Howard Estabrook, Joseph Moncure March, Marshall Neilan. Fotografia: Elmer Dyer, Tony Gaudio, Harry Perry, E. Burton Steene, Dewey Wrigley, Harry Zech. Musica: Hugo Riesenfeld. Interpreti: Ben Lyon, James Hall, Jean Harlow, John Darrow. USA, 1930.

67 - These Three (La calunnia). Regia: William Wyler. Sceneggiatura: Lillian Hellman. Fotografia: Gregg Toland. Musica: Alfred Newman. Interpreti: Miriam Hopkins, Merle Oberon, Joel McCrea, Catherine Doucet, Alma Kruger. USA, 1936.

66 - Mutiny on the Bounty (Gli ammutinati del Bounty). Regia: Frank Lloyd. Sceneggiatura: Talbot Jennings, Jules Furthman, Carey Wilson. Fotografia: Arthur Edeson, Charles G. Clarke, Sidney Wagner. Musica: Herbert Stothart. Interpreti: Charles Laughton, Clark Gable, Franchot Tone, Herbert Mundin, Eddie Quillan. USA, 1935.

65 - Dracula. Regia: Tod Browning. Sceneggiatura: Dudley Murphy, Garrett Fort, da Bram Stoker. Fotografia: Karl Freund. Interpreti: Bela Lugosi, David Manners, Helen Chandler. USA, 1931.

64 - Grand Hotel. Regia: Edmund Goulding. Sceneggiatura: Béla Balázs, William A. Drake, da un romanzo di Vicki Baum. Fotografia: William H. Daniels. Musica: William Axt, Charles Maxwell. Interpreti: Greta Garbo, John Barrymore, Joan Crawford, Wallace Beery, Lionel Barrymore, Lewis Stone, Jean Hersholt. USA, 1932.

63 - Tabu: A Story of the South Seas (Tabù). Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Sceneggiatura: Friedrich Wilhelm Murnau, Robert J. Flaherty, Edgar G. Ulmer. Fotografia: Robert J. Flaherty, Floyd Crosby. Musica: Hugo Riesenfeld. Interpreti: Matahi, Anne Chevalier, Bill Bambridge. USA, 1931.

62 - Indiscreet. Regia: Leo McCarey. Sceneggiatura: Buddy G. DeSylva, Lew Brown, Ray Henderson. Fotografia: Ray June, Gregg Toland. Interpreti: Gloria Swanson, Ben Lyon, Monroe Owsley, Barbara Kent. USA, 1931.

61 - The Champ (Il campione). Regia: King Vidor. Sceneggiatura: Frances Marion. Fotografia: Gordon Avil. Interpreti: Wallace Beery, Jackie Cooper, Irene Rich. USA, 1931.

60 - Captain Blood (Capitan Blood). Regia: Michael Curtiz. Sceneggiatura: Casey Robinson, da Rafael Sabatini. Fotografia: Ernest Haller, Hal Mohr. Musica: Eric Wolfgang Korngold. Interpreti: Errol Flynn, Olivia de Havilland, Basil Rathbone, Lionel Atwill. USA, 1935.

59 - Aleksandr Nevskij (Alessandro Nevskij). Regia: Sergej Ėjzenštejn, Dmitrij Vasiljev. Sceneggiatura: Sergej Ėjzenštejn, Pëtr Pavlenko. Fotografia: Eduard Tisse. Musica: Sergej Prokof’ev. Interpreti: Nikolaj Čerkasov, Nikolai Okhlopkov, Andrej Abrikosov. URSS, 1938.

58 - The Public Enemy (Nemico pubblico). Regia: William A. Wellman. Sceneggiatura: Harvey F. Thew, Kubec Glasmon, John Bright. Fotografia: Devereaux Jennings. Interpreti: James Cagney, Jean Harlow, Edward Woods, Joan Blondell. USA, 1931.

57 - Dinner at Eight (Pranzo alle otto). Regia: George Cukor. Sceneggiatura: Frances Marion, Herman J. Mankiewicz. Fotografia: William H. Daniels. Musica: William Axt. Interpreti: Marie Dressler, John Barrymore, Wallace Beery, Jean Harlow, Lionel Barrymore. USA, 1933.

56 - Bringing up Baby (Susanna). Regia: Howard Hawks. Sceneggiatura: Dudley Nichols, Hagar Wilde. Fotografia: Russell Metty. Musica: Roy Webb. Interpreti: Katharine Hepburn, Cary Grant, Charles Ruggles, Walter Catlett, Barry Fitzgerald, May Robson. USA, 1938.

55 - Pépé-le-Moko (Il bandito della casbah). Regia: Julien Duvivier. Sceneggiatura: Henri La Barthe, Julien Duvivier, Jacques Constant, Henri Jeanson, dal romanzo di Henri La Barthe. Fotografia: Marc Fossard, Jules Kruger. Musica: Vincent Scotto, Mohamed Ygerbuchen. Interpreti: Jean Gabin, Gabriel Gabrio, Saturnin Fabre. Francia, 1937.

54 - Dead End (Strada sbarrata). Regia: William Wyler. Sceneggiatura: Lillian Hellman, da una pièce di Sidney Kingsley. Fotografia: Gregg Toland. Musica: Alfred Newman. Interpreti: Sylvia Sidney, Joel McCrea, Humphrey Bogart, Wendy Barrie, Claire Trevor. USA, 1937.

53 - Of Mice and Men (Uomini e topi). Regia: Lewis Milestone. Sceneggiatura: Eugene Solow, dal romanzo di John Steinbeck. Fotografia: Norbert Brodine. Musica: Aaron Copland. Interpreti: Burgess Meredith, Betty Field, Lon Chaney Jr., Charles Bickford. USA, 1939.

52 - La Kermesse héroïque (La kermesse eroica). Regia: Jacques Feyder. Sceneggiatura: Bernard Zimmer, da un soggetto di Charles Spaak. Fotografia: Harry Stradling. Musica: Louis Beydts. Interpreti: Françoise Rosay, André Alerme, Jean Murat, Louis Jouvet. Francia-Germania, 1935.

51 - Zéro de conduite (Zero in condotta). Regia: Jean Vigo. Sceneggiatura: Jean Vigo. Fotografia: Boris Kaufman. Musica: Maurice Jaubert. Interpreti: Jean Dasté, Robert le Flon, Du Verron. Francia, 1933.

50 - Young Mr. Lincoln (Alba di gloria). Regia: John Ford. Sceneggiatura: Lamar Trotti. Fotografia: Bert Glennon, Arthur C. Miller. Musica: Alfred Newman. Interpreti: Henry Fonda, Alice Brady, Marjorie Weaver. USA, 1939.

49 - Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi). Regia: Georg Wilhelm Pabst. Sceneggiatura: Béla Balázs, Léo Lania, Ladislaus Vajda, dalla commedia di Bertolt Brecht. Fotografia: Fritz Arno Wagner. Musica: Kurt Weill. Interpreti: Rudolf Forster, Carola Neher, Reinhold Schünzel, Fritz Rasp, Valeska Gert, Lotte Lenya. Germania, 1931.

48 - The Hunchback of Notre Dame (Notre Dame). Regia: William Dieterle. Sceneggiatura: Sonya Levien, Bruno Frank, dal romanzo di Victor Hugo. Fotografia: Joseph H. August. Musica: Alfred Newman. Interpreti: Charles Laughton, Cedric Hardwicke, Thomas Mitchell, Maureen O’Hara, Edmond O’Brien. USA, 1939.

47 - The Lady Vanishes (La signora scompare). Regia: Alfred Hitchcock. Sceneggiatura: Sidney Gilliat, Frank Launder, da un racconto di Ethel Lina White. Fotografia: Jack E. Cox. Musica: Louis Levy, Charles Williams. Interpreti: Margaret Lockwood, Michael Redgrave, Paul Lukas, Dame May Whitty. Regno Unito, 1938.

46 - Hôtel du Nord (Albergo Nord). Regia: Marcel Carné. Sceneggiatura: Jean Aurenche, Henri Jeanson, da Eugène Dabit. Fotografia: Louis Née, Armand Thirard. Musica: Maurice Jaubert. Interpreti: Annabella, Jean-Pierre Aumont, Arletty, Louis Jouvet, Paulette Dubost. Francia, 1938.

45 - The Women (Donne). Regia: George Cukor. Sceneggiatura: Anita Loos, Jane Murfin, Francis Scott Fitzgerald, da una commedia di Clare Boothe Luce. Fotografia: Oliver T. Marsh, Joseph Ruttenberg. Musica: David Snell, Edward Ward. Interpreti: Norma Shearer, Joan Crawford, Rosalind Russell, Mary Boland, Paulette Goddard, Phyllis Povah, Joan Fontaine. USA, 1939.

44 - After the Thin Man (Dopo l’uomo ombra). Regia: W.S. Van Dyke. Sceneggiatura: Frances Goodrich, Albert Hackett, da un racconto di Dashiell Hammett. Fotografia: Oliver T. Marsh. Musica: Herbert Stothart, Edward Ward. Interpreti: William Powell, Myrna Loy, James Stewart, Elissa Landi, Joseph Calleia. USA, 1936.

43 - The Thin Man (L’uomo ombra). Regia: W.S. Van Dyke. Sceneggiatura: Frances Goodrich, Albert Hackett, da Dashiell Hammett. Fotografia: James Wong Howe. Musica: William Axt. Interpreti: William Powell, Myrna Loy, Maureen O’Sullivan, Nat Pendleton, Minna Gombell. USA, 1934.

42 - Angels with Dirty Faces (Angeli con la faccia sporca). Regia: Michael Curtiz. Sceneggiatura: John Wexley, Warren Duff, da un soggetto di Rowland Brown. Fotografia: Sol Polito. Musica: Max Steiner. Interpreti: James Cagney, Pat O’Brien, Humphrey Bogart, Ann Sheridan, George Bancroft. USA, 1938.

41 - Man of Aran (L’uomo di Aran). Regia: Robert J. Flaherty. Sceneggiatura: Robert J. Flaherty. Fotografia: Robert J. Flaherty. Musica: John Greenwood. Interpreti: Colman “Tiger” King, Maggie Dirrane, Michael Dirrane. Regno Unito, 1934.

40 - Fury (Furia). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Bartlett Cormack, Fritz Lang, da un soggetto di Norman Krasna. Fotografia: Joseph Ruttenberg. Musica: Franz Waxman. Interpreti: Sylvia Sidney, Spencer Tracy, Walter Abel, Bruce Cabot, Edward Ellis, Walter Brennan. USA, 1936.

39 - La Bête humaine (L’angelo del male). Regia: Jean Renoir. Sceneggiatura: Jean Renoir, Denise Leblond, da Émile Zola. Fotografia: Curt Courant. Musica: Joseph Kosma. Interpreti: Jean Gabin, Simone Simon, Fernand Ledoux. Francia, 1938.

38 - Trouble in Paradise (Mancia competente). Regia: Ernst Lubitsch. Sceneggiatura: Samson Raphaelson, Grover Jones, da una commedia di Aladar Laszlo. Fotografia: Victor Milner. Musica: W. Franke Harling. Interpreti: Miriam Hopkins, Kay Francis, Herbert Marshall, Charles Ruggles, Edward Everett Horton. USA, 1932.

37 - The 39 Steps (Il club dei 39). Regia: Alfred Hitchcock. Sceneggiatura: Charles Bennett, Alma Reville, dal romanzo di John Buchan. Fotografia: Bernard Knowles. Musica: Hubert Bath, Jack Beaver, Louis Levy. Interpreti: Robert Donat, Madeleine Carroll, Lucie Mannheim. Regno Unito, 1935.

36 - I Am a Fugitive from a Chain Gang (Io sono un evaso). Regia: Mervyn LeRoy. Sceneggiatura: Howard J. Green, Brown Holmes, Sheridan Gibney, da un soggetto di Robert E. Burns. Fotografia: Sol Polito. Musica: Bernhard Kaun. Interpreti: Paul Muni, Glenda Farrell, Helen Vinson, Noel Francis, Preston Foster. USA, 1932.

35 - The Bride of Frankenstein (La moglie di Frankenstein). Regia: James Whale. Sceneggiatura: John L. Balderston, William Hurlbut. Fotografia: John Mescall. Musica: Franz Waxman. Interpreti: Boris Karloff, Colin Clive, Valerie Hobson, Ernest Thesiger, Elsa Lanchester. USA, 1935.

34 - Un Carnet de bal (Carnet di ballo). Regia: Julien Duvivier. Sceneggiatura: Julien Duvivier, Henri Jeanson, Yves Mirande, Jean Sarment, Pierre Wolff, Bernard Zimmer. Fotografia: Philippe Agostini, Michel Kelber, Pierre Levent. Musica: Maurice Jaubert. Interpreti: Harry Baur, Marie Bell, Pierre Blanchar, Fernandel, Louis Jouvet, Raimu, Françoise Rosay. Francia, 1937.

33 - Wuthering Heights (La voce nella tempesta). Regia: William Wyler. Sceneggiatura: Charles MacArthur, John Huston, Ben Hecht, dal romanzo di Emily Brontë. Fotografia: Gregg Toland. Musica: Alfred Newman. Interpreti: Merle Oberon, Laurence Olivier, David Niven, Flora Robson, Donald Crisp, Geraldine Fitzgerald. USA, 1939.

32 - Frankenstein. Regia: James Whale. Sceneggiatura: Garrett Forth, Francis Edward Faragoh, da Mary Shelley. Fotografia: Arthur Edeson. Musica: Bernhard Kaun. Interpreti: Colin Clive, Mae Clarke, John Boles, Boris Karloff. USA, 1931.

31 - Lost Horizon (Orizzonte perduto). Regia: Frank Capra. Sceneggiatura: Robert Riskin, da James Hilton. Fotografia: Joseph Walker. Musica: Dimitri Tiomkin. Interpreti: Ronald Colman, Jane Wyatt, Edward Everett Horton, John Howard, Thomas Mitchell. USA, 1937.

30 - Scarface (Scarface - Lo sfregiato). Regia: Howard Hawks, Richard Rosson. Sceneggiatura: Ben Hecht, Seton I. Miller, John Lee Mahin, W.R. Burnett, Fred Pasley , dal romanzo di Armitage Trail. Fotografia: Lee Garmes, L.W. O’Connell. Musica: Adolph Tandler, Gus Arnheim. Interpreti: Paul Muni, Ann Dvorak, Karen Morley, Osgood Perkins, George Raft. USA, 1932.

29 - The Informer (Traditore). Regia: John Ford. Sceneggiatura: Dudley Nichols, Liam O’Flaherty. Fotografia: Joseph H. August. Musica: Max Steiner. Interpreti: Victor McLaglen, Heather Angel, Preston Foster, Margot Grahame, Wallace Ford, Una O’Connor. USA, 1935.

28 - 14 Juillet (Per le vie di Parigi). Regia: René Clair. Sceneggiatura: René Clair. Fotografia: Georges Périnal. Musica: Maurice Jaubert. Interpreti: Annabella, George Rigaud, Raymond Cordy, Gaston Modot. Francia, 1933.

27 - L’âge d’or. Regia: Luis Buñuel. Sceneggiatura: Luis Buñuel, Salvador Dalí, dal Marchese de Sade. Fotografia: Albert Duverger. Musica: Luis Buñuel, Georges Van Parys. Interpreti: Gaston Modot, Lya Lys, Caridad de Laberdesque, Max Ernst. Francia, 1930.

26 - Little Caesar (Piccolo Cesare). Regia: Mervyn LeRoy. Sceneggiatura: Francis Edward Faragoh, dal romanzo di W.R. Burnett. Fotografia: Tony Gaudio. Interpreti: Edward G. Robinson, Douglas Fairbanks Jr., Glenda Farrell, William Collier Jr., Sidney Blackmer. USA, 1931.

25 - Lady for a Day (Signora per un giorno). Regia: Frank Capra. Sceneggiatura: Robert Riskin, da Damon Runyon. Fotografia: Joseph Walker. Musica: Howard Jackson. Interpreti: Warren William, May Robson, Guy Kibbee, Glenda Farrell, Ned Sparks. USA, 1933.

24 - Vampyr (Vampyr - Il vampiro). Regia: Carl Theodor Dreyer. Sceneggiatura: Christen Jul, Carl Theodor Dreyer. Fotografia: Rudolph Maté, Louis Née. Musica: Wolfgang Zeller. Interpreti: Julian West, Maurice Schutz, Rena Mandel. Germania, 1932.

23 - Freaks. Regia: Tod Browning. Sceneggiatura: Willis Goldbeck, Leon Gordon, Al Boasberg, Edgar Allan Woolf, da Tod Robbins. Fotografia: Merrit B. Gerstad. Interpreti: Wallace Ford, Olga Baclanova, Leila Hyams. USA, 1932.

22 - Duck Soup (La guerra lampo dei fratelli Marx). Regia: Leo McCarey. Sceneggiatura: Bert Kalmar, Harry Ruby, Arthur Sheekman, Nat Perrin. Fotografia: Henry Sharp. Musica: John Leipold. Interpreti: Groucho Marx, Harpo Marx, Chico Marx, Zeppo Marx, Margaret Dumont. USA, 1933.

21 - King Kong. Regia: Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack. Sceneggiatura: Edgar Wallace, Merian C. Cooper. Fotografia: Edward Linden, Vernon L. Walker, J.O. Taylor, Kenneth Peach. Musica: Max Steiner. Interpreti: Fay Wray, Robert Armstrong, Bruce Cabot. USA, 1933.

20 - You Can’t Take It with You (L’eterna illusione). Regia: Frank Capra. Sceneggiatura: Robert Riskin, da George S. Kaufman e Moss Hart. Fotografia: Joseph Walker. Musica: Dimitri Tiomkin. Interpreti: Jean Arthur, Lionel Barrymore, James Stewart, Edward Arnold, Mischa Auer, Ann Miller. USA, 1938.

19 - Le Jour se lève (Alba tragica). Regia: Marcel Carné. Sceneggiatura: Jacques Prévert, da Jacques Viot. Fotografia: Philippe Agostini, André Bac, Albert Viguier, Curt Courant. Musica: Maurice Jaubert. Interpreti: Jean Gabin, Jules Berry, Arletty, Bernard Blier. Francia, 1939.

18 - Olympia. Documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936. Regia: Leni Riefenstahl. Sceneggiatura: Leni Riefenstahl. Fotografia: Wilfried Basse, Leo De Lafrue, Josef Dietze, E. Epkins, Hans Ertl, Walter Frentz, Hans Karl Gottschalk, Richard Groschopp, Willy Hameister, Wolf Hart, Hasso Hartnagel, Walter Hege, Paul Holzki, Werner Hundhausen, Albert Höcht, Carl Junghans, Herbert Kebelmann, Sepp Ketterer, Albert Kling, Ernst Kunstmann, Leo de Laforgue, Lagorio, E. Lambertini, Guzzi Lantschner, Otto Lantschner, Waldemar Lembke, Georg Lemke, C.A. Linke, Kurt Neubert, Erich Nitzschmann, Albert Schattmann, Hans Scheib, Wilhelm Schmidt, Hugo O. Schulze, Leo Schwedler, Alfred Siegert, W. Siehm, Ernst Sorge, Károly Vass, Andor von Barsy, Eberhard von der Heyden, Fritz von Friedl, Heinz von Jaworsky, Hugo von Kaweczynski, Alexander von Lagorio, H. von Stwolinski, Willy Zielke. Musica: Herbert Windt, Walter Gronostay. Germania, 1938.

17 - Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie). Regia: Marcel Carné. Sceneggiatura: Jacques Prévert, dal romanzo di Pierre Mac Orlan (Pierre Dumarchais). Fotografia: Eugen Schüfftan. Musica: Maurice Jaubert. Interpreti: Jean Gabin, Michel Simon, Michèle Morgan, Pierre Brasseur. Francia, 1938.

16 - A Night at the Opera (Una notte all’opera). Regia: Sam Wood. Sceneggiatura: George S. Kaufman, Morrie Ryskind. Fotografia: Merritt Gerstad. Musica: Herbert Stothart. Interpreti: Groucho Marx, Chico Marx, Harpo Marx, Margaret Dumont. USA, 1935.

15 - Das Testament des Dr. Mabuse (Il testamento del dottor Mabuse). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Thea von Harbou. Fotografia: Karl Vash, Fritz Arno Wagner. Musica: Hans Erdmann, Walter Sieber. Interpreti: Rudolf Klein-Rogge, Gustav Diessl, Rudolf Schündler, Oskar Höcker. Germania, 1933.

14 - Mr. Deeds Goes to Town (è arrivata la felicità). Regia: Frank Capra. Sceneggiatura: Robert Riskin, da un soggetto di Clarence Budington Kelland. Fotografia: Joseph Walker. Interpreti: Gary Cooper, Jean Arthur, George Bancroft, Lionel Stander. USA, 1936.

13 - Der blaue Angel (L’Angelo azzurro). Regia: Josef von Sternberg. Sceneggiatura: Carl Zuckmayer, Karl Wollmöller, Robert Liebmann, dal romanzo Professor Unratdi Heinrich Mann. Fotografia: Günther Rittau. Musica: Friedrich Hollaender. Interpreti: Emil Jannings, Marlene Dietrich, Kurt Gerron, Rosa Valetti, Hans Albers. Germania, 1930.

12 - Mr. Smith Goes to Washington (Mister Smith va a Washington). Regia: Frank Capra. Sceneggiatura: Lewis R. Foster, da Sidney Buchman. Fotografia: Joseph Walker. Musica: Dimitri Tiomkin. Interpreti: Jean Arthur, James Stewart, Claude Rains, Edward Arnold, Guy Kibbee, Thomas Mitchell. USA, 1939.

11 - La Règle du jeu (La regola del gioco). Regia: Jean Renoir. Sceneggiatura: Jean Renoir, Carl Koch. Fotografia: Alain Renoir, Jacques Lemare, Jean Bachelet, Jean-Paul Alphen. Musica: Roger Désormières. Interpreti: Nora Gregor, Paulette Dubost, Mila Parély, Marcel Dalio. Francia, 1939.

10 - La Grande illusion (La grande illusione). Regia: Jean Renoir. Sceneggiatura: Jean Renoir, Charles Spaak. Fotografia: Christian Matras, Claude Renoir, Bourgoin, Bourreaud. Musica: Joseph Kosma. Interpreti: Jean Gabin, Pierre Fresnay, Erich von Stroheim, Dita Parlo, Marcel Dalio, Jean Dasté. Francia, 1937.

9 - L’Atalante. Regia: Jean Vigo. Sceneggiatura: Jean Guinée, Jean Vigo, Albert Riera. Fotografia: Boris Kaufman, Louis Berger. Musica: Maurice Jaubert. Interpreti: Michel Simon, Dita Parlo, Jean Dasté, Jacques Prévert. Francia, 1934.

8 - Modern Times (Tempi moderni). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Rollie Totheroh, Ira Morgan. Musica: Charles Chaplin. Interpreti: Charles Chaplin, Paulette Goddard, Henry Bergman, Chester Conklin. USA, 1936.

7 - It Happened One Night (Accadde una notte). Regia: Frank Capra. Sceneggiatura: Samuel Hopkins Adams, Robert Riskin. Fotografia: Joseph Walker. Musica: Louis Silvers, Howard Jackson. Interpreti: Clark Gable, Claudette Colbert, Walter Connolly, Roscoe Karns. USA, 1934.

6 - Ninotchka. Regia: Ernst Lubitsch. Sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder, Walter Reisch, da un soggetto di Melchior Lengyel. Fotografia: William Daniels. Musica: Werner Heymann. Interpreti: Greta Garbo, Melvyn Douglas, Ina Claire, Bela Lugosi, Sig Ruman. USA, 1939.

5 - Gone with the Wind (Via col vento). Regia: Victor Fleming. Sceneggiatura: Sidney Howard, Ben Hecht, Oliver H. P. Garrett, Jo Swerling, John Van Druten, dal romanzo di Margaret Mitchell. Fotografia: Ernest Haller, Ray Rennahan. Musica: Max Steiner. Interpreti: Clark Gable, Vivien Leigh, Leslie Howard, Olivia De Havilland, Thomas Mitchell. USA, 1939.

4 - Stagecoach (Ombre rosse). Regia: John Ford.Sceneggiatura: Ernest Haycox, Dudley Nichols, Ben Hecht, dalla novella Boule de Suif di Guy de Maupassant. Fotografia: Bert Glennon. Musica: Gerard Carbonara. Interpreti: Claire Trevor, John Wayne, Andy Devine, John Carradine, Thomas Mitchell, George Bancroft. USA, 1939.

3 - Snow White and the Seven Dwarfs (Biancaneve e i sette nani). Film d’animazione della Walt Disney. Regia: Ted Sears, Otto Englander, Richard Creedon, Dick Rickard, Earl Hurd, Merrill De Maris, Dorothy Ann Blank, Webb Smith, dai racconti dei fratelli Grimm. Musica: Frank Churchill, Leigh Harline, Paul Smith. USA, 1937.

2 - M / Eine Stadt sucht einen Mörder (M - Il mostro di Düsseldorf). Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Thea von Harbou, Fritz Lang. Fotografia: Fritz Arno Wagner. Interpreti: Peter Lorre, Ellen Widmann, Inge Landgut, Otto Wernicke, Theodor Loos. Germania, 1931.

1 - City Lights (Luci della città). Regia: Charles Chaplin. Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Rollie Totheroh, Gordon Pollock. Musica: Charles Chaplin, José Padilla. Interpreti: Charles Chaplin, Virginia Cherrill, Florence Lee, Harry Myers. USA, 1931.

Pasquale Barbella





La mosca sullo schermo

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Brucio a grandi passi il corridoio con il solito Bitetto al seguito, al quale ho chiesto tre volte se è sicuro di aver preso l’incartamento giusto e che per tre volte ha risposto sissignore. L’ho strizzato, come se fosse colpa sua, per i ritardi dell’impresa di pulizie, che stanno ancora lavando le scale sebbene siano già le otto e trentuno. La mancanza di decoro mi irrita e oggi dev’essere un giorno particolarmente irritante, perché ho trovato il gabinetto privo di carta igienica e la finestra ancora chiusa. Due agenti mi stanno aspettando con Morello in mezzo. Mi guarda con la sua aria insolente, la barba di tre giorni, la canottiera lercia fuori dai calzoni. Non è la réclame ideale di Felce Azzurra ma che pretendi, qui passa il peggio del peggio. Ordino di smanettarlo e di farlo sedere nel mio ufficio. E che per favore ci portino del caffè. E che prima di togliersi dai piedi gli trovino una cazzo di camicia, siamo mica in un film italiano del dopoguerra. E avanti, muoviamoci. Non ho mai capito perché debbano fermare o arrestare la gente in pigiama, in mutande, una volta addirittura con niente addosso – sì, è capitato anche quello. I ragazzi giustificano la canottiera col fatto che «il soggetto tentava la fuga cercando di calarsi dalla finestra.» Domando se è per questo che zoppica. Rispondono che nossignore, zoppicava anche prima. Morello continua a tenermi d’occhio con il sorriso di chi non ha niente da perdere. Crede di dover affrontare un’esperienza di routine, ma tutto sommato divertente.

Ed eccoci ai due lati della stessa scrivania, io a ripassare i punti essenziali di un dossier che conosco quasi a memoria, lui più stravaccato che seduto, con le braccia incrociate sul torace e i bicipiti in evidenza. Per essere un avanzo di galera i cinquant’anni li porta piuttosto bene, meglio di me di sicuro. Si è fatto tagliare i capelli quasi a zero e, strano per uno come lui, non ha tatuaggi in vista.

Senza alzare gli occhi dalle carte gli chiedo perché zoppica.

«Sono caduto», risponde laconico.

«Per il resto come stai?»

«Di merda», risponde con lo stesso tono che userebbe per dire «benissimo».

Mi sfilo dal naso gli occhiali da lettura e lo guardo in modo più diretto.

«È per via di Susanna?»

La sua donna è scappata con un venditore ambulante di frutta e verdura, l’ultima volta che è stato in cella. Ma ne è passato di tempo. Un anno, almeno.

«Sono cazzi miei. Comunque, se mi capita a tiro...»

«Se ti capita a tiro?»

«Niente.»

Bitetto piazza sulla scrivania due bicchierini di plastica col caffè dell’erogatore e si accomoda alla sua postazione.

«Va bene, su il sipario. Hai diritto a un avvocato, dovresti saperlo.»

«Non mi serve. Non ho fatto niente.»

«La rapina a mano armata è una cosa seria. Sei sicuro di non volere un avvocato?»

«Te l’ho detto, io non c’entro.»

«Bitetto, metta a verbale che gli ho declamato i suoi diritti e che rinuncia alla presenza dell’avvocato durante l’interrogatorio. E veda di trovare quella maledetta camicia, da qualche parte.»

«Non ho bisogno né di avvocati né di camicie.»

«Non lo bevi il caffè?»

«Non è corretto.»

«Non è corretto il caffè o non è corretto che ti abbiamo beccato di nuovo?»

«Non è corretto niente di niente. Facciamola finita, lasciami andare. Mi stanno aspettando.»

«Questa volta i tuoi compari aspetteranno dieci anni. Come minimo.»

«Non ho fatto un cazzo, non mi puoi accusare di niente. E poi non ho nessun compare. Devo andare al lavoro.»

«Abbiamo un lavoro adesso? Dove? Da quando?»

«Sono più disoccupato di un piccione morto. Però vado a vangare orti e a tagliare l’erba nei giardini.»

Bitetto torna con una camiciona stile Hawaii. «Quella se la mette tua sorella», gli dice Morello. La camicia viene impiccata all’attaccapanni. Ci sta per tre secondi, perplessa, poi cade sul pavimento e ci rimane, afflosciata come un grosso fiore marcio.

«Va bene, non perdiamo altro tempo. Morello, sei in stato d’arresto, questo l’hai capito. L’avvocato non lo vuoi, almeno per adesso. La confessione è già pronta: la firmi e la conversazione è finita.»

«La conversazione è finita anche se non firmo. Hai preso l’uomo sbagliato.»

«Il tabaccaio ti ha identificato. Senza la minima esitazione. Nome, cognome, statura, segni particolari, indirizzo. Più preciso di un passaporto. Se ci tieni possiamo fare anche il solito provino: ti sbatto contro il muro con altre quattro comparse e chiedo alla vittima di indicare quale delle cinque preferisce. Il risultato non cambierebbe.»

«Se io facevo una rapina, mi mettevo il passamontagna. E col passamontagna non mi riconosce neanche mia madre buonanima.»

«Infatti il tabaccaio ha detto che quello lì, cioè tu, aveva il passamontagna nero. Però ti ha riconosciuto dalla stazza e dalla voce. La tua voce è inconfondibile, almeno questo devi ammetterlo.» Morello ha una voce dal registro molto grave, da basso profondo, che ogni tanto gli s’ingrippa per la bronchite cronica e sbotta in colpi di tosse. Adesso ride.

«Quello è più scemo che scemo. Se facevo una rapina, mica mi mettevo a imbastire un dialogo da salotto. Con uno che mi conosce, poi. Tu la faresti una rapina nel bar tabacchi dove ci vai a passare delle ore, un giorno sì e un giorno no? Dicendo amabilmente scusi tanto, questa è una rapina, fuori i soldi alla svelta e altre battutine da oratorio, tipo già che c’è può dirmi per favore che ore sono?»

«E quando sei uscito ti ha inseguito e ti ha lanciato la prima cosa che ha trovato a portata di mano, un ombrello. Ti ha preso alle gambe e sei caduto. Ecco perché zoppichi.»

«Questa non fa neanche ridere. Ma chi cazzo te l’ha scritto questo copione da guardie e ladri? Cado e non mi acchiappa nessuno, figurati. A scuola eri il primo della classe: come puoi credere a una stronzata del genere?»

Mi secca il riferimento alla scuola. Sì, eravamo stati compagni di classe alla media, ma Bitetto non lo sapeva. Ora lo sa. Comunque continua a battere i tasti senza cambiare espressione.

«Morello, non fare il dritto con me. Lo sai quanto pesa il tabaccaio. Centotrenta chili di grasso, più o meno. Il fiatone. E dieci anni più di te. Non ti avrebbe acchiappato nemmeno se fossi caduto sette volte.»

«Quando sono caduto sul serio, inciampando in una di quelle pagnotte di cemento che mettono per bloccare le macchine, sono rimasto a terra per almeno tre minuti, e quando mi sono alzato ho dovuto farmi tutta la strada fino al McDonald’s appoggiandomi ai muri, tanto mi doleva il ginocchio.»

«E quando sarebbe successo?»

«Settimana scorsa.»

«Ti ha visto qualcuno?»

«E che ne so! Io pensavo al menisco in frantumi, mica al successo di pubblico!»

«Sei andato al pronto soccorso?»

«Nossignore, il pronto soccorso mi manda in depressione.»

«Va bene, allora ci tocca cominciare tutto daccapo. Dov’eri lunedì sera, tra le nove e mezza e le dieci?»

«A quell’ora sono quasi sempre a casa.»

«Sempre o quasi?»

«Lunedì di sicuro.»

«C’è qualcuno che può confermarlo?»

«Giglio.»

«Chi sarebbe?»

«Il cane. Una meraviglia di border collie, dovresti vederlo. Gli manca solo la laurea. A proposito: guarda che se continui a tenermi al guinzaglio mi muore di fame. Non vorrai avere un morto sulla coscienza.»

«Non ti preoccupare del cane. Manderò qualcuno a prelevarlo e a portarlo in un canile a quattro stelle. Dunque: l’alibi non ce l’hai. La tua situazione è senza speranza. Bitetto, trovagli un avvocato d’ufficio e rimandiamo l’interrogatorio a domani.»

«No, non si rimanda un bel niente», protesta Morello. «Io non la passo la nottata in cella, sono innocente e mi devi mollare. Adesso.»

«Lunedì sera hai rapinato il bar tabacchi. Sei scappato con l’incasso. E presumo che avessi almeno un complice. Uno con la macchina pronta e il motore acceso. O una motocicletta. Un furgone. Uno scooter.»

«Un elicottero. Un carro armato. Una mongolfiera. Una limousine. Che balle. Si vede che lì non c’è neanche uno straccio di telecamera, se ci fosse vedresti un film tutto diverso: altro che ombrelli, cadute, motoguzzi e rolrois. Te l’ha detto, quello del bar, che ha una pistola vicino alla cassa? Sei sicuro che non l’ha usata, sparando alla John Wayne? Ce lo vedi un lanciatore di ombrelli all’inseguimento di un ladro zoppo? Quello ti ha stordito con un sacco di fregnacce. Magari è tutta una montatura per fottere l’assicurazione. È uno fatto così. Fossi in te darei un’occhiata al suo curriculum.»

«Se avesse sparato qualche colpo avrebbe potuto dichiararlo senza problemi. La legge riconosce il diritto di autodifesa.»

«Bella legge del cazzo. Ma l’hai letta, almeno? Sembra scritta da un analfabeta. OK, non dovrei essere io a dirlo, scrivo quasi peggio; ma non sono né un politico né un luminare della giurisprudenza, e neanche la controfigura di un manzoni; sono esente da doveri grammaticali.»

Su questo non ha tutti i torti. Ho letto e riletto l’ultimo testo di legge, lo so a memoria. Si considera legittima difesa la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte ovvero a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia e con inganno. Si può essere anche vittime, in tempo di notte e in tempo di giorno, di parlamentari e burocrati che scrivono così; e penso che sarebbe più che legittima la reazione (leggi: vomito) del cittadino stuprato dai reati letterari delle istituzioni. Perché una legge scritta in modo insensato e incomprensibile viola la trasparenza del diritto non meno di quanto il rapinatore violi l’altrui domicilio.

«Morello, hai la fedina penale più dipinta di quella camicia hawaiiana. Non tirarla per le lunghe. Firmiamo questa confessione e dimmelo subito il nome del complice, che tanto lo troviamo lo stesso.»

«Hai detto lunedì?»

«Sissignore. Lo sai meglio di me che è successo lunedì. Due giorni fa. Non è difficile.»

«Allora l’alibi ce l’ho. Ho visto un film alla tele.»

«Ma che bravo figliolo. Prima o dopo il reato?»

«Prima, durante e dopo. Ho anche ammazzato una mosca sul televisore. Con la ciabatta. La mosca è ancora lì. Valla a vedere, se non ci credi.»

«Prima il testimone è un cane, poi una mosca: morta, oltretutto. Morello, non ho tempo, non prendiamoci per il culo.»

«Che culo e culo d’Egitto! Tu fai prelevare l’impiastro della mosca spiaccicata, lo mandi alla scientifica e quelli, che sono laureati in scienze americane, ti dicono l’ora precisa del giorno preciso in cui l’ho uccisa sulla tetta di Magda.»

«Magda? C’era una donna con te?»

«Te l’ho detto, stavo guardando un film. Questa Magda, poveretta, era sfigata di brutto. Le tagliano una tetta per via del cancro e, proprio mentre si sta guardando allo specchio per vedere l’effetto che fa, quella stronza di mosca va a piazzarsi proprio al posto dove c’era una volta il capezzolo. Non ci ho visto più. Ho preso la ciabatta e ho appiccicato quella figlia di puttana sul monitor.»

Devo fare uno sforzo per non mettermi a ridere. «Che film era? Sputa il titolo.»

«Non me lo ricordo.»

«Dimmi almeno il canale.»

«Non me lo ricordo.»

«Bitetto, si procuri i giornali di lunedì e controlli i programmi della televisione.»

«L’ho visto su Sky.»

«Bitetto, si concentri su Sky. Dunque: lunedì sera stai guardando la tv. Un film. Ammesso che abbiano dato un film su una tale che subisce una mastectomia...»

«Non parlare così, lo sai che sono scarso in italiano.»

«L’amputazione di una mammella, potresti aver visto qualche scena prima o dopo la rapina... O tutto il film in un’altra occasione, magari al cinema... La storia della mosca è divertente, ma ti consiglio di tenerla per te: questo è un commissariato di polizia, non un cabaret.»

«Se vuoi ti racconto il film dal principio alla fine. L’ho visto lunedì, sono sicuro. C’era anche un medico giovane, un ginecologo, che aiutava la paziente cantandole canzoni durante la chemio, per tenerla su di morale. Era una bella scena, lui che canta come Julio Iglesias accarezzando il cavetto della flebo, lei che si sente uno straccio ma trova la forza di sorridere.»

«Un musical. Mi piacciono i musical, ma questo devo essermelo perso.»

«E qui sta il bello! Non era un musical, era un film drammatico. Cantava solo il ginecologo. Lei, quando sta per partorire, gli chiede di cantare una canzone in sala operatoria.»

«E lui la canta?»

«No, perché un po’ si vergogna. C’è tutta la squadra coi camici verdi e la mascherina verde sul naso e sulla bocca, a rischio retrocessione perché questo match di cesareo si può vincere solo per miracolo. Il bisturi non vede l’ora di entrare in azione. Cantante a centrocampo, ostetrica e terzini in posizione, portiere in rete pronto a parare gli schizzi di sangue: non è il massimo per un festival di canzoni. Io, per dire, non mi metterei a cantare col passamontagna, nemmeno in un film.»

Cinema e calcio – ecco gli unici interessi che abbiamo sempre avuto in comune, Morello e io. Anche se gusti e caratteri sono diversi, a volte s’incontrano. I film polizieschi piacciono a entrambi, per esempio. Solo che lui fa il tifo per i cattivi. (Ma non ne sono poi così sicuro).

«Senti, eccellenza», mi fa abbassando la voce, che è già bassa di suo. «Adesso che il Bitetto non c’è te lo posso dire. Ti stai cacciando nei guai perché sei in pieno conflitto d’interessi. Se quelli vengono a sapere che eravamo amici...»

«Grazie per il pensiero ma sta’ tranquillo: amici non siamo mai stati né mai lo saremo, tu ed io.»

«Andavamo a scuola insieme.»

«Embè?»

«Una volta ti ho picchiato di brutto. Sembrerebbe che vuoi vendicarti.»

Rido di gusto. «Non mi hai mai picchiato, lo sai bene. E comunque non te l’avrei lasciato fare.»

«Che differenza fa? Potrei averti picchiato. Picchiavo tutti.»

«Non dire sciocchezze.»

«Ti sei dimenticato che sono un malvivente? Innocente, ma dei bassifondi. Se dico di averti picchiato, per te si mette male.»

Non è vero che facesse il bullo o cercasse la rissa, a scuola. Stava sempre all’ultimo banco, un po’ sulle sue come un marziano capitato lì per sbaglio, e parlava per dire lo stretto necessario. Non legava con nessuno. In terza lo bocciarono, se non ricordo male. Ogni tanto lo incontravo in quale cinema. Lo persi di vista e quando ricomparve al mio orizzonte, anni dopo, era in un giro di droga. Poi mi è toccato spesso di occuparmi di lui. Si direbbe che non abbia mai lasciato il quartiere: non per lunghi periodi, almeno. Col tempo è diventato più ironico e sicuro di sé.

«La tua parola vale un fico secco. Raccontami la trama del film, piuttosto.»

«Te la scucio quando torna il Bitonto.»

«Bitetto.»

«Così la mette a verbale.»

«La trama a verbale. E già, è il tuo alibi. Ma non farti illusioni. Le trame dei film non sono un alibi per nessuno.»

Al suo ritorno, Bitetto elenca i film di lunedì scorso. Una lista di commedie sentimentali, cartoni animati, fantasy, action, «thriller mozzafiato», storie paranormali...

«Il tuo film dev’essere nei paranormali.»

«No, era un film normale.»

I titoli non gli dicono niente. Morello non ne riconosce nessuno.

«Eppure c’era», asserisce convinto. «Solo che il titolo me l’ero perso. Dei titoli me ne frego.»

«Hai detto che la donna stava per partorire. Prima o dopo l’amputazione del seno?»

«Dooopo! Quando le restavano sei mesi di vita! Lei credeva di tirare fino a nove mesi, impegnandosi anima e corpo, così si era fatta mettere incinta da un altro sfigato che aveva perso moglie e figlia in un incidente.»

«Bitetto, dia un’occhiata alle sinossi.»

Bitetto chiede cosa siano le sinossi. «I riassunti, i riassunti. Trova un giornale o una rivista in cui sono descritti i contenuti dei programmi.»

Bitetto non trova le sinossi sui giornali che ha trovato ed esce di nuovo.

«Sei sposato?», mi chiede Morello a bruciapelo.

«La mia vita privata non ti riguarda.»

«Era così per dire.»

«La firmi o non la firmi questa confessione?»

«Perché, tu la firmeresti?»

«Sii serio.»

«Tanto l’apprendista stregone non c’è. Possiamo dire tutto quello che ci passa per la testa, finché non ritorna. Ammazziamo il tempo, fa bene alla salute.»

«Dicevi di aver ammazzato una mosca. Sul televisore. Mia moglie non me lo permetterebbe mai.»

«Gli insetti non mi vanno a genio. Da quando Susanna se l’è svignata, posso ammazzarne quanti ne voglio. Le mie pareti di casa somigliano a un quadro di quel tizio, l’americano che gettava secchiate di vernice sulla tela. Ed Harris.»

«Pollock.»

«L’ho visto in un film.»

«Anch’io. Dicevi di Susanna. Era un’ambientalista? Un’entomologa? Una vegana? Una della protezione animali?»

«Macché protezione! Quando menavo colpi di schiacciamosche, si metteva a gridare: “Ho lavato i vetri stamattina, e guarda lo schifo che hai combinato! Adesso ripulisci e disinfetta come si deve, con acqua e ammoniaca!” Io quelle merde di insetti non li sopporto, in casa; se poi sto a tavola e vedo aggirarsi una mosca, o peggio ancora una cimice di quelle verdi, divento una bestia: sbraito, bestemmio, schiaffeggio l’aria a colpi di paletta finché non stampo la puttana sul vetro, o sul muro. Anche sul televisore, adesso che Susanna non c’è.»

Ecco un altro punto in comune, penso tra me e me: l’avversione per gli insetti. Iris, poi, reagisce alle mie fobie come Susanna alle sue.

«Le donne non hanno paura né degli insetti né dei rinoceronti come te», mi viene da dire. «In compenso si spaventano per i serpenti: non vogliono vederli nemmeno in fotografia.»

«Colpa della chiesa», dice lui. «Ti fanno una testa così con la storia di Eva e del biscione. Le donne ci cascano, e allora perdono la trebisonda ogni volta che nomini un rettile.»

«Mica solo le donne. Ci sono anche molti uomini che hanno orrore dei serpenti.»

«Indiana Jones.»

«Indiana Jones.»

«Sì, perché lui ci finisce per davvero, nelle fosse dei serpenti. Ma a noi quando mai può capitare che una vipera o un pitone si mette a strisciare sul televisore, mentre ce ne stiamo seduti in pantofole? O che una tigre del Bengala si mette a volare sulla tavola per fregarci la bistecca? Alla mia donna dicevo: non è dalle bestie feroci che ti devi guardare, ma dagli animali più piccoli del mondo. Io non ho paura dei coccodrilli ma della mosca tse-tse, della zanzara della malaria, della pulce, del pidocchio, per non dire degli scarafaggi. Già, ma che sto a dirti? Tu sei cresciuto in case di lusso, profumate e tirate a lucido dalla cameriera col grembiulino bianco e la cuffietta in testa, non hai idea della popolazione di insetti che mi bracca fin dalla nascita.»

«Sei stato in Africa?»

«Non ho mai avuto soldi abbastanza per andarmene in vacanza tra le nevi del Kilimangiaro.»

«Hai parlato di mosca tse-tse. Non c’è dalle nostre parti.»

«Ma i pidocchi sì. Ce l’hai mai avuti tu, i pidocchi? Ti hanno mai fatto lo shampoo con la benzina? Ti hanno mai rapato a zero?»

«Una volta sì. Ho preso i pidocchi all’asilo.»

«Meno male, questo ti rende più umano.»

Bitetto è rientrato. Cita un film del quale si allude a una donna che deve affrontare la vita col cancro.

«Allora», gli fa Morello, «metti a verbale la trama, che adesso ve la racconto.»

«Quello che Bitetto deve mettere a verbale lo decido io», dico risentito. E poi: «Ti illudi di cavartela con una trama. Puoi aver visto quel film ovunque, prima e dopo lunedì. Possibile che non te ne renda conto?»

Bitetto interviene con una precisazione a sorpresa: «Inedito. Qui c’è scritto inedito.»

«Inedito un corno!», sbotto. «Se è passato in televisione deve esistere un dvd.»

«Ma almeno», puntualizza Morello, «possiamo escludere le sale. Non l’ho visto al cinema, è già qualcosa.»

«Bitetto, vedi se quel film lo hanno dato solo lunedì o anche in altre date. E non uscire più da questo cazzo di ufficio, si sta facendo tardi. Entra in internet e cerca su Google le programmazioni di Sky.»

«Lo dicevo io che ormai siete efficienti come l’effebiai.» Il ghigno di Morello è insopportabilmente sarcastico.

«L’hai scaricato da internet? Hai noleggiato un dvd?»

«Io non so nemmeno cosa sia un computer. E non ho noleggiato nessun dvd, puoi fare tutte le ricerche che vuoi. I blockbuster li hanno chiusi da un pezzo. E nemmeno l’ho comprato, sono mica ricco come voi.»

«Racconta dall’inizio.»

«C’è questa Magda, gran figa, che va a farsi una visita e il ginecologo cantante le dice che ha due noduli in una tetta. La manda a fare un’ecografia, poi c’è la biopsia. È così che funziona. Il tumore è maligno, naturalmente. Con un tumore benigno non puoi mica farci un film. Dobbiamo tagliare, dice il pavarotti. Lei s’incazza ma poi si rassegna.»

«E poi?»

«Lei ha un marito scappato con una studentessa. In più ha appena perso il lavoro e ha un figlio che smania per il calcio. Vuole diventare calciatore professionista perché sul campo se la cava bene, ma disprezza sua madre perché a lei del calcio non gliene frega niente. Invece non è vero. Lei va a vederlo giocare e, nello stadio, fa conoscenza con un reclutatore del Real Madrid che ha notato quanto è bravo il ragazzino e lo tiene d’occhio. Lei è felice: sta’ a vedere, pensa, che questo signore mi piazza il bambino negli junior. Invece squilla il telefonino.»

«Quale telefonino?»

«Quello del reclutatore. Lo avvisano che sua figlia è morta in uno scontro e che sua moglie è in coma.»

«E lui?»

«E lui sviene, così la Magda chiama l’ambulanza e l’accompagna all’ospedale. Insomma fanno amicizia. Per forza: sono diventati due rottami, lui che ha perso tutta la famiglia, lei che ne ha perso solo un terzo ma in compenso le hanno portato via la tetta. E non finisce lì: il cantante, a un nuovo controllo, le dichiara chiaro e tondo che deve morire. Entro sei mesi. Nel frattempo, la moglie in coma del reclutatore muore.»

«Quindi via libera. Lei va a letto con lui e rimane incinta.»

«Ed è contenta, anzi contentissima! Dice che lo fa per Natascia.»

«Chi è questa Natascia?»

«Una bambina bionda, che sta in Siberia ed è triste come tutti quelli che stanno in Siberia. Magda ha visto il ritratto nello studio del medico...»

«Il cantante?»

«Sì, il cantante. Lei gli aveva già chiesto se quella era sua figlia, e lui aveva risposto che non lo era ancora ma che sarebbe andato in Siberia con la moglie per adottarla.»

«Non ci credo.»

«E fai bene, perché poi dice di averci ripensato e che non se la sente di adottare la biondina siberiana. Un vero stronzo.»

«Ma questo che c’entra con Magda?»

«Magda dice che vuole una bambina da chiamare Natascia, solo che invece di andarla a prendere in Siberia vuole farla direttamente con l’utero. Sogna la piccola siberiana tutte le notti in un deserto bianco e ghiacciato, sola e triste da morire, ma poi viene in Italia e sorride nuotando in piscina.»

«Ma va! Non hai detto che Magda ha i mesi contati?»

«Sì, ma vuole fare un regalo al reclutatore. Morta una figlia se ne fa un’altra, come succede ai papi. E poi, insomma, così ha uno scopo nella vita, anche se la vita è breve. Alla fine ho pianto. Tu non piangi mai?» Si volta di scatto verso Bitetto: «Ehi, non scrivere nel verbale che ho pianto, se no ti stacco dal collo quella testa di topo che ti ritrovi.»

«Bravo, di bene in meglio. Adesso abbiamo anche l’oltraggio a pubblico ufficiale.»

«Non dire così, voglio bene al Bitetto. L’ho visto crescere.»

«Bitetto può denunciarti. Vero, Bitetto?»

«Ci sto pensando, capo.»

«Hai capito? Lui pensa. Io invece non ho tempo di pensare: mi danno del ladro anche quando mi limito a passare le mie sporche serate davanti alla tv, e mi arrestano in canottiera. Non esiste il reato di oltraggio agli innocenti? E cara grazia che mi hanno permesso di non venire in mutande, questa volta.»

«Oltraggiasti anche gli agenti che vennero a prenderti al cinema, una volta. Che film era?»

«Non lo so, dormivo. Saremo stati in dieci in tutta la sala, dormivano tutti. Era una roba tedesca da intellettuali, ma dormivano anche loro, quelli con la puzza sotto il naso come te. È stato uno dei pochi colpi di culo che ho avuto nella vita: essere arrestato al cinema mentre danno una fregnaccia. Pensa se mi avessero fregato sul più bello di Terminator

«Ritorniamo al dunque. Il tuo alibi, se alibi si può chiamare, è un film che guardavi alla televisione piangendo.»

«C’è poco da sfottere.»

«Da come lo hai raccontato, era una specie di telenovela.»

«Non si chiamano più telenovelas, si chiamano fikscion. Dovresti aggiornarti.»

«Dove li trovi i soldi per l’abbonamento a Sky?»

«Da nessuna parte. Me lo paga Eugenio, il fratellone. Lo conosci Eugenio?»

«No.»

«Ci sono anche persone in gamba nella mia famiglia, che ti credi? Di pecore nere ne basta una.»

«Non sei poi tanto vecchio. Puoi ancora mettere la testa a posto.»

«E se ce l’avessi già messa? Oddio, non per andare in paradiso, ma perché non mi è mai andata bene neanche una volta. Sono rimasto nel vivaio dilettanti. Uno alla fine deve guardarsi allo specchio e domandarsi: ti conviene continuare a crederti un pelé, o stai ancora cercando le palla sul prato?»

«Aggredire il tabaccaio non è stata una bella mossa.»

«C’è riuscito, almeno? Quel tizio che l’ha visitato, ce l’ha fatta o no a portargli via l’incasso del pomeriggio e della sera? Comprese le ricariche e i gratta-e-vinci?»

«Dimmelo tu.»

«Non ho niente da dirti in proposito, ma spero che ce l’abbia fatta.»

«Perché?»

«Così, una questione di giustizia.»

«Sei comunista? Anarchico?»

«Uno deve essere per forza anarchico o comunista per rubare?»

«Certo che no. Non mi hai ancora detto come va a finire il film della mosca.»

«Come vuoi che finisce? Quella mette al mondo una Natascia e muore all’istante.»

«Senti, facciamo così. Adesso tu te ne ritorni a casa e non ti muovi per nessun motivo, fino a domani. Ti controlliamo, dunque non pensare di fare il furbo. Domani, alle nove in punto, ti fai trovare qui dove sei adesso, possibilmente lavato, sbarbato e con una camicia pulita. Ci sarà anche l’avvocato d’ufficio. Se non ti vedo alle nove, parte la caccia all’uomo e ti ritrovi nella pantera con o senza mutande: affar tuo.»

«Davvero mi lasci andare?»

«Te lo ripeto, stanotte puoi dormire nel tuo letto. Ma se cerchi di imbrogliarmi sarà l’ultima volta che lo vedi. Il tuo letto, intendo. Bitetto, convochi anche il tabaccaio. Per domani, stessa ora. E anche un ortopedico.»

«Che si deve dire in questi casi? Grazie?»

«Non dire niente. Togliti dai piedi e arrivederci a domani.»


P.B.











I 100 migliori film degli anni ’90

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Morgan Freeman e Tim Robbins in The Shawshank Redemption (Le ali della libertà) di Frank Darabont.


La graduatoria parte dal basso, ovvero dalla centesima posizione.

100 - Underground. Regia: Emir Kusturica. Sceneggiatura: Emir Kusturica, da un soggetto di Dusan Kovacevic. Fotografia: Vilko Filac. Musica: Goran Bregovic. Interpreti: Predrag ‘Miki’ Manojlovic, Lazar Ristovski, Mirjana Jokovic. Repubblica Federale di Jugoslavia-Francia-Germania-Bulgaria-Repubblica Ceca-Ungheria, 1995.

99 - Masumiyet. Regia: Zeki Demirkubuz. Sceneggiatura: Zeki Demirkubuz. Fotografia: Ali Utku. Musica: Cengiz Onurai. Interpreti: Güven Kiraç, Haluk Bilginer, Derya Alabora. Turchia, 1997.

98 - True Lies. Regia: James Cameron. Sceneggiatura: James Cameron (da Claude Zidi, Didier Kaminka, Simon Michel). Fotografia: Russell Carpenter. Musica: Brad Fiedel. Interpreti: Arnold Schwarzenegger, Jamie Lee Curtis, Tom Arnold, Bill Paxton, Tia Carrere. USA, 1994.

97 - Werckmeister harmóniák (Le armonie di Werckmeister). Regia: Béla Tarr, Agnes Hranitzky. Sceneggiatura: László Krasznahorkai, Béla Tarr, Péter Dobai, Gyuri Dósa Kiss, György Fehér, da un romanzo di László Krasznahorkai. Fotografia: Patrick de Ranter, Miklós Gurbán, Erwin Lanzensberger, Gábor Medvigy, Emil Novák, Rob Tregenza. Musica: Mihály Vig. Interpreti: Lars Rudolph, Peter Fitz, Hanna Schygulla, János Derzsi. Ungheria-Italia-Germania-Francia, 1999.

96 - The Sixth Sense (The Sixth Sense - Il sesto senso). Regia: M. Night Shyamalan. Sceneggiatura: M. Night Shyamalan. Fotografia: Tak Fujimoto. Musica: James Newton Howard. Interpreti: Bruce Willis, Haley Joel Osment, Toni Collette, Olivia Williams. USA, 1999.

95 - Mia aioniotita kai mia mera (L’eternità e un giorno). Regia: Theodoros Angelopoulos. Sceneggiatura: Theodoros Angelopoulos, Tonino Guerra, Petros Markaris, Giorgio Silvagni. Fotografia: Giorgos Arvanitis, Andreas Sinanos. Musica: Eleni Karaindrou. Interpreti: Bruno Ganz, Isabelle Renauld, Fabrizio Bentivoglio. Francia-Italia-Grecia-Germania, 1998.

94 - Manhattan Murder Mystery (Misterioso omicidio a Manhattan). Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen, Marshall Brickman. Fotografia: Carlo Di Palma. Interpreti: Woody Allen, Diane Keaton, Jerry Adler, Alan Alda, Anjelica Huston. USA, 1993.

93 - JFK (JFK - Un caso ancora aperto). Regia: Oliver Stone. Sceneggiatura: Oliver Stone, Zachary Sklar, dal libro di Jim Garrison e Jim Marrs. Fotografia: Robert Richardson. Musica: John Williams. Interpreti: Kevin Costner, Gary Oldman, Jack Lemmon, Vincent D’Onofrio, Sissy Spacek, Joe Pesci, Tommy Lee Jones, Tomas Milian, Kevin Bacon, Donald Sutherland, Walter Matthau. Francia-USA, 1991.

92 - Sátántangó. Regia: Béla Tarr. Sceneggiatura: László Krasznahorkai, Béla Tarr, Mihály Vig, Péter Dobai, Barna Mihók, dal romanzo di László Krasznahorkai. Fotografia: Gábor Medvigy. Musica: Mihály Vig. Interpreti: Mihály Vig, Putyi Horváth, László feLugossy, Éva Almássy Albert, János Derzsi, Irén Szajki, Alfréd Járai. Ungheria-Germania-Svizzera, 1994.

91 - La Fille sur le pont (La ragazza sul ponte). Regia: Patrice Leconte. Sceneggiatura: Serge Frydman. Fotografia: Jean-Marie Dreujou. Interpreti: Vanessa Paradis, Daniel Auteuil, Frédéric Pfluger. Francia, 1999.

90 - Ovosodo. Regia: Paolo Virzì. Sceneggiatura: Paolo Virzì, Francesco Bruni, Furio Scarpelli. Fotografia: Italo Petriccione. Musica: Battista Lena, Carlo Virzì. Interpreti: Edoardo Gabbriellini, Malcolm Lunghi, Regina Orioli, Alessio Fantozzi. Italia, 1997.

89 - Festen (Festen - Festa in famiglia). Regia: Thomas Vinterberg. Sceneggiatura: Thomas Vinterberg, Mogens Rukov. Fotografia: Anthony Dod Mantle. Musica: Lars Bo Jensen. Interpreti: Ulrich Thomsen, Henning Moritzen, Thomas Bo Larsen, Paprika Steen. Danimarca-Svezia, 1998.

88 - Mat y sin (Madre e figlio). Regia: Aleksandr Sokurov. Sceneggiatura: Yurij Arabov. Fotografia: Aleksej Fëdorov. Musica: Mikhail Ivanovic. Interpreti: Aleksej Ananishnov, Gudrun Geyer. Russia-Germania, 1997.

87 - Léon. Regia: Luc Besson. Sceneggiatura: Luc Besson. Fotografia: Thierry Arbogast. Musica: Eric Serra. Interpreti: Jean Reno, Gary Oldman, Natalie Portman, Danny Aiello. Francia, 1994.

86 - Titanic. Regia: James Cameron. Sceneggiatura: James Cameron. Fotografia: Russell Carpenter. Musica: James Horner. Interpreti: Leonardo DiCaprio, Kate Winslet, Billy Zane, Kathy Bates, Frances Fisher, Gloria Stuart, Bill Paxton. USA, 1997.

85 - The Piano (Lezioni di piano). Regia: Jane Campion. Sceneggiatura: Jane Campion. Fotografia: Stuart Dryburgh. Musica: Michael Nyman. Interpreti: Holly Hunter, Harvey Keitel, Sam Neill, Anna Paquin. Nuova Zelanda, 1992.

84 - Ta’m e guilass (Il sapore della ciliegia). Regia: Abbas Kiarostami. Sceneggiatura: Abbas Kiarostami. Fotografia: Homayun Payvar. Interpreti: Homayoun Ershadi, Abdolrahman Bagheri, Afshin Khorshid Bakhtiari. Iran-Francia, 1997.

83 - The Crying Game (La moglie del soldato). Regia: Neil Jordan. Sceneggiatura: Neil Jordan. Fotografia: Ian Wilson. Musica: Anne Dudley. Interpreti: Forest Whitaker, Miranda Richardson, Stephen Rea. Regno Unito-Giappone, 1992.

82 - Tous les matins du monde (Tutte le mattine del mondo). Regia: Alain Corneau. Sceneggiatura: Pascal Quignard, Alain Corneau. Fotografia: Yves Angelo. Musica: Jordi Savall. Interpreti: Jean-Pierre Marielle, Gérard Depardieu, Anne Brochet. Francia, 1991.

81 - Babe (Babe - Maialino coraggioso). Regia: Chris Noonan. Sceneggiatura: George Miller, Chris Noonan, da un libro di Dick King-Smith. Fotografia: Andrew Lesnie. Musica: Nigel Westlake. Interpreti: James Cromwell, Magda Szubanski, Zoe Burton. Australia-USA, 1995.
James Cromwell in Babe (Babe - Maialino coraggioso) di Chris Noonan.

80 - The Age of Innocence (L’età dell’innocenza). Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura: Jay Cocks, Martin Scorsese, dal romanzo di Edith Wharton. Fotografia: Michael Ballhaus. Musica: Elmer Bernstein. Interpreti: Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer, Winona Ryder, Geraldine Chaplin. USA, 1993.

79 - Unforgiven (Gli spietati). Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: David Webb Peoples. Fotografia: Jack N. Green. Musica: Lennie Niehaus. Interpreti: Clint Eastwood, Gene Hackman, Morgan Freeman, Richard Harris. USA, 1992.

78 - To Die for (Da morire). Regia: Gus Van Sant. Sceneggiatura: Buck Henry, da un libro di Joyce Maynard. Fotografia: Eric Alan Edwards. Musica: Danny Elfman. Interpreti: Nicole Kidman, Matt Dillon, Joaquin Phoenix, Casey Affleck. USA-Regno Unito, 1995.

77 - Hsi Yen / The Wedding Banquet (Il banchetto di nozze). Regia: Ang Lee. Sceneggiatura: Ang Lee, Neil Peng, James Schamus. Fotografia: Jong Lin. Musica: Mader. Interpreti: Winston Chao, May Chin, Mitchell Lichtenstein. Taiwan-USA, 1993.
May Chin, Winston Chao e Mitchell Lichtenstein in Hsi yen (Il banchetto di nozze) di Ang Lee. 

76 - Cape Fear (Cape Fear - Il promontorio della paura). Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura: Wesley Strick, James R. Webb, dal romanzo di John D. MacDonald e da un film precedente. Fotografia: Freddie Francis. Musica: Bernard Herrmann (arr. Elmer Bernstein). Interpreti: Robert De Niro, Nick Nolte, Jessica Lange, Juliette Lewis, Joe Don Baker, Robert Mitchum, Gregory Peck, Martin Balsam. USA, 1991.

75 - Un Coeur en hiver (Un cuore in inverno). Regia: Claude Sautet. Sceneggiatura: Claude Sautet, Jacques Fieschi. Fotografia: Yves Angelo. Musica: Maurice Ravel. Interpreti: Daniel Auteuil, Emmanuelle Béart, André Dussollier. Francia, 1991.

74 - Rang-e khoda (Il colore del paradiso). Regia: Majid Majidi. Sceneggiatura: Majid Majidi. Fotografia: Mohammad Davudi. Musica: Alireza Kohan Deyri. Interpreti: Hossein Mahjoub, Mohsen Ramezani, Salameh Feyzi. Iran, 1999.

73 - Seven. Regia: David Fincher. Sceneggiatura: Andrew Kevin Walker. Fotografia: Darius Khondji. Musica: Howard Shore. Interpreti: Brad Pitt, Morgan Freeman, Gwyneth Paltrow, R. Lee Ermey, Andrew Kevin Walker. USA, 1995.

72 - Toy Story (Toy Story - Il mondo dei giocattoli). Film d’animazione. Regia: John Lasseter, Sceneggiatura: Peter Docter, John Ranft, Andrew Stanton, John Lasseter, Joss Whedon, Joel Cohen, Alec Sokolow. Musica: Randy Newman. USA, 1995.

71 - Badkonake sefid (Il palloncino bianco). Regia: Jafar Panahi. Sceneggiatura: Abbas Kiarostami, Jafar Panahi, Parviz Shahbazi. Fotografia: Farzad Jadat. Interpreti: Aida Mohammadkhani, Mohsen Kafili, Fereshteh Sadre Orafaiy. Iran, 1995.

70 - Before Sunrise (Prima dell’alba). Regia: Richard Linklater. Sceneggiatura: Richard Linklater, Kim Krizan. Fotografia: Lee Daniel. Musica: Arlene Fishbach. Interpreti: Ethan Hawke, Julie Delpy, Andrea Eckert, Hanno Pöschl. USA-Austria-Svizzera, 1995.

69 - La Double vie de Véronique/Podwójne zycie Weroniki (La doppia vita di Veronica). Regia: Krzyzstof Kieslowski. Sceneggiatura: Krzysztof Piesiewicz, Krzyzstof Kieslowski. Fotografia: Slawomir Idziak. Musica: Zbigniew Preisner. Interpreti: Irène Jacob, Halina Gryglaszewska, Kalina Jedrusik. Francia-Polonia-Norvegia, 1991.

68 - La Chasse aux papillons (Caccia alle farfalle). Regia: Otar Ioseliani. Sceneggiatura: Otar Ioseliani. Fotografia: William Lubtchansky. Musica: Nicholas Zourabichvili. Interpreti: Narda Blanchet, Pierette Pompom Bailhache, Aleksandr Cherkasov. Francia-Italia-Germania, 1992.

67 - Fight Club. Regia: David Fincher. Sceneggiatura: Jim Uhls, da un romanzo di Chuck Palahniuk. Fotografia: Jeff Cronenweth. Musica: The Dust Brothers. Interpreti: Edward Norton, Brad Pitt, Helena Bonham Carter, Meat Loaf. USA-Germania, 1999.

66 - Thelma & Louise. Regia: Ridley Scott. Sceneggiatura: Callie Khouri. Fotografia: Adrian Biddle. Musica: Hans Zimmer. Interpreti: Susan Sarandon, Geena Davis, Harvey Keitel, Michael Madsen, Christopher McDonald, Stephen Tobolowsky, Brad Pitt. USA-Francia, 1991.

65 - Il ladro di bambini. Regia: Gianni Amelio. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli. Fotografia: Tonino Nardi, Renato Tafuri. Musica: Franco Piersanti. Interpreti: Enrico Lo Verso, Valentina Scalici, Giuseppe Ieracitano, Florence Darel. Italia-Francia-Germania, 1992.

64 - Raining Stones (Piovono pietre). Regia: Ken Loach. Sceneggiatura: Jim Allen. Fotografia: Barry Ackroyd. Musica: Stewart Copeland. Interpreti: Bruce Jones, Julie Brown, Gemma Phoenix, Ricky Tomlinson. Regno Unito, 1993.

63 - Train de vie (Train de vie / Un treno per vivere). Regia: Radu Mihaileanu. Sceneggiatura: Radu Mihaileanu. Fotografia: Giorgos Arvanitis, Laurent Dailland. Musica: Goran Bregovic. Interpreti: Lionel Abelanski, Rufus, Clément Harari, Michel Muller, Agathe de La Fontaine, Johan Leysen, Bruno Abraham-Kremer, Marie-José Nat. Francia-Belgio-Paesi Bassi-Israele-Romania, 1998.

62 - Xích-lô (Cyclo). Regia: Tran Anh Hung. Sceneggiatura: Tran Anh Hung. Fotografia: Benoît Delhomme. Musica: Tiêt Tôn-Thât. Interpreti: Le Van Loc, Tony Chiu-Wai Leung, Tran Nu Yên-Khê. Vietnam-Francia-Hong Kong, 1995.

61 - Bad ma ra khahad bord (Il vento ci porterà via). Regia: Abbas Kiarostami. Sceneggiatura: Abbas Kiarostami. Fotografia: Mahmoud Kalari. Musica: Peyman Yazdanian. Interpreti: Behzad Dorani, Noghre Asadi, Roushan Karam Elmi. Iran-Francia, 1999.

60 - What’s Eating Gilbert Grape? (Buon compleanno Mr. Grape). Regia: Lasse Hallström. Sceneggiatura: Peter Hedges. Fotografia: Sven Nykvist. Musica: Alan Parker, Bjorn Isfält. Interpreti: Johnny Depp, Leonardo DiCaprio, Juliette Lewis, Mary Steenburgen, John C. Reilly. USA, 1993.

59 - Trois couleurs: Blanc (Tre colori - Film bianco). Regia: Krzyzstof Kieslowski. Sceneggiatura: Krzysztof Piesiewicz, Krzyzstof Kieslowski. Fotografia: Edward Klosinski. Musica: Zbigniew Preisner. Interpreti: Zbigniew Zamachowski, Julie Delpy, Janusz Gajos, Jerzy Stuhr. Francia-Polonia, 1993.

58 - Trois couleurs: Rouge (Tre colori - Film rosso). Regia: Krzyzstof Kieslowski. Sceneggiatura: Krzysztof Piesiewicz, Krzyzstof Kieslowski. Fotografia: Piotr Sobocinski. Musica: Zbigniew Preisner. Interpreti: Irène Jacob, Jean-Louis Trintignant, Frédérique Feder, Jean-Pierre Lorit. Francia-Polonia, 1994.

57 - Trois couleurs: Bleu (Tre colori - Film blu). Regia: Krzyzstof Kieslowski. Sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz, Agnieszka Holland, Edward Zebrowski, Slawomir Idziak. Fotografia: Slawomir Idziak. Musica: Zbigniew Preisner. Interpreti: Juliette Binoche, Benoît Régent, Florence Pernel, Charlotte Véry. Polonia-Francia, 1993.

56 - The Talented Mr. Ripley (Il talento di Mr. Ripley). Regia: Anthony Minghella. Sceneggiatura: Anthony Minghella, dal romanzo di Patricia Highsmith. Fotografia: John Seale. Musica: Gabriel Yared. Interpreti: Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Jude Law, Cate Blanchett, Philip Seymour Hoffman, Jack Davenport. USA, 1999.

55 - Ba wang bie ji (Addio mia concubina). Regia: Chen Kaige. Sceneggiatura: Wei Lu, Pik Wah Lee (alias Lillian Lee), dal romanzo di Pik Wah Lee (alias Lillian Lee). Fotografia: Gu Changwei. Musica: Zhao Jiping. Interpreti: Leslie Cheung, Zhang Fengyi, Gong Li. Cina-Hong Kong, 1993.

54 - Lamerica. Regia: Gianni Amelio. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Andrea Porporati, Alessandro Sermoneta. Fotografia: Luca Bigazzi. Musica: Franco Piersanti. Interpreti: Enrico Lo Verso, Michele Placido, Piro Milkani. Italia-Francia-Svizzera, 1994.

53 - Magnolia. Regia: Paul Thomas Anderson. Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson. Fotografia: Robert Elswit. Musica: John Brion. Interpreti: Julianne Moore, William H. Macy, John C. Reilly, Tom Cruise, Philip Baker Hall, Philip Seymour Hoffman, Jason Robards. USA, 1999.

52 - Casino (Casinò). Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura: Martin Scorsese, Nicholas Pileggi. Fotografia: Robert Richardson. Musica: AAVV. Interpreti: Robert De Niro, Sharon Stone, Joe Pesci, James Woods. USA-Francia, 1995.

51 - Twin Peaks (I segreti di Twin Peaks). Serie tv. Regia: David Lynch. Sceneggiatura: Mark Frost, David Lynch. Fotografia: Ron Garcia. Musica: Angelo Badalamenti. Interpreti: Kyle MacLachlan, Michael Ontkean, Mädchen Amick, Dana Ashbrook, Richard Beymer. USA, 1990-1991.

50 - Breaking the Waves (Le onde del destino). Regia: Lars von Trier. Sceneggiatura: Lars von Trier, Peter Asmussen, David Pirie. Fotografia: Robby Müller. Interpreti: Emily Watson, Stellan Skarsgård, Katrin Cartlidge. Danimarca-Svezia-Francia-Paesi Bassi-Norvegia-Islanda-Spagna, 1996.

49 - Bacheha-ye aseman (I bambini del cielo). Regia: Majid Majidi. Sceneggiatura: Majid Majidi. Fotografia: Parviz Malekzaade. Musica: Kayvan Jahanshahi. Interpreti: Mohammad Amir Naji, Amir Farrokh Hashemian, Bahare Seddiqi. Iran, 1997.

48 - Nema-ye nazdik (Close-up). Regia: Abbas Kiarostami. Sceneggiatura: Abbas Kiarostami. Fotografia: Ali Reza Zarrindast. Interpreti: Hossain Sabzian, Mohsen Makhmalbaf, Abolfazl Ahankhah. Iran, 1990.
Mohsen Makhmalbaf e Hossain Sabzian in Close-up di Abbas Kiarostami.

47 - Angela’s Ashes (Le ceneri di Angela). Regia: Alan Parker. Sceneggiatura: Laura Jones, Alan Parker, dal libro di Frank McCourt. Fotografia: Michael Seresin. Musica: John Williams. Interpreti: Emily Watson, Robert Carlyle, Joe Breen, Ciaran Owens. Regno Unito-USA, 1999.

46 - Europa Europa. Regia: Agnieszka Holland. Sceneggiatura: Paul Hengge, Agnieszka Holland, dalle memorie di Solomon Perel. Fotografia: Jacek Petrycki. Musica: Zbigniew Preisner. Interpreti: Marco Hofschneider, René Hofschneider, Piotr Kozlowski. Germania-Francia-Polonia, 1990.
Marco Hofschneider in Europa Europa di Agnieszka Holland.

45 - Fresa y Chocolate (Fragola e cioccolato). Regia: Tomás Gutiérrez Alea, Juan Carlos Tabío. Sceneggiatura: Senel Paz. Fotografia: Mario García Joya. Musica: José María Vitier. Interpreti: Jorge Perugorría, Vladimir Cruz, Mirta Ibarra. Cuba, 1993.

44 - Heavenly Creatures (Creature del cielo). Regia: Peter Jackson. Sceneggiatura: Fran Walsh, Peter Jackson. Fotografia: Alun Bollinger. Musica: Peter Dasent. Interpreti: Melanie Lynskey, Kate Winslet, Sarah Peirse, Diana Kent, Clive Merrison. Nuova Zelanda-Germania, 1994.

43 - Il postino. Regia: Michael Radford. Sceneggiatura: Furio Scarpelli, Giacomo Scarpelli, Anna Pavignano, Michael Radford, Massimo Troisi, dal romanzo di Antonio Skármeta. Fotografia: Franco Di Giacomo. Musica: Luis Enrique Bacalov. Interpreti: Philippe Noiret, Massimo Troisi, Maria Grazia Cucinotta, Renato Scarpa. Italia-Francia-Belgio, 1994.

42 - Brat (Brother). Regia: Aleksej Balabanov. Sceneggiatura: Aleksej Balabanov. Fotografia: Sergej Astakhov. Musica: Slava Butusov. Interpreti: Sergej Bodrov Jr., Viktor Sukhorukov, Svetlana Pismichenko. Russia, 1997.
Sergej Bodrov Jr. in Brat (Brother) di Aleksej Balabanov.

41 - Pred doždot (Prima della pioggia). Regia: Milcho Manchevski. Sceneggiatura: Milcho Manchevski. Fotografia: Manuel Teran. Musica: Anastasia. Interpreti: Katrin Cartlidge, Rade Serbedzija, Grégoire Colin. Macedonia-Regno Unito-Francia, 1994.

40 - In the Name of the Father (Nel nome del padre). Regia: Jim Sheridan. Sceneggiatura: Terry George, Jim Sheridan, dall’autobiografia di Gerry Conlon. Fotografia: Peter Biziou. Musica: Trevor Jones, Bono, Gavin Friday, Maurice Seezer. Interpreti: Daniel Day-Lewis, Emma Thompson, Pete Postlethwaite. Irlanda-USA, 1993.

39 - Secrets and Lies (Segreti e bugie). Regia: Mike Leigh. Sceneggiatura: Mike Leigh. Fotografia: Dick Pope. Musica: Andrew Dickson. Interpreti: Timothy Spall, Phyllis Logan, Brenda Blethyn, Claire Rushbrook. Regno Unito-Francia, 1996.

38 - L.A. Confidential. Regia: Curtis Hanson. Sceneggiatura: Brian Helgeland, Curtis Hanson, dal romanzo di James Ellroy. Fotografia: Dante Spinotti. Musica: Jerry Goldsmith. Interpreti: Kevin Spacey, Russell Crowe, Guy Pearce, James Cromwell, Kim Basinger, Danny DeVito. USA, 1997.

37 - La Cérémonie (Il buio nella mente). Regia: Claude Chabrol. Sceneggiatura: Claude Chabrol, Caroline Eliacheff, da un romanzo di Ruth Rendell. Fotografia: Bernard Zitzermann. Musica: Matthieu Chabrol. Interpreti: Isabelle Huppert, Sandrine Bonnaire, Jean-Pierre Cassel, Jacqueline Bisset. Francia-Germania, 1995.
Isabelle Huppert in La Cérémonie (Il buio nella mente) di Claude Chabrol.

36 - American History X. Regia: Tony Kaye. Sceneggiatura: David McKenna. Fotografia: Tony Kaye. Musica: Anne Dudley. Interpreti: Edward Norton, Edward Furlong, Beverly D’Angelo, Elliott Gould, Stacy Keach. USA, 1998.

35 - Qiu Ju (La storia di Qiu Ju). Regia: Zhang Yimou. Sceneggiatura: Liu Heng. Fotografia: Xiaoning Chi, Hongyi Lu, Xiaoquin Yu. Musica: Zhao Jiping. Interpreti: Gong Li, Peiqi Liu, Liuchun Yang. Cina-Hong Kong, 1992.

34 - Shine. Regia: Scott Hicks. Sceneggiatura: Jan Sardi, Scott Hicks. Fotografia: Geoffrey Simpson. Musica: David Hirschfelder. Interpreti: Geoffrey Rush, Justin Braine, Sonia Todd, Chris Haywood, Alex Rafalowicz, Gordon Poole, Armin Mueller-Stahl. Australia, 1996.

33 - Yin shi nan nu (Mangiare bere uomo donna). Regia: Ang Lee. Sceneggiatura: Hui-Ling Wang, James Schamus, Ted Hope, Ang Lee. Fotografia: Jang Lin. Musica: Mader. Interpreti: Sihung Lung, Yu-Wen Wang, Chien-Lien Wu, Kuei-Mei Yang, Sylvia Chang, Winston Chao. Taiwan-USA, 1994.

32 - Pedar (Il padre). Regia: Majid Majidi. Sceneggiatura: Majid Majidi, Mehdi Shojai. Fotografia: Mohsen Zolnavar. Musica: Mohammad Reza Aligholi. Interpreti: Hossein Abedini, Mohammad Kasebi, Parivash Nazarieh, Hassan Sadeghi. Iran, 1996.

31 - Deconstructing Harry (Harry a pezzi). Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Carlo Di Palma. Interpreti: Woody Allen, Amy Irving, Jennifer Garner, Caroline Aaron, Billy Crystal, Eric Bogosian, Bob Balaban, Demi Moore, Stanley Tucci, Elisabeth Shue, Tobey Maguire, Judy Davis, Hazelle Goodman, Julia Louis-Dreyfus, Kirstie Alley, Mariel Hemingway, Eric Lloyd, Richard Benjamin, Robin Williams. USA, 1997.

30 - Good Will Hunting (Will Hunting - Genio ribelle). Regia: Gus Van Sant. Sceneggiatura: Matt Damon, Ben Affleck. Fotografia: Jean-Yves Escoffier. Musica: Danny Elfman. Interpreti: Matt Damon, Robin Williams, Ben Affleck, Stellan Skarsgård, Minnie Driver, Casey Affleck. USA, 1997.

29 - Richard III (Riccardo III). Regia: Richard Loncraine. Sceneggiatura: Ian McKellen, Richard Loncraine, da Richard Eyre e William Shakespeare. Fotografia: Peter Biziou. Musica: Trevor Jones. Interpreti: Ian McKellen, Annette Bening, Jim Broadbent, Robert Downey Jr., Nigel Hawthorne, Kristin Scott Thomas, John Wood, Maggie Smith. Regno Unito-USA, 1995.

28 - Miller’s Crossing (Crocevia della morte). Regia: Ethan Coen, Joel Coen. Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen, da due romanzi di Dashiell Hammett. Fotografia: Barry Sonnenfeld. Musica: Carter Burwell. Interpreti: Gabriel Byrne, Marcia Gay Harden, John Turturro, Jon Polito, J.E. Freeman, Albert Finney. USA, 1990.
Gabriel Byrne in Miller’s Crossing (Crocevia della morte) dei fratelli Coen.

27 - Glengarry Glen Ross (Americani). Regia: James Foley. Sceneggiatura: David Mamet. Fotografia: Jean Ruiz Anchía. Musica: Al Jarreau, James Newton Howard. Interpreti: Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin, Alan Arkin, Ed Harris, Kevin Spacey, Jonathan Pryce. USA, 1992.

26 - Urga (Urga - Territorio d’amore). Regia: Nikita Mikhalkov. Sceneggiatura: Rustam Ibragimbekov, Nikita Mikhalkov. Fotografia: Vilen Kalyuta. Musica: Eduard Artemev. Interpreti: Badema, Bayaertu, Vladimir Gostyukhin. Francia-URSS, 1991.

25 - La Haine (L’odio). Regia: Mathieu Kassovitz. Sceneggiatura: Mathieu Kassovitz. Fotografia: Pierre Aim. Musica: Vincent Tulli. Interpreti: Vincent Cassel, Hubert Koundé, Saïd Taghmaoui, Abdel Ahmed Ghili. Francia, 1995.

24 - The Usual Suspects (I soliti sospetti). Regia: Bryan Singer. Sceneggiatura: Christopher McQuarrie. Fotografia: Newton Thomas Sigel. Musica: John Ottman. Interpreti: Stephen Baldwin, Gabriel Byrne, Benicio Del Toro, Kevin Pollak, Kevin Spacey, Chazz Palminteri. USA, 1995.

23 - Reservoir Dogs (Le iene). Regia: Quentin Tarantino. Sceneggiatura: Quentin Tarantino. Fotografia: Andrzej Sekula. Interpreti: Harvey Keitel, Tim Roth, Michael Madsen, Chris Penn, Steve Buscemi, Lawrence Tierney, Edward Bunker, Quentin Tarantino. USA, 1992.

22 - The Thin Red Line (La sottile linea rossa). Regia: Terrence Malick. Sceneggiatura: Terrence Malick, da un libro di James Jones. Fotografia: John Toll. Musica: Hans Zimmer. Interpreti: Nick Nolte, James Caviezel, Sean Penn, Elias Koteas, Ben Chaplin, John Cusack, Adrien Brody, John C. Reilly, Woody Harrelson, Miranda Otto, Jared Leto, John Travolta, George Clooney, John Savage. USA, 1998.

21 - The Remains of the Day (Quel che resta del giorno). Regia: James Ivory. Sceneggiatura: Ruth Prawer Jhabvala, dal romanzo di Kazuo Ishiguro. Fotografia: Tony Pierce-Roberts. Musica: Richard Robbins. Interpreti: Anthony Hopkins, Emma Thompson, Hugh Grant, Christopher Reeve, James Fox, Peter Vaughan, Ben Chaplin, Michael Lonsdale. Regno Unito-USA, 1993.

20 - Yi ge dou bu neng shao (Non uno di meno). Regia: Zhang Yimou. Sceneggiatura: Xiangsheng Shi. Fotografia: Yong Hou. Musica: San Bao. Interpreti: Minzhi Wei, Huike Zhang, Zhenda Tian, Enman Gao. Cina, 1999.

19 - Romeo + Juliet (Romeo + Giulietta). Regia: Baz Luhrmann. Sceneggiatura: Craig Pearce, Baz Luhrmann, da William Shakespeare. Fotografia: Donald M. McAlpine. Musica: Nelle Hooper. Interpreti: Leonardo DiCaprio, Claire Danes, John Leguizamo, Harold Perrineau, Pete Postlethwaite, Paul Sorvino, Brian Dennehy. USA, 1996.

18 - Edward Scissorhands (Edward mani di forbice). Regia: Tim Burton. Sceneggiatura: Caroline Thompson, Tim Burton. Fotografia: Stefan Czapsky. Musica: Danny Elfman. Interpreti: Johnny Depp, Winona Ryder, Dianne Wiest, Vincent Price, Alan Arkin. USA, 1990.

17 - Ressources humaines (Risorse umane). Regia: Laurent Cantet. Sceneggiatura: Laurent Cantet, Gilles Marchand. Fotografia: Matthieu Poirot-Delpech. Interpreti: Jalil Lespert, Jean-Claude Vallod, Chantal Barré. Francia-Regno Unito, 1999.

16 - Misery (Misery non deve morire). Regia: Rob Reiner. Sceneggiatura: William Goldman, dal romanzo di Stephen King. Fotografia: Barry Sonnenfeld. Musica: Marc Shaiman. Interpreti: James Caan, Kathy Bates, Richard Farnsworth, Frances Sternhagen, Lauren Bacall. USA, 1990.

15 - Todo sobre mi madre (Tutto su mia madre). Regia: Pedro Almodóvar. Sceneggiatura: Pedro Almodóvar. Fotografia: Affonso Beato. Musica: Alberto Iglesias. Interpreti: Cecilia Roth, Marisa Paredes, Candela Peña, Antonia San Juan, Penélope Cruz. Spagna, 1999.

14 - The Green Mile (Il miglio verde). Regia: Frank Darabont. Sceneggiatura: Frank Darabont, da un romanzo di Stephen King. Fotografia: David Tattersall. Musica: Thomas Newman. Interpreti: Tom Hanks, David Morse, Michael Clarke Duncan, Bonnie Hunt, James Cromwell. USA, 1999.

13 - Fargo. Regia: Ethan Coen, Joel Coen. Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen. Fotografia: Roger Deakins. Musica: Carter Burwell. Interpreti: William H. Macy, Steve Buscemi, Frances McDormand, Peter Stormare, Kristin Rudrüd, Harve Presnell. USA-Regno Unito, 1996.

12 - Goodfellas (Quei bravi ragazzi). Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura: Nicholas Pileggi, Martin Scorsese, da un libro di Nicholas Pileggi. Fotografia: Michael Ballhaus. Interpreti: Robert De Niro, Ray Liotta, Joe Pesci, Lorraine Bracco, Paul Sorvino. USA, 1990.

11 - Philadelphia. Regia: Jonathan Demme. Sceneggiatura: Ron Nyswaner. Fotografia: Tak Fujimoto. Musica: Howard Shore, Neil Young, Bruce Springsteen, Peter Gabriel. Interpreti: Tom Hanks, Denzel Washington, Roberta Maxwell, Buzz Kilman, Karen Finley. USA, 1993.

10 - Da hong deng long gao gao gua (Lanterne rosse). Regia: Zhang Yimou. Sceneggiatura: Ni Zhen, da un romanzo di Su Tong. Fotografia: Zhao Fei, Yang Lun. Interpreti: Gong Li, Saifei He, Cuifen Cao. Cina-Hong Kong-Taiwan, 1991.

9 - Smoke. Regia: Wayne Wang. Sceneggiatura: Paul Auster. Fotografia: Adam Holender. Musica: Rachel Portman. Interpreti: Harvey Keitel, William Hurt, Forest Whitaker, Harold Perrineau, Stockard Channing. USA-Germania-Giappone, 1995.

8 - Dances with Wolves (Balla coi lupi). Regia: Kevin Costner. Sceneggiatura: Michael Blake (dal proprio romanzo). Fotografia: Dean Semler. Musica: John Barry. Interpreti: Kevin Costner, Mary McDonnell, Graham Greene. USA, 1990.

7 - The Truman Show. Regia: Peter Weir. Sceneggiatura: Andrew Niccol. Fotografia: Peter Biziou. Musica: Burkhard von Dallwitz. Interpreti: Jim Carrey, Laura Linney, Noah Emmerich, Natascha McElhone. USA, 1998.

6 - Forrest Gump. Regia: Robert Zemeckis. Sceneggiatura: Eric Roth (da Winston Groom). Fotografia: Don Burgess. Musica: Alan Silvestri. Interpreti: Tom Hanks, Robin Wright, Hanna Hall, Sally Field, Mykelti Williamson, Michael Conner Humphreys, Gary Sinise. USA, 1994.

5 - Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan). Regia: Steven Spielberg. Sceneggiatura: Robert Rodat. Fotografia: Janusz Kaminski. Musica: John Williams. Interpreti: Tom Hanks, Tom Sizemore, Edward Burns, Barry Pepper, Adam Goldberg, Vin Diesel, Giovanni Ribisi, Jeremy Davies, Matt Damon, Ted Danson, Paul Giamatti. USA, 1998.

4 - Pulp Fiction. Regia: Quentin Tarantino. Sceneggiatura: Quentin Tarantino, da racconti di Roger Avary. Fotografia: Andrzej Sekula. Interpreti: John Travolta, Uma Thurman, Samuel L. Jackson, Tim Roth, Amanda Plummer, Eric Stoltz, Bruce Willis, Ving Rhames, Maria de Medeiros, Rosanna Arquette, Steve Buscemi, Christopher Walken, Harvey Keitel. USA, 1994.

3 - The Shawshank Redemption (Le ali della libertà). Regia: Frank Darabont. Sceneggiatura: Frank Darabont, da un racconto di Stephen King. Fotografia: Roger Deakins. Musica: Thomas Newman. Interpreti: Tim Robbins, Morgan Freeman. USA, 1994.

2 - Short Cuts (America oggi). Regia: Robert Altman. Sceneggiatura: Robert Altman, Frank Barhydt, dai racconti di Raymond Carver. Fotografia: Walt Lloyd. Musica: Mark Isham. Interpreti: Andie MacDowell, Bruce Davison, Jack Lemmon, Julianne Moore, Matthew Modine, Anne Archer, Fred Ward, Jennifer Jason Leigh, Chris Penn, Robert Downey Jr., Madeleine Stowe, Tim Robbins, Lily Tomlin, Tom Waits. USA, 1993.
Robert Downey Jr. e Lili Taylor in Short Cuts (America oggi) di Robert Altman.

1 - Schindler’s List. Regia: Steven Spielberg. Sceneggiatura: Steven Zaillian, da un libro di Thomas Keneally. Fotografia: Janusz Kaminski. Musica: John Williams. Interpreti: Liam Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes, Caroline Goodall, Jonathan Sagall. USA, 1993.

© P.B.


I 100 migliori film 2000-2009

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Sempre più difficile – ma anche eccitante – provare a stilare shortlist periodiche sull’evoluzione del cinema mondiale, che tengano conto delle curiosità personali ma anche di parametri meno soggettivi. Difficile sistemare la contemporaneità perché il cinema non è morto affatto, come lamentavano i delusi di tanti anni fa; è invece diventato, sempre di più e sempre più degnamente, una variegata e credibile narrazione di chi siamo e del mondo che ci circonda, e i film che raccontano in modo interessante la nostra epoca si moltiplicano in modo esponenziale da quando non solo i festival, ma anche i mezzi di diffusione, rendono possibile l’accesso a opere una volta destinate a circuiti angusti. Il vecchio divario tra la mainstream e quello che chiamavano «cinema d’essai» si è ulteriormente divaricato per quanto riguarda i costi e i mezzi di produzione, ma ha trovato crescenti punti di contatto tematico e di sensibilità espressiva: aumentano i casi di contiguità ideologica tra cinema ricco e cinema povero, tanto da rendere più impegnativa che mai una selezione di qualità limitata a cento titoli per decade.

Professionalità, tecnologie e inclinazioni del nuovo millennio hanno favorito anche generi ai quali sono parzialmente o del tutto allergico, a partire dalle saghe fantasy (qui testardamente ignorate) e dalle serie tv. Queste meritano un discorso a parte: le trovo ingiudicabili se analizzate in blocco, perché spesso partono alla grande ma si arenano nella ripetitività. Quando mi occuperò degli anni dieci del 2000 avrò problemi con Fargo e House of Cards, entusiasmanti nelle prime stagioni ma molto meno nella lunga durata: sto seguendo con qualche sbadiglio la terza ripresa di Fargo, di gran lunga meno brillante delle precedenti, e ho smesso di seguire House of Cardsperché sembra aver esaurito la carica critica iniziale per disperdersi nei meandri del thriller politico e in un vortice di colpi di scena tipici della fiction a puntate.

Gli anni 2000 stanno regalando agli spettatori più attenti una valanga di spunti di riflessione sui grandi temi di attualità e della storia recente, con un occhio di riguardo alle culture “degli altri”, alle emarginazioni sociali, ai vecchi e nuovi razzismi, alle contraddizioni delle democrazie, alle tensioni geopolitiche, ai problemi ambientali, al neocolonialismo, al ruolo dei media. Questa shortlist offre una panoramica rappresentativa del cinema che, a vario titolo, potremmo considerare “politico”; ma non trascura il puro intrattenimento e i cult generazionali (i film di Christopher Nolan sono macchine perfette per catturare l’adesione giovanile, e non solo). I cartoni per bambini, qui rappresentati solo da tre titoli – ma potrebbero essere molti di più, e non solo made in USA – sono diventati sempre più accattivanti nella costruzione narrativa e specialmente nel frizzare dei dialoghi; per di più non si limitano a divertire l’infanzia ma spesso le propongono un progetto didattico di notevole efficacia nozionistica e formativa.

Il cinema come mania ma anche come sguardo sul mondo, insomma. Cento titoli arbitrari quanto si vuole, e comunque pochi perché sono almeno duecento gli esclusi per i quali provo qualche rimpianto. Le liste dei decenni più remoti erano più facili da compilare: dopotutto Charles Chaplin, Orson Welles e Billy Wilder avevano meno concorrenti di valore di quanti ne abbiano oggi Steven Spielberg e Martin Scorsese. E il colpo al cuore, oltretutto, può arrivare oggi da aree del mondo una volta oscurate dall’egemonia del cinema occidentale.

Per altre ricognizioni storiche, consultare:











I 100 migliori film degli anni zero (2000-2009)

La graduatoria parte dalla centesima posizione per arrivare alla prima.

100 - Mad Men. Serie tv. Regia: Matthew Weiner, Phil Abraham, Michael Uppendahl, Jennifer Getzinger, Scott Hornbacher, Lesli Linka Glatter, Tim Hunter, John Slattery, Andrew Bernstein, Alan Taylor, Chris Manley, Jon Hamm, Ed Bianchi, Paul Feig, Barbet Schroeder, Daisy von Scherler Mayer, Lynn Shelton, Matt Shakman, Jared Harris. Sceneggiatura: Matthew Weiner, Jonathan Igla, Kater Gordon, André Jacquemetton, Maria Jacquemetton, Erin Levy, Carly Wray, Lisa Albert, Semi Chellas, Robin Veith, Dahvi Waller, Bridget Bedard, Tom Palmer, Chris Provenzano, Marti Noxon, Brett Johnson, Cathryn Humphris, Janet Leahy, Jonathan Abrahams, Victor Levin, Tom Smuts, Jane Anderson, Rick Cleveland, Andrew Colville, Keith Huff, Tracy McMillan, Frank Pierson, Jason Grote, Heather Jeng Bladt, David Iserson. Fotografia: Chris Manley, Don Devine, Phil Abraham, Steve Mason, Frank G. DeMarco, Bill Roe, Jeff Jur, M. David Mullen. Musica: David Carbonara. Interpreti: Jon Hamm, Elisabeth Moss, Vincent Kartheiser, January Jones, Christina Hendricks, Aaron Staton, Rich Sommer, John Slattery. USA: 2007-2015.

99 - Feux rouges (Luci nella notte). Regia: Cédric Kahn. Sceneggiatura: Laurence Ferreira Barbosa, Gilles Marchand, Cédric Kahn, da un romanzo di Georges Simenon. Fotografia: Patrick Blossier. Interpreti: Jean-Pierre Darroussin, Carole Bouquet, Vincent Deniard, Alain Dion. Francia, 2004.

98 - Gladiator (Il gladiatore). Regia: Ridley Scott. Sceneggiatura: David Franzoni, John Logan, William Nicholson. Fotografia: John Mathieson. Musica: Lisa Gerrard, Hans Zimmer. Interpreti: Russell Crowe, Joaquin Phoenix, Connie Nielsen, Oliver Reed, Richard Harris, Derek Jacobi. USA-Regno Unito, 2000.

97 - Cinderella Man (Cinderella Man - Una ragione per lottare). Regia: Ron Howard. Sceneggiatura: Cliff Hollingsworth, Akiva Goldsman. Fotografia: Salvatore Totino. Musica: Thomas Newman. Interpreti: Russell Crowe, Renée Zellweger, Paul Giamatti, Craig Bierko. USA, 2005.

96 - Vozvrashcheniye (Il ritorno). Regia: Andrej Zvjagintsev. Sceneggiatura: Vladimir Moiseenko, Aleksandr Novototskij-Vlasov. Fotografia: Mikhail Krichman. Musica: Andrej Dergachev. Interpreti: Vladimir Garin, Ivan Dobronravov. Russia, 2003.

95 - Finding Nemo (Alla ricerca di Nemo). Film d’animazione Walt Disney Pictures/Pixar Animation Studios. Regia: Andrew Stanton, Lee Unkrich. Sceneggiatura: Andrew Stanton, Bob Peterson, David Reynolds. Fotografia: Sharon Calahan, Jeremy Lasky. Musica: Thomas Newman. USA, 2003.

94 - Inside Man. Regia: Spike Lee. Sceneggiatura: Russell Gewirtz. Fotografia: Matthew Libatique. Musica: Terence Blanchard. Interpreti: Denzel Washington, Clive Owen, Jodie Foster, Christopher Plummer, Willem Dafoe, Chiwetel Ejiofor. USA, 2006.

93 - Children of Men (I figli degli uomini). Regia: Alfonso Cuarón. Sceneggiatura: Alfonso Cuarón, Timothy J. Sexton, David Arata, Mark Fergus, Hawk Ostby, da un romanzo di P.D. James. Fotografia: Emmanuel Lubezki. Musica: John Tavener. Interpreti: Clive Owen, Juan Gabriel Yacuzzi, Michael Caine, Mishal Husain, Rob Curling, Chiwetel Ejiofor, Jon Chevalier, Julianne Moore. USA-Regno Unito, 2006.

92 - The Dark Knight (Il cavaliere oscuro). Regia: Christopher Nolan. Sceneggiatura: Christopher Nolan, Jonathan Nolan. Fotografia: Wally Pfister. Musica: James Newton Howard, Hans Zimmer. Interpreti: Christian Bale, Heath Ledger, Aaron Eckhart, Michael Caine, Maggie Gyllenhaal, Gary Oldman, Morgan Freeman, Cillian Murphy. USA-Regno Unito, 2008.

91 - The Devil Wears Prada (Il diavolo veste Prada). Regia: David Frankel. Sceneggiatura: Aline Brosh McKenna. Fotografia: Florian Ballhaus. Musica: Theodore Shapiro. Interpreti: Meryl Streep, Anne Hathaway, Emily Blunt, Stanley Tucci. USA-Francia, 2006.

90 - Waking Life. Regia: Richard Linklater. Sceneggiatura: Richard Linklater. Fotografia: Richard Linklater, Tommy Pallotta. Musica: Glover Gill. Interpreti: Ethan Hawke, Julie Delpy, Adam Goldberg, Trevor Jack Brooks, Lorelei Linklater. USA, 2001.

89 - Babel. Regia: Alejandro González Iñárritu. Sceneggiatura: Guillermo Arriaga. Fotografia: Rodrigo Prieto. Musica: Gustavo Santaolalla. Interpreti: Brad Pitt, Cate Blanchett, Gael García Bernal, Adriana Barraza, Elle Fanning, Emilio Echevarría, Rinko Kikuchi, Kôji Yakusho. USA-Francia-Messico, 2006.
Brad Pitt in Babel di Alejandro González Iñárritu.

88 - There Will Be Blood (Il petroliere). Regia: Paul Thomas Anderson. Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson, dal romanzo di Upton Sinclair. Fotografia: Robert Elswit. Musica: Jonny Greenwood. Interpreti: Daniel Day-Lewis, Martin Stringer, Matthew Braden Stringer, Jacob Stringer. USA, 2007.

87 - Capote (Truman Capote - A sangue freddo). Regia: Bennett Miller. Sceneggiatura: Dan Futterman, dal libro di Gerald Clarke. Fotografia: Adam Kimmel. Musica: Mychael Danna. Interpreti: Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Allie Mickelson. USA-Canada, 2005.

86 - The Boy in the Striped Pyjamas (Il bambino con il pigiama a righe). Regia: Mark Herman. Sceneggiatura: Mark Herman, da un romanzo di John Boyne. Fotografia: Benoît Delhomme. Musica: James Horner. Interpreti: Asa Butterfield, Zac Mattoon O’Brien, David Thewlis, Vera Farmiga. USA-Regno Unito, 2008.

85 - Volver. Regia: Pedro Almodóvar. Sceneggiatura: Pedro Almodóvar. Fotografia: José Luis Alcaine. Musica: Alberto Iglesias. Interpreti: Penélope Cruz, Carmen Maura, Lola Dueñas, Blanca Portillo, Yohana Cobo, Chus Lampreave. Spagna, 2006.

84 - Rescue Dawn (L’alba della libertà). Regia: Werner Herzog. Sceneggiatura: Werner Herzog. Fotografia: Peter Zeitlinger. Musica: Klaus Badelt. Interpreti: Christian Bale, Steve Zahn, Zach Grenier, Marshall Bell. USA, 2006.

83 - Road to Perdition (Era mio padre). Regia: Sam Mendes. Sceneggiatura: David Self, da una graphic novel di Max Allan Collins e Richard Piers Rayner. Fotografia: Conrad L. Hall. Musica: Thomas Newman. Interpreti: Tom Hanks, Paul Newman, Jennifer Jason Leigh, Daniel Craig, Ciarán Hinds, Tyler Hoechlin, Stanley Tucci, Jude Law. USA, 2002.

82 - An Education. Regia: Lone Scherfig. Sceneggiatura: Nick Hornby, da un memoir di Lynn Barber. Fotografia: John de Borman. Musica: Paul Englishby. Interpreti: Carey Mulligan, Peter Sarsgaard, Alfred Molina, Cara Seymour, Dominic Cooper, Rosamund Pike, Olivia Williams, Emma Thompson. Regno Unito-USA, 2009.

81 - Låt den rätte komma in (Lasciami entrare). Regia: Tomas Alfredson. Sceneggiatura: John Ajvide Lindqvist. Fotografia: Hoyte Van Hoytema. Musica: Johan Söderqvist. Interpreti: Kåre Hedebrant, Lina Leandersson, Per Ragnar, Henrik Dahl. Svezia, 2008.

80 - Sanxia haoren (Still Life). Regia: Jia Zhangke. Sceneggiatura: Jia Zhangke, Na Guan, Jiamin Sun. Fotografia: Nelson Yu Lik-wai. Musica: Giong Lim. Interpreti: Tao Zhao, Zhou Lan, Sanming Han, Lizhen Ma. Cina-Hong Kong, 2006.

79 - Liam. Regia: Stephen Frears. Sceneggiatura: Jimmy McGovern. Fotografia: Andrew Dunn. Musica: John Murphy. Interpreti: Anthony Borrows, Ian Hart, Claire Hackett. Regno Unito-Germania-Francia-Italia, 2000.

78 - A Beautiful Mind. Regia: Ron Howard. Sceneggiatura: Akiva Goldsman, dal libro di Sylvia Nasar. Fotografia: Roger Deakins. Musica: James Horner. Interpreti: Russell Crowe, Ed Harris, Jennifer Connelly, Christopher Plummer, Paul Bettany, Adam Goldberg. USA, 2001.

77 - Okuribito (Departures). Regia: Yôjirô Takita. Sceneggiatura: Kundô Koyama. Fotografia: Takeshi Hamada. Musica: Joe Hisaishi. Interpreti: Masahiro Motoki, Tsutomu Yamazaki, Ryôko Hirosue. Giappone, 2009.

76 - Il divo. Regia: Paolo Sorrentino. Sceneggiatura: Paolo Sorrentino. Fotografia: Luca Bigazzi. Musica: Teho Teardo. Interpreti: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti. Italia-Francia, 2008.

75 - No Country for Old Men (Non è un paese per vecchi). Regia: Ethan Coen, Joel Coen. Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen, dal romanzo di Cormac McCarthy. Fotografia: Roger Deakins. Musica: Carter Burwell. Interpreti: Tommy Lee Jones, Javier Bardem, Josh Brolin, Woody Harrelson. USA, 2007.

74 - Slumdog Millionaire (The Millionaire). Regia: Danny Boyle, Loveleen Tandan. Sceneggiatura: Simon Beaufoy, da un romanzo di Vikas Swarup. Fotografia: Anthony Dod Mantle. Musica: A.R. Rahman. Interpreti: Dev Patel, Saurabh Shukla, Anil Kapoor, Rajendranath Zutshi. Regno Unito, 2008.

73 - Zir-e poost-e shahr (Sotto la pelle della città). Regia: Rakhshan Bani-Etemad. Sceneggiatura: Rakhshan Bani-Etemad, Farid Mostafavi. Fotografia: Hossein Jafarian. Interpreti: Golab Adineh, Mohammad Reza Forutan, Baran Kosari, Ebrahim Sheibani. Iran, 2001.

72 - Brødre (Non desiderare la donna d’altri). Regia: Susanne Bier. Sceneggiatura: Susanne Bier, Anders Thomas Jensen. Fotografia: Morten Søborg. Musica: Johan Söderqvist. Interpreti: Connie Nielsen, Ulrich Thomsen, Nikolaj Lie Kaas, Sarah Juel Werner. Danimarca-Regno Unito-Svezia-Norvegia, 2004.

71 - The Wind That Shakes the Barley (Il vento che accarezza l’erba). Regia: Ken Loach. Sceneggiatura: Paul Laverty. Fotografia: Barry Ackroyd. Musica: George Fenton. Interpreti: Cillian Murphy, Pádraic Delaney, Liam Cunningham, Orla Fitzgerald, Mary O’Riordan. Francia-Irlanda-Regno Unito, 2006.
Cillian Murphy e Pádraic Delaney ne Il vento che accarezza l’erba di Ken Loach.

70 - Bowling for Columbine (Bowling a Columbine). Documentario. Regia: Michael Moore. Sceneggiatura: Michael Moore. Musica: Jeff Gibbs. Canada-USA-Germania, 2002.

69 - Moartea domnului Lãzãrescu (La morte del signor Lazarescu). Regia: Cristi Puiu. Sceneggiatura: Cristi Puiu, Razvan Radulescu. Fotografia: Andrei Butica, Oleg Mutu. Musica: Andreea Paduraru. Interpreti: Ion Fiscuteanu, Luminita Gheorghiu, Doru Ana, Dorian Boguta. Romania, 2005.

68 - Requiem for a Dream. Regia: Darren Aronofsky. Sceneggiatura: Hubert Selby Jr., Darren Aronofsky. Fotografia: Matthew Libatique. Musica: Clint Mansell. Interpreti: Ellen Burstyn, Jared Leto, Jennifer Connelly, Marlon Wayans. USA, 2000.

67 - Thank You for Smoking. Regia: Jason Reitman. Sceneggiatura: Jason Reitman. Fotografia: Jim Whitaker. Musica: Rolfe Kent. Interpreti: Aaron Eckhart, Maria Bello, William H. Macy, Katie Winslow, Robert Duvall, Katie Holmes, Adam Brody, Timothy Dowling, Rob Lowe. USA, 2005.

66 - No Man’s Land. Regia: Danis Tanovic. Sceneggiatura: Danis Tanovic. Fotografia: Walther van den Ende. Musica: Danis Tanovic. Interpreti: Branko Djuric, Rene Bitorajac, Filip Sovagovic, Georges Siatidis. Bosnia Erzegovina-Francia-Slovenia-Italia-Regno Unito-Belgio, 2001.

65 - Good Bye, Lenin! Regia: Wolfgang Becker. Sceneggiatura: Wolfgang Becker, Bernd Lichtenberg. Fotografia: Martin Kukula. Musica: Yann Tiersen. Interpreti: Daniel Brühl, Katrin Saß, Chulpan Khamatova, Maria Simon. Germania, 2003.

64 - Uzak. Regia: Nuri Bilge Ceylan. Sceneggiatura: Nuri Bilge Ceylan, Cemil Kavukçu. Fotografia: Nuri Bilge Ceylan. Musica: Wolfgang Amadeus Mozart. Interpreti: Muzaffer Özdemir, Emin Toprak, Zuhal Gencer, Nazan Kirilmi. Turchia, 2002.

63 - Fa yeung nin wa (In the Mood for Love). Regia: Kar Wai Wong. Sceneggiatura: Kar Wai Wong. Fotografia: Christopher Doyle, Mark Lee Ping-bing. Musica: Michael Galasso, Shigeru Umebayashi. Interpreti: Maggie Cheung, Tony Chiu-Wai Leung, Ping Lam Siu. Hong Kong-Francia, 2000.

62 - El hijo de la novia (Il figlio della sposa). Regia: Juan José Campanella. Sceneggiatura: Juan José Campanella, Fernando Castets. Fotografia: Daniel Shulman. Musica: Ángel Illarramendi. Interpreti: Ricardo Darín, Héctor Alterio, Norma Aleandro, Eduardo Blanco, Natalia Verbeke. Argentina-Spagna, 2001.

61 - In America (In America - Il sogno che non c’era). Regia: Jim Sheridan. Sceneggiatura: Jim Sheridan, Naomi Sheridan, Kirsten Sheridan. Fotografia: Declan Quinn. Musica: Gavin Friday, Maurice Seezer. Interpreti: Paddy Considine, Samantha Morton, Sarah Bolger, Emma Bolger. Irlanda-Regno Unito, 2003.

60 - Up in the Air (Tra le nuvole). Regia: Jason Reitman. Sceneggiatura: Jason Reitman, Sheldon Turner. Fotografia: Eric Steelberg. Musica: Rolfe Kent. Interpreti: George Clooney, Vera Farmiga, Anna Kendrick, Jason Bateman. USA, 2009.

59 - Diarios de motocicleta (I diari della motocicletta). Regia: Walter Salles. Sceneggiatura: José Rivera, da scritti di Ernesto “Che” Guevara e Alberto Granado. Fotografia: Eric Gautier. Musica: Gustavo Santaolalla. Interpreti: Gael García Bernal, Rodrigo de la Serna, Mía Maestro, Mercedes Morán. Argentina-USA-Cuba-Germania-Messico-Regno Unito-Cile-Peru-Francia, 2004.

58 - Billy Elliot. Regia: Stephen Daldry. Sceneggiatura: Lee Hall. Fotografia: Brian Tufano. Musica: Stephen Warbeck. Interpreti: Jamie Bell, Jean Heywood, Jamie Draven. Regno Unito-Francia, 2000.

57 - Master and Commander - The Far Side of the World (Master and Commander: Sfida ai confini del mare). Regia: Peter Weir. Sceneggiatura: Peter Weir, John Collee, da un libro di Patrick O’Brian. Fotografia: Russell Boyd. Musica: Iva Davies, Christopher Gordon, Richard Tognetti. Interpreti: Russell Crowe, Paul Bettany, James D’Arcy, Edward Woodall. USA, 2003.

56 - Merci pour le chocolat (Grazie per la cioccolata). Regia: Claude Chabrol. Sceneggiatura: Claude Chabrol, Caroline Eliacheff, da un romanzo di Charlotte Armstrong. Fotografia: Renato Berta. Musica: Matthieu Chabrol. Interpreti: Isabelle Huppert, Jacques Dutronc, Anna Mouglalis, Rodolphe Pauly, Brigitte Catillon. Francia-Svizzera, 2000.

55 - Memento. Regia: Christopher Nolan. Sceneggiatura: Christopher Nolan. Fotografia: Wally Pfister. Musica: David Julyan. Interpreti: Guy Pearce, Carrie-Anne Moss, Joe Pantoliano, Mark Boone Junior. USA, 2000.

54 - Hable con ella (Parla con lei). Regia: Pedro Almodóvar. Sceneggiatura: Pedro Almodóvar. Fotografia: Javier Aguirresarobe. Musica: Alberto Iglesias. Interpreti: Javier Cámara, Darío Grandinetti, Leonor Watling, Rosario Flores, Mariola Fuentes, Geraldine Chaplin, Pina Bausch. Spagna, 2002.

53 - Kukushka. Regia: Aleksandr Rogozhkin. Sceneggiatura: Aleksandr Rogozhkin. Fotografia: Andrej Zhegalov. Musica: Dmitrij Pavlov. Interpreti: Anni-Kristiina Juuso, Ville Haapasalo, Viktor Bychkov. Russia, 2002.

52 - The Visitor (L’ospite inatteso). Regia: Tom McCarthy. Sceneggiatura: Tom McCarthy. Fotografia: Oliver Bokelberg. Musica: Jan A.P. Kaczmarek. Interpreti: Richard Jenkins, Haaz Sleiman, Danai Gurira, Hiam Abbass, Marian Seldes. USA, 2007.

51 - Darbareye Elly (About Elly). Regia: Asghar Farhadi. Sceneggiatura: Asghar Farhadi, Azad Jafarian. Fotografia: Hossein Jafarian. Musica: Andrea Bauer. Interpreti: Golshifteh Farahani, Shahab Hosseini, Taraneh Alidoosti. Iran-Francia, 2009.

50 - Big Fish (Big Fish - Le storie di una vita incredibile). Regia: Tim Burton. Sceneggiatura: John August, da un romanzo di Daniel Wallace. Fotografia: Philippe Rousselot. Musica: Danny Elfman. Interpreti: Ewan McGregor, Albert Finney, Billy Crudup, Jessica Lange, Helena Bonham Carter, Alison Lohman, Robert Guillaume, Marion Cotillard. USA, 2003.

49 - Before the Devil Knows You’re Dead (Onora il padre e la madre). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Kelly Masterson. Fotografia: Ron Fortunato. Musica: Carter Burwell. Interpreti: Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Albert Finney, Marisa Tomei. USA, 2007.

48 - Mystic River. Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Brian Helgeland, Dennis Lehane. Fotografia: Tom Stern. Musica: Clint Eastwood. Interpreti: Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon, Laurence Fishburne, Marcia Gay Harden, Laura Linney. USA-Australia, 2003.

47 - Blood Diamond (Blood Diamond - Diamanti di sangue). Regia: Edward Zwick. Sceneggiatura: Charles Leavitt. Fotografia: Eduardo Serra. Musica: James Newton Howard. Interpreti: Leonardo DiCaprio, Djimon Hounsou, Jennifer Connelly. USA-Germania, 2006.

46 - Redacted. Regia: Brian De Palma. Sceneggiatura: Brian De Palma. Fotografia: Jonathon Cliff. Interpreti: Patrick Carroll, Izzy Diaz, Rob Devaney, Ty Jones, Anas Wellman, Mike Figueroa. USA-Canada, 2007.
Una scena da Redacted di Brian De Palma.

45 - Y tu mamá también (Y tu mamá también - Anche tua madre). Regia: Alfonso Cuarón. Sceneggiatura: Alfonso Cuarón, Carlos Cuarón. Fotografia: Emmanuel Lubezki. Interpreti: Maribel Verdú, Gael García Bernal, Ana López Mercado, Diego Luna. Messico, 2001.

44 - Der Untergang (La caduta - Gli ultimi giorni di Hitler). Regia: Oliver Hirschbiegel. Sceneggiatura: Bernd Eichinger, da un libro di Joachim Fest. Fotografia: Rainer Klausmann. Musica: Stephan Zacharias. Interpreti: Bruno Ganz, Alexandra Maria Lara, Corinna Harfouch, Ulrich Matthes. Germania-Italia-Austria, 2004.

43 - Good Night, and Good Luck. Regia: George Clooney. Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov. Fotografia: Robert Elswit. Musica: Jim Papoulis. Interpreti: Jeff Daniels, David Strathairn, Alex Borstein. USA-Francia-Regno Unito-Giappone, 2005.

42 - Bin-jip (Ferro 3 - La casa vuota). Regia: Kim Ki-duk. Sceneggiatura: Kim Ki-duk. Fotografia: Seong-back Jang. Musica: Sivian. Interpreti: Seung-yeon Lee, Hyun-kyoon Lee, Hyuk-ho Kwon. Corea del Sud-Giappone, 2004.

41 - Les Invasions barbares (Le invasioni barbariche). Regia: Denys Arcand. Sceneggiatura: Denys Arcand. Fotografia: Guy Dufaux. Musica: Pierre Aviat. Interpreti: Rémy Girard, Stéphane Rousseau, Marie-Josée Croze, Marina Hands. Canada-Francia, 2003.

40 - The Hurt Locker. Regia: Kathryn Bigelow. Sceneggiatura: Mark Boal. Fotografia: Barry Ackroyd. Musica: Marco Beltrami, Buck Sanders. Interpreti: Jeremy Renner, Anthony Mackie, Brian Geraghty, Guy Pearce, Ralph Fiennes, David Morse.
Una scena da The Hurt Locker di Kathryn Bigelow.

39 - Ratatouille. Film d’animazione Walt Disney Pictures/Buena Vista. Regia: Brad Bird, Jan Pinkava. Sceneggiatura: Brad Bird, Jim Capobianco, Jan Pinkava. Musica: Michael Giacchino. USA, 2007.

38 - Lagaan: Once Upon a Time in India (Lagaan - C’era una volta in india). Regia: Ashutosh Gowariker. Sceneggiatura: Ashutosh Gowariker, Kumar Dave, Sanjay Dayma, K.P. Saxena. Fotografia: Anil Mehta. Musica: A.R. Rahman. Interpreti: Aamir Khan, Gracy Singh, Rachel Shelley, Paul Blackthorne. India, 2001.

37 - Before Sunset (Prima del tramonto). Regia: Richard Linklater. Sceneggiatura: Richard Linklater, Kim Krizan. Fotografia: Lee Daniel. Interpreti: Ethan Hawke, Julie Delpy, Vernon Dobtcheff. USA, 2004.

36 - Enemy at the Gates (Il nemico alle porte). Regia: Jean-Jacques Annaud. Sceneggiatura: Jean-Jacques Annaud, Alain Godard. Fotografia: Robert Fraisse. Musica: James Horner. Interpreti: Jude Law, Ed Harris, Rachel Weisz, Joseph Fiennes, Bob Hoskins, Ron Perlman, Eva Mattes. USA-Regno Unito-Germania-Irlanda-Francia, 2001.

35 - I’m Not There (Io non sono qui). Regia: Todd Haynes. Sceneggiatura: Todd Haynes, Oren Moverman. Fotografia: Edward Lachman. Musica: Bob Dylan. Interpreti: Cate Blanchett, Ben Whishaw, Christian Bale, Richard Gere, Marcus Carl Franklin, Heath Ledger, Kris Kristofferson. USA, 2007.

34 - Brokeback Mountain (I segreti di Brokeback Mountain). Regia: Ang Lee. Sceneggiatura: Larry McMurtry, Diana Ossana, da un racconto di E. Annie Proulx. Fotografia: Rodrigo Prieto. Musica: Gustavo Santaolalla. Interpreti: Heath Ledger, Jake Gyllenhaal, Randy Quaid, Valerie Planche, Michelle Williams. USA, 2005.

33 - Far from Heaven (Lontano dal paradiso). Regia: Todd Haynes. Sceneggiatura: Todd Haynes. Fotografia: Edward Lachman. Musica: Elmer Bernstein. Interpreti: Julianne Moore, Dennis Quaid, Dennis Haysbert, Patricia Clarkson, Viola Davis. USA-Francia, 2002.

32 - El secreto de sus ojos (Il segreto dei suoi occhi). Regia: Juan José Campanella. Sceneggiatura: Eduardo Sacheri, Juan José Campanella, da un romanzo di Eduardo Sacheri. Fotografia: Félix Monti. Musica: Federico Jusid. Interpreti: Soledad Villamil, Ricardo Darín, Carla Quevedo, Pablo Rago. Argentina-Spagna, 2009.

31 - Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran (Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano). Regia: François Dupeyron. Sceneggiatura: François Dupeyron, da un romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt. Fotografia: Rémy Chevrin. Interpreti: Omar Sharif, Pierre Boulanger, Gilbert Melki, Isabelle Renauld. Francia, 2003.

30 - Die Fälscher (Il falsario - Operazione Bernhard). Regia: Stefan Ruzowitzky. Sceneggiatura: Stefan Ruzowitzky, dal libro di Adolf Burger. Fotografia: Benedict Neuenfels. Musica: Marius Ruhland. Interpreti: Karl Markovics, August Diehl, Devid Striesow, Martin Brambach. Austria-Germania, 2007.

29 - 4 luni, 3 saptamani si 2 zile (4 mesi, 3 settimane, 2 giorni). Regia: Cristian Mungiu. Sceneggiatura: Cristian Mungiu. Fotografia: Oleg Mutu. Interpreti: Anamaria Marinca, Laura Vasiliu, Vlad Ivanov, Alexandru Potocean, Luminita Gheorghiu. Romania-Belgio, 2007.

28 - Le Concert (Il concerto). Regia: Radu Mihaileanu. Sceneggiatura: Radu Mihaileanu, Alain-Michel Blanc, Matthew Robbins, da un soggetto originale di Héctor Cabello Reyes e Thierry Degrandi. Fotografia: Laurent Dailland. Musica: Armand Amar. Interpreti: Aleksej Guskov, Dmitrij Nazarov, Mélanie Laurent, François Berléand, Miou-Miou. Francia-Italia-Romania-Belgio, 2009.

27 - Les Choristes (Les Choristes - I ragazzi del coro). Regia: Christophe Barratier. Sceneggiatura: Christophe Barratier, Philippe Lopes-Curval da Georges Chaperot, René Wheeler, Noël-Noël. Fotografia: Jean-Jacques Bouhon, Dominique Gentil, Carlo Varini. Musica: Bruno Coulais, Christophe Barratier. Interpreti: Gérard Jugnot, François Berléand, Kad Merad, Jean-Paul Bonnaire. Francia-Germania-Svizzera, 2004.

26 - Gomorra. Regia: Matteo Garrone. Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Roberto Saviano, dal libro di Roberto Saviano. Fotografia: Marco Onorato. Interpreti: Toni Servillo, Salvatore Ruocco, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale. Italia, 2008.

25 - Monsoon Wedding (Monsoon Wedding - Matrimonio indiano). Regia: Mira Nair. Sceneggiatura: Sabrina Dhawan. Fotografia: Declan Quinn. Musica: Mychael Danna. Interpreti: Naseeruddin Shah, Lillete Dubey, Shefali Shetty, Vijay Raaz. India-USA-Francia-Italia-Germania, 2001.

24 - Moulin Rouge! Regia: Baz Luhrmann. Sceneggiatura: Baz Luhrmann, Craig Pearce. Fotografia: Donald McAlpine. Musica: Craig Armstrong. Interpreti: Nicole Kidman, Ewan McGregor, John Leguizamo, Jim Broadbent, Richard Roxburgh. Australia-USA, 2001.

23 - Russkij kovcheg (Arca russa). Regia: Aleksandr Sokurov. Sceneggiatura: Boris Khaimskij, Anatoli Nikiforov, Svetlana Proskurina, Aleksandr Sokurov. Fotografia: Tilman Büttner. Musica: Sergej Evtushenko. Interpreti: Sergei Dontsov, Marija Kuznetsova, Leonid Mozgovoy. Russia-Germania, 2002.

22 - Million Dollar Baby. Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Paul Haggis, da F.X. Toole. Fotografia: Tom Stern. Musica: Clint Eastwood, David Potaux-Razel. Interpreti: Clint Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman, Jay Baruchel. USA, 2004.

21 - The Departed (The Departed - Il bene e il male). Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura: William Monahan, Siu Fai Mak, Felix Chong. Fotografia: Michael Ballhaus. Musica: Howard Shore. Interpreti: Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Mark Wahlberg, Martin Sheen, Ray Winstone, Vera Farmiga, Anthony Anderson, Alec Baldwin. USA-Hong Kong, 2006.

20 - Bārān. Regia: Majid Majidi. Sceneggiatura: Majid Majidi. Fotografia: Mohammad Davudi. Musica: Ahmad Pezhman. Interpreti: Hossein Abedini, Zahra Bahrami, Mohammad Amir Naji, Hossein Mahjoub. Iran, 2001.

19 - Collateral. Regia: Michael Mann. Sceneggiatura: Stuart Beattie. Fotografia: Dion Beebe, Paul Cameron. Musica: James Newton Howard. Interpreti: Tom Cruise, Jamie Foxx, Jada Pinkett Smith, Mark Ruffalo. USA, 2004.

18 - The Others. Regia: Alejandro Amenábar. Sceneggiatura: Alejandro Amenábar. Fotografia: Javier Aguirresarobe. Musica: Alejandro Amenábar. Interpreti: Nicole Kidman, Fionnula Flanagan, Christopher Eccleston. USA-Spagna-Francia-Italia, 2001.

17 - L’Emploi du temps (A tempo pieno). Regia: Laurent Cantet. Sceneggiatura: Laurent Cantet, Robin Campillo. Fotografia: Pierre Milon. Musica: Jocelyn Pook. Interpreti: Aurélien Recoing, Karin Viard, Serge Livrozet. Francia, 2001.

16 - Amores perros. Regia: Alejandro González Iñárritu. Sceneggiatura: Guillermo Arriaga Jordán. Fotografia: Rodrigo Prieto. Musica: Gustavo Santaolalla. Interpreti: Emilio Echevarría, Gael García Bernal, Goya Toledo, Álvaro Guerrero. Messico, 2000.

15 - The Ice Age (L’era glaciale). Film d’animazione della 20th Century Fox. Regia: Chris Wedge, Carlos Saldanha. Sceneggiatura: Michael J. Wilson, Michael Berg, Peter Ackerman, James Bresnahan, Doug Compton, Mike Thurmeier, Jeff Siergey, Galen T. Chu, Xeth Feinberg. Musica: David Newman. USA, 2002.

14 - I cento passi. Regia: Marco Tullio Giordana. Sceneggiatura: Claudio Fava, Marco Tullio Giordana, Monica Zapelli. Fotografia: Roberto Forza, Stefano Paradiso. Interpreti: Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano, Lucia Sardo. Italia, 2000.

13 - In Bruges (In Bruges - La coscienza dell’assassino). Regia: Martin McDonagh. Sceneggiatura: Martin McDonagh. Fotografia: Eigil Bryld. Musica: Carter Burwell. Interpreti: Colin Farrell, Brendan Gleeson, Ralph Fiennes, Clémence Poésy. Regno Unito-USA, 2008.

12 - Paradise Now. Regia: Hany Abu-Assad. Sceneggiatura: Hany Abu-Assad, Bero Beyer, Pierre Hodgson. Fotografia: Antoine Héberlé. Musica: Jina Sumedi. Interpreti: Kais Nashif, Ali Suliman, Lubna Azabal, Hamza Abu-Aiaash. Palestina-Francia-Germania-Paesi Bassi-Israele, 2005.

11 - Entre les murs (La classe). Regia: Laurent Cantet. Sceneggiatura: Laurent Cantet, Robin Campillo, François Bégaudeau. Fotografia: Pierre Milon. Interpreti: François Bégaudeau, Agame Malembo-Emene, Angélica Sancio, Arthur Fogel, Boubacar Toure. Francia, 2008.

10 - Hotel Rwanda. Regia: Terry George. Sceneggiatura: Keir Pearson, Terry George. Fotografia: Robert Fraisse. Musica: Afro Celt Sound System, Rupert Gregson-Williams, Andrea Guerra. Interpreti: Don Cheadle, Sophie Okonedo, Nick Nolte, Joaquin Phoenix, Jean Reno, Xolani Mali. Regno Unito-Sudafrica-Italia, 2004.

9 - Das weiße Band - Eine deutsche Kindergeschichte (Il nastro bianco). Regia: Michael Haneke. Sceneggiatura: Michael Haneke. Fotografia: Christian Berger. Interpreti: Christian Friedel, Ernst Jacobi, Leonie Benesch, Leonard Proxauf, Ulrich Tukur. Austria-Francia-Germania-Italia, 2009.
Leonard Proxauf ne Il nastro bianco di Michael Haneke.

8 - The Man Who Wasn’t There (L’uomo che non c’era). Regia: Ethan Coen, Joel Coen. Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen. Fotografia: Roger Deakins. Musica: Carter Burwell. Interpreti: Billy Bob Thornton, Frances McDormand, Michael Badalucco, James Gandolfini, Katherine Borowitz, Jon Polito, Scarlett Johansson, Richard Jenkins. USA-Regno Unito, 2001.

7 - Match Point. Regia: Woody Allen. Sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Remi Adefarasin. Musica: Gaetano Donizetti, Giuseppe Verdi. Interpreti: Matthew Goode, Brian Cox, Jonathan Rhys Meyers, Emily Mortimer, Scarlett Johansson, Penelope Wilton. Regno Unito-Russia-Irlanda-Lussemburgo-USA, 2005.

6 - The Believer. Regia: Henry Bean. Sceneggiatura: Mark Jacobson, Henry Bean. Fotografia: Jim Denault. Musica: Joel Diamond. Interpreti: Ryan Gosling, Peter Meadows, Garret Dillahunt. USA, 2001.
Ryan Gosling in The Believer di Henry Bean.

5 - Un Prophète (Il profeta). Regia: Jacques Audiard. Sceneggiatura: Thomas Bidegain, Jacques Audiard, Abdel Raoul Dafri, Nicolas Peufaillit. Fotografia: Stéphane Fontaine. Musica: Alexandre Desplat. Interpreti: Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Hichem Yacoubi. Francia-Italia, 2009.
Tahar Rahim ne Il profeta di Jacques Audiard.

4 - Cidade de Deus (City of God). Regia: Fernando Meirelles, Kátia Lund. Sceneggiatura: Bráulio Mantovani. Fotografia: Cesar Charlone. Musica: Antonio Pinto, Ed Cortês. Interpreti: Alexandre Rodrigues, Leandro Firmino, Phellipe Haagenssen, Douglas Silva. Brasile-Francia, 2002.
Una scena da City of God di Fernando Meirelles.

3 - The Pianist (Il pianista). Regia: Roman Polanski. Sceneggiatura: Ronald Harwood, dal libro di Wladyslaw Szpilman. Fotografia: Pawel Edelman. Musica: Wojciech Kilar. Interpreti: Adrien Brody, Thomas Kretschmann, Emilia Fox, Michal Zebrowski. Polonia-Francia, 2002.

2 - Gran Torino. Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Nick Schenk, da un soggetto di Dave Johansson e Nick Schenk. Fotografia: Tom Stern. Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens. Interpreti: Clint Eastwood, Christopher Carley, Bee Vang. USA-Germania, 2008.

1 - Das Leben der Anderen (Le vite degli altri). Regia: Florian Henckel von Donnersmarck. Sceneggiatura: Florian Henckel von Donnersmarck. Fotografia: Hagen Bogdanski. Musica: Stéphane Moucha, Gabriel Yared. Interpreti: Martina Gedeck, Ulrich Mühe, Sebastian Koch. Germania, 2006.

© Pasquale Barbella










La Casa del Sole Nascente

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Quando, nel 1964, il gruppo di progressive rock britannico The Animals impressionò gli adolescenti di mezzo mondo con House of the Rising Sun, in molti credettero che quello fosse un pezzo originale scritto da Alan Price, il tastierista della band. Non così gli appassionati di folk, che conoscevano bene quella canzone e sapevano che aveva radici antichissime. Prima che arrivasse la versione degli Animals si era già fatta sentire fino allo sfinimento nei club del Village newyorkese, all’epoca d’oro del folk revival, e ne erano circolate numerose incisioni vecchie e nuove, anche di celebrità come The Weavers, Joan Baez e Dave Van Ronk. In realtà anche quella dei folksinger del Village era l’ennesima riscoperta: nel dopoguerra avevano visitato la «Casa del Sole Nascente» i loro padri del dopoguerra, da Woody Guthrie a Leadbelly. E c’era addirittura una dimenticata incisione del 1928 del bluesman Alger “Texas” Alexander, cugino di Lightnin’ Hopkins (ci informa Wikipedia, tra l’altro, che nel 1939 Alexander assassinò sua moglie). Ma le radici di House of the Rising Sun sono assai più remote di quanto possano ricordarci la sua discografia e le cronache del Novecento.

La melodia presenta qualche somiglianza con quella di Matty Groves, ballata inglese del Seicento, e della successiva variante Little Musgrave and Lady Barnard, proveniente dalla contea del Suffolk. I due testi raccontano di una tragica storia di adulterio: un giorno di festa Matty Groves (o il giovane Musgrave) va in chiesa e durante la messa intercetta gli sguardi concupiscenti della signora Barnard. L’adescatrice lo invita a casa e se lo porta a letto, confidando nell’assenza del marito. Ma un paggio zelante corre ad avvertire il signor Barnard, che li coglie in flagrante e passa alle vie di fatto. Per non ammazzare un uomo nudo e disarmato, Barnard dà a Matty-Musgrave il tempo di rivestirsi e gli concede persino una spada; ma il duello si risolve con la propria morte. «Cornuto e mazziato», si direbbe da noi.

L’infaticabile ricercatore Alan Lomax riferisce di aver sentito cantare da Harry Cox, folksinger inglese, i versi:

If you go to Lowestoft and ask for the Rising Sun,
there you’ll find two old whores, and my old woman’s one,

«Se vai a Lowestoft e cerchi il Sole Nascente, / ci trovi due vecchie puttane, e una è la mia donna.» Lowestoft è un antico e tuttora importante porto di pesca del Suffolk. Non è del tutto improbabile che ci fosse un bordello denominato Rising Sun, già prima che la canzone prendesse il largo per l’America e raggiungesse gli Appalachi e poi New Orleans, dov’è ambientato il Rising Sun della versione più nota. Lomax ritiene trattarsi di una canzone su un bordello inglese o irlandese risalente all’epoca del regno di Giacomo I d’Inghilterra, fra il 1603 e il 1625. L’ambientazione della storia a New Orleans, sostiene lo studioso, è il risultato dell’interesse che i musicisti jazz della città manifestarono per la canzone agli inizi del secolo XX. Guarda caso, nel Quartiere Francese e nelle sue adiacenze non mancavano né bordelli né insegne intitolate al Sole Nascente. C’era un Rising Sun Coffee al n. 9 di Old Levee Street (oggi il 115 di Decatur Street). Un Rising Sun Hotel in Conti Street, distrutto da un incendio nel 1922: un’associazione di storici ha fatto demolire un parcheggio all’inizio del 2005 alla ricerca di tracce dell’albergo che, secondo la pubblicità dell’epoca, forniva «un servizio attento alle esigenze degli ospiti.» E il bordello di Madame Marianne du Soleil Levant (Madame Marianne del Sol Levante), dove ai piaceri della carne si alternavano cerimonie vudù.

Il testo della versione circolante a partire dagli anni trenta dipinge realisticamente il miserabile ambiente sociale e la condizione esistenziale delle classi emarginate:

There is a house in New Orleans, they call the Rising Sun,
It’s been the ruin of many poor girls, and me, o God, for one.
If I had listened what Mama said, I’d a-been at home today,
Bein’ so young and foolish, poor boy, let a rambler lead me astray.
Go tell my baby sister never do like I have done,
To shun that house in New Orleans they call the Rising Sun.
My mother she’s a taylor, she sold those new blue jeans,
My sweetheart he’s a drunkard, Lord, drinks down in New Orleans.
The only thing a drunkard needs is a suitcase and a trunk,
The only time he’s satisfied is when he’s on a drunk.
Fills his glasses to the brim and passes them around,
Only pleasure he gets out of life is hoboin’ from town to town.
One foot is on the platform, the other one on the train,
I’m goin’ back to New Orleans to wear that ball and chain.
Goin’ back to New Orleans, my race is almost run,
Goin’ back to spend the rest of my life beneath that Rising Sun.

C’è una casa a New Orleans, la chiamano Sole Nascente,
è stata la rovina di tante povere ragazze, e io, o Dio, sono una di loro.
Se avessi ascoltato la mamma, a quest’ora sarei a casa,
ma giovane e scema com’ero, povera me, mi sono lasciata traviare da un perdigiorno.
Dite alla mia sorellina di non fare come me,
di stare alla larga da quella casa di New Orleans che chiamano Sole Nascente.
Mia madre faceva la sarta, vendeva blue jeans fatti in casa,
il mio uomo è un ubriacone, o Signore, non fa altro che bere in giro per New Orleans.
Tutto ciò che serve a un alcolizzato è una valigia e un baule,
non è soddisfatto finché non ha preso una sbornia.
Riempie i bicchieri fino all’orlo e li passa in giro per il tavolo,
e il solo piacere che ricava dalla vita è gironzolare di città in città.
Con un piede sulla banchina e l’altro sul treno
me ne torno a New Orleans e alla mia palla al piede.
Torno a New Orleans, la mia corsa è quasi finita,
torno a passare il resto della vita sotto quel Sole Nascente.

Un adattamento francese, popolarizzato nel 1964 da Johnny Hallyday e intitolato Le Pénitencier, accredita un’ipotesi alternativa a quella del lupanare: il Rising Sun come prigione. Il folksinger americano Dave Van Ronk sosteneva di aver visto in una vecchia fotografia la facciata della Parish Prison di New Orleans, demolita nel 1895, con un gran bel sole nascente dipinto a mo’ di benvenuto sopra l’ingresso principale. Che sia stata quella la House of theRising Sun? Lo stesso famigerato penitenziario in cui, nel 1891, furono linciati undici detenuti siciliani?

Prigione o bordello che fosse, dopo la versione di Alger Alexander The House of the Rising Sunricomincia a circolare su disco nel 1933, in una interpretazione del duo Tom Clarence Ashley & Gwen Foster per la Vocalion. Tom Ashley diceva di aver imparato il motivo dalla nonna. Lo stesso anno escono la versione di Roy Acuff, divo della country music, e del cantante di gospel Homer Callahan: quest’ultima è intitolata Rounder’s Luck. Il titolo The Rising Sun Bluescompare nel 1937 in un’incisione (curata da Alan Lomax) di Georgia Turner, sedicenne figlia di un minatore del Kentucky.

La triste storia della ragazzina che si prostituisce in un bordello dal nome invitante ha attratto folksinger neri e bianchi e conosciuto molte vite. Negli anni quaranta è stata ripresa dagli Almanac Singers di Pete Seeger e Lee Hays, nonché da Huddie Leadbetter, «Pancia di piombo» Leadbelly, ex detenuto e grande divulgatore nero del repertorio popolare, scoperto da Alan Lomax nel corso delle sue indagini sul folklore musicale americano. In una delle sue incisioni, Leadbelly interpreta la canzone insieme a Woody Guthrie.

All’inizio degli anni sessanta, House of the Rising Sun suscita l’interesse di Nina Simone (sublime la sua versione dal vivo, con la melodia leggermente ammodernata e le parole analizzate una per una: un saggio più efficace di qualsiasi teorizzazione sociologica) e – come già accennato – di una nuova generazione di cantanti folk, a cominciare da Joan Baez, Dave Van Ronk, Doc Watson e un Bob Dylan profondamente influenzato da Woody Guthrie. Ma saranno gli Animals, specialisti britannici di rock elettrico e psichedelico, a fare di Rising Sun un titolo di culto internazionale. L’arrangiatore Alan Price provvede a un memorabile accompagnamento organistico, Eric Burdon canta, Hilton Valentine si dà da fare con la chitarra e John Steel con la batteria, in un 45 giri dal suono sporco e sudato che fa epoca. Il British blues degli Animals invade l’Europa e l’America, guadagnandosi una popolarità paragonabile, inizialmente, a quella dei Rolling Stones. In Gran Bretagna, gli Animals erano stati comunque preceduti di due anni dai Sundowners: la loro versione di House of the Rising Sun fu boicottata dalla BBC.

Selezione discografica

1947, Woody Guthrie, Sod Buster Ballads, Commodore.
1948, Leadbelly, Leadbelly’s Last Sessions Vol. 2, Folkways.
1949, Josh White, Strange Fruit, Mercury.
1953, Hally Wood, O’ Lovely Appearance of Death, Elektra.
1956, Katie Lee, Sings Spicy Songs for Cool Knights, Specialty.
1957, Brother John Sellers, Brother John Sellers in London, London Records.
1957, Glenn Yarbrough, Songs by Glenn Yarbrough, Elektra.
1957, The Chas McDevitt Skiffle Group, Freight Train, Versailles.
1958, Jim Hall & Lee Schaefer, A Girl and a Guitar, United Artists.
1958, Jo Ann Miller, Unrestrained, Audio Fidelity.
1958, Pete Seeger, American Favorite Ballads, Vol. 2, Folkways.
1959, Andy Griffith, Shouts the Blues and Old Timey Songs, Capitol.
1959, Lonnie Donegan and His Skiffle Group, Lonnie Rides Again, Pye Nixa.
1959, The Weavers, Travelling on with The Weavers, Vanguard.
1960, Charlie Byrd Trio, The Guitar Artistry of Charlie Byrd, Riverside.
1960, Joan Baez, Joan Baez, Vanguard.
1960, Miriam Makeba, Miriam Makeba, RCA Victor.
1961, Carolyn Hester, Carolyn Hester, Tradition Records.
1961, Dave Van Ronk, The Folkway Years, Folkways.
1961, Nina Simone, At the Village Gate, Colpix.

1961, Tossi Aaron, Sings Folksongs and Ballads, Prestige.
1962, Bob Dylan, Folk Song Hootenanny (av), Columbia Special Products.
1962, Doc Watson & Tom Clarence Ashley, Original Folkway Recordings 1960-1962, Smithsonian Folkways.
1962, Hugh Masekela, Trumpet Africaine, Mercury.
1962, Karen James, Through Streets Broad and Narrow, Folkways.
1962, Odetta, Sometimes I Feel Like Cryin’, RCA Victor.
1962, Roy Guest with Steve Benbow and His Folk Four, The Wandering Minstrel, Saga Sovereign.
1963, Amanda Ambrose, The Amazing Amanda Ambrose, RCA.
1963, Danny Cox, At the Seven Cities, Seven Cities Records.
1963, Hoyt Axton, Thunder’n Lightnin’, Horizon.
1963, Jean Hart, My Name Is Jean Hart and I Sing, Transatlantic.
1963, Marie Laforêt, Blowin’ in the Wind, W&G.
1963, Nancy Ames, I Never Will Marry, Liberty.
1963, Paul Sykes, I’m Not Kiddin’ Ya!, Horizon.
1963, The Sundowners, House of the Rising Sun, Piccadilly.
1963, Willie Wright, I’m on My Way, Argo.
1964, The Animals, The Animals, Columbia/MGM.
1964, Billy Strange, The James Bond Theme, GNP Crescendo.
1964, Dave Van Ronk, Dave Van Ronk, Mercury.
1964, Donald Byrd, Up with Donald Byrd, Verve.
1964, Johnny Hallyday (“Le Pénitencier”), Le Pénitencier, Philips.
1964, June Bugg, Hootenanny Fok Festival – The Incredible Voice of June Bugg, Palace.
1964, Marianne Faithfull, Blowin’ in the Wind, Decca.
1964, Ramblin’ Jack Elliott, Jack Elliott, Vanguard.
1964, Riky Maiocchi e i Mods, The House of the Rising Sun (“Non dite a mia madre”), Columbia.
1964, The Cousins (“Das alte Haus in New Orleans”), Das alte Haus in New Orleans, Palette.
1964, The Platters, The New Soul of The Platters, Mercury.
1964, The Supremes, A Bit of Liverpool, Motown.
1964, The Typhoons, House of the Rising Sun, Embassy.
1964, The Ventures, Walk Don’t Run, Vol. 2, Liberty.
1965, Dorothy Ashby, The Fantastic Jazz Harp of Dorothy Ashby, Atlantic.
1965, Duane Eddy, House of the Rising Sun, Colpix.
1965, Helen Merrill, The Artistry of Helen Merrill, Mainstream.
1965, I Marcellos Ferial (“La casa del sole”), La casa del sole, Durium.
1965, Joy Marshall, Who Says They Don’t Write Good Songs Anymore, Decca.
1965, The Barbarians, The Barbarians, Laurie.
1965, The Brothers Four, The Honey Wind Blows, Columbia.
1965, Tracy Nelson, Deep Are the Roots, Prestige.
1967, Henry Mancini and His Orchestra, The House of the Rising Sun, RCA Victor.
1967, The Everly Brothers, The Hit Sound of, Warner Bros.
1967, Tim Hardin, This Is Tim Hardin, Atco.
1968, Herbie Mann, The House of the Rising Sun, A&M.
1969, Conway Twitty, To See My Angel Cry, Decca.
1970, Frijid Pink, The House of the Rising Sun, Parrot.
1974, Jody Miller, House of the Rising Sun, Epic.
1974, The Misfits, House of the Rising Sun, Radex.
1975, Leslie West, The Great Fatsby, RCA.
1976, Idris Muhammad, House of the Rising Sun, Kudu.
1977, Santa Esmeralda, Santa Esmeralda 2, Casablanca/Philips.
1980, Dolly Parton, House of the Rising Sun, RCA.
1986, Josh White Jr., Jazz, Ballads & Blues, Rykodisc.
1987, Buster Poindexter, The House of the Rising Sun, RCA.
1988, Tangerine Dream, House of the Rising Sun, Reflex Magazine.
1992, Gregory Isaacs, House of the Rising Sun, Real Authentic Sound.
1992, House of Pain, House of Pain, Tommy Boy.
1992, Tracy Chapman, Houseof the Rising Sun (single), Columbia.
2015, Jello Biafra and The New Orleans Raunch, Walk on Jindal’s Splinters, Alternative Tentacles.

© P.B.





Il Dr. Stevenson e Mr. Stevenson

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Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde, il racconto scritto da Robert Louis Stevenson nel 1885, può essere utile per indagare su alcune questioni del suo tempo e in particolare sui rapporti tra scienza e divulgazione, progresso e morale, ragione e intuizione, psicologia e letteratura. Com’è noto, il Dr. Jekyll è un medico londinese di elevata reputazione etica e professionale: per molti aspetti incarna l’ideale (vagamente ingenuo, quando non addirittura ipocrita) del gentiluomo per bene, rappresentante perfetto di una classe sociale e culturale al di sopra di ogni sospetto. L’unico a non pensarla così è Jekyll stesso, che conosce le proprie pulsioni e si è da tempo convinto che l’essere umano non è tutto d’un pezzo ma il risultato di due nature contrapposte, l’una tendente al bene e l’altra al male. Questa sua riflessione, riportata in modo esplicito solo nell’ultimo capitolo, è l’idea di base del breve romanzo: ne costituisce l’essenza e la modernità e anticipa di un decennio la nascita e la diffusione del pensiero di Freud.

Il passo di Stevenson, tuttavia, è meno lungo della gamba. Lavora sulla duplicità dell’uomo e sui misteri dell’identità, uno dei nodi centrali della letteratura e della cultura del Novecento, ma è ancora pesantemente influenzato da una concezione piena di pregiudizi sull’aspetto corporale della bontà e della malvagità. Viene in mente un altro intellettuale di quegli anni, l’italiano Cesare Lombroso, i cui studi sulla fisiognomica lo portarono a concepire una teoria antropologica secondo la quale c’erano precise corrispondenze fra l’aspetto fisico dei briganti e la loro attività criminale. Il suo saggio L’uomo delinquente ebbe larga diffusione dal 1876 in poi: non importa se Stevenson conoscesse o meno l’opera di Lombroso, importa che quelle idee fossero nell’aria. Il signor Hyde, l’alter ego malefico di Jekyll, ci viene costantemente descritto come un mostro ripugnante, la cui sola vista incute terrore. E la duplicità di Jekyll-Hyde cessa di essere un’indagine sulla psicologia umana, accontentandosi di fornire un pretesto narrativo a un banale thriller orrorifico.

Sul piano letterario, Stevenson sembra comportarsi come il dottor Jekyll: una parte di lui guarda davanti e in alto, un’altra lo tira indietro, fino ai tempi di Mary Shelley e del suo Frankenstein (1818). Lo affascinano gli ombrosi laboratori di anatomia, gli alambicchi, le pozioni magiche spacciate per miracoli della chimica farmaceutica: siamo in pieno positivismo, e il dottor Jekyll è intriso di scienza fino al midollo, ma i suoi esperimenti fanno il paio con gli artifici della matrigna di Biancaneve alle prese con lo specchio, la mela e gli acidi. Vero è che siamo nel campo dell’allegoria fantastica, della favola tragica e stupefacente; ma pur di portare avanti il suo plot sensazionale l’autore sorvola sulla credibilità dei personaggi di contorno: avvocati, medici e maggiordomi danno prova di assoluta ottusità persino nei momenti di testimonianza oculare diretta, quando è evidente anche al più sprovveduto dei carciofi che c’è qualcosa che non quadra nei comportamenti di Jekyll. La polizia viene tenuta costantemente lontana dai fatti, come se non esistesse: compare una volta sola, chiamata da una testimone casuale, e si limita a registrare la presenza di un cadavere e la fuga dell’assassino. Un’altra debolezza del racconto sta nel fatto che tutti i personaggi principali – Jekyll, Utterson, Lanyon – sembrano avulsi da un contesto privato, domestico, familiare. Jekyll ha una moglie? Vive da solo? Boh. Ovviamente queste omissioni sono comode, perché evitano allo scrittore una serie di complicazioni narrative.

Lo strano caso rimane, anche in virtù dei suoi difetti, un potente archetipo della narrativa di genere e della fiction cinematografica. Del resto, Stevenson dichiarò apertamente la sua insofferenza per la letteratura “profonda”: le trame gli interessavano più dello stile. Nel saggio A Gossip on Romance(1882) ebbe a scrivere: «L’inglese medio oggi è portato, non so perché, a sottovalutare la trama degli avvenimenti e ad ammirare, per esempio, il tintinnio del cucchiaino o l’accento del curato. È considerato bravo chi scrive romanzi senza trama o, al massimo, con una storia molto debole.»

Non stupisce l’ossessivo interesse del cinema per Jekyll e Hyde. Nei soli anni del muto furono realizzati almeno 14 film ispirati dal racconto di Stevenson; almeno 22 nel periodo del sonoro; senza contare una quindicina di prodotti televisivi. Ma il tema dell’incerta identità individuale, influenzato in parte dalla fantasia di Stevenson e in parte della scienza della psicoanalisi, ha pesato in modo determinante sul noir e, più in generale, sul moderno storytelling. Hitchcock non ha mai affrontato direttamente il binomio Jekyll-Hyde, ma la sua opera è un perfetto esempio di stevensonismo cinematografico, fondata com’è sulle meraviglie della schizofrenia: La donna che visse due volte, Psycho, Marnie...

© P.B.




La tenda nera

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Paolo non era mai stato un gran disegnatore, ma a furia di stilizzare figure aveva acquisito un rude gusto della caricatura e, soprattutto, una rapidità di mano che suscitava, a volte, l’ammirazione altrui. Specialmente dei bambini. Nel corso della vita aveva sorpreso prima i compagni di scuola, poi i propri figli, e infine i nipoti, con le specialità più riuscite del suo magro repertorio: il cigno e la bagnante. Per il profilo del cigno, evocato come per magia da un unico tratto di matita, gli bastavano cinque secondi: dall’ala ripiegata sul fianco ecco un veloce segmento verso la coda, e di lì l’ondulato perimetro del corpo intero, che si concludeva con una breve retromarcia utile a tracciare una linea di base simulante la superficie del lago. 

Per la bagnante, ultima erede delle donnine osservate in gioventù sui calendarietti profumati del barbiere di famiglia, ci volevano una ventina di secondi: colpiva, ancor più dell’effetto finale, l’insolita sequenza delle curve, che aveva una caviglia come punto di partenza e un paio di occhiali da sole come traguardo. Il risultato lasciava di stucco anche agli adulti, ma era trionfo di breve respiro: dopo cinque secondi di cigno e venti di bagnante, lo show era già finito; e bisognava che Paolo si scervellasse non poco per improvvisare qualcosa di altrettanto efficace. Per fortuna c’era, tra i nipotini, uno di gran lunga più abile e tenace di lui, pronto a sfornare, in mezz’ora, illustrazioni bastanti a riempire un libro di cento pagine; sicché il compito principale, durante le interminabili sedute di babysitting nei pomeriggi d’inverno, spettava al bambino anziché al vecchio, e ciò era riposante per entrambi.

Succedeva però, di tanto in tanto, che il monello trovasse eccitante caricare di agonismo quel pacifico passatempo fatto di carta e pastelli. «Vediamo chi è più bravo a disegnare il generale Grievous», per esempio, oppure «Fammi vedere quanti personaggi di Angry Birds sei capace di fare.» Il nonno, visibilmente in difficoltà, abbozzava allora brutti ceffi di sua invenzione, metà uomini e metà uccelli, e sotto quei ghigni improbabili si attardava in complementi usati a sproposito: larghi mantelli, arti meccanici, spade laser. Il bambino sbottava ora in vigorose esternazioni di dissenso, ora in risate di scherno, e il ruolo di babysitter e maestro se lo assumeva lui, tutto proteso a colmare le insostenibili lacune del nonno.

Il vecchio faceva del suo meglio per salvaguardare il proprio onore. Stava al gioco, ma per riconquistare un po’ del rispetto perduto si sforzava di ricondurre l’attenzione del nipote entro territori più familiari. «Tu fammi vedere come te la cavi con Pinocchio», gli disse una volta; ma dovette insistere a lungo per farsi obbedire. Finché il giovane ribelle, frenando a stento un moto d’impazienza, non gli schizzò un profilo spigoloso, con tanto di naso regolamentare e copricapo a forma di cono.

«Così sono capaci tutti», commentò il nonno con aria di superiorità e commiserazione. «Io so fare il ritratto di Pinocchio più grande del mondo.»

«Fammi vedere», disse il piccolo scettico.

«Ci vuole lo scotch. Ce l’avete un po’ di scotch in questa casa?»

Il bambino aprì la sua scatola di legno, colma di matite spuntate, gomme per cancellare, elastici colorati e mozziconi di gesso alla rinfusa. «Quale vuoi?», domandò cavando da quel groviglio due rotoli di nastro adesivo.

Il nonno allineò sul tavolo cinque fogli bianchi, l’uno accanto all’altro, collegandoli con striscioline di adesivo. A un estremo di quella superficie smisurata disegnò un profilo piccolo piccolo del burattino, e si servì di tutta la carta eccedente per prolungargli il naso all’infinito. Il testimone seguì con benevolenza l’operato dell’artista, ma la sua espressione rimase neutra.

«Ti piace o non ti piace?», sbottò il ritrattista, vagamente impermalosito da quel silenzio.

«Non so. Stavo pensando alle orecchie.»

«Che c’entrano le orecchie? Questo è Pinocchio, il suo naso è più importante delle orecchie.»

«Se invece fosse Yoda, le orecchie sarebbero più importanti del naso.»

«Bravo: è proprio questo il segreto delle caricature. Puoi descrivere una persona esagerando le dimensioni di una parte del viso. Con le orecchie lunghe puoi disegnare anche uno scolaro svogliato, somigliante a un asino.»

«Yoda non è un asino.»

«Certo che no. Non basta allungare un naso o due orecchie per definire la complessità di una persona. Pinocchio dice bugie ma non è bugiardo ventiquattr’ore su ventiquattro. Si usa ingrandire una piccolissima parte di noi quando si vuole sorridere di una nostra caratteristica, o di una nostra particolare emozione.»

«Se faccio gli occhi molto grandi vuol dire che quello con gli occhi grandi ha paura.»

«Oppure che è stupefatto, o molto curioso... Dipende da cosa sta guardando.»

«Peccato.»

«Peccato in che senso?»

«Peccato che sulla faccia abbiamo solo gli occhi, il naso, la bocca e le orecchie. Se avremmo più cose...»

«Avessimo.»

«Se avessimo più cose, potremmo disegnare mille personaggi diversi invece di quattro o cinque.»

«Non dimenticare i capelli. Il mento. Il collo.»

«Il collo non vale. Sta sotto la faccia.»

«Sì, ma fa parte del carattere. Hai mai sentito parlare di un pittore di nome Modigliani?»

«No.»

«Dipingeva colli lunghissimi.»

«E a che servivano?»

«C’erano donne dal collo talmente lungo da sembrare creature speciali.»

«Io se vedo un collo troppo lungo penso che è il collo di un impiccato.»

«Come ti viene in mente una scemenza del genere?»

«Hai detto che sembrano creature speciali. Un impiccato è una creatura speciale.»

«D’accordo, ritorniamo sulle facce. Guarda questo.»

Paolo disegnò una faccina sormontata da un’enorme massa di riccioli spettinati. Il bambino si degnò di concedere un modesto interesse. Volle sapere chi fosse il ragazzo del ritratto.

«Un grande chitarrista», rispose il nonno. «Si chiamava Jimi Hendrix.» Naturalmente il ragazzo del ritratto non somigliava affatto a Jimi Hendrix, ma il nonno sapeva che i bambini ci tengono a conoscere la precisa identità di qualunque tizio ti venga in mente di schizzare. Non apprezzano le astrazioni, se disegni qualcuno che abbia un minimo di fattezze umane. Paesaggi, alberi e fiori possono essere, per loro, stereotipi universali; persino gli animali; ma quando vai sull’umano, esigono informazioni concrete sui modelli che ti hanno ispirato.

«Si chiamava Gimi, hai detto. Non si chiama più così? È morto?»

«Beh, sì, è morto.»

«Le signore dal collo lungo sono morte anche loro?»

«Temo di sì.»

«E Pinocchio? Scommetto che è morto anche lui.»

«No, Pinocchio non muore mai.»

«E dove abita adesso, secondo te?»

«Dove ha sempre abitato. In un libro.»

«Io se starei in un libro...»

«Se fossi.»

«Io se fossi in un libro sarei morto.»

«Che cosa te lo fa pensare?»

«Hai mai visto qualcuno che salta fuori da un libro e si mette a giocare a pallone? O a mangiare la Nutella? O a disegnare con te?»

«No, perché il libro è un mondo a parte. Parla di persone come te e come me, ma che non vivono necessariamente nei paraggi.»

«Come i droidi che stanno nell’universo espanso?»

«In un certo senso.»

«Io adesso disegno una persona viva. Non mi piace disegnare i morti, come fai tu.»

Il piccolo disegnò una bella faccia senza età, sostenuta da un collo modiglianesco. Aveva lo sguardo malinconico.

«Chi è?», domandò il nonno.

«Uno che sta in classe con me. Ma non ho finito. Adesso vedrai.»

Aveva promesso un colpo di scena, e il colpo di scena arrivò. Le sopracciglia. Esuberanti, indipendenti dal resto del volto, come spazzole viventi di vita propria; fatte di peli uncinati e incontenibili che gli oscuravano in alto buona parte della fronte, e in basso lo sguardo, già triste di suo.

«Interessante», disse il nonno. «Parlami di lui.»

«Si chiama Giuseppe.»

«Il nome non è abbastanza. Ci sono un sacco di Giuseppe. Che cos’ha questo Giuseppe di diverso dagli altri Giuseppe?»

«Non lo so spiegare.»

«Ma ha delle sopracciglia speciali. Come mai?»

«Perché è fatto così. Ha come una tenda nera tra la fronte e il naso.»

«Una tenda nera.»

«Deve scostarla con le mani per vederci meglio.»

«Com’è, di carattere? Allegro?»

«Quando ha voglia di giocare vuol dire che è allegro.»

«Ma nessuno in casa gli accorcia quei peli? Dev’essere scomodo andare in giro con le tende sugli occhi.»

«Io invece credo che è comodissimo. Se avrei...»

«Se avessi.»

«Se avessi una tenda sugli occhi, la userei per non vedere la maestra quando mi sgrida.»

«Ma vedere è sempre meglio che non vedere. Non trovi? Secondo te, perché i bambini piccoli hanno paura del buio?»

«Giuseppe ci vede benissimo. Vede tutto, ma proprio tutto. Potrebbe andare in soffitta a luci spente, a caccia di fantasmi. Però è bravo a far finta.»

«Finta di che?»

«Metti che è triste, o che non gli va di fare una cosa. Aprire un quaderno, o disegnare le facce come noi adesso. O parlare. Allora chiude la tenda e si ritira nel suo nascondiglio preferito.»

«Come fai a saperlo?»

«Me l’ha detto lui. Una casetta di legno, situata in cima a un albero africano.»

«E che fa quando si ritira lassù? Dorme?»

«Ma che dici, nonno! Giuseppe è sveglissimo! Sempre! Io penso che non dorme mai.»

«Neanche di notte?»

«Di notte non lo so. Ma quando all’asilo ci obbligavano a fare il sonnellino, con la testa sul banco, lui non dormiva neanche per scherzo.»

«Neanch’io dormivo volentieri, il pomeriggio.»

«Neanch’io! Ma Giuseppe sembra che dorme, e non è vero.»

«Come lo sai?»

«Lo so e basta.»

«Pensi che sia un bambino triste? Che non sia felice?»

«Non saprei. So solo che è un bambino con la tenda. Non ci sono molti bambini con la tenda. Conosco solo lui.»

«Nessun bambino è uguale a un altro. Anche chi non ha la tenda nera è diverso da tutti gli altri. Ogni bambino è un esemplare unico.»

«E i grandi?»

«Vale anche per i grandi, ma solo fino a un certo punto. Ci sono molti adulti che sembrano fatti con lo stampo.»

«I gemelli?»

«No, non parlo di somiglianze fisiche. Parlo di cosa pensano e cosa dicono: le stesse, stessissime cose. Se sono cose stupide, meglio ancora.»

«Non funziona. Gli adulti non sono bambini ingranditi? Se prima ogni bambino è un esemplare unico, come lo scettro di Harry Potter, come fa a diventare uguale agli altri, dopo che è cresciuto?»

«Alcuni, crescendo, si stancano di pensare con la propria testa e cominciano a scimmiottare gli altri. Tu non fare così.»

«Io voglio pensare con la testa mia.»

«Ottima idea.»

«Però mi piace anche la testa di Giuseppe. Chissà cosa ne farà, da grande, della sua tenda.»

«Proviamo a indovinare. Tu che ne dici?»

«Gli servirà per nascondere gli occhi.»

«Perché?»

«Non so. Se gli capiterà una cosa brutta, e gli verrà da piangere, non vorrà far vedere a tutti che sta piangendo.»

«E quando invece gli capiteranno cose belle, come a ciascuno di noi?»

«Gli basterà scostare con un dito i peli più lunghi.»

«Perché hai subito pensato alle cose brutte?»

«Perché Giuseppe riesce a vederle meglio di me.»

«Spiegati bene, non ho il piacere di conoscerlo.»

«Quando si gioca a calcio coi compagni, lui non arriva mai alla fine della partita: perché se fa uno sbaglio e noi lo strilliamo, subito si offende e se ne va.»

«E a te non capita mai di offenderti e di mollare?»

«Sì, ma a lui di più.»

«Forse è molto sensibile.»

«Però sa anche farci ridere.»

«In che modo?»

«Parla pochissimo, ma quando gli scappa di parlare dice cose scherzose. Sembra triste, ma è spiritoso.»

«Raccontamene una.»

«Lo sai chi è Rodolfo?»

«No. Chi è Rodolfo?»

«Un secchione secchionissimo. Odioso. Andava dicendo in giro che la maestra gli dice sempre: bravo, sei il più bravo del mondo... Ma non è vero!»

«Non è vero che è bravo?»

«Sì, è bravo, ma non abbiamo mai sentito dire dalla maestra che è il più bravo del mondo.»

«E allora?»

«E allora Giuseppe ha scostato un po’ la tenda e gli ha domandato: se è vero che sei così bravo, il più bravo del mondo, a che ti serve venire a scuola e avere una maestra? E noi giù a ridere, ma Rodolfo non l’ha capita.»

«In effetti è una battuta molto simpatica. Allora la sua tenda non è proprio nera.»

«Per essere nera è nera, come i capelli.»

«Ma se fosse biondo, la tenda sarebbe chiara. Il colore delle sopracciglia non è molto importante.»

«Sono d’accordo. Nera o bionda o blu, non m’interessa. Giuseppe è il mio migliore amico.»

«Come mai hai scelto proprio lui come migliore amico?»

«Perché mi potrebbe insegnare degli scherzi. E io, in cambio, lo potrei proteggere.»

«Proteggere da cosa?»

«Dai pericoli. Metti che andiamo in gita in montagna, ci arrampichiamo e lui sta per cadere. Lo potrei afferrare per un braccio e salvarlo.»

«Ma non dicevi che è già protetto dalla tenda magica?»

«Nonno, prima di tutto non ho detto che ha una tenda magica ma una tenda e basta. E poi ti vorrei vedere come fai a salvarti con la tenda della finestra se un droide assassino ti mitraglia dalla terrazza di fronte.»

«Sicché hai deciso che da grande vuoi fare il salvatore. Un eroe come Batman o Superman. Una volta mi hai detto che volevi fare il panettiere.»

«Ho cambiato idea. Io voglio fare lo scalatore di montagne.»

«Allora siamo simili.»

Il bambino scoppia a ridere. «Ma tu sulle salite sei imbranato, nonno! Neanche ti piace la montagna! Non hai mai imparato a sciare! Te ne sei dimenticato?»

«Faccio lo scalatore anch’io, ma non di montagne. Sono uno scalatore di parole.»

«Sei buffo, nonno. Ne inventi di cose. Non esistono gli scalatori di parole. Che fai, metti l’alfabeto per terra e ci salti su con la corda?»

«La vedi quella libreria lì, piena di scaffali? Se vuoi prendere un libro dallo scaffale più alto, come fai?»

«Salgo sulla sedia.»

«Oppure sulla scala a pioli. E i libri sono pieni di parole. Ecco, i libri sono le mie Dolomiti.»

Il piccolo rimane perplesso per un po’, come pensando ad altro. E poi: «Non me la conti giusta, nonno. Prendere i libri in alto non è un mestiere.»

«Lo scalatore di parole, in realtà, è una specie di ingegnere. Sceglie le parole una per una e le mette insieme per costruire una storia. Deve saperlo fare con una certa cura, altrimenti le parole franano, e addio racconto.»

«La sai una cosa? Giuseppe potrebbe essere uno scalatore di parole come dici tu.»

«Da che cosa lo desumi?»

«Ogni volta che la maestra porta indietro i temi corretti, dice a Giuseppe di leggere il suo ad alta voce, per farlo sentire a tutta la classe.»

«Perché?»

«Perché i suoi temi sono sempre i più belli.»

«Non era Rodolfo il più bravo della classe?»

«Nooo... Lui è il più secchione! Giuseppe invece non è un secchio.»

«E come fa a scrivere e a leggere con quella tenda sugli occhi?»

«Te l’ho detto. Ci vede benissimo anche con la tenda abbassata. Io se avrei una tenda così non saprei nemmeno mangiare un cornetto.»

«Avessi.»

«Avessi.»

«Lo sai che ti succede se non impari i congiuntivi?»

«No.»

«Ti viene la congiuntivite.»

«Che cos’è?»

«Una specie di tenda rossa.»


© Pasquale Barbella

Il 22 giugno 2016 moriva Pino Pilla, gentile e incomparabile scalatore di parole. E di silenzi. Questo racconto è dedicato a lui, anche se i personaggi sono di fantasia.






Hassan Hajjaj

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Hassan Hajjaj è un fotografo, designer e cineasta marocchino attivo tra Londra e Marrakech. La sua arte combina in modo felice stili e culture del Nordafrica con influenze occidentali (design, moda, pop art etc.). Da creativo fotografa creativi, specialmente musicisti, immergendoli in fantasie cromatiche esplosive che investono l’abbigliamento così come gli sfondi. Hajjaj è ormai un artista maturo, affermato in tutto il mondo. Le sue immagini e le sue installazioni illuminano di luce nuova – solare, festosa, elettrica, ottimista – il grande scenario delle migrazioni e dei contatti tra culture diverse. Nel suo lavoro si legge l’orgoglio delle radici, ma anche una gran voglia di misurarsi da protagonista nel mondo della globalizzazione, di accogliere e proporre ibridazioni, di verniciare d’allegria un’epoca i cui cambiamenti ispirano, di solito, preoccupazione e disagio.

























Lungo il corso dell’Adda

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4 luglio, Independence Day.

Passeggiare costeggiando fiumi. Un modo come un altro di gestire i periodi di convalescenza e resistere alle crisi di astinenza da fumo. Più facile che leggere Proust e, soprattutto, che scrivere qualcosa alla sua altezza – all’altezza del suo alluce, nel mio caso. Ieri il Lambro, oggi l’Adda, domani l’Acheronte. Osservando idrovolanti, elicotteri, droni – l’intera storia dell’aviazione formato libellula. Lungo l’Adda ne vedo di tre tipi: valvola blu, velo di mostro e filo di fosforo. Non so a quali specie corrispondano: dite a Linneo di telefonarmi. Sono insetti bellissimi, non ci avevo mai fatto caso; killer di olimpionica rapidità, eleganti anche nei nomi – angelina, auripennis, axilena, comanche, depressa, flavida, forensis, fulva, luctuosa, quadrimaculata, saturata, vibrans...

«...BPCO bilaterale con piccole bolle enfisematose distrofiche al campo superiore e medio da ambo i lati, alla quale si associa la presenza di grossolana bolla enfisematosa in epidiaframmatica destra con diametro massimo attorno a...»

Sì, ho capito, non c’è bisogno di metterla giù dura.

«Calcificazioni a livello della valvola aortica nonché...»

Basta, ho detto. Sissignore, ho chiuso con Nicot. Quando? Che importa quando? Un momento, mi lasci consultare l’agenda: giovedì 15 giugno 2017, tra le 22 e le 23. Ma avevo già ridotto drasticamente la dose martedì 13, dopo le intimidazioni di uno pneumologo non privo di black humour. Risultato: la sera, alla Scala, la Bohème versione Zeffirelli ’63 partì all’attacco della mia arteria splenica come un gigantesco dispensatore di noduli calcifici. Adesso assorbo nitroglicerina, betabloccanti e canzoni soft degli anni trenta: surrogati non sempre gratificanti del tabacco (forever) e del caffé (usque tandem?)


When your heart’s on fire
You must realize
Smoke gets in you eyes...

No, il fumo di cui parla la romanza di Otto Harbach e Jerome Kern non ha niente a che fare con la nicotina e il catrame. E neanche con i polmoni, le arterie e lo stomaco (en passant: alla fine ha vinto di nuovo l’ulcera. A volte ritornano. La prima delle mie attuali patologie a tagliare il traguardo del pronto soccorso e della chirurgia d’urgenza. Ci ero già passato più di trent’anni fa: con tanto di buco e peritonite). La principessa in esilio, prima di mettersi a cantare Smoke Gets in Your Eyes accompagnandosi alla chitarra, dice a Bob Hope che in Russia hanno un proverbio: «Quando il cuore va in fiamme ti sale il fumo agli occhi». Allergico agli eccessi di sentimentalismo, Bob sfodera qualche battuta fuori programma per riequilibrare il tasso glicemico della commedia. In questo caso risponde che hanno un proverbio anche in America: «L’amore è come il pasticcio di carne al forno. Lo gusti meglio se ti fidi di com’è fatto.» Succede su un palcoscenico di Broadway, nel 1933, in un musical intitolato Roberta. Harbach ha scritto il copione e i testi delle canzoni rifacendosi a un romanzo rosa confetto di Alice Duer Miller, Gowns by Roberta (Confezioni Roberta). In una Parigi da operetta c’è una casa di moda da operetta dove girano americani plausibili e russi da operetta, ed è un Kern operettistico ad amministrare – mirabilmente, nonostante tutto – la parte musicale dello spettacolo. Smoke Gets in Your Eyes, la ballad più ariosa e raffinata, è affidata alla voce di una bellezza ucraina, Tamara Drasin (Tamara tout court sui cartelloni).




Non solo libellule: anche libri e farfalle, che sfizio. I libri stanno su una specie di altarino a tre piani appollaiato su un palo, all’inizio del sentiero. Prendine uno e portalo a casa; poi, se vuoi, puoi mollarne uno dei tuoi, qui o dove ti pare. Scambi a distanza, fra lettori che non si conoscono. Io ho preso La chiesa della solitudine di Grazia Deledda, chissà perché. Mai letto niente di Deledda, nemmeno Canne al vento. E se fosse troppo tardi per lei? Devo prima finire Futuro anteriore, il romanzo psichedelico di Martin Amis; per non dire che vivo circondato da altri libri, troppi, che devo ancora leggere, tra cui Gilead e Le cure domestiche di Marilynne Robinson, in pole position sullo scaffale «sbrighiamoci». Quanto alle farfalle: una folta tribù di aquiloncini color senape, con messaggi indecifrabili stampati sulla livrea in un alfabeto cuneiforme. Argynnis aglaja? Issoria lathonia? Tutte identiche, comunque, e felicemente all’assalto di infiorescenze di muscari: pannocchie d’un indaco a dir poco ellingtoniano:

That feelin’ goes stealin’ down to my shoes
While I just sit and sigh, «go long, blues».





Alla ricerca dell’ossigeno perduto, di umore crepuscolare anche a mezzogiorno, bile color indaco. Questa settimana il traghetto di Leonardo non fa servizio: l’acqua è troppo alta, l’Adda sembra placido ma ha una voglia segreta di sbottare, cioè di esondare. Dal molo di Imbersago a quello di Villa D’Adda in pochi minuti; basta un soldino. Giovanni XXIII, il papa del concilio Vaticano II, era di casa su questo legno galleggiante, tant’è che il comune di Imbersago gli ha dedicato una lastra commemorativa. Nella quale si legge d’un altro traghettamento, non meno visionario di quello concepito da Leonardo da Vinci: «Condusse audacemente la chiesa all’incontro con il mondo contemporaneo.»

Un’altra lapide reca versi di Salvatore Quasimodo, del 1947:

Striscia l’Adda al tuo fianco nel meriggio 

e segui l’ombra a rovescio del cielo. 
Qui, dove curve pecore risalgono 
con il capo affondato dentro l’erba, 
saltava l’acqua a taglio della ruota, 
e s’udiva la mola del frantoio 
e il tonfo dell’uliva nella vasca. 
Tu solo ti sgomenti a un moto spento. 
Riappare la corona del sambuco 
dal fitto della siepe e agita la canna 
nuove foglie sugli argini del fiume. 
La vita che t’illuse è in questo segno 
delle piante, saluto della terra 
umana alle domande, alle violenze. 
Il riaprirsi del legno in un colore 
è certezza per te, come l’insidia 
del tuo sangue e la mano che distesa 
alzi alla fronte a schermo della luce.



Già, l’insidia del mio sangue. Ne ho vomitato litri, in una sera calma e senza vento. Sorrido rassegnato, sull’argine di queste acque longobarde che adesso sono di un bel verde militare, ma ne hanno viste di tutti i colori, come si suol dire.

Bevi, Rosmunda, bevi
nel cranio vuoto del tuo papà.
Non esitare, sciocca,
t’insegno io come si fa...

Oggi, 4 luglio, c’è chi festeggia l’indipendenza e chi testa missili intercontinentali. Alboino uccide e muore ucciso, ma i posteri non si lasciano impressionare da così poco. Io cammino lungo l’argine con il cuore inondato di pace, saluto il ciclista e il germano reale, elaboro complicati progetti di felicità del tipo: sabato bevo una coppa di champagne, poi a fine pasto il primo caffè di una nuova serie sperabilmente più lunga di The Walking Dead e The Killing. Probabilmente al Lido, a due passi dal molo. Sono bravi, questi ristoratori toscani passati dall’Arno all’Adda. Carpaccio di branzino, tartare di tonno fresco, risotto al nero di seppia. Persino ostriche, come a Parigi. Prego, signora? Le ostriche non c’entrano niente con l’Adda? Neanche con la Senna, allora. Signora, il fiume è libertà – ogni fiume lo è. Ma il mare è più grande, ed è più buono da mangiare.

© Pasquale Barbella


Canzoni citate:

Mood Indigo, di Irving Mills, Barney Bigard e Duke Ellington, 1930.
Smoke Gets in Your Eyes, di Otto Harbach e Jerome Kern, 1933. 
Va, longobardo!,di Ario Albertarelli e Roberto Brivio, 1963.


In ricordo di Enrico Robbiati

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Oggi, 14 luglio 2017, è mancato Enrico Robbiati, editore di pubblicazioni professionali sul marketing, i media e la comunicazione, nonché indimenticabile amico. Per ricordarlo pubblichiamo sul blog di Ethosphera uno scritto di Giorgio Visintini e le copertine di Nuovo, leggendario trimestrale sulla creatività pubblicitaria edito da Robbiati negli anni ottanta.





Maestri dimenticati della fotografia, 1

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Con la verve provocatoria che gli è propria, Till Neuburg affronta la storia della fotografia da un punto di vista molto personale, distinguendo i grandi innovatori (poco più di 200) da specialisti che ritiene in varia misura sopravvalutati. Ma, soprattutto, concentra la sua e la nostra attenzione su una pattuglia di pionieri a rischio di oblio, schizzandone il profilo biografico e artistico per preservarne la memoria e contribuire alla divulgazione o alla riscoperta del loro operato.

I maestri dimenticati della fotografia

di Till Neuburg

A volte è necessario ricordare al prossimo che la fama, la popolarità, il successo, il fragore dei battimani, la quantità dei like e dei tweet non sono indicatori sufficienti di autentica grandezza. Oggi, in epoca di massima banalizzazione mediatica, si rischia di confondere Carlo Magno con lo chef di turno in tv, Lorenzo il Magnifico con il canterino Sempliciotti Cherubini, Alessandro il Grande con l’ex pitonesso che dirige Il Giornale. Succederà forse anche agli eroi del momento, veri o falsi che siano, di essere dimenticati, come furono dimenticati il vincitore del festival di Sanremo Mino Vergnaghi, il capocannoniere di serie A Aldo Serena, il premier diccì Giovanni Goria che, costretto a dimettersi dopo soli nove mesi di governicchio, fu onorato dall’impareggiabile Sergio Saviane sulle pagine de L’Espresso con l’epitaffio Sic transit Goria. Ma né la fama né l’oblio sono parametri affidabili, quando si vuole misurare il valore di qualcosa o di qualcuno. Come esistono famosi importanti e famosi scarsi, così esistono ignoti di piccolo calibro e ignoti di grande spessore. A questo pensavo il giorno in cui un gruppo di studenti mi domandò, a bruciapelo, i nomi di chi avesse segnato sul serio la storia della fotografia. Lì per lì saltarono fuori i soliti Abbott, Adams, Arbus, Avedon, Bischof, Bourke-White, Brassaï, Capa, Cartier-Bresson, Erwitt, Kertész, Mapplethorpe, Nadar, Penn, Ray, Salgado, Steichen, Weston... Un elenco che d’emblée avrebbe potuto citare a memoria anche un appassionato di cruciverba, un gazzettaro, un critico d’arte, un docente clerical-chic della Cattolica o l’art director qualsiasi di una multinazionale della comunicazione altrettanto qualsiasi. Solo che le mie rotelline mnemoniche si incepparono di colpo quando una studentessa – probabilmente spiazzata da nomi che non aveva mai sentito pronunciare in vita sua – se ne uscì con cinque parole fulminanti: «E Toscani, dove lo mettiamo?»

Risposi in modo altrettanto perentorio: «Non lo mettiamo. Lo lasciamo dove gli piace trastullarsi: nei talk show.» Non fu facile chiarire in pochi minuti quanti gradi di separazione intercorrano tra gli aggettivi famoso e grande. Non si può spiegare al volo la differenza tra uno stilista della moda, De Stijl, il ciclostile sessantottino, il restyling di un marchio, una stilografica Montblanc e lo stile Juventus di Lapo Elkann. Naturalmente si era lungamente parlato anche d’altro: di fisica, chimica e tecnica, di pittura, cinema e avanguardie, di coraggio, viaggi, sperimentazioni... cosette così. Niente di rilevante – almeno per quell’acerba ultrà del Toscani la quale, senza rendersene conto e come tanti altri prima e dopo di lei, continuano ad attribuirgli i meriti del pubblicitario parigino Bruno Suter, del nostro Emanuele Pirella e della ricercatrice sociale americana Therese Frare (autrice della foto black & white del povero morente di Aids, poi allegramente tinteggiata in quel di Ponzano Veneto per non sconfessare in modo troppo grottesco l’esultanza strategica dell’italianissimo marchio United Colors of Benetton). Una volta superato il guazzabuglio semantico tipicamente italiano tra strategia e allegria, comprendere e vendere, autore e latore, qualità e ovvietà, comunicai alla classe che in realtà i nomi da scoprire, studiare e capire sarebbero stati almeno dieci volte di più di quelli spuntati al primo colpo.

Berenice
Abbott
USA
1898-1991
Ansel
Adams
USA
1902-1984
Christopher
Anderson
Canada
1970
Diane
Arbus
USA
1923-1971
Yann
Arthus-Bertrand
Francia
1946
Eugène
Atget
Francia
1857-1927
Richard
Avedon
USA
1923-2004
Kristoffer
Axén
Svezia
1984
David
Bailey
Regno Unito
1938
Dmitrij
Bal’termanc
Polonia-URSS
1912-1990
Lewis
Baltz
USA
1945-2014
Mischa
Bar-Am
Israele
1930
Bruce
Barnbaum
USA
1943
Gabriele
Basilico
Italia
1944-2013
Alexander
Bassano
Regno Unito
1829-1913
Alessandro
Bavari
Italia
1963
Cecil
Beaton
Regno Unito
1904-1980
Bernd
Becher
Germania
1931-2007
Hilla
Becher
Germania
1934-2015
Olaf Otto
Becker
Germania
1959
Daniel
Beltrá
Spagna
1964
Daniel
Berehulak
Australia
1975
Gianni
Berengo Gardin
Italia
1930
Kevin
Best
Nuova Zelanda
1960
Hélène
Binet
Svizzera
1959
Werner
Bischof
Svizzera
1916-1954
Marcus
Bleasdale
Regno Unito
1968
Margaret
Bourke-White
USA
1904-1971
Mathew B.
Brady
USA
1822-1896
Bill
Brandt
Regno Unito
1904-1983
Nick
Brandt
Regno Unito
1966

Brassaï
Ungheria-Francia
1899-1984
Giacomo
Brunelli
Italia
1977
Wynn
Bullock
USA
1902-1975
René
Burri
Svizzera
1933-2014
Larry
Burrows
USA
1926-1971
Clyde
Butcher
USA
1941
Julia Margaret
Cameron
Regno Unito
1815-1879
Robert
Capa
Ungheria
1913-1954
Lewis
Carroll
Regno Unito
1832-1898
Henri
Cartier-Bresson
Francia
1908-2004
Evgenij
Chaldej
URSS
1917-1997
Martín
Chambi
Perù
1891-1973
Walter
Chappell
USA
1925-2000
John
Claridge
Regno Unito
1944
Gregory
Crewdson
USA
1962
Gabriele
Croppi
Italia
1974
Imogen
Cunningham
USA
1883-1976
Edward Sheriff
Curtis
USA
1868-1952
Tošo
Dabac
Croazia
1907-1970
Louis
Daguerre
Francia
1787-1851
Jack
Delano
USA
1914-1997
Bieke
Depoorter
Belgio
1986
Philip-Lorca
diCorcia
USA
1951
Robert
Doisneau
Francia
1912-1994
Andrzej
Dragan
Polonia
1968
Arnold S.
Eagle
Ungheria-USA
1909-1992
William
Eggleston
USA
1939
Peter Henry
Emerson
Cuba-Regno Unito
1856-1936
Elliott
Erwitt
USA
1928
Walker
Evans
USA
1893-1975
Andreas
Feininger
Germania
1906-1999
Roger
Fenton
Regno Unito
1819-1869
Franco
Fontana
Italia
1933
Joan
Fontcuberta
Spagna
1955
Robert
Frank
Svizzera-USA
1924
Toni
Frissell
USA
1907-1988
Leo
Fuchs
USA
1929-2009
Paul
Fusco
USA
1930
Ron
Galella
USA
1931
Cristina
García Rodero
Spagna
1949
Jean
Gaumy
Francia
1948
Luigi
Ghirri
Italia
1943-1992
Ralph
Gibson
USA
1939
Laura
Gilpin
USA
1891-1979
Fay
Godwin
Regno Unito
1931-2005
Andy
Goldsworthy
Regno Unito
1956
Herb
Greene
USA
1942
René
Groebli
Svizzera
1927
Andreas
Gursky
Germania
1955
Brian
Hamill
USA
1946
Bert
Hardy
Regno Unito
1913-1995
Clementina
Hawarden
Regno Unito
1822-1865
John
Heartfield
Germania
1891-1968
Lucien
Hervé
Francia
1910-2007
Lewis
Hine
USA
1874-1940
Fan
Ho
Cina
1937-2016
Josef
Hoflehner
Austria
1955
Robert
Howlett
Regno Unito
1831-1858
George
Hurrell
USA
1904-1992
Boris
Ignatovich
Russia
1899-1976
Connie
Imboden
USA
1953
Kenro
Izu
Giappone
1949
William Henry
Jackson
USA
1843-1942
Lee
Jeffries
Regno Unito
1978
Mimmo
Jodice
Italia
1934
Simen
Johan
Norvegia-Svezia
1973
Robb
Johnson
USA
1955
Frances B.
Johnston
USA
1964-1952
Philip
Jones Griffiths
Regno Unito
1936-2008
Nadav
Kander
Israele-USA
1961
Yousuf
Karsh
Canada
1908-2002
Gertrude
Käsebier
USA
1852-1934
Michael
Kenna
Regno Unito
1953
André
Kertész
Ungheria-USA
1894-1985
William
Klein
USA
1928
François
Kollar
Ungheria-Francia
1904-1979
Josef
Koudelka
Cecoslovacchia
1938
Germaine
Krull
Francia
1897-1985
Heinrich
Kuehn
Germania-Austria
1866-1944
David
LaChapelle
USA
1963
Dorothea
Lange
USA
1895-1965
Jacques-Henri
Lartigue
Francia
1894-1986
Gustave
Le Gray
Francia
1820-1882
Annie
Leibowitz
USA
1949
Neil
Leifer
USA
1942
Arthur
Leipzig
USA
1918-2014
Helmar
Lerski
Germania-Svizzera
1971-1956
Erich
Lessing
Austria
1923
Michael
Levin
Canada
1967
O. Winston
Link
USA
1914-2001
Roman
Loranc
Polonia-USA
1956
Alex
MacLean
USA
1947
Vivian
Maier
USA
1926-2009
Sally
Mann
USA
1961
Robert
Mapplethorpe
USA
1946-1989
Herbert
Matter
Svizzera-USA
1907-1984
Don
McCullin
Regno Unito
1935
Steve
McCurry
USA
1950
Francis
Meadow Sutcliffe
Regno Unito
1853-1941
Ray
Metzker
USA
1931-2014
Joel
Meyerowitz
USA
1938
Lee
Miller Penrose
USA
1907-1977
Léonard
Misonne
Francia
1870-1943
Lisette
Model
USA
1901-1983
Tina
Modotti
Italia
1896-1942
László
Moholy-Nagy
Ungheria
1895-1946
Beth
Moon
USA
1956
Sarah
Moon
Francia
1941
Abelardo
Morell
Cuba
1948
Ugo
Mulas
Italia
1928-1973
Martin
Munkácsi
Ungheria-USA
1896-1963
Eadweard
Muybridge
Regno Unito
1830-1904
Carl
Mydans
USA
1907-2004
James
Nachtwey
USA
1948

Nadar
Francia
1820-1910
Arnold
Newman
USA
1918-2006
Michael
Nichols
USA
1952
Nicéphore
Niépce
Francia
1765-1833
Trent
Parke
Australia
1971
Martin
Parr
Regno Unito
1952
Paolo
Pellegrin
Italia
1964
Irving
Penn
USA
1917-2009
Pierre-Louis
Pierson
Francia
1822-1913
Gueorgui
Pinkhassov
URSS
1952
Emma
Powell
USA
1985
Raghu
Rai
India
1942
Man
Ray
USA
1890-1976
Albert
Renger-Patzsch
Germania
1897-1966
Marc
Riboud
Francia
1923-2016
Leni
Riefenstahl
Germania
1902-2003
Jacob
Riis
Danimarca-USA
1849-1914
Henry Peach
Robinson
Regno Unito
1830-1901
Aleksandr
Rodčenko
URSS
1891-1956
Willy
Ronis
Francia
1910-2009
Willi
Ruge
Germania
1882-1961
Sebastião
Salgado
Brasile
1944
August
Sander
Germania
1876-1964
William
Saunders
Regno Unito
1832-1892
Karl Hugo
Schmölz
Germania
1917-1986
Ferdinando
Scianna
Italia
1943
Camille
Seaman
USA
1969
Tazio
Secchiaroli
Italia
1925-1998
David
Seymour
Polonia-USA
1911-1956
Charles
Sheeler
USA
1883-1965
Cindy
Sherman
USA
1954
Julius
Shulman
USA
1910-2009
W. Eugene
Smith
USA
1918-1978
Edward
Steichen
USA
1879-1973
Vadim
Stein
URSS-Ucraina
1967
Phil
Stern
USA
1919-2014
Alfred
Stieglitz
USA
1864-1946
Ezra
Stoller
USA
1915-2004
Paul
Strand
USA
1890-1976
Annelies
Štrba
Svizzera
1947
Karl
Struss
USA
1886-1981
Josef
Sudek
Cecoslovacchia
1896-1976
William Fox
Talbot
Regno Unito
1800-1877
Jessie
Tarbor Beals
USA
1870-1942
Nicolas
Tikhomiroff
Francia
1927-2016
Larry
Towell
Canada
1953
Edith
Tudor-Hart
Austria-Regno Unito
1908-1973
Doria
Ulmann
USA
1884-1934
Otto
Umbehr
Germania
1902-1980
James
Valentine
Regno Unito
1815-1879
Carleton
Watkins
USA
1829-1916
Alex
Webb
USA
1952

Weegee (Arthur Fellig)
USA
1899-1968
Cara
Weston
USA
1957
Edward
Weston
USA
1886-1958
Minor
White
USA
1908-1976
Gary
Winogrand
USA
1928-1984
Joel Peter
Witkin
USA
1939
Michael
Wolf
Germania
1954
Reinhart
Wolf
Germania
1930-1988
Paul
Wolff
Germania
1887-1951
Francesca
Woodman
USA
1958-1981
David
Yarrow
Regno Unito
1966
Francesco
Zizola
Italia
1962

In una versione non nominale ma cronologica, questo elenco dovrebbe iniziare con un chimicofisico e inventore francese dal nome impronunciabile, Joseph Nicéphore Niépce, il quale solo nel 1826, ormai ultrasessantenne, avrebbe finalmente potuto imprimere la sua Veduta della finestra a Le Gras su una lastra metallica spalmata di bitume, standolio, argilla ed essenza di trementina. Non ancora un clic come lo sentiamo, vediamo o subiamo ai nostri giorni, ma un’esposizione estremamente prolungata, una sorta di lenta ma indolore doglia luminosa. Nasce così il bizzarro primogenito di un mondo parallelelo, l’archetipo che avrebbe completamente cambiato il nostro modo di guardare, di pensare, di ricordare. Quei tetti, quelle case, quel cielo in una stanza di quasi due secoli fa sono entrati nel sommario dei capitoli che scandiscono l’evoluzione della specie umana, insieme al disegno, ai numeri, alla scrittura, alla stampa, ma anche alla ruota, alla corrente elettrica, al denaro, alla dinamite...

La fotografia ha il potere di connotare e raccontare il nostro tempo con implacabile intensità. Anche se oggi la stampa delle immagini su carta è vieppiù sostituita dai pixel sugli schermi, sui monitor e sui display, la scrittura della luce che si combina tra phos e graphiscontinua a sorprendere e catturare i nostri sensi più di qualsiasi altro linguaggio. Più della parola, del suono, dell’odore, del sapore. Basti pensare al cinema, massimo sobillatore di emozioni. E a un film per tutti, la mitica odissea spaziale di Kubrick: una strabiliante photogallery di 214.560 scatti, proiettati e fissati per sempre nelle teste di milioni e milioni di viandanti nell’immaginario, nel tempo, nei sogni.

Ma qui non ci preme inseguire gli infiniti – e spesso magnifici – inganni del cinema dove, come diceva Brian De Palma, «The camera lies all the time, it lies 24 times each second». Lasciamo da parte il movimento e i suoni per occuparci della fotografia in quanto tale e dei suoi capolavori: frammenti e visioni di una fulminante, bidimensionale e tangibile immobilità. Un’arte che più delle altre sembra simulare la vita, anche se nessuna foto, nemmeno di reportage, può essere considerata realtà. Perché si tratta sempre e soltanto di una raffigurazione, di un punto di vista, di un’istantanea di qualcosa di unico e irripetibile che è apparso, con o senza regia, davanti agli occhi di quell’instancabile produttore di memorie che è il fotografo. Il fotografo è un sapiens solitario e primordiale, un ossessivo cacciatore e raccoglitore di frutti visivi che non accetta di adeguarsi ai diktat di una civiltà diventata, da oltre diecimila anni, troppo abitudinaria e stanziale per i suoi gusti. Il suo è uno sguardo febbrile e volteggiante, da radar, pronto a pescare l’imprevedibile anche dove o quando esso è restio a manifestarsi. Il suo apparato catadiottrico, le sue cellule fotosensibili, i suoi bastoncelli, ma prima ancora le sue avide vibrisse culturali, gli consentono – senza tentennamenti e indugi – di perlustrare ciò che sfugge agli specialisti di déjà-vu, e di cogliere ciò che i comuni mortali non riescono e intravvedere nemmeno con il microscopio, il binocolo, la scansione tridimensionale, la TAC, l’LSD e YouTube.

Stiamo parlando di fotografia. Di grande fotografia: non di un chiassoso sistemone di consensi, di celebrazioni, di applausi, di bis. Ne parliamo consapevoli del fatto che non sempre il mondo della fotografia brilla di luci e controluci proprie, emanate in esclusiva dai suoi autori: può talvolta succedere che un fotografo scivoli, o venga da altri sospinto, in un firmamento spudoratamente prevedibile e glam. In troppi casi il conformismo (o finto anticonformismo) trendy, la febbre di protagonismo, le mode, il marketing e il gossip decidono chi sia un fotografo da celebrare e chi non. Il feticcio griffato Pirelli, che anno dopo anno delizia migliaia di officianti, insider accecati e deliranti fan, la dice lunghissima (sin dal lontano 1963) sulle distorsioni della cosiddetta industria culturale. Assurto a colpi di PR fra gli idoli della modernità, quel calendario pretende di stabilire canoni estetici che con la fotografia d’autore, e con l’innovazione espressiva, condividono al massimo l’attrezzatura tecnica e la luce del sole.

Ci sono ritrattisti che conoscono meglio di altri l’arte dell’indagine psicologica e della rivelazione. Il loro rapporto col soggetto è di solito alla pari, anche quando il personaggio da ritrarre è una star dello spettacolo, un pezzo grosso del potere, un’autorità della scienza, una leggenda dello sport. Da questi tête-à-tête, spesso prolungati, il fotografo esce vincitore solo se e quando riesce a comunicarci qualcosa di nuovo, di personale, di autentico sul fotografato. A mio modo di vedere, lo scattista di clic sparati a raffica addosso a una modella in un superstudio o in una location trendy, esotica o antropologicamente chic, quasi mai è un autore veramente grande. Sarà magari un photographer osannato, di successo, astutamente vezzeggiato dalle domatrici del Barnum modaiolo (non solo dalle mitiche Vreeland, Wintour o Sozzani, ma anche da centinaia di photo editor in vena di compiacere un agente fotografico oppure un inserzionista ricattatorio o semplicemente snob), ma nei decenni a venire la sua ipertrofica dimensione mediatica rischierà di farsi progressivamente più tenue, sfocata, illeggibile... fino alla completa invisibilità. Per dirla con un overstatement un tantino osé: non so se tra cinquant’anni le folate fashion di un Michel Comte, Steven Meisel o Terry Richardson saranno ancora ricordate nei libri, nelle scuole, nei musei... Ciò che invece so già con inconfutabile certezza è che le prime immagini di moda della storia, scattate in piena epoca vittoriana (dal 1859 fino alla sua morte nel 1865) da Lady Clementina Hawarden, per motivi banalmente evidenti tra mezzo secolo saranno ancora ammirate da centinaia di migliaia di fotografi, storici e appassionati della comunicazione moderna.

Il nostro elenco – personale ma non troppo – dei Maestri dell’arte fotografica con la metaforica M maiuscola (la stessa dei loro lontani parenti Mackintosh, Malick, Miller, Mondrian, Moore, Munari, Munch), quelli che hanno fatto o cambiato la storia della fotografia (quando non della storia tout court), è una lista di 209 nomi, tra i quali ci sono anche 14 italiani. Com’era ovvio aspettarsi, il grosso di questi pionieri è originario della Francia (la fotografia è nata lì), della Germania (la patria della Leica, della Rolleiflex, della Linhof, della Zeiss), del Regno Unito (culla storica del giornalismo, dei musei scientifici e dell’industrializzazione) e, obviously, degli USA, fucina universale dell’iconografia mediatica. I fotografi statunitensi presenti sono infatti una novantina – il 43% del totale.

Degli oltre ottanta viventi in lista, il più anziano è nato 94 anni fa (l’austriaco Erich Lessing, full member dell’agenzia Magnum), mentre la più giovane (la belga Bieke Depoorter, full member Magnum pure lei) oggi ha appena 31 anni. Ancora più giovane, e giovane per sempre, la grandissima Francesca Woodman: a 23 anni salì sul tetto del palazzo in cui risiedeva, a New York, e si lanciò nel vuoto. Il record di chi ha vissuto più a lungo è di un’altra donna, la tedesca Leni Riefenstahl, morta nel 2003 nella sua casa in riva al lago di Starnberg in Baviera dopo aver superato, da due settimane, i 101 anni.

Smettendo di dare i numeri in un’area dell’arte dove le cifre dovrebbero essere la cosa meno importante, concludo dicendo che 36 donne su un totale di 209 nomi fanno una percentuale (17%) eroica: ancora per lunghi decenni dopo la genesi della prima fotografia della storia, vedere una donna barcamenarsi con una macchina fotografica, per l’establishment maschile fu come scoprire un neonato a giocare con la Colt. Una donna fotografa era uno scandalo, un’assurdità, una cosa che semplicemente non doveva succedere. Eppure, per grandissima fortuna nostra, è successo molte volte... e sempre più frequentemente continua a succedere. Tra la decina di opere fotografiche che porterei nel fatidico arcipelago dei naufraghi della fantasia e dell’immaginazione, insieme a una stampa di Ansel Adams, Henri Cartier-Bresson, Nadav Kander, Sebastião Salgado e Josef Sudek, l’altra esatta metà sarebbe firmata da donne: Berenice Abbott, Imogen Cunningham, Vivian Maier, Tina Modotti, Francesca Woodman.

In coda a questa mia personalissima hall of fame, aggiungo pure i nomi di alcuni fotografi strafamosi che, secondo me, non hanno dispensato contributi rilevanti all’innovazione della fotografia. Compilare quest’appendice è stato comunque un dovere perché un conto è fare lo gnorri su una serie di miti glam, altra cosa è relegarli in un dignitoso lato B:

Tony Armstrong-Jones
Clive Arrowsmith
Gian Paolo Barbieri
Guy Bourdin
Alfa Castaldi
William Claxton
Michel Comte
Patrick Demarchelier
Terrence Donovan
Brian Duffy
Alfred Eisenstaedt
Arthur Elgort
Fabrizio Ferri
Hans Feurer
Jean-Paul Goude
Ernst Haas
Philippe Halsman
David Hamilton
Sam Haskins
Horst P. Horst
Frank Horvat
Hiro
Art Kane
Steven Klein
Peter Knapp
Nick Knight
Karl Lagerfeld
Peter Lindbergh
Charlotte March
Will McBride
Steven Meisel
Duane Michals
Jean-Baptiste Mondino
Helmut Newton
Harry Peccinotti
Bettina Rheims
Terry Richardson
Herb Ritts
Paolo Roversi
Francesco Scavullo
Jeanloup Sieff
Bert Stern
Dennis Stock
Mario Testino
Oliviero Toscani
Ellen von Unwerth
Bruce Weber
Wim Wenders
Claus Wickrath

So di aver infranto qualche futile tabù, ma piuttosto che infilarmi in un coro di crooner che decantano la fotografia trendy, embedded o da identikit, preferisco esaltare i meriti di alcuni autentici maestri – forse un tantino meno conosciuti o in qualche caso persino ignoti o addirittura dimenticati. Sono proprio loro i protagonisti di quest’ardita cordata nelle alte quote della fotografia. Ciascuno ha inaugurato vie ascensionali, percorsi ignoti, modi completamente inattesi per raggiungere punti di vista cangianti o panorami mai visti prima. Non li racconto in ordine cronologico (troppo scolastico, troppo seriale, troppo prevedibile), ma seguendo il buon vecchio e caro abbiccì – che ci consentirà di muoverci in modo più affascinante, spiazzante, a zigzag. In questa prima puntata scaleremo le prime vette di una maestosa catena di maestre e maestri che si snoderà lungo un percorso di una cinquantina di eroi... senza ricorrere ai soliti chiodi e moschettoni dell’ufficialità, senza le bombole di un testo storico, senza alcuna guida accademica alle nostre spalle.


Alexander Bassano
1829-1913

Il primo maestro di questa galleria di fotografi minacciati dall’estinzione nel recinto della memoria è un inglese di diretta ascendenza italiana. Sua sorella Louisa Bassano, soprano, cantò alla prima inglese dell’oratorio Elia sotto la direzione di Mendelssohn in persona, l’autore; nelle sue tournée di recital si faceva spesso accompagnare al piano da Franz Liszt. Eppure erano entrambi figli di un immigrato, il magazziniere e pescivendolo Clemente Bassano. Nonostante le umili origini, Bassano junior si sarebbe affermato e arricchito come ritrattista di punta della Londra vittoriana. Persino della famiglia reale.

Dopo aver imparato il mestiere nell’atelier del pittore Augustus Egg, a ventun anni Bassano aprì il suo primo studio fotografico in Regent Street, spostandosi poi a Piccadilly, nel Pall Mall e infine in Old Bond Street. Quest’ultima sede era talmente spaziosa da contenere un fondale panoramico mobile di 24 metri e decine di sculture di papier-mâché. Bassano si ritirò a 75 anni quando l’impresa fu completamente rinnovata e rilanciata con il nome Bassano Ltd., Royal Photographers. A otto anni dalla sua morte lo studio si spostò di nuovo, in Dover Street, con un patrimonio di circa un milione di negativi tutti accuratamente numerati e catalogati. Dopo una lunga serie di passaggi di partnership e proprietà, l’impresa esiste ancora oggi in South West London con il nome Industrial Photographic. Gran parte dei negativi sono conservati nella National Portrait Gallery e nel Museum of London.

Di quei suoi ritratti straordinari, la prima cosa che colpisce sono i soggetti. Facevano parte di un cerchio magico che di fatto era una nazione nella nazione. Non solo erano tutti quanti nobili, ricchi, potenti e separati dal resto della società, ma (noblesse oblige) per durissimi vincoli di classe dovevano per forza essere anche colti. Ciò che oggi passa per stile (stilisti, restyling, moda, design non c’entrano), all’epoca di Bassano era solo anattitude– l’esatto opposto dell’essere distinguished. Ai giorni nostri, nella upperclass inglese gli eredi dei vari Disraeli, Lewis Carroll e Oscar Wilde si chiamano Nigel Farage, David Beckham e Rowan Atkinson.

Allora fare ad alti livelli il banchiere, il militare, l’industriale, il politico (e accumulare tantissimi soldi, oltre la soglia della decenza) non era scindibile dal viaggiare, sapere le lingue, suonare uno strumento, avere una biblioteca ben fornita. Il fairplay britannico non è nato nel taccuino di qualche idealista, ma nei college e nelle università dove i rampolli si giocavano le vittorie e le sconfitte tra di loro. I veri avversari stavano altrove: nelle colonie, nelle banche tedesche e americane, nel Vaticano, nei nascenti sindacati, alla Sorbona e a Versailles. Sebbene la locuzione grand tour sia di evidente impronta francese, l’attuazione di quel giro formativo fu soprattutto vissuta dalla jeunesse dorée (sic)londinese. Se nell’Ottocento cercassimo dalle nostre parti uno sprazzo educativo di pari grado, dovremmo accontentarci dei giretti fuori porta di qualche isolata casata triestina, sabauda o partenopea.

La seconda sorpresa sta nella qualità dei gesti, nel vestiario raffinato, negli sguardi. Un secolo dopo i bagliori fotografici di Bassano ­le First e Second Lady del Novecento – a parte forse Jacqueline Bouvier, Marella Caracciolo, Grace Kelly e Nilde Jotti – non hanno certo brillato per eleganza, contegno, discrezione e savoir faire. Con tutta la buona o bassa volontà di cui oggi dispongono le rampolle e sciure d’ogni dove, nemmeno Avedon, Velázquez o Vermeer potrebbero elevare la loro immagine al di sopra del livello del Mar Morto. Forse ogni tanto una Leibovitz, un Fabrizio Ferri o il caso riescono a salvare il ritoccabile, ma la sostanza rimane lì, nel limbo delle sveltine digitali e dei selfie.

Viene quindi spontaneo chiedersi se quei nobilastri londinesi avessero spronato e ispirato Bassano, o se fosse stato lui a nobilitare loro elevandoli a livelli estetici mai visti prima. Sta di fatto che il nostro uomo padroneggiava quei set con un gusto, un carisma e una luce che ancora oggi restano insondabili. Con tutta evidenza quei ritratti non raccontano solo dei volti e l’indotto scenico di contorno, ma lasciano ampio spazio ai sogni, alla grandezza e all’intimità di una leadership politica, economica, militare e culturale che non a caso avrebbe generato sia il Commonwealth che il common sense. Un paradosso tipicamente isolano, classista, British e snob.

Il suo ultimo ritratto è stato anche il più famoso: raffigura il trionfatore della guerra anglo-boera in Sudafrica, il conte Horatio Herbert Kitchener, che da un manifesto per il reclutamento militare di massa, nel 1914, addita i sudditi di re Giorgio V con la minacciosa esortazione «Britons wants you». 






Hilla e Bernd Becher
1934-2015 / 1931-2007


Nella mitologia delle coppie eccezionali, quasi sempre la donna viene citata in seconda battuta: Francis e Zelda, Diego e Frida, Ottavio e Rosita, John e Yoko, Jean-Paul e Simone. Le eccezioni si riscontrano di solito nei campi della politica e della criminalità: Marie-Antoinette e Louis, Grace e Ranieri, Hillary e Bill, Imelda e Ferdinando, Evita e Juan, Bonnie e Clyde.

Di Hilla non esiste una sola foto che non sia firmata «Bernd und Hilla Becher», eppure tra i due solo lei aveva avuto una formazione fotografica degna di questa qualifica. Prima che si mettessero insieme, lui aveva maneggiato esclusivamente le matite e i pennelli. Invece, nella natia DDR, già la madre e uno zio di Hilla erano stati fotografi e a soli tredici anni la giovane aveva iniziato a ingegnarsi nella camera oscura. Un tirocinio presso il maestro Walter Eichgrün (che caparbiamente rifiutava l’uso della pellicola in rullini) le aveva tramandato un codice tecnico, estetico e quasi d’onore che imponeva di fotografare esclusivamente su lastre di grande formato. Trasferitasi ad Amburgo e poi a Düsseldorf, aveva subito trovato lavoro nell’agenzia pubblicitaria Troost come autrice di still life. Lì avrebbe presto provato l’intenso desiderio di ampliare i propri spazi tematici e visuali, ma anche trovato il suo compagno di vita.

La Germania di quei tempi mostrava ancora una miriade di ferite di guerra e l’inarrestabile decadenza dell’industria pesante avrebbe presto condotto l’economia tedesca al black out. Per Hilla e il suo Bernd quei segnali erano, allo stesso tempo, un allarme storico e una potente sfida artistica. Prima di mettersi a perlustrare la Ruhr e poi il paese intero a bordo di uno sgangherato furgone Volkswagen, fungente anche da abitazione e laboratorio fotografico, i due avevano già censito centinaia di case rurali con le tipiche strutture di legno a vista: sui pattern di quella prima serie di foto era riconoscibile l’imprinting di Mondrian, di Wittgenstein, della Bauhaus.

L’ossessiva catalogazione di ciminiere, silos, gasometri, centrali elettriche, altiforni, miniere, torri d’acqua, acciaierie, opifici, nastri trasportatori e fabbriche di ogni tipo andava assumendo un carattere storico-filosofico più che meramente fotografico e documentaristico. Il rigore del bianco e nero, le riprese puntualmente perpendicolari e frontali (in sostanza bidimensionali), il rigetto totale di filtri, gelatine o altri accorgimenti per ravvivare quei cieli perennemente biancastri o grigi del nord... da tutta quella produzione traspariva sempre più chiaramente l’intento di conferire, a un apparente repertorio di immagini documentaristiche, lo spirito possente e visionario dell’opera d’arte. Hilla rifiutava con sdegno la definizione di «archeologia industriale» applicata all’oggetto di tanta attenzione. Per quell’infinita galleria di totem coniò un titolo più sottile, apodittico: Anonyme Skulpturen.

Quando si decisero a estendere le loro ricerche anche fuori dalla Germania (prima in Belgio, Olanda, Francia e Regno Unito, poi anche negli USA), le loro ottiche – sia metaforiche che tecnologiche – compirono un autentico salto di modalità. Durante quelle migrazioni le foto di Hilla e Bernd assumono toni nettamente diversi: sono ricche di dettagli, di viste d’insieme colte in modo prospettico, anche da lontano; scorgiamo anche automobili, ponti, strade, treni e persino qualche minuscola traccia di figure umane.

Sebbene Hilla e Bernd non fossero mai diventati oggetto del chiacchiericcio galleristico e del merchandising museale, nel 1972 il più illustre curatore di eventi artistici, Harald Szeemann, li scoprì e li celebrò alla documenta di Kassel. Nel 1990 furono premiati con un Leone d’oro alla Biennale di Venezia. Alcuni allievi della loro Düsseldorfer Fotoschule (Andreas Gursky, Candida Höfer, Thomas Struth e Michael Ruetz) si sono nel frattempo rivelati come i fotografi tedeschi più importanti del nuovo millennio.

Nel 2009 l’Italia onorava Hilla Becher con una grande mostra (“collettiva” per modo di dire, perché dedicata in solido anche a suo marito morto appena due anni prima) al Museo Morandi di Bologna, dove la minuta Hilla e l’imponente Gabriele Basilico ebbero modo d’incontrarsi e di simpatizzare all’istante, comunicando in quella specie d’esperanto praticato solo dai grandi fotografi: con gli sguardi penetranti che registrano e rivelano tutto tranne l’ovvietà.






Mathew B. Brady
1822-1896

Questo pioniere statunitense di origini irlandesi è senza dubbio il fotografo più visto e “apprezzato” della storia: un suo ritratto di Abraham Lincoln (commissionato di persona dallo stesso presidente) è tuttora riprodotto sulle banconote americane da cinque dollari.

Oggi Brady è considerato il ritrattista americano più importante dell’800: oltre ad aver fotografato l’imprenditore circense Phineas T. Barnum, l’inventore Thomas A. Edison, gli scrittori Nathaniel Hawthorne, Edgar Allan Poe, Mark Twain, Walt Whitman, i generali George A. Custer, Ulysses Grant, Robert E. Lee e William Sherman, il futuro re britannico Edoardo VII e il nostro Giuseppe Garibaldi, immortalò ben sedici presidenti del suo paese.

La sua carriera iniziò come pittore, a soli sedici anni, a Saratoga, nello studio del noto ritrattista William Page. Trasferitosi dalla provincia a New York, fu scoperto da Samuel Morse (l’inventore del codice per trasmettere i telegrammi) il quale, da abile uomo d’affari, s’era già accordato con Louis Daguerre per lanciare anche negli Stati Uniti la nuova tecnica francese per produrre immagini chimiche dal vero. Il giovane pittore appena assunto doveva impratichirsi alla svelta in quella nuova tecnica per realizzare ritratti senza tela e pennelli. Brady si rivelò talmente abile e bravo che, nonostante sin da bambino soffrisse di un grave deficit visivo, in poco tempo riuscì ad aprire un proprio studio diventando un’autentica star della high society newyorchese. La upperclass faceva la fila per farsi ritrarre da lui.

Ben presto nella sua metropoli elettiva avrebbe lanciato un’altra novità: le piccole cartes de visite– anche quelle di chiara impronta francese – sulle quali oltre alle solite informazioni personali era stampato anche un miniritratto dell’intestatario. Sulla scia di questo nuovo successo aprì la Brady’s Daguerran Miniature Gallery. Nel 1851 vinse il primo premio fotografico all’Esposizione universale al Crystal Palace londinese, messo in palio nientemeno che dal principino Edoardo VII.

Il suo appuntamento storico più sensazionale doveva però realizzarsi esattamente dieci anni dopo, con l’inizio della trucida Guerra di secessione nel 1861 – lo stesso anno che vide la nascita della nostra nazione. Prima di quel conflitto, i civili che vivevano nei centri urbani non avevano mai visto dei morti ammassati nelle trincee, le baionette che infilzavano dei corpi umani, i campi di battaglia pieno di soldati e ufficiali morenti, le amputazioni di mani, braccia, gambe di migliaia di padri, mariti, figli, amici e fidanzati.

Ciò che riuscì a fotografare e pubblicare presto si trasformò nello scoop mediatico più incisivo e prolungato della East Coast di quegli anni. Nemmeno un secolo dopo, Brady avrebbe potuto contare sulla complicità di un collega che la pensava esattamente come lui: «If your pictures aren’t good enough, you aren’t close enough» (Robert Capa).

Di fatto Brady era diventato il primo fotoreporter di guerra degli Stati Uniti. Non solo partì di persona a rischiare la pelle in prima linea riprendendo – prima, durante e dopo – le epiche battaglie di Bull Run, Antietam, Gettysburg, Cold Harbor e Fredericksburg con scene mai viste o riprodotte prima in nessun giornale, manifesto, libro o mostra, ma presto organizzò e amplificò quella lunga cronaca mortuaria con un’energia e uno spirito imprenditoriale che a volte assumevano dimensioni paradossali. Mise insieme e coordinò da una sede operativa a Washington D.C. una troupe di ventitré fotografi (tra i quali anche dei colleghi piuttosto famosi), tutti quanti muniti di carrozze a cavallo attrezzate con una camera oscura. Per portare a casa le oltre diecimila lastre esposte in primis da lui stesso ma anche da quella squadra di colleghi, Brady s’indebitò fino al collo investendo nell’operazione ben 100.000 dollari – una cifra per quei tempi enorme. L’iniziale – a volte anche morbosa – curiosità che le sue immagini avevano destato nei media e nel mondo urbano di allora, lo incoraggiò a investire tutto il suo tempo e le sue energie in un poderoso archivio a futura memoria. Era convinto che dopo il conflitto il governo avrebbe avidamente acquisito quel patrimonio storico. Ma presto la gente si stancò di confrontarsi senza tregua con quei tragici ricordi e alla fine, dopo appena un ventennio dalla conclusione del conflitto, per quel patrimonio il governo gli offrì appena 25.000 dollari.

Dopo anni di stenti, pieno di debiti, vedovo e semicieco, depresso e alcolizzato, morì senza un soldo, completamente solo e dimenticato, nell’ospedale presbiteriano dei poveri a New York. I funerali furono generosamente pagati dai veterani del 7° Fanteria della sua città.






Wynn Bullock
1902-1975

Il suo non è solo un grande portfolio black & light, ma anche il testamento filosofico-naturalista di un contemplatore spinoziano. Tra i suoi connazionali Bullock deve aver tratto ispirazione, più che da pittori come Sargent, Whistler, Hopper, Wyeth, Rockwell e Grant Wood, da filosofi, scrittori e poeti come Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau, Herman Melville, Walt Whitman e Robert Frost.

I suoi silenti squarci di natura (sia litica, celeste, vegetale o umana) traspirano brezze, gorgogli o respiri... forse qualche lontano cinguettio. Se volessimo dare ascolto a una voce interiore, potremmo aspettarci domande bisbigliate fuori campo come avviene negli incipit dei film di Terrence Malick. Le sue foto sono puro panteismo: «Mysteries lie all around us, even in the most familiar things, waiting only to be perceived». Non vengono in mente, negli occhi o nelle nostre memorie, altri fotografi – anche se ispirati, vividi, innovativi, grandi. Piuttosto che ad Adams, Arthus-Bertrand, Salgado, pensiamo a Eraclito («La natura delle cose ama celarsi»), al Goethe morente («Mehr Licht!») e a Lavoisier («Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.»)

Bullock nasce a Chicago ma cresce in California, dove coltiva passioni come il football, il nuoto, il baseball, il tennis. Più tardi lo ritroviamo, a sorpresa, corista a New York: esperienza più che promettente, tant’è che si esibirà da solista persino in Germania, Italia e Francia. A Parigi scopre la pittura impressionista e finalmente, quasi trentenne, trova la strada maestra della sua vita, colpito dal lavoro di László Moholy-Nagy e Man Ray. Acquista la sua prima macchina fotografica e inizia a fotografare. Durante la grande depressione degli anni trenta Bullock si sposta nel West Virginia e poi a Los Angeles studiando legge (per gestire meglio gli affari di famiglia della prima moglie), ma dopo poche settimane passate all’University of Southern California molla tutto per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia. Nell’immediato dopoguerra si guadagna da vivere producendo e vendendo cartoline postali.

Gradualmente si sarebbe fatto un nome con incarichi commerciali, partecipando ad alcune mostre e vincendo una serie di premi. Nei primi anni sessanta si cimenta anche con il colore, attraverso un’esperienza che lui definisce Color Light Abstractions. Ma è un percorso frustrante, perché le tecnologie del momento non gli consentono di rimanere indipendente dai laboratori. Si conclude per questo una fase importante della sua vita sia professionale che interiore, che per oltre mezzo secolo sarebbe rimasta nascosta al numero sempre crescente dei suoi discepoli e ammiratori. Poi, il sofferto rientro nel mondo del bianco e nero sarebbe rimasto definitivo.

Per tutta la vita gran parte delle sue energie e curiosità furono rivolte alla filosofia, alla fisica, alla semantica, alla psicologia, all’arte figurativa. Oltre che dai colleghi incontrati nel periodo parigino, si sentì particolarmente attratto da Einstein, Bertrand Russell, Lao-tze e Paul Klee, così come dalle opere di Edward Weston, Imogen Cunningham e Ruth Bernhard.

Sul suo lavoro sono state pubblicate una ventina di monografie. Le sue opere sono state inserite in centinaia di mostre individuali e collettive ed esposte in oltre novanta musei. Il nucleo del suo pensiero, e della sua particolare percezione visiva dell’universo, lo ha messo a fuoco lui stesso, con una dichiarazione semplice e profonda: «When I photograph, what I’m really doing is seeking answers to things.»






Julia Margaret Cameron
1815-1879

Nello stesso anno in cui gli inglesi oscuravano il nemico numero uno, Napoleone, deportandolo in un’isola atlantica distante oltre 4.000 miglia marittime da Londra, all’altro capo del mondo vedeva la luce una lady britannica che mezzo secolo dopo avrebbe illuminato il mondo. Sia Sant’Elena che Calcutta erano incastonate in un impero dove il sole non tramontava mai, in un’era segnata da una sorta di secondo illuminismo scientifico, tecnologico, commerciale. Ben presto quella rampolla giramondo, indiana di nascita ma solidamente inglese, si sarebbe rivelata come un ottimo partito: ricca, colta, well mannered, piena di verve. Cresciuta in una famiglia di donne tutte belle, la sua scarsa avvenenza non le impedì di primeggiare nei salotti: scriveva poesie e memoriali, parlava fliessend e couramment il tedesco e il francese, cantava e suonava il pianoforte a livelli concertistici. Una gran dame du monde, amica e confidente di vari protagonisti della vita culturale: gli scrittori William Makepeace Thackeray e Lewis Carroll, i poeti Robert Browning, Henry Longfellow e Alfred Tennyson, la scrittrice e attivista Virginia Woolf (figlia di una delle sue nipoti), il pittore e critico d’arte John Ruskin, lo storico Thomas Carlyle, gli scienziati John Herschel e Charles Darwin e, last but not least, il giurista e uomo di lettere Charles Hay Cameron (autore di un trattato su Il sublime e il bello) il quale, nonostante una differenza d’età di vent’anni, nel 1833 sarebbe diventato suo marito.

Julia Cameron aveva speso la sua giovane vita itinerante a Parigi e Versailles, in India, in Sudafrica, nel Kent e poi a Londra. Però, una volta maritata, avrebbe dedicato tutte le sue energie alla famiglia, prevalentemente nella cittadina di Freshwater nell’isola di Wight dove si concesse, come unico svago artistico, qualche indugio – ma sempre più raro – all’amato pianoforte.

Prima di rivoluzionare l’antica tradizione del ritratto su tela, Julia aveva già investito buona parte della vita nella produzione, nell’adozione e nell’allevamento di una dozzina tonda di eredi. Quando nel 1864 l’amato marito fu costretto a tornare a Ceylon (oggi Sri Lanka) per seguire da vicino la gestione delle loro piantagioni di caffè, dopo un’esistenza tutta salotti, amicizie e famiglia, con i figli ormai cresciuti o sposati, di colpo la signora si scoprì senza impegni, priva di affetti, disperatamente sola. Vedendola progressivamente scivolare in una spirale depressiva, la figlia maggiore cercò di distrarla con un regalo apparentemente senza senso, del tutto inatteso: una macchina fotografica.

Non solo per lei, ma per tutti noi che oggi possiamo ammirare le sue straordinarie immagini, quella bizzarria di sua figlia è stata un’autentica fortuna. Purtroppo, la sua folgorante carriera fotografica sarebbe durata solo undici anni, dal 1864 al 1875, anno in cui si sarebbe ricongiunta al coniuge a Ceylon. Quando non si dedicò a ritrarre artisti o scienziati famosi, i suoi modelli preferiti furono le figlie, le nipoti, il personale domestico, le amiche... chiunque fosse in grado di resistere fino a nove minuti di totale immobilità davanti al suo obiettivo. Allora le ottiche e il materiale sensibile non consentivano ancora le esposizioni brevissime dei nostri giorni. La circostanza spiega il perché di quegli sguardi perennemente fissi, elegiaci, teatrali, mai allegri. Sorridere senza batter ciglio per parecchi minuti non sarebbe riuscito nemmeno alla regina Vittoria; figuriamoci ai cittadini meno privilegiati, peraltro non ancora lambiti dagli aforismi di Oscar Wilde o di G.B. Shaw, dalle battute di Britain’s Got Talent o dai lazzi di Mr. Bean.

Grazie anche alle sue palesi affinità estetiche con il movimento dei preraffaelliti, Julia Cameron si dedicò spesso alla costruzione di situazioni allegoriche, bibliche, quasi mistiche, con tableaux vivants che a volte rasentavano il kitsch. Eppure anche in quei diorami della retorica e dell’ingenuità la sua composizione, la luce, i gesti, l’inquadratura, il vestiario e i drappeggi anticipano certe audacie di Ėjzenštejn, del melodramma novecentesco, del gesto dadaista e talvolta persino del cinema noir. Ciò che colpisce nelle sue foto è: 1) l’esaltazione della luce radente (come s’usava negli interni del Seicento fiammingo); 2) la rinuncia evidentissima alla perfezione: all’epoca la fotografia pubblica e ambiziosa doveva per forza distinguersi per una messa a fuoco integrale dove ogni parte dell’immagine è sempre reale, didascalica, precisa in ogni dettaglio. Cameron amava invece sentirsi libera da questi lacci fino al punto di travisare la realtà. Molte sue foto sembrano leggermente mosse, con piani o frammenti sfocati o persino celati da un velo che mantiene a debita distanza la percezione dalla narrazione.

Al suo amico e collega di passione fotografica Lewis Carroll, quell’apparente incompiutezza tecnica parve «...frankly hideous», mentre invece Victor Hugo e John Ruskin ne erano entusiasti. La sua prima mostra, nella prestigiosa French Gallery, fu un grandissimo successo. Prese accordi con il più importante venditore di stampe di Londra, Colnaghi & Co., ed entro soli diciotto mesi aveva già venduto 80 stampe al Victoria and Albert Museum. Non era certo un caso se fu la prima donna ad essere ammessa nella elitaria Royal Photographic Society.

Durante la breve carriera realizzò in tutto un migliaio di foto, ma l’unica seduta su commissione fu quella attuata con Charles Darwin. Nella serie a lui dedicata spicca uno scatto palesemente effettuato fuori studio, accanto a un tronco d’albero: probabile allusione al naturalismo così poco antropocentrico di quel gigante.

Lo studio dell’artista era un vecchio pollaio trasformato in luminoso atelier. In un suo memoriale del 1874 la circostanza veniva amorevolmente ricordata con il titolo Annals of My Glass House. L’adiacente camera obscura era segnata da un doppio presagio: 1) per lunghi anni quel basement era stato un deposito per una materia nera che più nera non si può: il carbone; 2) parecchi anni prima, la Cameron ancora teenager era già stata contagiata da quelle curiose procedure eliochimiche quando un vecchio amico di famiglia, il noto astronomo, matematico e chimico Sir John Herschel, le aveva parlato di una sorta di nuova magia nera: il disegno con la luce che grazie al carbonato di calcio, all’acido nitrico e ai sali d’argento si sarebbe potuto combinare nel phôs e graphè, dall’Ottocento fino ai nostri giorni. Lo scienziato baronetto era talmente attratto da quel nuovo know-how che presto sarebbe divenuto un guru scientifico della Photography – termine che insiemealle voci Negative e Positive fu coniato da lui.

I primi rudimenti di ripresa, trattamento chimico e stampa glieli trasmise il fotografo e pittore svedese Oscar Gustave Rejlander quando nel 1863 si trovava a Freshwater per realizzare un servizio fotografico presso il vicino di casa Tennyson; però il più convinto, appassionato e longevo supporter dell’arte di Julia Cameron fu sempre l’amatissimo marito Charles. Nel 1879 la signora morì nella loro piantagione di Ceylon, e dopo pochi mesi lo sconsolato compagno di una vita l’avrebbe raggiunta in una semplice tomba simmetrica nel minuscolo cimitero Glencairn di Dikoya Kandy. Sulla lapide non c’è alcun epitaffio. Speriamo che la discrezione, col tempo, non si dissolva nell’anonimato.
Ritratto della signora Duckworth, alias Julia Jackson, nipote della fotografa e madre di Virginia Woolf. 1867.

Sir Henry Taylor, poeta e drammaturgo. 1867.

L’astronomo, matematico e chimico Sir John Herschel, presidente della Royal Astronomical Society, amico intimo della famiglia Cameron. 1867.

Uno dei ritratti di Charles Darwin (non il più famoso) realizzati da Julia Margaret Cameron, 1881.

Ritratto allegorico dell’amato marito Charles Hay Cameron, che aveva sempre apprezzato e incoraggiato con passione l’attività artistica della moglie.


Martín Chambi
1891-1973

Il Perù ha espresso due fotografi importanti: uno è vivente e molto famoso, l’altro – un gigante – è mancato quando il primo aveva appena diciannove anni.

Mario Testino, nato nel 1954 nella capitale Lima in una famiglia ricca e molto cattolica, da bambino sognava di diventare prete, ma poi alla Pontificia Universidad del Peru si sarebbe iscritto alla facoltà di economia abbandonando molto presto gli studi, per trasferirsi a Londra con il fermo proposito di diventare un fotografo famoso. 

Chambi nacque in provincia, in una delle zone più povere del Perù. Da bambino accompagnava il padre in miniera: smise a quattordici anni, quando il padre morì.

Durante i primi tempi a Londra, Testino sbarcò il lunario facendo il cameriere. Erano gli anni di una chiassosa post-swinging London dove i vari Elton John, David Bowie, Iggy Pop e Boy George amavano esibirsi con trucchi e travestimenti bizzarri. Il giovane Testino finì per tingersi di rosa i capelli sperando di farsi notare anche lui.

Nelle miniere della Inca Mining Co., il ragazzino Chambi vide all’opera alcuni fotografi che per conto della corporation statunitense riprendevano le gallerie e i dintorni dei più ricchi giacimenti auriferi andini. Ne rimase affascinato.

Come assistente del fotografo teatrale John Vickers a Covent Garden, Testino ebbe modo di venire a contatto con parecchi personaggi del mondo dello spettacolo e presto iniziò a scattare le prime foto. Il primo ritratto della sua vita lo fece a Vivien Leigh.

A diciassette anni Martín Chambi iniziò un lungo apprendistato nello studio di Max T. Vargas ad Arequipa, capoluogo dell’omonima provincia. Proprio in quella città sarebbe nato Mario Vargas Llosa, futuro premio Nobel per la letteratura.

Ormai ben introdotto nella Londra trendy, Mario Testino fu scoperto e lanciato da Alexandra Shulman, chief editor dell’edizione britannica di Vogue. Presto l’avrebbero seguita le colleghe di Vanity Fair, Gentlemen’s Quarterly e Vogue USA.

A ventisei anni Chambi aprì un suo studio fotografico a Cusco, l’ex capitale dell’impero inca. Si guadagnò da vivere vendendo cartoline illustrate della città e dei dintorni, tutte di sua produzione.

Oltre che per i servizi di moda commissionati dai più importanti stilisti del mondo, Testino è famoso anche per i ritratti di personaggi mondani e famiglie reali: David Beckham, Jennifer Lopez, Mick Jagger, Diana Spencer, George Clooney, Kylie Minogue, il principe Harry, Kate Middleton, Britney Spears, Rania di Giordania, Cristiano Ronaldo, Elisabetta II, Justin Bieber... gente così.

Chambi si dedicò tutta la vita alla realizzazione di un monumentale censimento visivo della sua gente: contadini, minatori, ambulanti, artigiani, soldati, camionisti, sacerdoti... Raccontò con immagini di autentico vigore antropologico e culturale i gesti, gli atteggiamenti, la vita del suo popolo. Fotografò indios di ogni età e persino centenari, testimoni perfetti – per un’intensità più espressiva di qualsiasi alfabeto e di qualsiasi scrittura – di una civiltà miracolosamente sopravvissuta alla propria estinzione. Grazie a inediti ma spettacolari autoscatti di gruppo, le radici di un’America precolombiana presero a rivelarsi insiemea Chambi, più che davanti al suo obiettivo.

Con Mario Testino e Martín Chambi siamo di fronte a un gemellaggio anagrafico generato dal semplice caso anziché da un comune imprinting storico o culturale. Il primo è un peruviano che racconta il mondo della moda e dell’immagine; il secondo è stato un peruviano che raccontava il Perù. La profonda empatia culturale di Chambi con il suo popolo – un’etnia che nei secoli aveva formato il più esteso impero del continente americano, che aveva impresso sugli aridi terreni di Nazca i misteriosi segnali divinatori di dimensioni maestose e che aveva innalzato lo stupefacente agglomerato residenziale e simbolico sul Machu Picchu – ha generato visioni che meritano il massimo dell’ammirazione e del rispetto. Chambi è stato il primo fotografo capace di fissare su lastra la potenza di quell’autentico prodigio architettonico e ambientale che la cultura inca ha lasciato dietro di sé. Il suo è un Perù visionario, onirico, dantesco.


Chambi ci ha lasciato oltre trentamila immagini. A quasi mezzo secolo dalla sua morte ne sono state viste, riprodotte e catalogate appena seimila. Una volta completata la mappatura di questo imponente atlante, riusciremo forse a carpire qualche segreto in più su uno degli imperi più vasti e indecifrabili della storia: un mondo che non si era mai narrato per iscritto ma solo attraverso la produzione di ceramiche, monili, armi, fortilizi, bassorilievi, ponti e un sistema stradale stupefacente per dimensioni e concezione tecnologica. Finché non arrivarono i conquistadores a travolgere e cancellare tutto. Per fortuna esistono gli artisti. Gli occhi di Chambi devono aver visto cose che sfuggono allo sguardo del comune visitatore. E ci chiediamo come abbia fatto un indio antico, roccioso e defilato come lui a cogliere e manipolare la luce in quel modo così raffinato e sapiente. Un modo che lo accomuna a Caravaggio, ad Ansel Adams, a Gregg Toland, a Louis Kahn, a Sebastião Salgado... Ma il nostro è il solito stupore degli eurocentrici, lenti a capire e accettare il paradosso secondo il quale, man mano che ci si avvicina all’equatore, non aumenta soltanto la luminosità del sole ma anche l’intensità delle ombre e del contrasto.







Walter Chappell
1925-2000


Non sorprende che, prima di segnalarsi come fotografo importante, questo nomade costantemente fuori corso abbia studiato composizione musicale e disegno d’architettura, vissuto a lungo come contadino, esposto i suoi quadri in varie gallerie, fatto l’operaio, pubblicato due libri di poesie e servito il paese per tre anni come paracadutista durante la Seconda guerra mondiale.

Chappell era nato nell’estremo angolo nordovest degli USA, a Portland, un avamposto “fuori dal mondo” da cui si sono spesso diramate deviazioni stravaganti ma vitali: il primo campione di salto in alto a scavalcare l’asticella all’incontrario, di schiena (Dick Fosbury); il creatore dei Simpson, la prima serie d’animazione di successo con personaggi insignificanti e mediocri (Matt Groening); il primo scienziato americano a vincere due Nobel, uno per la chimica e l’altro per la pace (Linus Pauling); il creatore del primo sistema operativo aperto, easy e gratuito Linux (Linus Torvalds); il primo prodotto di design a essere reclamizzato in tv senza apparire nemmeno per un secondo (Nike); l’agenzia pubblicitaria che creò, ancora per Nike, il primo spot spontaneamente virale, cliccato più di un milione di volte su internet (Wieden+Kennedy).

Prima di trascorrere un’adolescenza serena ma racchiusa a chiocciola dentro di sé, Chappell visse i suoi primi tre anni in una riserva di nativi Umatilla, nell’Oregon: esperienza che doveva rivelarsi come un’incubazione fondamentale per i suoi restanti settantadue anni, sostanzialmente dedicati tutti quanti a scoprire l’essenza e la potenza dell’energia della natura.

Nonostante il temperamento piuttosto effervescente, lungo la sua intera esistenza da adulto Chappell si ispirò alle guideline tantrico-meditative del guru armeno Georges Gurdjieff, punto di riferimento per numerosi creativi grandi, medi e piccini – da Frank Lloyd Wright a Katherine Mansfield, da Peter Brook a David Sylvian, da Robert Fripp a Franco Battiato... fino a Gianroberto Casaleggio.

Ansel Adams, Alfred Stieglitz, Edward Weston e la “vecchia” concittadina di Portland Imogen Cunningham hanno di certo avuto un’influenza sull’arte di Chappell, ma il primo a spingerlo e guidarlo verso la fotografia è stato, nel 1942, Minor White (vedi il capitolo dedicato a White nelle puntate successive). Per lunghi intensi anni i due avrebbero condiviso scuole, archivi, corsi, mostre. Quando nel 1957 Chappell si stabilì (temporaneamente) a Rochester, White lo introdusse all’arte della stampa fotografica. A sua volta Chappell scrisse ed editò parecchi articoli per il prestigioso magazine Aperture allora diretto da White; e per anni curò le mostre fotografiche allestite nella George Eastman House della stessa città. Non un luogo qualsiasi ma la sede storica della Kodak, di cui Eastman era stato il fondatore: Rochester sta alla fotografia come Detroit all’automobile, Hollywood al cinema, la Silicon Valley all’I.T.

Dopo quell’esaltante esperienza Chappell si spostò a New York dove un giorno, in meno d’un quarto d’ora, un incendio gli distrusse tutti i negativi e le stampe pazientemente archiviati, nonché la casa intera. Ovviamente per il materiale fotografico la sentenza fu inappellabile, mentre la casa se la sarebbe ricostruita in breve tempo con le proprie mani: un’esperienza economico-architettonico-artigianale che in futuro avrebbe vissuto altre due volte. Rifarsi una vita, un mestiere, una famiglia, col tempo divenne quasi una routine: ebbe sette figli da tre compagne diverse. Del resto i cambiamenti non furono mai un problema per lui, tanto meno nella vita professionale. Due esempi:

1) In quegli anni di intense ricerche percettive, di luce e di natura spogliata, forse per pura fame esistenziale o leggiadra curiosità (oppure per necessità economica?) Chappell accettò un incarico che era all’estremo opposto di ciò che oggi conosciamo e ammiriamo di lui. La più grande major hollywoodiana, la MGM, gli commissionò due servizi esplicitamente promozionali: uno sulla coppia allora più chiacchierata, Liz Taylor/Richard Burton, e un altro sulla fresca moglie di Roman Polanski, Sharon Tate. Non è dato sapere chi avesse escogitato una simile doppia assurdità; in ogni caso il poco che di quelle due marchette oggi è ancora visibile su internet è di scarsissimo interesse.


2) Il secondo caso invece è un botto di raro valore tecnico, estetico, concettuale: nei primi anni ’70 Chappell iniziò le sue sperimentazioni con la Electron Photography – una tecnica tuttora ignota ai comuni mortali – per catturare immagini senza camera e senza obiettivi, oggi meglio nota come Kirlian Photography (in omaggio allo scienziato e fotografo russo Semën Davidovič Kirlian che l’aveva osata per primo). Si basa sul fatto che qualsiasi essere vivente emana energia: non solo i mammiferi (homo sapiens compreso) e gli altri vertebrati, ma anche i ragni e le pulci, e tutti i vegetali. La riproduzione visiva (che ripresa ottica non è) avviene appoggiando l’oggetto biologico su un supporto elettrosensibile ed esponendo il tutto, tramite scariche, a voltaggi di alta frequenza. Ciò che rimane fisicamente registrato si presenta come un magnifico cielo notturno dove ogni stella emana lucentezze, raggi e bagliori tali da formare un tutt’uno di grande effetto e piacevolezza visiva. Visto (e rivisto) che quell’indagine raccoglieva “solo” un insolito insieme glam di foglie, semi, petali e radici, con coerenza e lucida ambivalenza Chappell ne battezzò i risultati con il titolo Metaflora Portfolio. Come in ciascun’altra delle magiche foto di Walter Chappell, il punto di partenza non è mai stato il bello estetico, ma il bello concettuale, vitale. I suoi nudi, per esempio, non attraggono il nostro sguardo per motivi estetici, erotici o riproduttivi, ma perché ci rendono testimoni di quel magico insieme chiamato natura, di cui noi stessi, in quanto umani, non siamo altro che componenti, parti, particelle. Particelle intelligenti, osservanti, a volte persino geniali, ma solo particelle. Più che un fotografo attratto dalla filosofia, Chappell è stato un filosofo che sapeva parlare solo con le foto.






Till Neuburg
(1 – Continua)


Maestri dimenticati della fotografia, 2

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Della scarsa cinquantina di innovatori ignorati o dimenticati, oggi sfogliamo

L’ALBUM NUMERO DUE.

Colgo l’occasione per confermare le linee-guida che ci accompagnano in questo variopinto panorama di defilati chiaroscuri:

• Evitiamo di parlare di artisti viventi. Non per nostalgia, rammarico o attaccamento sentimentale a chi non c’è più, ma perché un’eccessiva contiguità fisica e temporale con le cose che amiamo compromette, a volte, la messa a fuoco e il common sense.

• L’aggettivo “dimenticato” implica la domanda: da chi? Non certo dagli specialisti, dagli storici, da chi opera creativamente nella professione, ma solo dalle persone beatamente curiose ma tagliate fuori come me.

• L’inettitudine e l’oblio sottintesi nel titolo si basano anche sul presupposto che non tutti i fotografi di alto profilo hanno avuto la spinta o la semplice possibilità di fissare sulle loro lastre o rullini un Che Guevara col sigaro fumante in bocca, una lunga fila di operai seduti su una trave sopra New York, una ragazza afghana che ci fissa con i suoi penetranti occhi verde-azzurri, un combattente colpito a morte durante la guerra civile spagnola, un’allegra coppia di giovani che si baciano davanti all’Hôtel de Ville.

Non sempre valore è sinonimo di clamore. I casi della vita di un maestro della fotografia non sono diversi da quelli che scandiscono l’attività, la fama e il mito di chi crea capolavori nella musica, nella pittura, nella filosofia o nello sport:

• Se non fosse stato per Mendelssohn, che nel 1829 propose la riscoperta pubblica della Passione secondo Matteo, forse oggi il più profondo genio della musica barocca sarebbe ancora relegato nella nicchia dei virtuosi d’organo del Settecento o degli oscuri ma zelanti coordinatori dei coristi minorenni di Lipsia.

• Mark Rothko, Willem de Kooning e soprattutto Jackson Pollock, stelle fisse dell’arte informale, risplendono in tutte le aste di quotazioni galattiche, inaccessibili per un appassionato privato; mentre l’esponente a suo tempo più osannato e strapagato, Georges Mathieu, ora è un artista a malapena ricordato in un ipotetico Guinness delle stravaganze finanziarie d’ogni tempo.

• Nel secolo che oggi colleghiamo ai pensieri di Leibniz, Kant, Hegel, Fichte, Lichtenberg, Lessing, Novalis, Goethe e Schiller, l’intellettuale tedesco in assoluto più seguito e rispettato era un timido docente di filosofia di nome Christian Fürchtegott Gellert: un moralista civico e religioso che oggi non ricorda più nessuno, nemmeno nelle più prestigiose facoltà di filosofia.

• Quando in Italia il ciclismo era ancora lo sport più amato e seguito, per due soli anni una giovane meteora svizzera di nome Hugo Koblet stracciò i più grandi campioni dell’epoca come Coppi, Bartali, Magni, Bobet, Robic, Gaul, Kübler, Van Steenbergen, Ockers, stravincendo sia il Giro d’Italia che il Tour de France e il Tour de Suisse, tutti con distacchi storici e umilianti e con uno stile e un’eleganza mai visti prima su nessun tornante delle Alpi o dei Pirenei. Eppure in Italia questo supercampione ad interim se lo ricordano, forse, poco più di tre persone: di sicuro Gianni Mura, Beppe Conti e il sottoscritto... e magari qualche altro immigrato elvetico come me.

Sono tutti esempi di come la scoperta, la valutazione, la preveggenza e la memoria su chi realmente stravolga les règles du jeux dell’innovazione, siano spesso ridicolmente lontane da ciò che i fighetti dell’ultima moda, del tele-ciarpame e dei tweet considerano interessante, super, trendy, carino, figo. Parlo di personcine che mettono sullo stesso piano Domenico Iannacone e Paolo Bonolis, Mads Mikkelsen e Stefano Accorsi, Alessandro Barbero e Roberto Giacobbo, Thom Yorke e Luciano Ligabue, Corrado Guzzanti e Lino Banfi, Gigi Riva e Antonio Cassano, David Hockney e Maurizio Cattelan e per finire nel nostro angolo immaginario: Sebastião Salgado e Oliviero Toscani.

Se per disgrazia finissimo a rovistare anche tra i fotografi della moda, aggiungeremmo alla nostra lista una mayonnaise girata e rigirata nei due doppi sensi dell’esibizionismo e della finta attualità. Meglio condire questa ricerca con gli ingredienti che piacciono sempre e non stancano mai: contesti, luoghi, epoche, tecnica, materiali, competenze, passioni, affinità – il tutto preparato il più lontano possibile dalle edicole che espongono menu della vieille cuisine targata Vanitifer, GeiChiù, Vogh e Arpersbasàr.

Piuttosto che concorrere senza fine sul tapis roulant delle breaking news e degli instant looks, tutti rigorosamente rastrellati, filtrati e selezionati nelle redazioni embedded – ma prima ancora nelle meeting room di Langley, San Bruno e Madison Avenue, di Arcore, Rignano, Sant’Ilario e Saxa Rubra – mi sembra molto più utile, avvincente e lungimirante viaggiare in compagnia dei vari Roald Amundsen, Marie Curie, Charles Darwin, Denis Diderot, Thomas A. Edison, Richard Feynman, Charles Lindbergh, David Livingstone, Nikola Tesla... e dei loro messaggeri visivi di ieri, di oggi e di domani.

Se per esempio volessimo capire e carpire la realtà che sta dietro alla controcultura hip hop, piuttosto che sorbirci le litanie dei soliti psi-cococo-logi, studiosoni e sacerdoti ciellini, faremmo bene a mettere prima un occhio sulle foto che Lewis Hine e Jacob Riis avevano scattato oltre un secolo fa: senza che ce ne fossimo mai resi conto, le prime scintille del rap sono scaturite tra gli homeless dell’Ottocento, gli schiavi emigrati negli stati dell’Unione, a Ellis Island, nei bassifondi descritti da Charles Dickens.

Il guardare e fotografare di questi maestri non era profetico, era solo onesto – e sempre maledettamente convincente. Era fatto talmente bene che ancora oggi non riusciamo a capire come quegli outsider della comunicazione ce l’avessero sempre fatta a essere anche artisti sublimi. Che raccontassero cose quotidiane, minute, secondarie, oppure cupe, ingombranti e tremende, le loro foto sono bellissime e sempre nuove. Nuove come Bitches Brew di Miles Davis, che quando incise quell’album sapeva benissimo di aver aperto una nuova pista (non solo sonora) nell’universo musicale, senza rendersi conto che mezzo mondo sia del jazz che della musica elettronica non l’avrebbero mai capito e l’avrebbero giudicato un reietto, un opportunista, un intruso, un traditore.

Si potrebbe dedurne che la grandezza di un artista è sempre proporzionale alla piccolezza dei colleghi meno coraggiosi, ma non sempre è così. Di norma, i piccoli siamo noi. Noi che vediamo e ascoltiamo e conviviamo e finalmente, forse, ci stupiamo. E che poi, a volte, dimentichiamo. Qui non facciamo altro che rinfrescarci la memoria, cominciando con un tardivo back up per salvare i maestri della fotografia dimenticati.

Per incamminarci con slancio nella seconda tappa del nostro rewind, Edward S. Curtis è una guida perfetta. Vediamo insieme dove ci porterà...


Edward S. Curtis
1868-1952

Figlio di un predicatore e veterano della guerra di secessione, Edward Sheriff Curtis subì fin da bambino il fascino della storia, degli spazi, delle culture che avevano attraversato l’America prima della colonizzazione europea. Aveva meno di dodici anni quando si costruì una prima, rudimentale macchina fotografica. E non più di diciotto quando, a Seattle, si mise in società con il titolare di uno studio fotografico. Apprendistato che durò solo pochi mesi, perché presto Edward aprì con un altro partner uno studio col suo nome in ditta: Curtis and Guptill – Photographers and Photoengravers. Si sposò ed ebbe quattro figli, ma la sua famiglia ideale fu assai più larga, giacché comprendeva anche ottanta tribù di nativi americani.

Dai fumetti e dai film abbiamo imparato, di quei popoli, soltanto i nomi, e nemmeno tanti: apache, cheyenne, cherokee, chinook, comanche, hopi, irocheni, mohicani, navajo, sioux. Curtis invece li voleva incontrare, capire, studiare tutti quanti per diventare il loro più diretto e profondo cantore. Ben presto la sua movimentata vita di etnologo, esploratore e fotografo diventò parte integrante di un’epopea collettiva, quella dei nativi, votata a un tragico finale. All’inizio dell’Ottocento ce n’erano ancora un milione nel Nord America. Cent’anni dopo erano diventati meno di 40.000. Gli eredi rimasti vivono oggi in condizioni umilianti, ignorati, censurati e separati dal resto del paese. Nelle cosiddette riserve (che di fatto sono ghetti, campi, lager, vallate isolate e nel migliore dei casi centri turistici con patetiche attrazioni “folk”), la disoccupazione, l’alcolismo e le tossicodipendenze sono la norma. La percentuale di suicidi (soprattutto giovanili) è 150 volte più alta che nel resto del paese. A seconda di chi, di dove e per quali motivi compili le statistiche che riguardano il loro sterminio, le cifre oscillano parecchio: i valori più bassi registrati negli archivi e nelle statistiche istituzionali contano dieci milioni di martiri. Le ricerche più drastiche ne contano dieci volte di più.

Ma non basta: oltre a portargli via le terre (che i nativi non consideravano una proprietà ma un tutt’uno tra sé stessi e l’universo), gli invasori gli toglievano sistematicamente, con eichmanniana efficienza, le coperte, le tende, le corde degli archi. E soprattutto il cibo, mediante lo sterminio di 60 milioni di bisonti in meno di mezzo secolo.

L’estinzione quasi totale degli “indiani” d’America non fu dovuta a calamità naturali ma alla violenza di fuggiaschi e disperati, fuorusciti da un’Europa più disunita e scombussolata che mai. Per dirla in puro stile tweet: i drop out, gli sfigati e i tamarri del Vecchio mondo. Quei contadini semimorti di fame, galeotti, disertori e perseguitati religiosi, prima per sopravvivere, poi per farsi largo sulle coste orientali e successivamente nelle praterie, lungo i fiumi e nei boschi situati nei territori oggigiorno chiamati USA, Alaska e Canada, non erano certo in vena di fare bisboccia con il buon selvaggio di Rousseau. La ferocia perpetrata sugli indigeni di tutte le etnie, di ogni dove e di ogni età, era corroborata dal perverso dogma calvinista sulla predestinazione. Il loro era un furore di conquista istigato da un dio che non ne vuole sapere di perdonare i perdenti.

Curtis era profondamente consapevole di queste dinamiche colonialiste, razziste, prenaziste. Il suo sconfinato lavoro non voleva essere un mero censimento, ma la costruzione di un’autentica memoria storica. Nei lunghi viaggi, che solo di rado lo riportavano dai suoi, scattò oltre 50.000 immagini, riempì centinaia di carnet de voyage e registrò, senti senti, diecimila testimonianze vocali realizzate con un proto-registratore a cilindri di cera.

Stiamo parlando di un americano che ce la metteva tutta, ma proprio tutta, per raccontarci in modalità reverse un incontro/scontro continentale iniziato quattro secoli prima. Il grande progetto di Curtis prevedeva che questa Iliade fotografica del Nuovo mondo dovesse uscire con il laconico titolo The North American Indian e articolarsi in venti volumi da scrivere, editare e pubblicare in un arco di vent’anni. La prefazione doveva fornirla il presidente Theodore Roosevelt (che amava misurarsi a tu per tu con i teddy bear, gli orsi grizzly simbolo dell’America coraggiosa e potente). Con un totale di 2.500 foto stampate su tre diversi tipi di carta a seconda dell’importanza storica del soggetto, l’intero opus doveva essere prenotabile in varie edizioni di cui la più prestigiosa e costosa sarebbe uscita firmata di pugno dall’autore e dal primo sponsor, l’orso di Washington che stava guidando la nazione.

Esattamente come concepito, il progetto andò in porto. Ma dal punto di vista giuridico ed economico, per l’autore fu un disastro. Nonostante i sacrifici lungamente condivisi dalla famiglia, le eccellenti relazioni sociali e i ripetuti finanziamenti d’alto bordo, Curtis finì in profonda povertà. La moglie chiese il divorzio portandogli via anche lo studio fotografico. I diritti dell’intera opera passarono per molte mani, ma non per le sue. La sua epica carriera si sarebbe conclusa scattando foto di scena sui set di Hollywood. Un anno prima di morire, in puro stile native Curtis annotò: «Secondo l’uso degli indiani il mio nome sarebbe quello di Uomo Che Non Ebbe Mai Tempo Per Giocare.»






Tošo Dabac
1907-1970

A parte il pianista Ivo Pogorelić, il pittore naïf Ivan Rabuzin e la storica scuola di Zagabria del film d’animazione, della Croazia artistica non si è sentito parlare molte volte. Strano a sapersi, oggi questo mutismo riguarda anche un grande maestro che a metà del secolo scorso veniva di continuo citato, pubblicato e premiato insieme ad altri grossi nomi della fotografia tuttora celebrati. Può darsi che la sua vita lineare, priva di clamori, scoraggi chi ama il torbido, i titoloni, gli scoop.

Tošo Dabac spese l’intera vita professionale a Zagabria; si sposò una sola volta (con una cantante d’operetta) e, sebbene nel 1943 avesse aderito al Fronte di Liberazione del Popolo Croato, nemmeno a conclusione della guerra fratricida tra gli ustascia e i partigiani si fece pubblicamente sentire, leggere o vedere. Su internet non c’è alcuna sua intervista, commento, condanna o approvazione su nessun argomento.

Da giovane lavorò nella filiale croata della Metro-Goldwyn-Mayer come traduttore e capo ufficio stampa per l’area geografica che oggi i fantasisti del lessico neoliberista chiamano EMEA. La sua prima foto la scattò a diciotto anni. Dal 1932 iniziò a partecipare alle mostre e ad essere presente nell’edizione croata della rivista fotografica europea Die Galerie. Nello stesso anno cominciò a lavorare come fotogiornalista in collaborazione con Đuro Janeković – il suo storico alter ego professionale croato.

Nell’anno successivo espose al Philadelphia Museum insieme a Margaret Bourke-White, Henri Cartier-Bresson, Paul Outerbridge, Ilse Bing. Nel 1937 aprì un suo studio personale e nello stesso anno i suoi lavori furono selezionati per varie mostre all’American Museum of Natural History, al Boston Camera Club e al San Francisco Museum of Art, insieme a quelli di Ansel Adams, Brassaï, Man Ray, Aleksandr Rodčenko ed Edward Steichen. Nel 1938 vinse due concorsi del magazine americano Camera Craft.

Nel dopoguerra realizzò vari reportage su sculture e affreschi medioevali, su luoghi turistici e residenze estive in Dalmazia. Contribuì al successo di importanti manifestazioni internazionali (Toronto, Chicago, Mosca, Expo di Bruxelles) con numerose foto che raccontavano il suo paese. In occasione della World Exhibition of Photography a Lucerna del 1952 (ispirata e allestita dal padre dell’autore di queste righe quando era direttore della mitica rivista Camera) i lavori di Dabac furono esposti in una sezione individuale accanto alle sale dedicate a Richard Avedon, Cecil Beaton, Henri Cartier-Bresson, Robert Frank e André Kertész.

Queste poche righe ci fanno capire in modo semplice e spietato che la considerazione, la gloria e la notorietà di un artista possono svanire in pochi decenni. Di solito queste mutazioni sono da ascrivere al cambiamento dei punti di vista o dei valori, ma in qualche caso – com’è successo con Tošo Dabac – il cambio di fortuna critica dipende unicamente dall’opportunismo camaleontico dei mass media. Oggi l’ex mito su Dabac non serve più. Uno street photographer di New York City, Scampia, Barcellona, Molenbeek o Istanbul è sempre trendy, mentre uno che scatta delle foto (anche se di superba avanguardia e qualità) in un posto di nome Zagreb (ma dov’è?) si autocondanna all’invisibilità.

Se c’è uno che non merita di essere relegato nello scrigno delle carinerie vintage, questi è Tošo Dabac. Un instancabile cacciatore di ombre per il quale la notte è sempre stata lunga ventiquattr’ore. Le sue visioni furono eclissi immaginarie, stilizzate con portentoso talento drammatico.





Arnold Eagle
1909-1992

Per molti anni Arnold Eagle, photographer ungherese di origini ebraiche trapiantato negli Stati Uniti, è stato anche un cinematographer (termine in uso nel cinema americano per definire il ruolo del direttore della fotografia). E si vede. Più che scatti singoli e programmati, le sue foto sembrano frame estratti da una sequenza dove la macchina da presa non si muove mai, ma il soggetto sì. Le sue fotografie sono racconti colti sul fatto, implosi, tangibili, reali.

Il suo animo di documentarista di lungo corso traspare da ogni foto. Il suo più grande ispiratore e amico fu, non a caso, il più popolare narratore di mondi non ancora compromessi dalla civiltà moderna e aggressiva: Robert Flaherty, l’autore dei memorabili Nanook l’eschimese, L’ultimo Eden, L’uomo di Aran (Leone d’oro a Venezia), La terra, La storia della Louisiana.Proprio durante le riprese di quest’ultimo i due si incontarono, nel 1948, quando Eagle si trovava da quelle parti per realizzare un reportage fotografico sulle trivellazioni della Standard Oil. In realtà al primo momento l’incontro fu uno scontro, perché per Flaherty quel committente petrolifero non era nient’altro che un prepotente simbolo dell’inquinamento ambientale e umano. Ma presto il rapporto divenne così cordiale e intenso che sul set di quella Louisiana Story Eagle avrebbe scattato le foto di scena.

Un altro suo complice di idee, temi e lavoro fu Hans Richter, che da ragazzo avevo più volte incontrato ad Ascona nella galleria d’arte di mia madre. Nel 1947 Eagle curò la fotografia di un suo lungometraggio in sei episodi, Dreams That Money Can Buy. Era un puzzle di vaga ispirazione freudiana composto dai contributi poetici, tecnici e provocatori di Calder, Duchamp, Max Ernst, Léger, Malevič e Man Ray.

Da parte sua Eagle avrebbe poi curato il soggetto, la regia e la fotografia di due emozionanti documentari su New York: uno sugli slum più degradati della metropoli e un altro sulla Second Avenue el.,nome in gergo esclusivamente newyorchese per definire la linea di metropolitana elevata (elevated) sopra la lunga traiettoria della Second Avenue, dall’estrema punta sud di Manhattan fino al cuore del Bronx. Quei tralicci, ponti, scale d’accesso e stazioni hanno segnato il volto urbano di Manhattan anche in decine di film. Forse l’esempio più memorabile è legato all’inseguimento d’auto del burbero Papà Doyle di Gene Hackman in The French Connection.

L’ultimo suo capitolo artistico improntato al movimento fu dedicato alla compagnia di danza di Martha Graham. Nelle fotografie si avverte il profondo stupore per quell’artista atletica e minuta, capace di sfidare le leggi di Newton ma anche quelle della respirazione e dell’espirazione umane. Il suo volare partiva dal di dentro. Molto prima che David Parsons ingannasse (in modo splendido, ça va sans dire) la nostra percezione sulle sue librazioni con bagliori stroboscopici intermittenti, Graham aveva già “elevato” la sua arte a livelli mai percepiti prima, tramite un controllo quasi ornitologico del suo corpo.

Eagle mise insieme un curriculum di prim’ordine tra il lontano 1928, quando era sbarcato a Ellis Island dalla natia Ungheria, e quelle esperienze dinamiche del secondo dopoguerra. Cominciò a guadagnarsi da vivere ritoccando le foto degli altri, e solo dopo quattro anni d’America poté comprarsi la prima macchina fotografica. Come avrebbe raccontato più tardi, quegli anni di abile manipolazione d’immagini l’avrebbero per sempre allontanato da una tecnica di ripresa esasperata. Nel 1932 raggiunse la Film and Photo League, un’organizzazione interamente dedicata ai documentari e all’attualità. Nel 1934 intraprese un approfondito studio fotografico sugli ebrei ortodossi del Lower East Side, intitolato At Home Only With God, pubblicato e commentato con enfasi dalla rivista Aperture. Durante i primi anni del secondo dopoguerra lavorò intensamente come freelance per Fortune e The Saturday Evening Post. Dopo il suo periodo dedicato alle ventiquattro immagini “scattate” al secondo, strinse amicizia con parecchi protagonisti delle avanguardie: Alexander Calder, Jean Cocteau, Marcel Duchamp, Max Ernst, Darius Milhaud...

Per oltre tre decenni, fino alla fine dei suoi giorni, insegnò film-making alla New School for Social Research nel Greenwich Village, accanto a colleghi nelle varie sezioni del calibro di Stella Adler, Hannah Arendt, Marlon Brando, Erich Fromm, Jasper Johns, Claude Lévi-Strauss, Jacques Maritain, Franco Modigliani, Erwin Piscator, Rod Steiger, Tennessee Williams. Richiesto su quali principi si basassero le sue appassionate ore didattiche, il nostro American Eagle si librò in una planata maestosa: «I always used to say to my students that this trigger finger has very little to do with pictures. It’s the thinking that really makes a photograph.» Tradotto liberamente: la fotografia non si fa col dito, ma con la testa.





Peter Henry Emerson
1856-1936

Cugino di secondo grado del filosofo, scrittore e saggista americano Ralph Waldo Emerson, il “nostro” Peter Henry Emerson nacque e passò la prima infanzia a Cuba. Era figlio di un facoltoso proprietario americano di una piantagione di canna da zucchero, ma quando a quattordici anni il genitore improvvisamente morì, al volo la madre inglese lo iscrisse in un college della upperclass in terra britannica. Un percorso da remoto migrante anglo-americano di ritorno, sperimentato nel tempo da non molti dei suoi concittadini: Benjamin Franklin, Henry James, T.S. Eliot, Stanley Kubrick, Yehudi Menuhin, Terry Gilliam, Kevin Spacey.

In tre diversi college e università del Regno Unito, Emerson si distinse subito nello sport, nel gioco del biliardo e per le sue frequenti battute al vetriolo. Era sveglio, ricco e dotato di una notevole capacità di esprimere in modo convincente le proprie opinioni. Non gli fu difficile trovare una fidanzata d’alto rango e, appena conseguita la laurea in medicina, la sposò. Durante la luna di miele scrisse il primo dei suoi quattordici libri, in parte autobiografico, in parte pura fiction: Paul Ray at the Hospital: a Picture of Student Life.

Appena rientrato da quel viaggio insolitamente operoso, comprò la sua prima macchina fotografica: all’inizio la usò esclusivamente durante le gite in campagna compiute insieme a un amico bird watcher. Durante le giocose ore passate in campagna, sbocciò la sua profonda ammirazione per la vita (apparentemente) semplice e tranquilla dei contadini, dei pastori e dei pescatori. La visione di quel mondo extraurbano e bucolico l’avrebbe segnato per la vita. Fu talmente rapito da quelle esperienze contemplative che iniziò a scattare migliaia di foto che presto avrebbe pubblicato in una variegata serie di volumi e album tematici – tutti quanti scritti, fotografati e commentati da lui.

A questo punto decise di interrompere definitivamente la sua promettente carriera di chirurgo per dedicare tutte le sue attenzioni ed energie alla fotografia. Fu in quel periodo che nacque la sua risoluta filosofia fotografica, spesso enunciata e commentata con modi e toni tutt’altro che sereni: a) la fotografia non è una scienza, ma un’arte; b) le foto devono sempre essere semplici e naturali, mai manipolate; c) combinare in una sola immagine diverse foto (come all’epoca stava diventando di moda) è assolutamente da evitare. Per Emerson i fotomontaggi erano una pacchiana forzatura tecnica ed estetica che certamente permetteva di produrre opere altamente drammatiche, come nelle allegorie storiche, ma che lui considerava false, poco serie, volgari (l’esponente più noto di questo metodo era Oscar Gustave Reijlander, il fotografo svedese che aveva trasmesso i primi rudimenti fotografici a Julia Margaret Cameron). Emerson ce l’aveva a morte con i pittorialisti e con l’impressionismo francese. In veste di acclamato consigliere della Photographic Society, nel 1890 pubblicò un opuscolo listato a lutto, con il titolo La morte della fotografia naturalistica.

Secondo lui la foto doveva esprimere unicamente ciò che vede l’occhio umano, che riesce a mettere a fuoco sempre e solo un dettaglio del campo visivo. Successivamente anche lui avrebbe sperimentato una sorta di soft focus (più o meno alla Cameron) ma rimase profondamente insoddisfatto dei risultati. Durante tutta la sua vita fotografica, di fatto professionale (anche se per lui, essendo più che benestante, fotografare non sarebbe mai diventato una necessità economica), entrò in accesa polemica con l’establishment fotografico del suo paese. Dopo l’uscita del suo ultimo libro Marsh Leaves (Foglie di palude) del 1895 fu insignito di una medaglia «per il progresso e l’avanzamento della fotografia artistica» da parte della Royal Photographic Society. Dopo di allora avrebbe continuato ancora per lunghi anni con le sue appassionate ricerche, ma non avrebbe mai più reso pubblica nemmeno una sola foto. Trent’anni dopo, nel 1925, Emerson istituì una medaglia di merito intestata a sé stesso, che fu assegnata in memoriam a Robert Adamson, a Hippolyte Bayard, a Julia Margaret Cameron e a Nadar. L’unico contatto con il grande pubblico lo concentrò in una ciclopica Storia della fotografia artistica che iniziò a scrivere nel 1924 a sessantotto anni, per concluderla appena in tempo prima della morte avvenuta esattamente nel giorno del suo ottantesimo compleanno.

Nel 1979 Emerson veniva eletto nella International Photography Hall of Fame. Se qui, nel nostro piccolo, l’abbiamo eletto pure noi, la ragione principale della scelta sta nell’assoluta mancanza di clamore nelle sue fotografie. Ciò che rende queste immagini quasi irreali è la loro magnifica essenzialità. Non sono bellissime, stupefacenti, fantastiche: sono semplicemente perfette. Dietro l’obiettivo, l’autore scompare. Sono visioni totalmente “nostre”, ci siamo esclusivamente noi. Eppure, le scelte di quei luoghi, gli orari, il framing, i momenti, non sono mai neutrali, virtuali, casuali. Più o meno un secolo e mezzo fa, dietro, ma anche dentro quei capolavori, c’è stato un uomo che aveva camminato, camminato, camminato, e poi guardato, guardato, guardato, e infine deciso dove fermarsi, dove puntare il suo obiettivo; aveva atteso il momento migliore per catturare per sempre il respiro della semplicità, dell’essenza, della verità.





Roger Fenton
1819-1869

Roger Fenton è stato il primo fotografo di guerra: non solo europeo, ma dell’intero pianeta. La “sua” guerra di Crimea iniziò nel 1853, mentre quella di secessione americana raccontata dal suo collega americano Mathew B. Bradyscoppiò otto anni dopo, nel 1861.

Essendo quasi coetanei è naturale che dagli storici “quei due” vengano spesso accoppiati o addirittura confusi. Ma a dividerli dal punto di vista motivazionale e caratteriale le differenze sono abissali. Il progetto “bellico” di Brady era certamente suffragato da una forte dose di consapevolezza storica, ma il primo obiettivo della sua avventura stava nel trasformare l’insieme dei suoi reportage in un grande business da lasciare poi in eredità (molto ben pagata) al governo del suo paese – proposito che, come oggi tutti sappiamo, non solo non gli riuscì ma che lo avrebbe fatto precipitare nella più cupa miseria. Che Brady non fosse proprio un idealista lo dimostra anche il fatto che le sue straordinarie ma agghiaccianti visioni dai campi di battaglia e i suoi ritratti dei soldati e dei generali, li effettuò su ambedue i fronti. Non si trattava di imparzialità politica ma, diciamo così, di flessibilità professionale – più o meno come si sarebbe comportata la “neutrale” Svizzera durante la Seconda guerra mondiale facendo affari sia con gli Alleati che con le potenze dell’Asse.

Nemmeno Fenton s’era mosso verso il Mar Nero unicamente per patriottismo o motivi umanitari. Fu incoraggiato a infilarsi in quel ginepraio dalla potente casa editrice Thomas Agnew & Sons, dal governo di Sua Maestà e persino dalla stessa casa reale. Tutti si auguravano che le sue prestigiose foto avrebbero dato una forte spinta propagandistica e d’immagine internazionale alla leadership inglese, all’interno dell’alleanza tra la Francia, il Regno di Sardegna, l’Impero (allora ancora saldamente) ottomano, e il Regno Unito, contro l’odiato zar Nicola I il quale, con la sua politica fortemente espansionistica verso i Balcani e l’Europa, rischiava di scombussolare in modo preoccupante i delicati equilibri continentali scaturiti dall’ormai lontano Congresso di Vienna. Tra l’altro, nei confronti dell’impero russo, lo stesso Fenton non provava particolari rancori: appena l’anno prima s’era recato a Kiev per realizzare un apprezzatissimo servizio fotografico sulla costruzione e l’inaugurazione di un imponente ponte sospeso sopra il fiume Dnjepr.

Siccome dagli storici Fenton è principalmente ricordato per la sua avventura fotografica in quel di Balaklava e dintorni, è giusto che anche in questo nostro ricordo buona parte dell’iconografia sia dedicata a quella straordinaria impresa. Ma è altrettanto doveroso sottolineare che prima e dopo quell’avventura, Fenton è stato altrettanto intensamente ammirato dai coevi per i suoi magnifici paesaggi, per la sua straordinaria serie di foto di abbazie, chiese gotiche e castelli, per i suoi ritratti e tableaux vivants e soprattutto per le sue superbe nature morte che, of course, sono tuttora più vive che mai. Arrangiamenti fotografici table top di quel livello non s’erano mai visti prima. Quei suoi ananas, pesche, prugne, cocomeri e grappoli d’uva sono talmente ben sistemati, inquadrati e illuminati che, osservandoli sette generazioni (fotografiche!) dopo, viene spontaneo farsi scappare un ammirato «Unbelievable!».

Certamente il suo gusto raffinato non era scaturito dal nulla. Era nato e cresciuto sotto lo stellone di mille privilegi: suo padre era un banchiere e membro del parlamento; studiò a Oxford dove si sarebbe laureato in lingue antiche a matematica; a Parigi studiò pittura e incontrò uno spontaneo amico d’arte e futuro collega fotografo di nome Gustave Le Gray (ne parleremo nella prossima puntata di questa ricerca); nel 1853 fondò la Photographic Society successivamente chiamata Royal Photographic Society;nel 1854 la regina Vittoria e il suo consorte, il principe Alberto, videro di persona alcune sue opere invitandolo all’istante nel castello di Windsor per affidargli un ritratto dell’intera famiglia reale. Nello stesso anno sarebbe stato il primo a essere nominato fotografo ufficiale del British Museum e, dopo il suo rientro dalla guerra di Crimea nel 1855,diventò subito una celebrità.

Dal punto di vista finanziario, tuttavia, le cose non andarono come sperato, forse anche a causa del prezzo delle sue fotografie. Deluso dall’andamento fiacco delle vendite, a soli quarantun anni Fenton interruppe di colpo la sua carriera fotografica vendendo la sua attrezzatura tecnica e tutti i suoi negativi. Da quel giorno, fino all’età di quarantasei anni, avrebbe fatto solo l’avvocato.

Il suo viaggio artistico era durato appena undici anni: lo stesso esatto arco ti tempo che la vita aveva concesso a Julia Margaret Cameron per incidersi, pure lei, per sempre nella storia dell’alta fotografia.





Laura Gilpin
1891-1979

Leggere i nomi e i luoghi della vita di questa pioniera è come calarsi negli scenari di un western. Nacque tra le montagne del Colorado nell’Horse Creek Ranch, a 65 miglia dalla cittadina più vicina, Austin Bluffs. I Gilpin vissero sempre nei dintorni di Colorado Springs che a quei tempi chiamavano la “London of the West”. Con il disastroso inverno del 1886 il padre Frank e suo fratello persero la fattoria e il bestiame e da allora, per lunghi anni, avrebbero fatto i cowboy in vari ranch della zona. Il padre avrebbe anche condotto un alberghetto e diretto una miniera d’oro a Cripple Creek. Nonostante le continue incertezze economiche della famiglia, Laura Gilpin ricordava la sua infanzia con affetto e nostalgia: insieme ai suoi amici e al fratellino Francis, ogni giorno era in giro in groppa a un cavallo.

A dodici anni ebbe in regalo una Kodak Brownie, la macchina fotografica americana più popolare di quei tempi. L’anno dopo avrebbe accompagnato un’amica cieca di sua madre per “vedere” insieme la St. Louis World Fair, nel Missouri. Quell’esperienza di guida parlante e fotografa alle prime armi le avrebbe aperto gli occhi per la vita. La cosa che alla fiera l’impressionò di più fu la replica di un villaggio di nativi Igorot delle Filippine: la tredicenne Laura scoprì che il mondo non era abitato solo da farmer, pastori e commercianti bianchi.

Quando ebbe quattordici anni, la madre portò lei e suo fratello a New York per fargli fare un ritratto dalla nota fotografa Gertrude Käsebier. L’incontro con quella donna ebbe una profonda influenza sulla formazione di Laura. Fu a Gertrude che si rivolse tutte le volte in cui ebbe bisogno di consigli, quando diventò una fotografa anche lei. Le due donne sarebbero state amiche per sempre.

Su insistenza della madre, Gilpin s’iscrisse in varie scuole e college sulla costa orientale. Dopo vari tentativi andati a vuoto, si iscrisse persino al conservatorio del New England per imparare a suonare il violino. Quando anche questo ennesimo assaggio d’urbanizzazione nella East Coast fallì, a vent’anni Laura tornò nel suo Colorado dove avrebbe iniziato a fare la fotografa. Per campare la giovane s’inventò però una seconda attività, presto coronata da un successo inatteso: comprò alcuni pulcini di tacchino, costruì con le proprie mani dei recinti e delle gabbie, inventò un nuovo tipo di mangime, macellò e confezionò in modo particolarmente invitante quei tacchini e li vendette ai migliori ristoranti della zona. Al raggiungimento del 400° tacchino, vendette l’intero business per diecimila dollari. Quel colpo le permise di estinguere tutti i debiti del padre e di pagarsi un corso fotografico alla Clarence H. White School di New York. Purtroppo nel 1918 fu colpita dall’influenza spagnola e, per aiutarla a uscire da quell’avversità, la madre assunse una giovane infermiera, Elizabeth Forster. Presto le due giovani divennero amiche: un rapporto che sarebbe diventato sempre più intenso, fino a unirle per l’intera vita. Una volta guarita dall’influenza, Laura Gilpin sarebbe finalmente diventata una fotografa professionista.

A partire dal 1921 insegnò fotografia alla Broadmore Art Academy di Colorado Springs. Sull’esempio della sua prima ispiratrice Käsebier, la sua principale attività fu focalizzata sul ritratto. Scrisse articoli e brochure per spiegare e reclamizzare la sua attività ai potenziali committenti. Inoltre si prodigò nella produzione di varie brochure per studi d’architettura e per promuovere iniziative turistiche. Grazie a varie mostre collettive e personali a Colorado Springs, nel New Mexico, a Denver, Buffalo, Pittsburg, San Francisco, Seattle, New York, Toronto, in Danimarca e a Londra, gli anni venti la fecero conoscere a un pubblico sempre più vasto.

Nel 1930, per uno stop forzato durante una gita in macchina nel New Mexico, le due donne fecero amicizia con alcune famiglie di nativi navajo particolarmente generosi e ospitali. Da allora Elizabeth Forster avrebbe dedicato molto del suo tempo ad assisterli nella loro riserva e, di riflesso, Gilpin iniziò a capire, apprezzare e fotografare con crescente passione quel mondo prima sconosciuto. Grazie alla reciproca fiducia instauratasi tra la sua compagna e quel popolo, nacquero i suoi numerosi paesaggi, ritratti e immagini di riti e cerimonie che l’avrebbero resa sempre più popolare nel Southwest. Tra quella gente l’elettricità, le auto e gli acquedotti non erano ancora diffusi; molti di loro campavano allevando pecore e tessendo tappeti, pochissimi parlavano l’inglese.

Durante gli anni della depressione, anche Laura e Elizabeth se la passarono piuttosto male. Tentarono di rilanciare il business giovanile dei tacchini ma, dopo un successo iniziale molto promettente (fornirono i loro tacchini speciali persino all’esclusivo ristorante 21 Club di New York), un grosso concorrente le escluse dal mercato con una campagna diffamatoria molto aggressiva. Finalmente, nel 1942, Gilpin trovò il suo primo – e assurdo – posto fisso come responsabile della pubblicità del colosso aeronautico Boeing a Wichita, nel Kansas, dove lavorò anche suo fratello. Doveva principalmente fotografare delle pin-up da montare sui bombardieri B-29 e riprendere le autorità che visitavano gli stabilimenti. La sua attività preferita era però scattare delle foto sorvolando i paesaggi e le campagne della zona e dell’intero stato. Quell’esperienza l’avrebbe successivamente molto aiutata quando anni dopo avrebbe ripreso dall’alto le valli e le montagne del suo amato Colorado.

A partire dagli anni ’50 Laura Gilpin fu sempre più impegnata con i suoi paesaggi e ritratti nelle riserve navajo, ma anche con la pubblicazione di vari volumi su quelle terre (The Pueblos, The Enduring Navaho, The Rio Grande, The Mesa Verde National Park), tanto da diventare nel 1958 addirittura presidente dell’Indian Arts Fund di Santa Fe. Nel frattempo la salute della sua compagna si faceva sempre più cagionevole fino a bloccarne del tutto qualsiasi attività. Nel 1970, insieme ad altre sette onorificenze universitarie, giornalistiche e governative, Gilpin venne insignita di un dottorato honoris causa da parte dell’università del New Mexico.

Pur soffrendo nei suoi ultimi anni di un’artrite sempre più acuta, non smise mai di fotografare le montagne e i suoi antichi cittadini, fino al giorno del definitivo “ritorno” nella propria terra avvenuto nel 1979 a Santa Fe. Un dolce atterraggio finale compiuto a oltre duemila metri sopra il livello del mare. Già parecchi anni prima della sua fine, aveva detto: «I am definitely a Westerner and I just have to be in the mountain country. It’s where I belong.»




Laura Gilpin: ritratto dell’amica pittrice Georgia O’Keeffe, sposata con il fotografo Alfred Stieglitz. Negli ultimi anni della loro vita le due donne furono quasi vicine di casa a Santa Fe, nel New Mexico.

Fay Godwin
1931-2005

Il percorso di quest’indomita combattente inglese non si presta a rivelazioni e commenti eclatanti. Piuttosto che fare la gioia dei cronisti e provocatori da terza pagina, questa figlia di un diplomatico inglese e di una defilata pittrice americana è sempre rimasta ai margini dei clamori mediatici.

Eppure la sua vita è stata segnata da due episodi devianti, ambedue con conseguenze risolutive per la sua arte: 1) a venticinque anni subì un incidente sciistico così grave da compromettere per sempre qualsiasi attività che potesse stressare i suoi tendini e i legamenti; 2) vent’anni dopo, con tempi e modi del tutto inattesi, suo marito la piantò emigrando negli Stati Uniti.

Il primo trauma le avrebbe fatto scoprire l’unica alternativa fisica alle sue agognate attività sportive: da allora in poi con le proprie gambe avrebbe solo potuto camminare, marciare, vagabondare. Il secondo evento (grazie alla compagnia della sua più fidata compagna di vita e di passione: l’amatissima Hasselblad 6x6) l’avrebbe spinta a tramutare il suo interesse per il ritratto in un’attività esclusivamente outdoor, a luce naturale.

Prima di approdare all’essenza della sua battagliera creatività, proviamo a compiere un breve flashback. Dopo aver forzatamente frequentato varie scuole sparse per il mondo, quando nel 1958 la carriera consolare di suo padre si concluse a Londra, anche la giovane Fay dovette finalmente gettare l’ancora. Il primo impiego di un certo rilievo la portò alla Penguin Books dove conobbe il futuro marito Tony Godwin il quale, tra le varie mansioni editoriali, le affidò anche la realizzazione dei ritratti degli autori, da stampare sul retro dei risvolti. Volente o nolente la giovane editor incontrò, conobbe da vicino e imparò a leggere e capire il meglio del meglio della poetica, letteratura e saggistica anglosassone e internazionale di quegli anni: Eric Ambler, J.G. Ballard, Saul Bellow, Angela Carter, Günter Grass, James Herriot, Ted Hughes, Arthur Koestler, Ronald Laing, Philip Larkin, Doris Lessing, Robert Lowell, Desmond Morris, Frank Muir, Edna O’Brien, Anthony Powell, Salman Rushdie, Alan Sillitoe, Tom Stoppard, Arnold Toynbee, Fay Weldon.

Perciò la sua prima carriera fotografica si svolse quasi sempre nelle case, negli studi o nelle meeting room della Penguin, con l’inevitabile impiego della sola luce artificiale. Ma quando, dopo l’improvviso e forzato addio del coniuge, la madre di due figli, ormai abbondantemente over thirty, dovette inventarsi una nuova vita, non esitò nemmeno per un millesimo di secondo: armata di un’attrezzatura tecnica piuttosto impegnativa e pesante avrebbe perlustrato e riscoperto – esclusivamente camminando – quella parte del suo paese che ormai le sembrava sempre più lontana dalla vista e dall’animo dei suoi concittadini.

Godwin divenne un’escursionista a tempo pieno, armata di centinaia di rullini Ilford black & white, di tanta curiosità... e di crescente rabbia. Il suo rancore derivò dalla drammatica scoperta che grandissima parte del Regno Unito era off limits per i normali cittadini: moltissime distese, colline, boschi, fiumi, rive e un’infinità di laghi erano occupati dalle autorità militari, e superfici di territori ancora più cospicui erano per sempre recintati, e con ciò resi inaccessibili, dai grandi proprietari terrieri, dai parchi della casa reale, da centinaia di possidenti aristocratici – quasi tutti fiscalmente privilegiati e, more or less, “nullatenenti”.

Combatté questi soprusi pubblicamente, con petizioni, articoli, interviste, proteste, sit in, per ottenere il libero accesso per tutti su qualsiasi terreno o proprietà. Per tre anni fu persino eletta presidente dell’Associazione britannica degli escursionisti.

Da questo derivò il suo ininterrotto impegno sia fotografico che verbale, per raccontare in modo quasi ossessivo ai suoi connazionali anche il male che la speculazione, gli allevamenti intensivi, la cementificazione e, prima di tutto, l’indifferenza dei cittadini, avrebbero causato al territorio nazionale.

Le sue foto strepitose non sono mai poetiche, bucoliche o semplicemente belle. Esprimono sempre un forte carattere, come i volti umani ai quali si era dedicata nella prima fase del suo lavoro.

È stata senz’altro la più nota fotografa di paesaggi inglesi. Non solo per la bellezza mozzafiato delle sue foto, ma anche in virtù del suo impegno paesaggistico, ambientale e civile. Non a caso alcuni l’hanno definita “Ansel Adams inglese”. Ciò che questa indefessa autodidatta ha lasciato in eredità al suo paese – e al mondo intero – è un capitale culturale (nell’accezione più bella e più nobile che si possa immaginare), non a caso custodito nei più importanti musei del Regno Unito.

Nello stesso anno in cui ricevette dall’Arts Council of Great Britain un fondo speciale per continuare a fotografare e difendere il paesaggio britannico, iniziò la sua lunga serie di pubblicazioni, quasi tutte introdotte, accompagnate o completate da testi dei suoi vecchi complici letterari della Penguin:

1975 - The Oldest Road: An Exploration of the Ridgeway (con J.R.L. Anderson)
1976 - The Oil Rush (con Mervyn Jones)
1977 - The Drovers’ Roads of Wales (con Shirley Toulson)
1978 - Islands (con John Fowles)
1979 - Remains of Elmet: A Pennine Sequence (con Ted Hughes)
1980 - Romney Marsh and the Royal Military Canal (con Richard Ingrams)
1981 - Tess: The Story of a Guide Dog (con Peter Purves)
1982 - The Whisky Roads of Scotland (con Derek Cooper) 
1982 - Bison at Chalk Farm (con Frank Muir)
1983 - The Saxon Shore Way from Gravesend to Rye (con Alan Sillitoe) 
1984 - Landscape Photographs
1985 - The National Trust Book of Wessex (con Patricia Beer)
1985 - Land (con un saggio di John Fowles e introduzione di Ian Jeffrey)
1986 - The Secret Forest of Dean (con introduzione di Edna Healey)
1989 - This Scepter’D Isle. Shakespeare in Praise of Britain
1990 - Our Forbidden Land
1991 - Thorne Moors (con Catherine Caulfield)
1994 - Elmet (con Ted Hughes)
1994 - The Copyrighting of Our Heritage: Who Owns the Land?
1995 - The Edge of the Land
1997 - A Perfect Republic of Shepherds (con Robert Woof)
1999 - Glassworks & Secret Lives (con un saggio di Ian Jeffrey) 
2001 - Landmarks (con un saggio di Roger Taylor e introduzione di Simon Armitage)

Nel 1980 iniziò a sperimentare la fotografia a colori e per la pima volta provò a usare la fotografia digitale, ma polemizzò a lungo sul Guardian quando non riuscì a usare in modo soddisfacente i software fotografici con il suo iMac. Eppure, dieci anni dopo fu eletta socia onoraria della Royal Photographic Society.

Interpellata nel 2002 dalla BBC su quali fossero gli otto brani musicali che avrebbe portato con sé nella fatidica isola, indicò una lista che la dice lunga sulla sua strenua indipendenza intellettuale:

Suite per violoncello, op. 72 di Benjamin Britten, eseguita da Mstislav Rostropovič
Rock Around the Clock, di DeKnight, Freedman, eseguita da Bill Haley & His Comets 
At the Balalaika,cantata da Ilona Massey nel film Balalaika del 1939 
Don’t Fence Me Indi Cole Porter cantata da Bing Crosby con le Andrews Sisters
Suite per violoncello n. 6 in re maggiore di J.S. Bach eseguita da Paul Tortelier 
An Orkney Wedding with Sunrise di Peter Maxwell Davies, eseguita dalla Scottish Chamber Orchestra
Quartetto d’archi n. 13 in si bemolle minore di Beethoven, eseguito dal Lindsay String Quartet 
John Brown’s Body nella versione del Wayfarers Trio. 

Non sorprende che lo stesso anno, in un’altra intervista pubblicata su UKlandscape.net, alla domanda «Can you describe yourself in three words?», Fay Godwin avesse risposto con un secco «No!»
Il poeta Ted Hughes (vedovo della poetessa Sylvia Plath), con il quale Fay Godwin aveva pubblicato due libri: Remains of Elmet: A Pennine Sequence (1979) e Elmet (1994).





Clementina Hawarden
1822-1865

Per non fargli patire il freddo o un aspetto trasandato, le nostre bisnonne rovesciavano i paletot dei loro mariti; oggi le loro pronipotine più industriose mitizzano le etichette dei loro capi di abbigliamento fino a dipendere anima e corpo da quei simboli, come se si trattasse di bussole indispensabili per inoltrarsi nel caos della vita.

In questo millennio siamo tutti cittadini di un Commonwealth del consenso dove l’iperbole non tramonta mai. Per non morire di silenzio, esclusioni e invisibilità, di continuo siamo costretti a esibire le certificazioni della nostra vitalità. L’impero dei controsensi scenici oggi governato dai paroloni fashion, stilisti, griffe, non potrebbe reggere la tiritera dell’imitazione e della sottomissione al costume (inteso sia in senso tessile che in quello che gli assegna Claude Lévi-Strauss), se non fosse continuamente sovraesposto e applaudito da una claque di clic. Le linee guida che una volta erano tracciate dai vari Vasari, Madame de Staël e Oscar Wilde, oggi sono stilate dalle photo editor e dai loro complici più ricercati e strapagati: i fotografi di moda.

Non stiamo parlando di passioni diventate mestiere, ma di un sistemone di connivenze, parentele e clientele che poi disorienta non solo chi si smarrisce nei centri commerciali, ma scombussola persino i borsaioli da dito medio alzato e i cosiddetti mercati. Mentre nella Spoon River modaiola si sono dileguati dei nomi come Basile, Ferré, Fiorucci, Marzotto, Luisa Spagnoli, Sorelle Fontana e Naj-Oleari, nella classifica degli italiani più danarosi le grucce finanziarie di nome Bertelli, Prada e Armani si issano al 10°, 9° e persino al 5° posto – non grazie alle creazioni industriali inventate dai loro team, ma per effetto di un’accorta politica di marketing e di pubbliche reazioni (sans elle, ça va sans dire). In tutta questa ressa tra chi sgomita meglio con la carta patinata e le credit card... il fruscio della seta, i bottoni di corallo, ebano o madreperla, le carezze della vicuña, del lino e del cashmere, i drappeggi sontuosi... sono al massimo ritenuti dei tic nostalgici, vintage, neo-trendy: roba da costumisti del Teatro alla Scala o da sfarzosi biopicture hollywoodiani.

Se sporadicamente i nostri sguardi riescono a incrociarsi con la visione di artisti che non sanno solo esaltare le tariffe dei manichini marchiati Gisele, Naomi o Kate, ma che prima di tutto aspirano a raccontare le passioni e la creatività, viene spontaneo chiedersi: Ma dove, come e soprattutto grazie a chi è nato tutto questo teatro dell’arte dei sortilegi visivi? La mia risposta è secca e assolutamente convinta, anche se forse un tantino inattesa. La persona che per prima intuì l’enorme potenziale della fotografia per esaltare la bellezza e lo stile dei tessuti con le loro infinite coniugazioni chiaro-scure, sfaccettature e plissées, non fu un pittore neoromantico italiano o il sarto di un atelier di boulevard Haussmann, ma una nobildonna per metà scozzese e metà spagnola.

Lady Clementina Elphinstone Fleeming coniugata Maude Viscount Hawarden è stata senza dubbio la prima fotografa di moda della storia. Le sue “modelle” sono quasi sempre anonime, spesso irriconoscibili, a volte persino col viso reclinato, nascosto o addirittura rivolto dalla parte opposta all’obiettivo. All’autrice di quelle sessioni interessava il gesto, la postura, la messa in scena ma, prima ancora, l’eleganza, la classe e la qualità sempre eccelsa dei vestiari sfoggiati.

Era altissima moda allo stato puro. Esibizione, ostentazione ed esaltazione di capi esclusivi, carissimi, unici, lussuosi. Quella mezza Beaton e mezza Leibovitz vittoriana sarebbe stata la gioia di Bernard Arnault, Vivienne Westwood o François Pinault.

Fino al trentacinquesimo compleanno di Clementina gli Hawarden vissero a Londra. Nel 1857 si trasferirono in Irlanda dove lei avrebbe iniziato a sperimentare la fotografia stereoscopica: quasi tutte le sue foto di quel periodo si presentano, infatti, sdoppiate. Nel 1859 la famiglia rientrò nella capitale dove, in appena sei anni, Lady Hawarden avrebbe realizzato le sue oltre ottocento strepitose immagini.

Dei dieci figli da lei partoriti ne sopravvissero otto – sette femmine e un maschio. Al marito, nobilastro maschilista interessato anzitutto a trasmettere a un erede maschio il titolo aristocratico acquisito, non importava che la sua sposa fosse quasi sempre incinta e ininterrottamente impegnata a tirar su una cucciolata femminile tanto numerosa. Ma per la signora quella crudeltà dinastica e psicologica comportava anche un vantaggio: grazie alle tre figlie maggiori Isabella Grace, Clementina e Florence Elizabeth, per il casting delle sue foto Hawarden poteva sempre contare su un team di indossatrici prontamente in house.

La fotografa era ammiratissima dai colleghi Cameron e Lewis Carroll: quest’ultimo acquistò ben cinque delle sue stampe. Con i titoli Studies From Lifee Photographic Studies, Hawarden espose i suoi lavori alla Photographic Society of London nel 1863 e 1864 vincendo in ambedue le edizioni una medaglia d’argento; di conseguenza fu subito accolta come membro della stessa associazione. Non poté ritirare quei premi perché nel gennaio del 1865, a soli quarantadue anni, Hawarden morì di polmonite. All’epoca si mormorò che il suo sistema immunitario fosse stato indebolito dal costante contatto con i materiali chimici legati al suo impegnativo passatempo.

Il noto fotografo svedese Oscar Gustave Rejlander (vedi capitolo dedicato a Julia Margaret Cameron) pubblicò in sua memoria, nel British Journal of Photography, una sorta di orazione funebre, ricordando che«...nei suoi modi e nella conversazione era sempre giusta, schietta e addirittura virile, ma sempre con una grazia estremamente femminile.» Guardando con spontanea empatia l’unico autoritratto di questa gigantessa, non possiamo fare altro che condividere con affetto il paradosso espresso dal suo collega sbalordito, ammirato e obbligato.





Lewis Hine
1874-1940

Più che un fotografo, Lewis Hineè stato un sociologo che usava la macchina fotografica per approfondire e documentare le sue ricerche.

Anche grazie al suo costante e coraggioso impegno, nel 1916 fu approvato il Keating-Owen Act che vietava di impiegare bambini al di sotto dei 14 anni nell’industria e sotto i 16 nelle miniere, per lavori pesanti, malsani e pericolosi – anche se poi di fatto quella legge fu a lungo disattesa. Peraltro il provvedimento valeva solo per i settori industriali e minerari, l’agricoltura ne fu esclusa. Da ciò deriva che ancora oggi un quarto dei prodotti agricoli americani è raccolto da un milione di braccia infantili. Nel 1910 i minori statunitensi schiavizzati come operai erano due milioni – il 3% dell’intera popolazione.

In tema di lavoro minorile va ricordato che persino nella ricca, democratica e ben organizzata patria della Croce Rossa, di Jean-Jacques Rousseau e degli Swatch, fino a pochi decenni fa migliaia di bambini orfani o figli di famiglie ambulanti senza fissa dimora venivano pubblicamente noleggiati o dati in leasing a fabbriche o contadini – per lavorare gratis. Negli anni della nascente industria svizzera dell’orologeria (soprattutto nel Giura e nella zona dei laghi di Bienne e Neuchâtel), i bambini forzatamente inseriti in quel ramo artigianale e poi industriale sempre più profittevole, sono stati una forza lavoro particolarmente ricercata per via delle dita agili e piccole e per la vista ancora acuta. Per documentare che non sto affatto esasperando un inverosimile dato storico, valga il fatto che solo tre anni fa, nel 2014, ben 110mila cittadini elvetici hanno firmato una petizione per obbligare il governo a risarcire le 20.000 vittime di quei crimini, tuttora viventi.

La carriera di Lewis Hine fotografo ebbe un inizio pressoché montessoriano: dopo aver studiato sociologia all’Università di Chicago, alla Columbia e alla New York University, divenne insegnante nella Ethical Culture School di New York dove incoraggiò i suoi studenti a usare la fotografia come ausilio di studio particolarmente utile ed efficace. Portò le sue classi a Ellis Island e nel porto di New York fotografando migliaia di immigrati che approdarono agli USA attraverso quei feroci imbuti di controllo sanitario, politico e legale.

Nel 1907 Hine divenne fotografo fisso della Russell Sage Foundation dove documentò il lavoro e la vita degli operai nelle acciaierie di Pittsburg, producendo uno studio sociologico molto importante dal titolo The Pittsburg Survey. Dal 1908 al 1936, come ricercatore sociale e fotografo Hine lavora su vari fronti/affronti alla dignità umana, soprattutto quella infantile: in qualità di fotografo incaricato dal National Child Labor Committee documentò il lavoro minorile negli Appalachi del Carolina Piedmont, dei bambini sfruttati nelle miniere carbonifere e nei campi di cotone del Sud, i lavori della Croce Rossa in Europa, l’esperienza estrema e spesso fatale degli operai impegnati nella costruzione dell’Empire State Building a New York, le vittime della siccità nella Tennessee Valley durante gli anni della depressione e infine, per conto della Works Progress Administration, i radicali cambiamenti in corso nell’intero mondo del lavoro.

Il suo lavoro non fu esente da pericoli. Era costretto a inventarsi mille trucchi per aggirare la sorveglianza di agenti e guardiani e riuscire a fotografare le situazioni che gli stavano a cuore, ma non sempre i suoi stratagemmi funzionavano: gli capitò più volte di essere inseguito, minacciato, percosso.

Dopo la sua morte, il figlio offrì l’intero patrimonio di stampe e negativi del padre al Museum of Modern Art, che incredibilmente rifiutò la donazione. A Rochester, per fortuna, i responsabili della George Eastman House (il regno della Kodak) si rivelarono meno sconsiderati. Oggi la Library of Congress di Washington custodisce oltre cinquemila delle sue opere.

Durante i suoi lunghi anni di documentazione sociale, Hine aveva creato un nuovo format per denunciare gli effetti traumatici dello sfruttamento minorile. Usò la doppia esposizione per duplicare uno stesso volto, o assemblarne due, al fine di evocare visivamente il dramma della dissociazione psichica – una patologia di cui furono spesso vittime gli adolescenti di cui si occupava.

Con tragica coerenza, Lewis Hine morì in estrema povertà. Tra i suoi appunti personali s’è trovata questa frase: «Mentre le fotografie non mentono mai, i bugiardi possono fotografare».






George Hurrell
1904-1992

A scuola Hurrell si fa subito notare per il suo spiccato talento per il disegno. A diciott’anni frequenta prima il Chicago Art Institute e poi l’Academy of Fine Arts. L’anno dopo un noto fotografo ritrattista, Eugene Hutchinson, gli propone di raggiungerlo come assistente nel suo studio, dove Hurrell s’avvicina per la prima volta al mondo della fotografia. Ma all’accademia incontra il pittore Edgar Alwin Payne che lo incoraggia a raggiungerlo nella colonia di artisti di Laguna Beach, in California. È lì che Hurrell scopre che le sue foto riscuotono più consensi dei suoi dipinti. Così inizia a ritrarre gli artisti del posto. Durante quelle sedute conosce l’attore Ramon Novarro e, a ruota, varie personalità dell’affluent e high society californiana.

A un certo punto Hurrell si trasferisce a Los Angeles dove apre il suo primo studio fotografico. Amici lo presentano a Edward Steichen che gli presta la camera oscura per stampare le sue foto e lo incoraggia a continuare con la sua attività di ritrattista. Presto incontra anche la star Norma Shearer la quale, sebbene sposata al più potente tycoon di Hollywood, il boss della MGM Irving Thalberg, si trova in una fase declinante della sua carriera. Scoprendo in Hurrell
la capacità di esprimere fotograficamente atmosfere misteriose e dark, lo sollecita a ricostruire la propria immagine. Il patto funziona talmente bene che per tre decenni Hurrell diventa in rapida successione il ritrattista di fiducia della MGM, della Columbia e della Warner Bros., ritraendo praticamente l’intero gotha hollywoodiano: Lauren Bacall, Wallace Beery, Constance Bennett, Ingrid Bergman, Humphrey Bogart, James Cagney, Lon Chaney, Gary Cooper, Joan Crawford, Bette Davis, Marion Davies, Rita Hayworth, Olivia De Havilland, Marlene Dietrich, Douglas Fairbanks Jr., Errol Flynn, Clark Gable, Greta Garbo, Ava Gardner, John Garfield, Judy Garland, Paulette Goddard, Betty Grable, Farley Granger, Jean Harlow, Audrey Hepburn, Katharine Hepburn, Veronica Lake, Hedy Lamarr, Carole Lombard, Myrna Loy, Ida Lupino, Jeanette MacDonald, Marilyn Monroe, Robert Montgomery, Laurence Olivier, William Powell, Tyrone Power, George Raft, Luise Rainer, Gilbert Roland, Jane Russell, Rosalind Russell, Ann Sheridan, Simone Simon, Barbara Stanwyck, Gloria Swanson, Elizabeth Taylor, Robert Taylor, Gene Tierney, Johnny Weissmuller, Loretta Young... per concludere in bellezza la galleria delle sue stelle più luminose con Grace Kelly, Jessica Lange, Sharon Stone e Harrison Ford.

Nel contempo incontra Edward Weston per una breve collaborazione, lavora per le riviste Esquire, Pleasure, U.S. Camera., collabora con l’agenzia pubblicitaria J. Walter Thompson e dopo un breve periodo passato nell’esercito, dove lavora anche per il Pentagono, apre il suo studio nel mitico Rodeo Drive a Beverly Hills.

A partire dagli anni sessanta il suo stile non incontra più i gusti del pubblico e di conseguenza anche dell’establishment hollywoodiano: il New American Cinema, il rock, i jeans, il femminismo e gli spinelli propongono e sognano mondi più battaglieri e reali. Dopo il 1970 realizza principalmente foto per copertine di album musicali. I principali committenti sono Cass Elliot, Tom Waits, Fleetwood Mac, Queen, Midge Ure e Paul McCartney.

In un quarto di secolo – gli anni d’oro delle major di Hollywood – i ritratti di Hurrell accompagnano, rispecchiano, esaltano, con atmosfere e ombre sempre più misteriose e teatrali, i trionfi del cinema noir. Le sue mitiche messe in scena fotografiche non celebrano solo i volti tormentati di Bogart, Cagney, Garfield, Lupino, Raft e Stanwyck, ma anche le maschere leggiadre e ingessate di Betty Grable ed Errol Flynn.

Le sue foto diventano uno star system all’interno di uno star system più grande, in un’America che divora sempre più hot dog e Alka Seltzer, consuma pneumatici bianchi e chewing gum, rilancia la caccia alle streghe di antica memoria. George Hurrell è anche tutto questo: l’essenza di un Nuovo mondo, per definizione paradossale, che tutti quanti amiamo e rifiutiamo. I suoi ritratti non si limitano a celebrare il glamour dei fasti e nefasti di una factory di celluloide in perenne autocombustione, sono anche i più potenti ex voto che Hollywood potesse tributare a Gregg Toland, Edith Head e Fritz Lang.
Carole Lombard.

George Raft.

Joan Crawford.

Simone Simon.

Jessica Lange.

Till Neuburg 
(2 – Continua)





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