
L’inaugurazione.
Dieci minuti prima dell’inizio dello spettacolo, i ventiquattro lampioni di Piazza Industriale si spensero di colpo. La vasta terra di nessuno disseminata di stabilimenti morti e di parcheggi per camion fu inghiottita dal buio. Il Teatro della Luce, che inauguravano quella sera, rimase l’unica sorgente luminosa ancora accesa, e il suo atrio spalancato lampeggiava come la bocca di un gigantesco mangiafuoco extraterrestre. La nebbiolina intorno al vortice di luce, malata di smog, sembrava una sfera di latte incandescente. Eravamo lontani ancora un trecento metri e il percorso sullo sterrato non era dei più comodi. Adele inciampò in un sasso e feci giusto in tempo a ghermirle un braccio e impedirle di cadere. Rise: non di contentezza ma di dolore, a causa della caviglia offesa. Torniamo indietro, proposi senza successo. La macchina era a pochi passi dietro di noi. L’idea di andare a sentire la senatrice Lavinia era stata sua. «Voglio vedere l’aspetto che ha.» Senatrice? A me non piacevano i comizi e Adele lo sapeva. Non è un comizio, aveva risposto. E lei non è una senatrice, anche se la chiamano così. Questa Lavinia, che nessuno sembrava aver visto di persona e di cui non esistevano ritratti pubblicati, curava una rubrica (Non rubare) su Futura, scarna rivista mensile stampata su carta riciclata e distribuita gratuitamente porta a porta, nelle cassette della posta. Le mie copie finivano al volo nel secchio della carta straccia. Adele invece ci dava volentieri un’occhiata e sosteneva che Lavina era un’opinionista sui generis, una specie di predicatrice impegnata nel rinnovamento morale della nazione. Al Teatro della Luce, ex mattatoio ristrutturato in fretta e furia, la presunta senatrice esordiva come conferenziera e showgirl. Il programma prometteva choc mirabolanti. «L’onorevole Lavinia ha scelto questa città come base di partenza per una lunga e capillare tournée. Il suo show La luce che conta cambierà il nostro modo di vedere e interpretare le cose del mondo.»
Era un’esperienza che Adele a tutti i costi voleva concedersi. Mi trovava recalcitrante e prevenuto, e forse non aveva tutti i torti. Ma se ami una donna devi compiacerla almeno un po’. Seguirla in qualche azzardo, prima che ti giudichi vile o noioso. Fu così che, in capo a qualche minuto, emergemmo dalla notte oscura e ci lasciammo assorbire da quel tripudio di watt. Come temevo, il teatro era di una bruttezza provinciale e insolente. I responsabili della “ristrutturazione” avevano giocato su due carte sicure: la parsimonia e il cattivo gusto. Le appliquesalle pareti erano sormontate da teste di manzo. Strinsi i denti e varcai la folla – il tipico assembramento da ingresso libero. La platea era piena di poltroncine nuove ma già labili e scricchiolanti, tutte occupate da persone in carne e ossa ma anche da borse e giacconi. Litigai con una vecchia strega che pretendeva di tenere occupata mezza fila con le sue cianfrusaglie e riuscii a strapparle un posto per offrirlo ad Adele. La caviglia le faceva male. Le dissi di non preoccuparsi per me, preferivo stare in piedi, a portata d’uscita e di bar. Scelsi con cura il punto di sosta più strategico, in vista di un’eventuale fuga; e mentre mi ci avvicinavo, vidi uno spettatore ubriaco fendere a grandi passi il corridoio centrale. Proprio nel bel mezzo della sala proiettò dinanzi a sé una lunga fiammata di vomito, decorando almeno quattro metri di linoleum. Gli astanti ne uscirono illesi per un pelo e l’uomo liberato fece dietrofront e se la diede a gambe per non dover sorreggere, sulle sue povere spalle, il peso del disprezzo universale. Un aspro sentore di vino maldigerito si espanse rapidamente per tutto il locale, intrudendosi specialmente nei tessuti – i tendaggi, gli abiti, le sciarpe. Una squadra di ragazzi solerti, in tute color arancio con la scritta SECURITY, irruppe armata di secchi e ramazze nella zona umiliata. Altri invasero il campo con bombolette spray, indaffarati a sparare effluvii di lavanda nell’aria.
Le nove erano passate da un pezzo quando, finalmente, si spensero le luci e si alzò il sipario su quattro musicanti da banda comunale. Un quinto personaggio, barbuto e in sovrappeso, con la camicia bianca metà dentro i jeans e metà fuori, entrò in scena al solo scopo di disporvi un piccolo podio da lettura e abbassare l’asta del microfono di venti o trenta centimetri. «Occazzo, Lavinia è una nana», esclamò un invisibile spettatore nel gruppo in piedi vicino a me. Invece no: era solo una bambina. Una bizzarra creatura di dieci o undici anni. Sbucò da dietro le quinte indossando un costume carnevalesco e agitando una frusta schioccante. Con quella si avventò sui musicisti, sferzandoli senza pietà, e nella foga citò un Dante ammorbato di errori. «Guai a voi, anime brave! Non ci sperate mai veder lo cielo...» Dispersi i suonatori (l’ultimo, trombettiere, sanguinava dal naso e si leniva un occhio col fazzoletto), la bambina Lavinia si calmò e si avvicinò al microfono con l’aria più paciosa del mondo. Un lieve sorriso le si stampò sulle labbra. Posò una mano sull’altra e attese il momento giusto per attaccare la sua tiritera, quale che fosse. Solo allora gli spettatori le dedicarono, all’unisono, un oh! di meraviglia. Lavinia sembrava una Monna Lisa in miniatura. Lo stesso vestito, lo stesso marron, la stessa scollatura, la stessa postura, le stesse due bande di capelli lisci ai lati del viso. «In alto le mani!», comandò all’improvviso, con la voce più stridula del mondo. Per tutta risposta, la platea esplose in una risata. La bimba fece la faccia feroce. «Fatemi vedere le mani, ho detto!» Quando una selva di braccia si sollevò dalle poltrone come una pattuglia di piante al rallentatore in un documentario naturalistico, di nuovo Lavinia esibì il sorriso – amabile e sarcastico – della Gioconda. Investita com’era dai riflettori non poteva scorgere altro che un bosco di tenui ombre; eppure, soddisfatta, sentenziò: «Bravi, così. Le vostre mani sono opache. Non vorreste averle più luminose?»
Il pubblico taceva. Lei ripetè: «Vi ho chiesto se volete una pelle opaca o luminosa. Rispondete. E state tranquilli, non vendo creme idratanti. Sono la vostra guida spirituale, non una spacciatrice di erbe, tisane e cosmetici. Allora: le volete o no, le mani più lucenti?»
«Sì», gridò un coro di fan.
«Sono la senatrice del vostro futuro. Dite con me: odiamo il furto. Odiamo lo spreco.»
«Odiamo il furto! Odiamo lo spreco!», rispose la folla divertita.
«Bugiardi!», accusò la bambina, puntando un indice contro la platea. «Voi non conoscete la purezza. Ma io sono qui per aiutarvi a riconoscere la vostra opacità. Non siete malvagi, siete soltanto ignari della luce che conta. Siete stati ingannati per generazioni. Siete in buonafede, ma ciechi. Per dimostrarvelo, farò delle semplici domande ad alcuni di voi. Chi si offre volontario o volontaria? Voglio qui un artista, se c’è. Pittore, scultore, musicista: non importa.»
Silenzio.
«Nessun volontario? Nessuna volontaria? Mi accontento anche di uno scrittore. O di un architetto.»
Silenzio.
«Che vi dicevo? Avete tutti, ma proprio tutti, qualcosa da nascondere.»
La provocazione funzionò. Un signore panciuto di mezza età, dall’aspetto professorale, si mosse dall’ultima fila, attraversò a testa alta il corridoio, si avvicinò al palcoscenico e montò con cautela i pochi gradini bui che lo separavano dalla piccola presuntuosa.
«Benvenuto, signore. Un applauso per il suo coraggio.»
La platea obbedì felice.
«Ecco la prima domanda, facile facile. Che ne pensa delle fontane pubbliche?»
Il signore sembrò perplesso, ma solo per un attimo. «Cosa vuoi che ne pensi, piccola mia? Sono belle. Decorative. Ornano le città.»
«Non mi chiami “piccola mia”: non sono la piccola sua. Sono Lavinia e basta. Se proprio ci tiene a essere gentile, mi chiami senatrice. Bene: le fontane ornano le città. Si è mai chiesto quanto costano?»
«A dire il vero non ci ho mai pensato, senatrice.»
«Ci avrei giurato. Abbiamo disoccupati a più non posso e ci permettiamo il lusso delle fontane decorative. E mi dica: che genere di artista è lei?»
«Non sono un artista, mi limito a insegnare storia dell’arte.»
«L’arte è l’oppio dei popoli.»
«Veramente quella era la religione...»
«Non faccia lo spiritoso. Un oppio non esclude l’altro. Siamo intossicati da diverse varietà di oppio: arte, religione, musica, letteratura, cinema, teatro, moda, profumi, cosmetici, balli... E non pensiamo mai ai costi di tutto questo. Alla vanità di questi orpelli. Io vi annuncio un mondo diverso. Spartano. Io vi annuncio la luce superiore della contabilità, in un mondo contaminato dalla corruzione e dallo spreco.»
Dalla platea si levò un applauso scrosciante. Io mi sentivo le vene piene di mosche. Tenevo i pugni serrati in tasca e mi sognavo infanticida. Il linguaggio degli adulti scaturiva da quella boccuccia di latte e rose come un torrente di acido solforico.
Il professore (e pensavo a Unrat nelle spire perverse di Lola-Lola) sembrava dissentire dalla tesi della bambina. «Senatrice, mi permette una piccola riflessione? Lei dice che l’arte è un male. Ma si è vista allo specchio? Lei stessa è un’opera d’arte. Non si è forse travestita da Monna Lisa? La Gioconda in formato mignon?»
Il volto della piccola senatrice si contrasse in una smorfia di disgusto. «Sapevo che l’avrebbe detto. L’opacità vi rende prevedibili. Non somiglio affatto a quella donna, ma cerco di imitarne l’atteggiamento per ricordare a quelli come lei che c’è più senso nella vita vera che nella vita dipinta. Gli opachi dipingono una vita e una società irreali per togliere di mezzo la luce superiore della contabilità.»
«Posso farle io delle domande?»
«Una sola. Ci sono altri contribuenti che vorrebbero salire su questo palco.»
«Come fa a parlare di cose complesse come la ragioneria, alla sua età?»
«Mi sono diplomata a otto anni e sarei prossima a laurearmi, se esistesse un’università adatta ai miei principii.»
«Sa già come si compila un bilancio?»
«Ho detto: una sola domanda. Adesso può andare. Comunque sì, so quando un bilancio è trasparente e quando non lo è. E le dirò una cosa, perché lei la impari una volta per tutte: nessun bilancio è trasparente. L’ideale per il quale stiamo combattendo è illuminarlo.»
Salirono poi sul palco, per fede o derisione, altri masochisti non meno audaci del professore. Lavinia se ne servì per illustrare le sue teorie sulla luce che conta. Disse che dei sette peccati capitali l’avarizia, intesa come cupidigia, avidità e ladrocinio, è il più ripugnante: più della superbia e della lussuria, dell’invidia e della gola, dell’accidia e dell’ira, che anzi, se praticate con moderazione e controllo, diventano virtù. Ma doveva essere appassionata di paradossi perché, dopo aver sostenuto che l’avarizia è il peggiore dei vizi, annunciò che era anche il più luminoso dei valori, una potente difesa naturale contro ogni sperpero.
Intonò un’invettiva particolarmente tagliente sull’inevitabile destino delle politiche e dei governi, quello del potere che contamina e corrode e rivela il ladro nascosto in ciascuno di noi. Esortò l’uditorio a proclamare in coro, per sette volte di seguito, lo slogan «Piove o c’è il sole, governo ladro». La luce che conta era la luce dell’onestà, della temperanza e del risparmio: «Bisogna portare rispetto al denaro, specialmente a quello degli altri. Bisogna rispettare il contribuente, perché il contribuente è nostro fratello.» La contabilità pura e trasparente «dev’essere la nostra fede, il nostro impegno, il nostro futuro.»
Le luci si riaccesero in sala in un dissonante concerto di applausi e strilli di entusiasmo; a fischiare eravamo in pochi. Andai a recuperare Adele. Il suo buonumore collideva con il mio stato di svuotamento. Mi chiese se avessi osservato la gente delle prime file, i seguaci della senatrice in erba. No, non avevo voglia di osservare nessuno, non m’interessavano, volevo solo uscire da quella bolgia. Tanta fu la sua insistenza che fui costretto a forzare la marea umana in uscita per andare, controcorrente, a spiare gli spettatori in prima linea, ancora inchiodati alle poltrone nell’assurda speranza che lo spettacolo continuasse fino alla fine dei tempi. Erano tutti – uomini, donne e bambini – repliche esatte della Gioconda leonardesca. Intere famigliole giocondizzate a immagine e somiglianza della loro ispiratrice, improbabile leader di una setta tanto fanciullesca quanto minacciosa. Monne Lise e Monni Lisi in adorazione di quel residuo postumo di Shirley Temple: solo che Shirley bamboleggiava in un paradiso fiabesco di riccioli d’oro, mentre questa si dava arie da moralizzatrice e non esitava a sbandierare il primato della «sana economia» su qualsiasi altro valore o bisogno umano – la pace, la solidarietà, il rifiuto della violenza nelle sue accezioni più tragiche e tradizionali.
La festa del No.
La prefettura fu molto criticata, ma sottovoce, per aver concesso il permesso di celebrare la Festa del No nello spazio più grande della città. Fin dalle prime ore del mattino Piazza Industriale si presentava come un variopinto luna park. Ci andai con Adele per scattare delle foto: ne valeva la pena, l’area era allestita in modo persino più suggestivo di quanto potessero fantasticare un De Chirico e un Dalí messi insieme. Al centro dello spiazzo ardeva a fuoco lento un’arpa da concerto a pedali. Le corde roventi si sganciavano a turno dalla cornice in fiamme, gemendo e contorcendosi. I più mattinieri giuravano che il falò del pianoforte – uno Steinway gran coda, ormai ridotto in brace – era stato ancora più spettacolare. Tra le attrazioni più popolari (ma anche più deludenti) c’era un padiglione con l’insegna «Il destino dei dischi volanti». Un cartello avvertiva: «Ingresso libero a tuo rischio e pericolo.» Ai margini del piazzale c’erano pantere della polizia e autoambulanze pronte a qualsiasi evenienza. I dischi volanti altro non erano che semplici long playing in vinile, scagliati in rapida successione contro il pubblico da una macchina sputaoggetti caricata a mano. Non tutti, tra il pubblico, riuscivano a scansare quella raffica di frisbee impropri: si usciva dal padiglione feriti a colpi di Zappa e di Elvis, ma anche di Mozart (Exsultate! Jubilate!) e di Armstrong, di Brahms e di Nirvana. L’amore per la musica avrà fatto le sue vittime, ma l’odio per la musica può farne di più.
I mercanti scacciavano Gesù da un tempio posticcio, eretto alla buona con materiali scenografici da museo del cinema. Posticci erano anche i costumi d’epoca indossati per la messinscena, ma le percosse a Gesù erano più vere del vero, e lo straniero che impersonava il Nazareno non sembrava subirle di propria volontà: a ogni tentativo di fuga veniva riacciuffato e obbligato a ripetere il suo ruolo dal principio. Fu proprio mentre riprendevo l’ennesimo linciaggio che un energumeno della sedicente security mi piombò addosso, mi strappò di mano la Canon e me la distrusse con i tacchi dei suoi stivali. Le proteste mie e di Adele produssero un risultato inatteso: la polizia, richiamata dagli strepiti, si schierò dalla parte del cattivo e ci impose di lasciare immediatamente la piazza. Alternativa: manette, furgone e gattabuia.
Ce ne andammo sì da quell’inferno, io senza Canon, Adele con un taglietto sul sopracciglio destro – un elleppì di John Lennon, credo Imagine.
La riforma dei vizi e delle virtù.
Subito dopo l’abolizione delle festività civili e religiose, sostenuta a gran voce dai nuovi dissidenti e concessa da governo e parlamento per qualche forma di prudenza pre-elettorale, la rivista Governo Ladro, «organo ufficiale della trasparenza», uscì in edizione speciale con l’elenco – ampiamente corredato di note esplicative – delle nuove virtù teologali e dei nuovi vizi capitali. Le virtù coincidevano con i principii contabili fissati dal codice civile per la redazione di un corretto bilancio d’esercizio: continuità, prudenza, competenza, separazione, costanza, prevalenza della sostanza sulla forma; a queste sei voci tecniche si aggiungeva una settima più metaforica, «luce». I vizi erano in apparenza gli stessi di prima, ma sensibilmente ritoccati: superbia culturale, avidità manageriale, promiscuità con l’estero (ex lussuria), invidia per chi sciala, indulgenza alla gola e al fumo, ira ideologica di stampo sociocomunista, accidia valutaria.
La cover story prendeva molte pagine del giornale; uno spazio minore, ma rispettabile, era dedicato al servizio «Giuda e i trenta denari. Inchiesta sull’equità del compenso.»
L’incubo della Gioconda.
Non c’era più bisogno di trucchi e costumi stravaganti per alludere al famoso ritratto di Leonardo. La creatura era facile da imitare: bastavano l’atteggiamento pacioso, il sorriso sarcastico, quel certo modo di tenere le mani. Quando nel bar del mio quartiere comparvero le prime Gioconde “in borghese” seminarono qualche incertezza, ma la curiosità fu di breve respiro e non allarmò nessuno (all’infuori di me). Del resto erano pochi gli argomenti in voga in quel bar così periferico rispetto al centro della città e ai centri del sapere. La mattina era cominciata nel più quadrato dei modi. Si era discusso con fervore dell’ultima squadra di calcio venduta ai cinesi, ovviamente. Anche il bar, del resto, era passato in mano cinese, come qualcuno non mancò di sottolineare. Se ne dedusse, quasi coralmente, che presto l’Italia intera sarebbe diventata una colonia di Pechino; e molto si scherzò sull’argomento, ma senza gioia. Uno disse che presto avremmo avuto preti gialli a dir messa; un altro profetizzò l’avvento d’un partito chiamato Pci, niente a che vedere col Pci d’una volta, semplicemente un Partito Cinese di nome e di fatto. Fingevo di leggere il libro ma ascoltavo le loro divagazioni, interessato non tanto al destino del football o della chiesa quanto alla reputazione dei cinesi nell’opinione degli avventori. Uno sosteneva che fossero «dei gran lavoratori», come se quel riconoscimento fosse il risultato di un’indagine minuziosa e diffidente. L’efficienza della giovane coppia d’Oriente, lui al bancone e lei al registratore di cassa, era motivo d’uno stupore condiviso; un genere di stupore mai riservato con altrettanta spontaneità ai gestori italiani che si erano alternati nel tempo, per quanto io sapessi. C’erano tre tavolini occupati da una decina di habitué, sette uomini e tre donne, piccoli pensionati dalla voce squillante. A quattro metri di distanza andò ad accomodarsi una coppia appena entrata, due quarantenni talmente somiglianti da far pensare che fossero fratello e sorella.
«Devono essere forestieri», disse uno dal naso imponente.
«E perché?», domandò una donna dai capelli radi, tinti d’un rosso aranciato, che poco prima aveva espresso accoramento per i tanti bar lombardi caduti «sotto bandiera cinese».
«Non li ho mai visti prima.»
«Ma va!», lo canzonò la rossa, «non lo riconosci? è il figlio della Pina.»
«La Pina ha un figlio così grande e grosso?»
«Sembra un commendatore ma è un giovanotto. Deve avere sui trentacinque, trentasei anni.»
«E quella è la sorella?»
«Ma quale sorella e sorella! La Pina ha solo due maschi, questo è il più grande.»
«Sembrano due gocce d’acqua. O la Pina o suo marito devono essersi dati da fare. Certe volte un solo nido non basta.»
La signora Beretti, che si dava arie da estetista e si truccava di conseguenza, emerse in tutta la sua magrezza per dire la sua.
«Lui fa il contabile in una ditta di articoli sanitari.»
«Un venditore di cessi?»
«No, una persona per bene», assicurò madame, come se i venditori di cessi appartenessero a una setta diabolica.
«Mi ricorda qualcuno», buttò lì la rossa dai capelli radi.
«Non dirmi che somiglia a sua madre. Non ci somiglia nemmeno un po’. E neanche al padre, per come lo ricordo.»
«Ma è sputato qualcun altro. Forse uno della televisione.»
«Televisione no», mormorò la terza donna, che godeva fama di implacabile osservatrice. «Ma ha una faccia famosa. Specialmente quando sorride.»
«Cioè sempre», fece notare madame Beretti. «Da quando è entrato non fa che sorridere.»
«In effetti ha sulle labbra una specie di smorfia che sembra un sorriso.»
«Dipende da quello che si stanno dicendo», puntualizzò l’osservatrice. «Non lo vedi che sorride anche lei? Allo stesso modo?»
«Ecco perché si somigliano», proruppe Naso Imponente. «Il modo di ghignare è lo stesso, un po’ da prete e un po’ da Gioconda. Per il resto sono abbastanza diversi.»
«Hai detto Gioconda? La Gioconda di Leonardo?»
«Guarda come tiene le mani. Uguali e precise.»
«Anche lei!»
«O Dio di misericordia, due Gioconde in un colpo solo!»
«Monna Lisa e Monno Liso.»
«Scappati da un quadro.»
Guardai meglio in direzione del tavolo più lontano. C’era qualcosa di vero in ciò che dicevano. I due avventori misteriosi avevano un’aura rinascimentale. Volti rotondi su corpi rotondi, un sorriso tra lo scettico e il papale, un palpabile sarcasmo – bonario o fintobonario – disegnato sui volti. A un certo punto l’uomo si alzò, senza cambiare espressione, e si tolse la giacca e la cravatta. Non tanto per il caldo, pensai, quanto per liberarsi di un impiccio, di una costrizione sgradevole.
La signora truccata si stava tormentando le mani, e non staccava gli occhi dalla coppia.
«Mercoledì sono andata in un laboratorio di analisi a farmi una radiografia del torace», disse a voce bassa, roca e uniforme. Alcuni s’informarono premurosi del suo stato di salute. La salute era un argomento vincente, specialmente tra le donne della sua età.
«No, è che fumo troppo», tagliò corto. «Ma quello che volevo dire è che alla reception c’era un’altra Monna Lisa.»
«Ommadonna, dev’essere un’invasione.»
«Io ho visto una Gioconda nella palestra dove vado per la fisiatria», disse il più vecchio di tutti, uno che stava in piedi per miracolo. «Ma non era proprio la Gioconda di Leonardo, era un uomo pieno di muscoli.»
«E che sarà mai!», sbottò uno che cominciava a scocciarsi di quei discorsi. «Leonardo da Vinci è stato da queste parti, ne ha fatte di cotte e di crude perché l’era un genio. Si vede che si è portato dietro quella Gioconda lì e che la sciura ha seminato discendenti a iosa.»
«Non dire stupidaggini», lo redarguì la rossa, e anche le altre due donne del gruppo gli regalarono un’occhiata di disapprovazione. «Voi uomini ne dite di castronerie. Io piuttosto penso che dev’essere una moda, di sforzarsi col contegno e il sorrisetto di imitare Monna Lisa.»
«E che c’entrano i maschi? Sono froci?»
«Froci chi?»
«Quello seduto lì e il tizio della fisiatria.»
«Il figlio della Pina è mica gay.»
«E dove sta scritto?»
«Sta scritto che se fosse gay l’avremmo saputo.»
La chiacchiera aveva preso, come al solito, una piega così lontana dal bon ton da risultare farsesca. Persi ogni interesse, pagai il mio spritz e lasciai la compagnia. La stazione ferroviaria era a due passi. Ci andai con l’idea di comprare le sigarette e una rivista. Già che c’ero, passeggiai un po’ su una delle banchine senza alcun motivo pratico: i treni mi hanno sempre affascinato, e ce n’era uno lunghissimo in attesa del segnale di partenza. Mi piaceva perdermi nel fermento dei ritardatari, degli abbracci scambiati, dei ferrovieri in divisa. Non potei non notare le persone affacciate ai finestrini. Mi sbaglierò, ma almeno quattro individui sembravano Monne Lise in cornice, indipendentemente dal sesso e dall’età.
La stessa notte sognai la Gioconda, quella originale, che usciva dal quadro e avanzava verso di me su pattini a rotelle, senza alterare l’espressione del volto e la posizione delle braccia e delle mani. C’era un che di allarmante nel suo modo di procedere. Il ghigno, ammirato da secoli e generazioni, nel sogno era una minaccia bella e buona. «Che vuoi da me?», devo averle chiesto dormendo e respirando malissimo. E lei: «Voglio tutto.» «Tutto cosa?» «Gli scontrini, le fatture, la dichiarazione dei redditi.» «Sei una commercialista?» «Sono l’anima della contabilità vergine.» «Lasciami dormire in pace. Tornatene nella tua galleria di Parigi.» «Non mi ami nemmeno un po’?» «No.» «Allora vaffanculo», concluse con voce dolcissima.
Mi svegliai di soprassalto, sudato come una spugna. Mi accesi una sigaretta – erano le quattro e qualcosa, credo di non aver mai fumato a quell’ora – e fui preso da una risatina nervosa. Immaginai il nostro mondo popolarsi all’improvviso di Gioconde e Giocondi in carne e ossa. Alti, bassi, giovani, anziani, donne, uomini – ma tutti con un tocco leonardesco nei tratti e nelle posture. Sorridevano in modo inquietante. Odiai il dipinto.
Tirai mattina sfogliando libri d’arte e sbadigliando, con gli occhi bruciati dall’insonnia. Non vedevo l’ora che facesse giorno. Volevo uscire al più presto da quella specie di prigione che era il mio appartamento da single e controllare l’aspetto dei passanti. Andavo pianificando, tra me e me, un programma di ricognizione senza precedenti. Contare le Monne Lise, prendere appunti sul mio taccuino, lanciare – se necessario – un allarme mondiale. Presi tra le mani, meccanicamente, la rivista che avevo comprato alla stazione. Sbigottito, osservai meglio la copertina. Un ritratto femminile, fotografico, ma tale e quale al dipinto di Leonardo. Una donna dei nostri tempi, un odierno clone di quell’altra. Non brutta né bella – con quella sottile ombra, o luce, di disumanità che distingue le figure dipinte da quelle reali. La rivista parlava di una donna di successo, una imprenditrice tentata dalla carriera politica «per moralizzare il potere». Gettai la rivista ai piedi del letto, tra i calzini e le mutande, e decisi di sottopormi a una doccia più lunga del solito per svegliarmi meglio dal torpore che mi soffocava.
Giunse finalmente quell’ora mattutina in cui certi tratti di strada profumano di torrefazione e di brioche appena sfornate. Non esiste momento migliore per chi conduce vite semisolitarie: meglio se insidiate da qualche rancore o incertezza (dovrei proporre ad Adele di venire a vivere con me, ma ho paura di un diniego). Entrai nel bar: il “mio” bar, presidiato dai ragazzi cinesi che fantasticavo di aver adottato (ho adottato un po’ di avvenire, mi scappava di pensare ogni volta che li vedevo sorridere – cioè di rado).
Come temevo, il bar era stato preso d’assalto da una comitiva di Gioconde. Rinunciai al caffé e alla brioche, con una retromarcia degna di un cavallo in crisi di panico. Varcata la soglia, per poco non fui investito da una Lisa in bicicletta, transitante senza freni sul marciapiede. Le urlai qualcosa di offensivo. Per tutta risposta si voltò appena, sempre pedalando, e mi gratificò di un sorriso ancora più ambiguo di quello eternato sulla celebre tavola del Louvre. Ero così fuori fase che trascurai di osservare se tenesse le mani sul manubrio in modo ortodosso o se procedesse a mani conserte, col solo movimento delle gambe. Mi precipitai all’edicola della stazione aspettandomi rivelazioni, opinioni e scoop sul fenomeno in corso – l’invasione delle Lise Gherardini. Non ero in grado di capirne il senso, la portata, la sostanza. Realtà o allucinazione? Mia o collettiva? No, non poteva essere solo mia: il pomeriggio del giorno prima erano stati altri a sottolineare la “giocondità” di quei due avventori. Erano stati altri, prima di me, a meravigliarsi di quella proliferazione surreale.
Mentre attraversavo la strada senza badare al semaforo rosso, i miei nervi furono scossi da un fischio imperioso. Era un vigile urbano che ce l’aveva con me. Prima fermò il traffico con la paletta, poi mi venne incontro a grandi passi, mi afferrò per il gomito e mi risospinse bruscamente sul marciapiede da cui provenivo. «Lei è un incosciente», disse. Era un omaccione con i baffi all’insù, ma sotto i baffi era tale e quale a Monna Lisa versione Duchamp. Compilò un verbale e mi multò, ma erano le sue mani a suscitare il mio interesse. Mani grassocce e femminee, fiorite da polsi senza neanche l’ombra di un pelo. «Chi siete?», domandai fissandolo negli occhi. «Chi siete chi? Mi dia del lei.» Non c’era niente di gentile nella sua voce e nel suo atteggiamento. «Sembrate tutti figli di Monna Lisa», azzardai. Si arrabbiò di brutto, come se gli avessi dato del figlio di puttana. Mi accusò di oltraggio a pubblico ufficiale, tentò di arrestarmi; ma quando, vigliaccamente, gli chiesi scusa, lasciò perdere e mi consigliò di farmi visitare al più presto. «L’ospedale è a meno di cento metri in quella direzione», concluse, come se non lo sapessi.
Lo presi alla lettera. M’incamminai verso l’ospedale meditando sulle parole che avrei usato al check-in del pronto soccorso. «Vedo Gioconde dappertutto» era da escludere, mi avrebbero messo la camicia di forza. Meglio denunciare qualcosa di vago, per esempio un’emicrania persistente e refrattaria alle aspirine.
«Ho un violento mal di testa», comunicai ansioso alla Monna Lisa di turno. «Sento che sto per svenire.»
«Tutto qui?», rispose. «Ha provato con l’aspirina?»
«Non funziona.»
«Oggi è solo giovedì. Dovrebbe consultare il medico di base, invece di venire qui.»
«Perché?», domandai stupidamente.
«Non la vede la folla che c’è? Dovrei assegnarle un codice bianco, e lei rischierebbe di aspettare fino a stasera prima che arrivi il suo turno.»
«Ma ho bisogno di un codice rosso», replicai. «O almeno giallo.»
«Si fidi di me, signore: vada in farmacia, se non può consultare subito il medico curante. E si rilassi. Qui c’è gente che sta morendo, non c’è tempo per i mal di testa.»
«Mi dia un codice rosso. O almeno giallo. Sto male, ne ho il diritto.»
La donna fece riposare le mani esattamente come nel quadro. Senza perdere la pazienza e senza rinunciare al dolce sguardo bovino, pronunciò qualcosa di materno e definitivo: «Signor mio, forse non se ne rende conto ma sta rubando tempo e risorse a me e ai contribuenti in coda dietro di lei.»
Rubando tempo e risorse. Contribuenti. Decisi di tornare al bar, sperando che la comitiva metafisica si fosse nel frattempo dileguata.
Sì, non c’era più. Respirai rinfrancato. Ordinai un espresso doppio e una brioche e mi adagiai su una sedia, stanco come un bradipo dimentico di albe, di tramonti, di orari. Sentivo le palpebre appesantite, il cuore alla deriva. Ripresi un po’ dell’energia perduta quando entrò qualcuno che mi era familiare. La signora magrissima, vestita e truccata di prima mattina come per andare a una cena di gala. Madame, come la chiamavano tutti. Dopo un cenno di saluto si accomodò di fronte a me. Sottovoce, per non farsi sentire dai cinesi, sussurrò due parole semplici come tagli di coltello: «Siamo circondati.» Forse impallidii e forse no, ero fuori dal campo dello specchio finto-liberty che faceva da sfondo a una devota della Coca-Cola.
«Sì, ma chi sono?», le domandai. Le donne sanno sempre qualcosa che gli uomini non sanno.
«Vengono da un altro pianeta», asserì tranquillamente.
«Come può il figlio della Pina venire dallo spazio?»
«Non è il figlio della Pina.»
«Ieri ne sembravate convinti.»
«Ieri era ieri. Si è guardato intorno, oggi, mentre veniva qui?»
Annuii sfiduciato. «Ma che vogliono da noi?»
«Questo non lo so. Ma dicono che siamo ladri. Tutti ladri.»
«Non rubare...»
«Non hanno studiato bene il catechismo. Dei dieci comandamenti, gli interessa solo il numero 7.»
«Come se lo spiega?»
«Sono moralisti specializzati. La loro specializzazione è la lotta al furto.»
«Fosse così, mi sentirei più sereno. I ladri mi fanno paura e, paura o non paura, mi danno fastidio.»
«Già. Ma se ci attaccano?»
«Perché dovrebbero attaccarci? Né lei né io siamo ladri.»
«Se prendessero piede, potrebbero decidere di appoggiare forze e governi ostili alla democrazia...»
«Sembra fantascienza.»
«La chiami come vuole. Ma io non mi fido dei moralisti antifurto.»
«Perché mai?»
«Credo nella molteplicità dei peccati e dei reati. Credo che non uccidere sia più importante che non rubare.»
«Non vorrà mica dirmi che i cloni di Monna Lisa abbiano intenzione di ucciderci...»
«No, mio caro, l’idea di ucciderci non li sfiora neppure. Non hanno progetti così drastici. Ma se prendono il potere...»
«Se prendono il potere ci tagliano la gola?»
«Non dica sciocchezze e mi stia a sentire, santo cielo! Sia un po’ più serio! Se prendono il potere si concentrano sul ladrocinio, sulla truffa, sull’imbroglio, sulla corruzione, sullo spreco, e lasciano andare in malora tutto il resto. Mi sono spiegata?»
«Cosa intende per tutto il resto?»
«Zitto.»
I due Giocondi erano entrati di nuovo. Li vedevo anch’io. Si erano piazzati allo stesso tavolo del giorno prima. Stavano cospirando qualcosa, era evidente. Avevano mani levigate ed enormi, più grandi di come m’erano parse la prima volta. Presiedevano in silenzio il silenzio, come in attesa di complici. E dopo cinque minuti, infatti, un’altra coppia li raggiunse. Identica a loro. Due Giocondi e due Gioconde, decisi a modificare la vita sul pianeta. Si moltiplicavano in modo esponenziale. Due. Quattro. Otto. Sedici. Trentadue... Granelli di sabbia su una scacchiera di 64 caselle. Quando avranno occupato l’ultima, un grande Sahara ci sommergerà.
Tiro a indovinare come andrà a finire questa storia. Cortei di protesta in costume, Monna blocks, assalti ai musei, agguati ai politici, alle sedi di partito, ai sindacalisti, alle banche. E infine un superbo rogo di libri in tutti i villaggi e tutte le città. Una nuova era, fatta di registri immacolati e lampioni spenti, di lapidazioni lampo e alleanze interrotte, di bambini grotteschi e adulti allucinati, sta per aprirsi alla storia. Non ci resterà che la fitness.
È deciso. Oggi stesso proporrò ad Adele di sposarmi. Non voglio rimanere solo, durante il coprifuoco.
Epilogo.
Il fermo proposito di sposare Adele, assunto alle 10:45 di una mattina di maggio, durò esattamente sei ore e quindici minuti. Decadde nel momento stesso in cui c’incontrammo nel luogo dell’appuntamento, una sala da tè dalle pareti dipinte di fresco.
«Sei stata dal parrucchiere», sussurrai.
Quello è, di solito, il momento in cui una donna ti chiede come la trovi, mettendosi di profilo e assumendo un’aria civettuola. Lei si limitò a sorridere.
Le ordinai un tè coi suoi pasticcini preferiti. Io ingoiai un caffè liscio, senza zucchero e senza entusiasmo. Si era fatta stirare i capelli e tirare una riga proprio al centro della testa. La portai al cinema a vedere un film suggerito da lei, e dormii tutto il tempo. Quando mi svegliò con un tocco di gomito, capii che il film era finito.
© Pasquale Barbella