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Il caso Coca-Cola

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Marketing e pubblicità

Bibita per una nazione. Agli albori della comunicazione integrata.


(di Pasquale Barbella. Estratto da “La comunicazione d’azienda. Strutture e strumenti per la gestione”, a cura di Umberto Collesei e Vittorio Ravà, Isedi/Utet, Torino 2004).

Marchio, 2007.
Spesso, quando si accenna alla creatività, il pensiero vola ai mass media: la televisione, la stampa, la radio, la pubblicità esterna, il cinema. In realtà il paesaggio pubblicitario è di gran lunga più vasto e più vario: basti pensare a tutto ciò che è esposto, oltre alla merce (la cui confezione, peraltro, è già un messaggio pubblicitariamente costruito), in un qualsiasi punto vendita. O alle complesse operazioni di marketing postale. O alla sponsorizzazione di programmi ed eventi. O alle iniziative promozionali di qualsiasi tipo. O al merchandising e alla sua oggettistica. O ancora, in tempi più recenti, a quel gigantesco contenitore di comunicazione elettronica che va sotto il nome di internet.

Infiniti sono i canali di cui l’impresa dispone per far giungere la sua voce all’interno e all’esterno di sé stessa. Ciascuno degli strumenti utilizzati necessita di eccellenti idee, e tutte le azioni devono concorrere verso il medesimo traguardo: costruire una comunicazione univoca, coerente ed efficace sulla marca, la sua personalità e la sua offerta.

Sebbene la comunicazione integrata sia stata teorizzata con l’attenzione che merita solo in epoca recente, ha trovato – in alcune aziende – precoci e versatili precursori. Impressionante, utile da indagare e molto ben documentato, è per esempio l’insieme delle attività di comunicazione espresse dalla Coca-Cola Company fin dai suoi esordi.

A partire dalla fine dell’Ottocento, la Coca-Cola comincia a edificare il suo monumentale programma di architettura della marca con brillanti ed efficaci innovazioni creative nella formulazione del prodotto, negli imballaggi, nella distribuzione e nella comunicazione. Stupiscono ancora oggi la varietà, la complessità e il coordinamento degli strumenti adottati da questa marca non a caso diventata così potente.

Fin dalle origini, l’azienda affida con sicurezza il proprio destino alla pubblicità con investimenti massicci, di gran lunga superiori a quelli giustificabili dall’effettivo giro d’affari. Nella relazione di bilancio del 1892, il presidente della Coca-Cola Company comunica agli azionisti: «Abbiamo fatto notevoli investimenti pubblicitari sul territorio che non hanno dato ancora alcun ritorno. Abbiamo motivo di credere che i risultati arriveranno nel corso dell’anno seguente. Nelle aree sviluppate prima della costituzione societaria, si è registrato un considerevole incremento di affari rispetto agli anni precedenti.»

Il lavoro sul marchio, sul packaging, sulla corporate identity[1]è stato ovviamente incessante negli oltre cent’anni di vita della Coca-Cola; ma elementi dello stile iniziale persistono tuttora, a conferma d’un approccio rigoroso alla consistency: una grande marca deve sapersi evolvere senza mai entrare in contraddizione con sé stessa.

Già negli ultimi dieci anni dell’Ottocento la Coca-Cola affida gran parte della sua pubblicità a un’agenzia professionale, la Wolf & Company di Filadelfia. Una seconda agenzia, la Massengale, si occupa delle campagne stampa nei primi anni del Novecento.

In quegli anni di espansione della marca – partita da un drugstore di Atlanta, in Georgia, per affrontare tappa dopo tappa il mercato degli Stati Uniti – l’azienda concepì avanzate modalità di comunicazione al trade, di merchandising, di pubblicità al punto vendita e di direct marketing. Compaiono nel 1891 le prime trade cards, cartoline illustrate destinate ai potenziali dettaglianti, con immagini pubblicitarie sul fronte e dati di vendita sul retro. Ai grossisti si forniscono adeguati materiali di presentazione e i primi gadget. Nel 1895, una campagna di pubblicità diretta (invio di una lettera informativa e persuasiva con allegato un coupon per l’invito gratuito alla prova) viene indirizzata a una mailing list di potenziali consumatori. Nomi e indirizzi sono forniti all’azienda dagli esercenti locali, dotati di soda fountains (inizialmente la Coca-Cola era disponibile solo miscelata e servita alla spina; il prodotto vero e proprio era uno sciroppo da allungare col seltz). Si configurava in questo modo il principio e la pratica della cosiddetta local advertising coordinata dai quartieri generali dell’impresa – un modo di procedere che molte imprese, anche importanti, hanno adottato con decenni di ritardo.

Cucchiai per mescolare lo sciroppo con il seltz, segnalibri in celluloide, orologi a pendolo, vassoi metallici illustrati, insegne, ventagli in carta di riso, calendari e altri oggetti, tutti marchiati Coca-Cola, affollano, ancor prima del Novecento, un campionario di materiali promozionali e di arredi al punto vendita che ha scatenato la caccia al collezionismo. Dal punto di vista strategico e creativo è interessante notare il coordinamento – l’integrazione – fra tutti questi elementi. Il primo testimonial della marca, l’artista di varietà Hilda Clark, figura su vassoi, insegne di cartone e calendari fra il 1900 e il 1901.
Calendario 1901 con Hilda Clark.

Coca-Cola marchia e distribuisce apribottiglie, specchietti, borsellini di cuoio, cinturini, coltellini tascabili, portafogli, scatole di fiammiferi, matite, fazzoletti di carta per “saltare addosso”, letteralmente, al suo consumer. Riveste i punti vendita dal soffitto al pavimento con Coca-Cola girls, lampadari in vetro piombato, lampade a forma di bottiglia, sagomati ad altezza d’uomo, mixer automatici e, negli anni venti, tostapane elettrici che addirittura imprimono il marchio sui sandwich.

Comincia a usare i periodici nazionali nel 1904, dopo esperienze locali sulla stampa specializzata e i bollettini parrocchiali. Nel 1906 affida a William C. D’Arcy, fondatore della D’Arcy Advertising Company, la gestione della pubblicità sui quotidiani, sulla stampa di categoria e sui mezzi di pubblico trasporto. In capo a quattro anni, D’Arcy arriva a gestire il 25% del budget complessivo stanziato dall’azienda per la comunicazione.[2]Fu la D’Arcy a creare la famosa campagna Whenever you see an arrow, think of Coca-Cola (1909): «Ovunque tu veda una freccia, ricordati di Coca-Cola.»

Nel 1906 l’azienda comunica ai dettaglianti: «Stiamo facendo la pubblicità più bella e più artistica che si sia mai vista in questo paese o altrove. Stiamo investendo migliaia di dollari per dire alla gente di venire nel vostro negozio per la Coca-Cola.» Nel 1907 usa la propria carta intestata come veicolo di comunicazione istituzionale: la testata riproduce l’illustrazione della sede di Atlanta e delle prime filiali ­– Chicago, Filadelfia, Dallas, Los Angeles, Toronto, l’Avana.
Poster, 1948.

Una voce non trascurabile, in ogni programma di immagine coordinata che si rispetti, è costituita dalla gestione della visibilità di marca nelle fiere e nelle esposizioni. Nel 1909, lo stand Coca-Cola vince il primo premio alla fiera del New Jersey. L’allestimento simula il banco di un bar interamente abbigliato con oggetti promozionali: insegne, vassoi, locandine, sagomati, bottiglie, apribottiglie, bicchieri, dispenser, ventilatori, termometri… Marchi e inviti Drink Coca-Cola ricoprono ogni centimetro di superficie disponibile. La personalizzazione integrale del bar è tuttora un obiettivo che l’azienda persegue in ogni parte del mondo; il colore istituzionale (rosso) si presta a rendere ancora più accesa e aggressiva la presenza della marca nei punti di ristoro.

La creatività Coca-Cola invade l’American way of life ovunque si manifesti, e talvolta anticipa temi sociali – sia pure con leggerezza di tocco. Nel 1910 per esempio, allorché compare in pubblicità la prima versione del prodotto in bottiglia, il tema visivo della campagna (ovviamente integrata) è una donna emancipata al volante di un’automobile.
Evoluzione della bottiglia dalle origini al 1957.

La bottiglia scanalata Contour, disegnata dalla Root Glass Company, fa la sua prima comparsa nel 1916. Un felice e creativo esempio di design, motivato dalla necessità di distinguersi dalle infinite imitazioni[3]e dall’intenzione di creare il servizio aggiuntivo di una estrema maneggevolezza.

Sempre di più la Coca-Cola si identifica con la nazione. Attivissima in entrambe le guerre mondiali, produce comunicazione in linea con la storia. Nel 1918, su un cartello tramviario, una mano femminile solleva un bicchiere di Coca-Cola; l’ombra proiettata sul fondo rivela la mano della Statua della Libertà che inalbera la famosa torcia. Siamo nel pieno della Grande Guerra; lo zucchero è razionato e la Coca-Cola è costretta a ridurre drasticamente la produzione. L’azienda usa la comunicazione per lanciare un messaggio a mezza strada tra il patriottico e l’interessato: «Lo zucchero è un bene essenziale in tempo di guerra… Usatelo con parsimonia! A proposito delle restrizioni cui è soggetta la nostra produzione: Abbiamo compiuto il nostro sacrificio per la guerra, e continuiamo ad attenerci scrupolosamente alle prescrizioni della Food Administration. Per voi, accettare un sostituto della Coca-Cola è come vanificare il programma governativo sul risparmio dello zucchero.»
Poster, 1942.

Nel 1923 siamo già in presenza di una global brand: nasce la Coca-Cola Export Corporation. Nel 1929 ci sono imbottigliatori di Coca-Cola in 29 paesi. Il crollo di Wall Street e la conseguente Depressione colpiscono duramente l’America e il resto del mondo, ma non intaccano l’industria della consolazione:[4]negli States si salvano, guarda caso, quella fabbrica di sogni chiamata Hollywood e quel bene quotidiano, rassicurante e a buon mercato chiamato Coca-Cola. Dal mondo del cinema decine di star partecipano come testimoni alla pubblicità Coca-Cola: da Joan Crawford a Clark Gable, da Cary Grant a Jean Harlow.
Vassoio 1934 con Jane e Tarzan (Margaret O’Sullivan e Johnny Weissmuller).

La marca si inserisce nei palinsesti radiofonici con le sue sponsorizzazioni (la prima, per il radiodramma Vivian, risale al 1927), nella scuola (kit di materiali di cancelleria agli scolari degli anni trenta, in omaggio con l’acquisto di una bottiglia), nell’immaginario collettivo del mondo intero con Babbo Natale. È del 1931 la prima apparizione del Santa Claus disegnato da Haddon Sundblom, presenza che diventerà una costante natalizia nella pubblicità Coca-Cola e nel comune patrimonio culturale. I più dotati illustratori degli anni trenta, quaranta e cinquanta prestano la propria opera alla marca, compreso lo straordinario Norman Rockwell (autore, tra l’altro, di calendari Coca-Cola destinati ai Boy scouts).

La comunicazione integrata a livello locale, sperimentata con successo fin dal 1895, giunge al massimo sviluppo negli anni trenta. L’azienda fornisce agli imbottigliatori materiali standardizzati di comunicazione – listini prezzi, opuscoli ecc. – garantendosi in questo modo la coerenza fra tutte le fonti di informazione relative alla marca.

Durante la seconda guerra mondiale la Coca-Cola segue fisicamente le truppe americane sui vari fronti in cui sono impegnate, costruendo 64 impianti in altrettanti punti caldi del pianeta. Dappertutto – advertising, calendari, opuscoli – si vedono soldati e soldatesse con la bottiglia in mano. Ai soldati è garantito un costante approvvigionamento di Coca-Cola e vengono forniti kit (ovviamente marchiati Coca-Cola) per passatempi e conforti d’ogni genere – tombole, domino, freccette, ping pong, etc. Un set di carte da gioco illustra – anziché le canoniche figure – i modelli degli aerei nemici, per renderne più facile l’identificazione.
Carte da gioco per soldati in guerra, 1943.

Nel secondo dopoguerra Coca-Cola entra nell’era della televisione con la sponsorizzazione di uno special dedicato alla Festa del Ringraziamento. Le iniziative promozionali e culturali associate al mondo dello spettacolo (musica, cartoons di Walt Disney ecc.), dello sport, dell’automobile diventano sistematiche. Fin dall’inizio del secolo la marca si era distinta nella promozione musicale coeditando spartiti di canzoni originali con immagini pubblicitarie in copertina. Molto più tardi, nel 1971, una delle sue numerose canzoncine pubblicitarie, I’d Like to Teach the World to Sing, diventa un disco e vende oltre un milione di copie.

L’attitudine alla comunicazione a 360 gradi si aggiorna rapidamente al seguito degli sviluppi tecnologici. Nella refrigerazione, per esempio: dalle cassette di legno per contenere bottiglie in vaschette di ghiaccio ai complicati porta-campioni ghiacciati in dotazione alla forza vendite, fino ai minifrigoriferi portatili da picnic degli anni cinquanta e ai sofisticati distributori automatici che conosciamo. La prima lattina è del 1955, ed è inizialmente riservata al personale militare americano delle basi Nato. Trent’anni dopo la lattina vola nello spazio. Nel 1985 vengono prodotte duecento Space cans, molte delle quali partono in orbita sullo shuttle Challenger. La Coca-Cola diventa la prima bibita gassata bevuta da astronauti in missione nello spazio.

Ciò che è davvero istruttivo di questa case history è la volontà, perseguita con costanza e con ogni mezzo, di stabilire una relazione affettiva ­– profonda e duratura – con il proprio pubblico, avvicinato in tutte le circostanze della vita: dalla scuola alla guerra, dal tempo libero individuale alla grande festa familiare. Un esempio di comunicazione totale e avvolgente, che fonda gran parte dei suoi principi sulla coerenza.

P.B.



[1] Insieme delle manifestazioni visibili della marca: nome, marchio, logotipo, format grafico e tipografico, insegne, cancelleria, decorazione di mezzi di trasporto, editoria aziendale, ecc.
[2]Dopo cinquant’anni di collaborazione con la D’Arcy, la gestione della parte più cospicua degli investimenti Coca-Cola passò alla McCann-Erickson (1956).
[3]«Dobbiamo trovare una bottiglia che qualunque persona riconosca anche al buio. Una bottiglia unica al mondo.» Parole di Asa G. Candler, presidente di The Coca-Cola Company, in una riunione con tutti i collaboratori.
[4]Proprio quell’anno la Coca-Cola vara un claim sul quale insisterà per trent’anni: The pause that refreshes, «la pausa che ristora».

Papaveri, papere e sangue

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Papaver rhoeas.


Il mio amico Silvio Saffirio ha postato su Facebook un commosso tributo al papavero, ricomparso a sorpresa in un campo delle Langhe: «Non sono del tutto certo che molti si siano accorti che i papaveri sono spariti dai campi», scrive Silvio. «Sopravvivono sui terreni marginali e sui bordi delle strade, dove non si ara e non si coltiva. Nelle plaghe coltivate neanche uno. Le sementi selezionate dalle multinazionali del frumento li hanno espulsi. Forse per il nome. Papavero fa venire in mente oppio, ma il nostro ingenuo papavero ha tuttalpiù qualche blanda efficacia come tisana sonnifera e i suoi semi sono ghiotti come ingrediente di parecchi piatti. È bello quindi rivedere un campo pieno di papaveri (“basadone” in dialetto langhetto, letteralmente “baciadonne”, forse in omaggio ai rossi petali che possono rammentare una bocca sottolineata dal rossetto). Probabilmente il coltivatore ha risparmiato sulle sementi e si è beccato una fregatura. Ma noi ci possiamo godere ancora una volta un campo rosso di questo bel fiore effimero. Per chi fosse interessato si trova poco dopo Rocchetta Belbo sulla strada che conduce a Bosia. Approfittate del fine settimana. La sua bellezza sfiorisce in fretta.»

Robert William Vonnoh, Poppies, 1888. Indianapolis Museum of Art.

Anch’io sono un nostalgico del Papaver rhoeas. Incendiava le pianure e gli altipiani del sud, traducendo in fiammate pittoriche un panorama non ancora abbrustolito dai dardi del solleone. Trafficava con il grano e il selvaticume di scarpate, tratturi e ferrovie. Era la morfina d’un paesaggio ustionato e felice, sovreccitato anche nelle ore di siesta da cicale in perenne concerto heavy metal.

Papaveri fotografati da Chris Steele-Perkins in un campo di grano nei pressi di Ightham, nel Kent, 2009. © Magnum Photos.

A volte le distese di rosolacci si estendevano fino all’orizzonte, invadendoti l’anima con un cocktail di stupore e inquietudine. I papaveri allestivano e smontavano in fretta il loro circo sfolgorante, ansiosi di dare il meglio di sé nel tempo, troppo breve, della loro esistenza. Forse anche per questo, oltre che per il colore di fuoco e di sangue, sapevano evocare nei più sensibili l’idea del campo di battaglia, della carneficina:

Dormi sepolto in un campo di grano

non è la rosa non è il tulipano

che ti fan veglia dall’ombra dei fossi,

ma sono mille papaveri rossi. 

Così Fabrizio De André nella sua Guerra di Piero.[1]Ma parlava di morte persino Papaveri e papere, la demenziale marcetta sbucata dal secondo Festival di Sanremo, nel 1952. «Pensa che in Cina la cantavano ai funerali, mentre si accompagnava il morto», ricordava Mario Panzeri, uno degli autori. «E poi l’ha usata il Partito comunista nella sua campagna elettorale proprio quell’anno lì. Avevano fatto i manifesti con su un bel campo di grano coi papaveri che simboleg­giavano la Democrazia cristiana e poi c’era una forbice nell’atto di tagliarli.»[2]





Blood swept lands and seas of red: monumentale installazione di Paul Cummins e Tom Piper alla Torre di Londra per commemorare il centesimo anniversario dell’entrata britannica nella Grande guerra. 888.246 papaveri di ceramica, simbolo di altrettanti caduti, sono stati progressivamente installati nel fossato della fortificazione fra il 17 luglio e l’11 novembre 2014. (Le foto sono state scattate l’11 agosto).

Che dire? Gli italiani di allora andavano in estasi per le canzoni patriottiche, i tributi alla mamma (al papà quasi mai) e i “ritmi allegri”, ovvero tarantelle, saltarelli e marcette di istintiva derivazione folk – meglio se infantili anche nel testo, oltre che nel passo. Papaveri e papere era appunto una di quelle “canzoni allegre” di irresisti­bile presa sul gusto me­dio; tanto da influenzare il linguaggio (la metafora degli alti papaveri, per dire i pezzi grossi della società, è tuttora d’uso comune) e il costume (sotto l’insegna “Papaveri e Papere” potete trovare asili nido, aziende di agriturismo, bed & breakfast, ristoranti, osterie, teatri, associazioni culturali, vivai, fiorerie, negozi di abbigliamento e calzature). La canzone di Mario Panzeri, Nino Rastelli e Vittorio Mascheroni, tre implacabili maci­natori di hit popolari, passò per satira poli­tica, un po’ come era successo durante il ventennio nero a Maramao perché sei morto? e Pippo non lo sa.

Lo sai che i papaveri
son alti, alti, alti,
e tu sei piccolina,
e tu sei piccolina…
Vincent Van Gogh, Campo di papaveri, 1890. L’Aia, Gemeentemuseum.

Preso alla lettera, il testo narra di una improbabile quanto sciagurata storia d’amore tra un papavero e una giovane oca. C’è chi ha voluto vedere negli oppiacei i deten­tori del potere politico, finanziario e indu­striale, e nei bipedi il popolo dei lavoratori e dei proletari. La filastrocca interclassista rotola verso la tragedia, e a rimetterci non è la papera ma l’esile amante, spazzato via da un colpo di vento mentre la falce si accanisce sul grano. La falce marxista, compagna insepara­bile del mar­tello? Il sogno della rivoluzione? Ma perché scegliere, come simbolo dell’op­pressore, proprio un fiore rosso, pe­raltro così deli­cato e vulnerabile?

Suvvia, non è davvero il caso di spaccare il petalo in quattro. Altri tempi, altri nonsense. Del resto Panzeri e Ra­stelli fanno la figura di Dante e Leopardi se paragonati a Bob Mu­sel, spensierato artefice della versione inglese. La musa di Musel ispira al suo protetto rime di solare ubriachezza mediterranea, e fornisce un ritratto degli italiani che lascia perplessi:

All over Italy they know his concertina,
Poppa Piccolino, Poppa Piccolino!
He plays so prettily to every signorina
Poppa Piccolino from sunny Italy![3]

P.B.

Claude Monet, Les coquelicots, 1873. Parigi, Musée d’Orsay.





[1]Parole di De André e musica di Vittorio Centanaro, 1964.
[2]Mario Panzeri in una conversazione con Renato Pareti svoltasi prima della sua morte, avve­nuta nel 1991, e pubblicata nel numero di marzo-aprile 2009 della rivista Viva­Verdi.
[3]Musel, giornalista newyorkese trasferitosi a Londra, era stato un bravo corrispondente di guerra prima di sfondare come paroliere. La sua versione di Papaveri e papere, cantata da Diana Decker, ottenne nel Regno Unito un successo non inferiore a quello di Nilla Pizzi in Italia. Anche nei paesi di lingua tedesca la marcetta spopolò: era intitolata Die süßesten Früchte freßen nur die großen Tiere(I frutti più dolci se li pappano solo gli animali più grossi), e fu incisa da Peter Alexander e Leila Negra con un testo di Kurt Feltz.

Il Giuda di Oz

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Gerusalemme, Muro del pianto, 1991. Foto di Abbas (Magnum Photos).

Di insormontabili casini geopolitici trabocca il pianeta, ma nessuno produce disagio, smarrimento e senso di colpa quanto il conflitto arabo-israeliano. Da qualunque parte ti schieri, hai ragione. Da qualunque parte ti schieri, hai torto. I neutrali e gli indifferenti si rifugiano nella zuppa e nell’orto di casa, e sono i più fortunati. Altri propendono di qua o di là, con furore d’intensità variabile, taluni twittando anatemi in 140 caratteri o sparando rapide sentenze su Facebook. I restanti oscillano, a ogni episodio di violenza, fra la commozione per l’Olocausto e quella per il massacro di Sabra e Shatila, senza saper trovare dentro di sé alcun paletto al quale ancorare il proprio bisogno di saggezza. Ma, come ebbe a scrivere il solito La Rochefoucauld, «tutti abbiamo forza sufficiente per sopportare i mali altrui.»

Si dovrebbe anche avere forza sufficiente per tacere: almeno sui social network, che di sociale – quando si parla di politica – hanno solo la foga delle curve da stadio e delle diatribe da talk show. E anche un po’ di forza sufficiente per tentare di raccapezzarsi – ammesso che “raccapezzarsi” possa risolvere qualcosa – nelle tortuose strade, asfaltate di antiche e nuove intolleranze, che conducono a un vicolo cieco come quello.
Deserto del Sinai, giugno 1967. Truppe israeliane attraversano un campo di battaglia durante la Guerra dei sei giorni. Foto: Leonard Freed (Magnum Photos).

«La letteratura», secondo Julio Cortázar, «non è nata per dare risposte ma per fare domande, per inquietare, per aprire l’intelligenza e la sensibilità a nuove prospettive del reale.» L’ultimo romanzo di Amos Oz, Giuda, non solo allarga il ventaglio delle domande sulla questione Israele-Palestina, ma offre anche un generoso vassoio, se non di risposte, almeno di opzioni da cui ripartire per «aprire la sensibilità a nuove prospettive del reale.» La prima cosa da fare è sgombrare la mente da qualsiasi cliché retorico: confessionale, politico, sociale. È questo il primo degli insegnamenti impartiti al giovane Shemuel Asch, protagonista del libro che, a venticinque anni, per un dissesto finanziario del padre, si trova costretto ad abbandonare l’università e a cercarsi un lavoro. Ne trova uno alquanto singolare: fare da badante e compagno di conversazione a un decrepito sionista, intellettuale disincantato e logorroico, in cambio di vitto, alloggio e modesto stipendio.
Uno dei tanti disegni di studenti e insegnanti trovati nelle aule scolastiche di Gaza durante la Guerra dei sei giorni. Foto: Leonard Freed (Magnum Photos).

Nella lugubre abitazione di Gershom Wald, all’estrema periferia di Gerusalemme, il ragazzo non trova un maestro ma tre: l’affascinante quanto misteriosa padrona di casa, una certa Atalia, il cui legame con Wald non è subito chiaro; il vecchio professore bisognoso di cure; e persino un morto, l’idealista Abrabanel, che «aveva un bel sogno, e per quel sogno lo hanno chiamato traditore.» Da questo cast scaturisce un avvincente Bildungsroman a due vie: la formazione del lettore procede di pari passo con quella di Shemuel, al quale viene fornito un metodo d’indagine consistente nel fare tabula rasa di preconcetti e cliché. Shemuel, del resto, è un allievo goffo ma dotato; sta conducendo una personale ricerca su Gesù visto dagli ebrei, e nel corso della ricerca si è convinto che la figura di Giuda Iscariota, traditore per antonomasia, meriterebbe assoluzione piena e adeguata riabilitazione.
Marten de Vos, L’ultima cena, senza data. Tokyo, Museo nazionale dell’arte occidentale.

Quello del tradimento, più presunto che fondato, è un tema trasversale alla vicenda narrata da Oz, ricchissima di implicazioni filosofiche e morali. I tre maestri di Shemuel – il vecchio, il fantasma e la donna – sostengono punti di vista divergenti sul dilemma arabo-israeliano. Il vecchio è stato un deciso sostenitore del sionismo e della sua ala dura; ha creduto fermamente in Ben Gurion, nell’Agenzia ebraica, nella fondazione dello stato d’Israele, nella sua militarizzazione. Abrabanel, il sognatore morto in disgrazia e solitudine, era invece amico dei palestinesi, oppositore di Ben Gurion, convinto che ci fossero modi non militari per superare le incomprensioni fra ebrei e palestinesi; aveva sostenuto che fondare lo stato di Israele sarebbe stato un grave errore, e che tutti gli stati del mondo andrebbero disciolti, perché non sono altro che steccati, fomentatori di odio, intolleranza, arroccamento, separazione e conflitto. Atalia, dal canto suo, diffida di tutte le posizioni maschili, perché esse conducono, quale più quale meno, alla retorica e alla guerra.

Una densa ombra di fatalismo avvolge tutti e tre questi modi di pensare, soprattutto i due punti di vista maschili. Abrabanel, tacciato di tradimento ed espulso dall’organizzazione sionista per le sue idee controcorrente, si è rinchiuso in sé stesso e ha distrutto, prima di morire, tutti i suoi scritti, appunti e documenti, deluso dagli altri e da sé stesso. Di lui persiste nella casa un ricordo elusivo e controverso. Shemuel vorrebbe saperne di più, anche perché nella sua mente si va configurando un’analogia interessante fra Abrabanel e il Giuda delle sue ricerche; ma raccoglie dai sopravvissuti indizi evasivi e non trova tracce significative del pensiero del defunto in nessuna biblioteca, come se il mondo avesse voluto cancellare persino la memoria della sua esistenza.
Sinai, ottobre 1973. Soldati israeliani nel deserto durante la Guerra del Kippur. 
Foto: Micha Bar Am (Magnum Photos).

Gershom Wald non se la passa meglio di Abrabanel. Se quello era un perdente, questo lo è ancora di più. Intartarughito dall’età, dalle malattie, dai dolori personali e dalle delusioni politiche, è diventato più scettico di La Rochefoucauld sulle cose del mondo. Dovrebbe essere un cattivo maestro, ma non è così, perché dallo scetticismo c’è molto da imparare. «Io, mio caro, non credo nell’amore universale», dice al ragazzo. «L’amore esiste in dosi modiche. Si possono amare forse cinque fra uomini e donne, dieci magari, talvolta financo quindici. E anche questo solo assai di rado. Ma se uno arriva e mi dice che ama tutto il Terzo mondo, o ama l’America Latina, o ama il sesso femminile, quello non è amore ma retorica. Pura demagogia. Slogan.»

Per rincarare la dose, Wald sostiene che amore e odio sono sentimenti gemelli e che le incomprensioni che Abrabanel si illudeva di superare sono pura retorica buonista: «Tra ebrei e arabi non c’è e non c’è mai stata alcuna incomprensione. Al contrario. Ormai da qualche decennio c’è piuttosto un’intesa perfetta e assoluta: gli arabi di qui sono legati a questa terra perché è l’unica che hanno, non ne hanno nessun’altra, e noi siamo legati a questa terra per la medesima ragione. Loro sanno che noi non ci rinunceremo mai e noi sappiamo che loro non ci rinunceranno mai. Pertanto, ci siamo capiti benissimo.»
Alture del Golan. Autoveicoli siriani distrutti dall’aviazione israeliana. 
Foto: Bruno Barbey (Magnum Photos).

Atalia, che è donna dalla testa ai piedi e ancora di più, non soggiace né agli idealismi di destra né a quelli di sinistra. Forse è ancor più scettica del vecchio Wald, ma riserva la sua diffidenza a tutto il genere maschile, non solo per istinto ma anche e soprattutto per le esperienze vissute – sulle quali taccio per non rovinare a nessuno la lettura.

Lo scetticismo è positivo o negativo? Diciamo che è tutt’e due le cose: fertile perché sgombra il campo da un sacco di scemenze, spesso tragiche, diffuse in tutte le opinioni pubbliche del mondo; sterile perché, una volta ripulita la strada, lascia a ciascuna coscienza la responsabilità di reinventare sé stessa, l’etica, la vita.

Lo stesso Gershom Wald, dopo aver deriso gli utopisti, ammette: «Ti dico anche che malgrado tutto quello che ho detto prima, beati i sognatori e sventurati coloro che hanno gli occhi aperti. I primi non ci salveranno di certo, né noi né i loro discepoli, ma senza sogni e senza sognatori la maledizione peserebbe mille volte di più.»
Le rovine di Lydda (Lod) dopo l’offensiva israeliana del 1948.

Giudaè un libro bellissimo e Oz meriterebbe il Nobel per averlo scritto. Nobel per la letteratura o per la pace, a piacere. Un romanzo di profondità rara e toccante, capace di mobilitare riflessioni non banali sulla natura e la sostanza delle religioni, delle ideologie, della storia. Con un plot non meno suggestivo delle sue provocazioni filosofiche, antropologiche e morali: chi sono, in realtà, i personaggi della vicenda? Quale relazione esiste o è esistita tra loro? Perché vivono o hanno vissuto nella stessa casa?

A queste domande il lettore troverà, ovviamente, la risposta al momento giusto. A quelle più sottili, altrettanto ovviamente, non c’è risposta, perché ha ragione Cortázar. Le ultime cinque parole del libro sono un colpo di genio. Ma io non ve le dirò: ciascuno dovrà trovarsele da solo.

© Pasquale Barbella

Amos Oz: Giuda
Traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal
Feltrinelli, 2014

Maps to the Farts

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Fa quasi tenerezza la scena in cui Sterl (l’attore Jonathan Watton), completamento nudo e visibile dalla faccia ai piedi, si masturba seduto in poltrona davanti alla macchina da presa: è il momento più rilassato di Maps to the Stars, l’ultimo film di David Cronenberg. Il resto comprende, in ordine alfabetico: Aggressioni paterne a figlia psicolabile, Assassinio mediante spaccamento di cranio, Commercio di feci, Coprofilia, Coprolalia, Deiezioni, Incesti multipli, Matricidio, Matrimonio tra consanguinei, Pedofilia, Perversioni di adulti e bambini, Peto, Piromania, Psicopatologie estreme, Puzza umana, Sesso a tre, Sesso anale in limousine, Sfruttamento minorile, Spargimento volontario di liquido mestruale su divano da 18.000 dollari, Stalking, Strangolamento, Tossicodipendenza infantile, Trattamenti psicoterapeutici a base di sadomasochismo, Turpiloquio spinto, Urlo di gioia per annegamento di bambino. Manca qualcosa di sicuro; se me ne ricordo lo inserirò in un secondo tempo.
John Cusack interpreta il ruolo di un carismatico quanto discutibile psicoterapeuta di star. 
Anche lui ha molto da nascondere nel film di Cronenberg.

Mi rendo conto che un elenco come questo dice poco del film. Del resto nemmeno Pasolini scherzò, con Salò o le 120 giornate di Sodoma; senza contare dozzine di horror e action movies dove gli squartamenti si sprecano, tanto per limitarci alla sola estetica criminale. Il fatto è che Cronenberg non è meno ambizioso di Pasolini, e certamente ha voluto dirci qualcosa di molto acuto con Maps to the Stars. Escludo che la sua intenzione sia stata quella di stigmatizzare i vizi e le assurdità di Hollywood Babylon. Troppo facile: e comunque altri ci hanno pensato prima di lui, con film più avvincenti del suo. Conoscendo il curriculum del regista (che include opere di vario spessore, talvolta eccelso) e le tematiche che gli sono più care, viene da pensare che ancora una volta abbia voluto affrontare il mistero dell’eterno dualismo fra il corpo e la mente. Sembra dirci, l’autore canadese qui per la prima volta in azione negli States, che il corpo è innocente e ingiudicabile di default, mentre le infrazioni e le colpe vengono tutte dalla psiche. Oddio, non mi pare una grande scoperta.
Julianne Moore nel ruolo di un’attrice in declino ancora più nevrotica 
di Gloria Swanson in Viale del tramonto di Billy Wilder.

Ma una tesi è una tesi, e per ragionevole o bislacca che sia impone a sceneggiatori e registi l’obbligo di un saldo impianto progettuale e narrativo. Troppi colpi di scena, per esempio, deprimono l’attenzione invece di eccitarla. Idem per qualsiasi altro tipo di eccesso: uno ti prende e ti perturba, cento ti ammosciano. Maps to the Stars produce un grottesco effetto barocco che starebbe in piedi solo se si trattasse d’un film satirico. E qua e là strappano anche una risata, le situazioni e i dialoghi allestiti dal perfido sceneggiatore Bruce Wagner. Ma la cifra del progettaccio è più tragica che umoristica. Per funzionare, il black humour richiederebbe un dosaggio più accorto degli ingredienti.
Evan Bird è il tredicenne che nessun genitore vorebbe avere come figlio, 
a meno di non poterne ricavare qualche milione di dollari. 

Non c’è dubbio che Wagner e Cronenberg morissero dalla voglia di épater le bourgeois. Ci sono riusciti, ma così sono capaci tutti. Date a un regista di visionario talento tutto ciò che vuole (un cast formidabile, un cinematographer come Peter Suschitzky, un soundtrack di Howard Shore) e il risultato non può che spaccare: non succede mica tutti i giorni di vedere Julianne Moore seduta sul cesso mentre strapazza una torbida assistente dal volto ustionato (Mia Wasikowska), o Evan Bird (tredici anni all’epoca delle riprese) che commette più trasgressioni di quante possa averne catalogate il Doktor Freud.
Mia Wasikowska compie azioni orribili, ma è paradossalmente il personaggio 
meno ripugnante di tutti in Maps to the Stars.

Narcisismo, ambizione, cinismo senza freni e, soprattutto, sete implacabile di soldi e successo: questa, sì, è la miscela che spinge alle peggiori nefandezze, secondo Wagner e Cronenberg. Come dargli torto? L’avidità, la rapacità, l’egocentrismo come scatenati intermediari tra la mente e il corpo (il proprio e l’altrui). Ma se tutti, proprio tutti, i personaggi della vicenda fanno a gara di contorsione psichica e morale, la tesi diventa orfana di dialettica. Credo che l’essenza della drammaturgia stia nello scontro di posizioni o situazioni conflittuali, mentre qui tutti duellano con tutti, compresi sé stessi e i fantasmi che popolano i loro incubi. Da Maps to the Stars si esce più frastornati che inquieti o, semplicemente, divertiti.

© Pasquale Barbella
Robert Pattinson ha l’aria del bravo ragazzo, ma fa in fretta a lasciarsi corrompere 
dal malefico mondo di Hollywood e a tradire chi si fida di lui.

Maps to the Stars. Regia: David Cronenberg. Sceneggiatura: Bruce Wagner. Fotografia: Peter Suschitzky. Musica: Howard Shore. Cast: Julianne Moore, Mia Wasikowska, John Cusack, Evan Bird, Olivia Williams, Robert Pattinson, Sarah Gadon, Jonathan Watton, Gord Rand, Justin Kelly. Prospero Pictures, Sentient Entertainment, SBS Productions, Integral Film. Canada-Germania-Francia-USA, 2014.


BGS story/1

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Penne all’arrabbiata, 1990. Annuncio di lancio dell’agenzia BGS.


Questa non è propriamente la storia di un’agenzia pubblicitaria che non c’è più, ma la storia delle sue relazioni pubbliche. La rievoco volentieri perché contiene, a distanza di dodici anni dall’estinzione del soggetto, vari elementi di attualità. Non solo perché la BGS affrontò fin dai suoi esordi le minacce di una crisi economica e le prospettive di un’epocale rivoluzione tecnologica, ma anche perché il mercato della consulenza organizzata, nel frattempo, ha subìto scosse non lievi e molte imprese sembrano aver smarrito lo smalto e la credibilità di un tempo. Ho la speranza che questo racconto possa suggerire qualche utile pretesto di riflessione sul ruolo della comunicazione e di chi se ne occupa; sulla costruzione di un’identità aziendale, a qualsiasi settore le imprese appartengano; sulle modalità di progettazione di un programma di relazioni pubbliche; e soprattutto sulla necessità, etica e pratica, di fondare la comunicazione sui fatti – specifici, concreti, visibili e legali.

BGS ebbe una storia di indubbio e riconosciuto successo. La sua fine non ha nulla a che vedere con il valore del lavoro svolto: fu determinata dalle scelte finanziarie e dalle politiche dei network e delle holding internazionali da cui era controllata. Al momento del suo assorbimento in altre strutture del sistema di appartenenza, nessuno dei fondatori italiani deteneva ancora quote personali nella società; essi stessi, inoltre, erano prossimi a lasciare l’azienda, per limiti d’età o per seguire nuovi interessi.

Questa ricostruzione cerca di rispondere a due domande che mi sono sentito rivolgere più d’una volta, nel corso della mia attività professionale: la qualità di ciò che produci è sufficiente, da sola, a decretare il successo o l’insuccesso della tua impresa? In caso negativo: che altro puoi fare per rendere più visibile e attraente il tuo lavoro?

Il campo che conosco meglio è quello delle agenzie di pubblicità, ma non escludo che la singolare esperienza BGS possa tornare di qualche utilità anche a chi opera in altri settori – soprattutto nell’area dei servizi e, in modo particolare, di quelli che implicano forme di consulenza autoriale.

La risposta alla prima domanda è facile: un “no” secco. La dimostrazione sta nel fatto che di solito, almeno in Italia, i committenti mettono in gara diversi consulenti sullo stesso progetto; il che vuol dire che non ne conoscono bene nessuno, o che nessuno reputano idoneo a priori alla migliore soluzione dei loro problemi. Ci sono anche utenti informati sul lavoro prodotto da una o più agenzie, e magari ben disposti verso una di esse; ma sentono sempre il bisogno impellente di metterla alla prova, di sfidarla creandole ostacoli d’ogni tipo, a cominciare dalla competizione contro terzi. Ho avuto un cliente che, nell’arco di un decennio, ha messo in gara me e la BGS non meno di quindici volte, sebbene più che soddisfatto del nostro lavoro.

Che altro bisogna fare, dunque, per vincere più spesso le gare o almeno per conquistare una fiducia che duri più a lungo di dodici mesi? A questo la case history BGS cercherà di rispondere rivelando una serie di esperienze di cui mi preme subito sottolineare la sostanza etica e professionale. Niente tangenti e puttane in albergo, per intenderci. Solo lavoro, passione e cultura: merci che bisogna non solo maneggiare con la debita competenza, ma anche imparare a vendere.

Devo partire un po’ da lontano.


Abbiate pazienza. Devo partire un po’ da lontano perché i progetti autopromozionali della BGS (1990-2003) sono nati molto prima che nascesse la BGS. Sono nati quando la B (Barbella) era ancora separata dalle altre iniziali (Gagliardi e Saffirio), e il motivo che le condusse all’unione stava proprio nelle affinità di cui sto per dirvi.

Tra B e GS c’era un distanza di 134 km, la stessa che separa il corso Europa di Milano dalla via Galileo Ferraris di Torino. La Torino pubblicitaria era il regno incontrastato di Armando Testa, che vi aveva fondato il suo studio già nel 1956; mentre Milano era sede di numerose agenzie, internazionali e non. A Milano c’era ovviamente molta concorrenza, ma anche una community fortificata dall’associazionismo e dai frequenti spostamenti di persone da un’agenzia all’altra. Tutti conoscevano tutti. Torino era più isolata. Il lavoro di Testa era visibile dappertutto, ma a Milano non sapevamo nulla degli altri torinesi. Solo nella seconda metà degli anni settanta cominciarono a farsi notare altre agenzie di Torino: soprattutto la Canard, e – con minore appariscenza – la CGSS, impresa in silenziosa ma continua ascesa, fondata nel 1968, con altri, da Pietro Gagliardi e Silvio Saffirio.

Dai musei di Torino ai muri della città, 1977. Iniziativa spontanea della CGSS per accreditarsi come operatore culturale di primo piano presso le istituzioni, le aziende pubbliche e private e l’opinione pubblica della città.

Della CGSS mi colpì, nel 1977, un’iniziativa locale ma di stampo alquanto “londinese”. A Torino l’agenzia aveva pensato di sfruttare gli spazi vuoti che, nei grandi centri, l’estate infligge alle concessionarie di pubblicità esterna, occupandoli con riproduzioni di opere d’arte presenti nei musei della città. Si andava dalla Visitazione di Rogier van der Weyden al Mosè salvato dalle acque di Paolo Veronese, da Lo specchio della vita di Pellizza da Volpedo alla Bozza manifesto 1920 di Max Ernst. Insolito arredo urbano, invito a visitare le collezioni ed esperimento di relazioni pubbliche, grazie alla presenza – assai discreta – della frase «Questa iniziativa è stata realizzata da CGSS Marketing & Advertising, CTM Fotolito, AGES Arti Grafiche e TECNE  Affissioni», elenco che fa pensare a un investimento a costo zero. Da sempre ero interessato alle azioni di self branding, e soprattutto alle “uscite di campo” – ovvero alle sortite non strettamente classificabili come “pubblicità” da parte di operatori del settore. 

Una delle opere della collezione d’arte contemporanea prodotta da CGSS e BGS nel corso degli anni.

Scoprii in seguito che fin dal 1968 la CGSS commissionava ogni anno, ad artisti del calibro di Ugo Nespolo, Enrico Baj, Emilio Scanavino, Aldo Mondino, Renato Volpini, Concetto Pozzati, Piero Gilardi, Gino Marotta e Alik Cavaliere, serigrafie, sculture componibili, ceramiche d’arte da destinare a clienti e amici dell’agenzia, in forma di multipli controllati, numerati e autografati dai rispettivi autori. Non era semplice calcolo, ma passione: non a caso Pietro Gagliardi è oggi titolare di una galleria d’arte contemporanea a Torino.

La campagna Cori contro gli stereotipi femminili fece molto parlare di sé alle soglie degli anni ottanta.

Alle soglie degli anni ottanta recensii con favore una campagna della CGSS che stava suscitando consensi e polemiche: «Né strega né madonna. Solo donna.» Era una esplicita presa di posizione contro l’atavico sessismo italiano, attribuita alla marca femminile (Cori) del Gruppo finanziario tessile (GFT). Ancora una volta, su tutt’altro versante, ammirai lo sconfinamento della comunicazione commerciale in campi tematici estranei, almeno in apparenza, allo scopo principale dell’investimento. La campagna era stata concepita per un cliente, ma contribuì non poco alla notorietà dell’agenzia e allo sviluppo della sua immagine. Il poco che allora sapevo della CGSS sarebbe confluito, dieci anni dopo, in una precisa ed efficace strategia di self-promotion per la BGS.

CPV e altre sigle


Mentre questo avveniva a Torino, io stavo in CPV (Colman Prentis and Varley), unità italiana – dal 1952, dunque dagli albori della pubblicità moderna in Italia – di un piccolo network nato a Londra nel 1934 e poi passato agli americani del gruppo Kenyon & Eckhardt. La sede milanese della CPV aveva una storia gloriosa. Era cresciuta a dismisura negli anni cinquanta e nella prima metà dei sessanta, attestandosi come la più grande e autorevole fabbrica di pubblicità del nostro paese. Ai tempi d’oro era dotata, tra l’altro, di sala di proiezione, laboratorio di montaggio con moviola, cucina sperimentale, ufficio di P.R., reparto marketing, laboratorio fotografico, redazione di house organ per clienti,  apparato interno per la realizzazione di ricerche di mercato e motivazionali. La chiamavano “nave scuola” per aver allevato due o tre generazioni di professionisti e aveva goduto di immenso credito, avendo realizzato – tra l’altro – il primo “Carosello” della storia. Ma negli anni settanta era in netto declino, nonostante la qualità riconosciuta del suo lavoro. Ebbe un momento di ripresa con l’assunzione di un nuovo direttore creativo, Luigi Montaini Anelli, proveniente da esperienze internazionali. Ma poi il flusso negativo continuò, nonostante i molti premi vinti dallo staff creativo.

Ero uscito e tornato dalla CPV un paio di volte, e all’ultimo dei miei rientri (siamo già nei primi anni ottanta) mi impegnai – tra l’altro – in una serie di campagne di self-promotion, apprezzate più nel nostro ambiente che dai soci dell’UPA (Utenti pubblicità associati). Nel frattempo un network di Omaha (Nebraska) in irresistibile ascesa, Bozell & Jacobs, comprò la rete Kenyon & Eckhardt e rivendette rapidamente sé stessa e la K&E alla Lorimar, una compagnia televisiva di Los Angeles (Dallas, Falcon Crest) che aspirava ad occupare buona parte dei settori mediatici (tv, cinema, advertising e altro).



Annunci di una campagna autopromozionale dell’agenzia CPV, Kenyon & Eckhardt, 1982.

In Italia continuava la discesa della CPV. Al punto che Tullio Cottinini, amministratore delegato succeduto all’inglese Jimmy Teale, cominciò a guardarsi intorno, alla ricerca di qualche promettente agenzia tutta italiana da far comprare agli americani per fonderla con l’ex nave scuola.

Si imbatté quasi subito in Pietro e Silvio, che a loro volta stavano cercando un network internazionale al quale affiliarsi per uscire dal limite regionale in cui erano costretti a operare (la quasi totalità dei loro clienti, da Fiat in giù, era di casa in Piemonte). Si piacquero. Le due agenzie si fidanzarono, in attesa che da Omaha o Los Angeles arrivasse il nulla osta al matrimonio. Ci conoscemmo e ci scambiammo dei servizi.

L’America non era sfavorevole al connubio, ma aveva altre gatte da pelare. Lorimar aveva fatto un bagno di sangue a causa di una produzione nella quale aveva investito una montagna di dollari. Power, un film (molto sottovalutato, a mio personale avviso) di Sidney Lumet con Richard Gere e Gene Hackman, andò in perdita e la Lorimar, spaventata, mise in vendita – per rifarsi – l’ultimo dei gioielli acquistati: la Bozell, Jacobs, Kenyon & Eckhardt con tutti i suoi annessi e connessi. Per non vedere dissipata la loro creatura, alcuni dirigenti della Bozell – a cominciare dal CEO, Charles “Chuck” Peebler – decisero senza indugio di ricomprarsela pagando di tasca propria. Il buyout gli portò via tempo e denaro, tanto che la questione milanese dovette apparire troppo secondaria per meritare la loro sollecitudine. Risultato: da Parigi arrivò a Torino un emissario del gruppo Bélier e piazzò sul tavolo della CGSS un’offerta irrifiutabile. Prendere o lasciare. Sul più bello il nostro partner potenziale sparì dalla scena, perché Parigi era stata più lesta di Omaha. Ma il breve periodo di ufficiosa convivenza aveva cementato una complicità che sarebbe sfociata, nel 1990, nella fondazione della BGS.

La nuova agenzia


La CGSS era intenzionata ad aprire un ufficio a Milano per incrementare le opportunità di mercato. Anche se ora faceva parte di un network internazionale, era in Italia che poteva e doveva crescere; e l’Italia pubblicitaria aveva in Milano la sua capitale. Dopo lungo e sfibrante corteggiamento, i torinesi mi convinsero a entrare in combutta con loro.

All’epoca dell’accordo (1989), l’agenzia aveva come partner di maggioranza il gruppo EWDB (Eurocom/WCRS/Della Femina, McNamee WCRS/The Ball Partnership), frutto di una serie di fusioni originate dal gruppo Bélier nel pieno della sua espansione angloamericana. Ma manteneva un’identità marcatamente italiana, perché italiani erano i suoi fondatori e i suoi clienti.

L’ufficio milanese, affidato alle cure dei nuovi soci (Giancarlo Villa ed io) e senza l’ombra di un cliente, aprì i battenti con quattro persone (le altre due erano Agostino Toscana, art director e Teresa Bertolotti, segretaria) il 1° febbraio 1990, in un appartamentino nei pressi di corso Venezia.

Il connubio tra CGSS e i “milanesi” colse di sorpresa il milieu pubblicitario. Torino e Milano erano viste allora come entità culturalmente distanti e incompatibili: solo alla Armando Testa era riuscito di occupare la piazza ambrosiana, ma le sue dimensioni – e la notorietà del titolare – erano ben altre. In realtà le affinità tra CGSS e i nuovi complici superavano, per spessore se non per quantità, le differenze di esperienza, di metodo e di atteggiamento (per dirne una: a Torino si davano tutti del lei, a Milano tutti del tu).

Per dare vita alla BGS avevo lasciato la presidenza della Bozell e arruolato, nella compagine societaria, un ex collega, Giancarlo Villa, che ricopriva un incarico di rilievo nell’agenzia di Emanuele Pirella e Michele Göttsche. Sono fedele per natura e non avrei abbandonato la Bozell se i miei nuovi interlocutori – Pietro Gagliardi, Silvio Saffirio e il patron della loro holding di riferimento in Italia, Carlo Camera – non mi avessero convinto con le loro argomentazioni. Ma la simpatia che provavo per i torinesi (allora li chiamavo “gli alieni”) derivava dai fatti che ho descritto. Quei fatti costituiscono l’ossatura iniziale di questa case history.

Sebbene defilata (per ragioni logistiche ma anche per severo ritegno piemontese) dai centri nevralgici dell’advertising community, la CGSS si era distinta nettamente dalla concorrenza in almeno tre aree:

     L’attenzione alle tecnologie: la prima agenzia a vantare «un computer su ogni tavolo»;

     La solida imprenditorialità: forse l’unica agenzia a essersi dotata, in epoca pre-digitale, di un impianto interno per la stampa immediata di materiali promozionali e finished layout;

     La qualità delle relazioni pubbliche, spesso imperniate sul mondo dell’arte.

Obiettivi e strategia di self branding


Tutte le agenzie di pubblicità, da sempre, destinano una piccola parte del loro tempo e delle loro risorse ad attività di autopromozione. Lasciamo perdere le partite di golf o di squash giocate tra manager d’agenzia e manager della committenza, o altri stratagemmi volti alla solidificazione del cameratismo tra individui. La BGS ambiva a superare questo piccolo cabotaggio individuale e a proporsi pubblicamente per quello che era: una società.

L’obiettivo fu subito ambizioso, ma chiaro: farci percepire come l’agenzia più attenta a quanto le succede intorno, includendo in quel “quanto” l’attualità, l’economia, la cultura, l’arte, lo spettacolo, gli scenari internazionali, le tendenze del costume. Perché? Perché se la pubblicità è lo specchio dei tempi, bisogna conoscere i tempi e azzardare previsioni.

Il punto di forza di un posizionamento come questo consiste nel tirarsi fuori dai rituali di una competizione diretta, prevedibile e snervante. Il nostro interesse non stava nel presumere o sbandierare primati – veri o immaginari – sulle altre agenzie. Consideravamo i nostri concorrenti come un target da corteggiare, anziché come un nemico. Se un rivale parla bene di te, sei a cavallo. Il che implica, detto per inciso, che non puoi accettare gare al ribasso: errore che BGS si guardò bene dal commettere.

L’obiettivo segreto – spudorato, ma perseguibile – era quello di assumere la guida culturale del nostro settore di appartenenza: una specie di leadership, ma di quelle che non si misurano necessariamente o soltanto sulla base dei budget e dei premi.

Per raggiungere l’obiettivo, BGS doveva trovare il modo di coinvolgere diverse fasce di pubblico. Non solo i clienti acquisiti e i clienti potenziali, ma anche:

     I media;

     I fornitori;

     Le scuole e le università;

     I sociologi e gli esperti di costume;

     Il personale interno;

     I partner internazionali;

     L’opinione pubblica in generale.

Gli strumenti scelti per «muoversi da protagonisti assumendo la leadership culturale della categoria» furono tanti:

     Promozioni e sponsorizzazioni culturali;

     Mostre e altri interventi pubblici;

     Miniconvegni e miniseminar;

     Pionierismo tecnologico;

     Annunci pubblicitari (non solo sui media specializzati ma anche sui principali quotidiani e periodici nazionali);

     Esposizione personale dei soci (eventi pubblici, università, media).

Risultati desiderati. Diventare:

     L’agenzia che i clienti vorrebbero scegliere o, almeno, conoscere da vicino;

     L’agenzia da cui i concorrenti e gli aspiranti vorrebbero essere assunti;

•  L’agenzia che considera la pubblicità parte di un contesto più ampio e articolato.

Quando le grandi manovre cominciarono, sapevamo di avere anche delle debolezze. Eravamo in una rete internazionale, ma non avendo da essa ereditato budget significativi fummo inizialmente percepiti come una boutique creativa di modeste dimensioni. Capace, sì, di gestire budget anche importanti della Fiat, ma confinati in una dimensione provinciale e senza agganci con l’estero, mentre tutta l’economia si andava spostando sul globale.

Probabilmente non fu solo per abilità ma anche con un po’ di fortuna che riuscimmo, già nei primi anni, a connotarci come una miscela di benzina creativa e vocazione multinazionale. Riuscimmo persino a dimostrare di poter stare alla pari dei nostri headquarters (prima parigini e poi, dal 1996, americani), esportando all’estero molti più progetti di quanti potessimo importarne.

Nel 1984, la CGSS aggiunge alla sua firma il nome del network Kenyon & Eckhardt. Non si tratta di una fusione ma di una joint-venture con la CPV. L’immagine presenta un’operazione realizzata con il quotidiano La Stampa: l’ultima pagina del giornale ospita opere di artisti contemporanei anziché la solita pubblicità.

Il ruolo dell’arte nella costruzione dell’immagine BGS


A partire dal 1984, le iniziative “artistiche” della CGSS si erano spinte molto avanti. In collaborazione con La Stampa, l’agenzia aveva messo a disposizione di numerosi artisti contemporanei l’ultima pagina del quotidiano. In estate, quando gli spazi pubblicitari del giornale subivano un calo, l’ultima pagina diventava una vetrina di opere d’arte create ad hoc. L’esperienza fu ripresa nel 1989 con una novità di notevole impatto. Nella notte fra il 23 e il 24 settembre, l’artista Ugo Nespolo estraeva a caso, dalle rotative, 500 copie de La Stampa che riproduceva in ultima pagina una sua opera. Le personalizzava con interventi cromatici, una ad una, e dopo averle autografate le rimetteva nel normale ciclo di distribuzione. Nasceva così l’instant art, ovvero l’arte in diretta: un modo singolare di fare arte, che richiese all’artista non soltanto la dovuta carica di entusiasmo, ma anche un impegno fisico non trascurabile. La mattina dopo, una domenica, cinquecento lettori trovarono, nella loro copia de La Stampa, un dono inaspettato, unico e irripetibile.

Torino, 23-24 settembre. L’artista Ugo Nespolo interviene su 500 copie de La Stampa, modificando e autografando in diretta la riproduzione di una sua opera.

Anche la collezione di multipli natalizi era cresciuta. Alla serie si erano aggiunti lavori di Emilio Tadini, Gianfranco Pardi, Lucio Del Pezzo, Beppe De Valle, Art Kane, Fulvio Roiter, Giulio Paolini, Franco Fontana, Michelangelo Pistoletto, Valerio Adami. Nel 1988, le opere prodotte fino all’anno precedente furono esposte all’Arengario di Milano, in una mostra intitolata CGSS 1968-1987: L’arte della pubblicità, con un catalogo commentato da Gillo Dorfles.

La collezione continuò a crescere negli anni BGS fino a sfociare in una nuova mostra, questa volta al GAM di Torino, nel 1993. Titolo: Quasi una collezione. 25 anni di complicità con gli artisti contemporanei e l’agenzia di pubblicità Barbella Gagliardi Saffirio. Nel catalogo testi di Gillo Dorfles, Piero Gilardi, Aldo Grasso, Ugo Nespolo, Lalla Romano e Paolo Verri.

Piero Gilardi allestì due diverse installazioni negli atrii d’ingresso delle sedi BGS, una a Torino e una a Milano. Il benvenuto ai visitatori era di questo stampo, e non li lasciava indifferenti. Quando, nel 1992, la sede milanese superò i sessanta collaboratori (grazie alle gare vinte e anche all’assorbimento di una piccola agenzia, Azzurra, condotta da Stefano Pesce), il nuovo ufficio di via Zebedia, a due passi da piazza Missori, fu inaugurato con una mostra personale di Piero Gilardi e al vernissage furono invitati non solo i clienti, i fornitori, gli amici e le famiglie, ma anche i nuovi vicini di casa.

Vittorio Storaro: Un percorso di luce. Catalogo edito da Allemandi in occasione della mostra omonima nell’ambito della terza edizione della Biennale Internazionale di Torino Fotografia 89 (Torino, Palazzina della Promotrice delle Belle Arti, 19 ottobre - 19 novembre 1989). La mostra ebbe luogo in concomitanza con la costituzione ufficiale della BGS e concorse al pre-lancio della nuova società.


«Convincere un’azienda a sponsorizzare una mostra d’arte è sempre stata impresa ardua», commentava Saffirio nel catalogo Quasi una collezione. «Una difficoltà che in più di un caso ha suggerito all’agenzia Barbella Gagliardi Saffirio di evitarsi le faticose negoziazioni relative e di tenere per sé le piccole grandi gioie del mecenatismo culturale.» Con questo spirito furono sostenute, negli anni novanta, mostre come quelle sulla cinematographydi Vittorio Storaro, tenutasi alla Promotrice delle Belle Arti di Torino; la collettiva Ecbatana – Immagini e scritture da una città invisibile nella chiesa di San Filippo Neri a Torino; Regards sur la femme: Sculptures, peintures, dessins, photos, bijoux, couture (un excursus sull’immagine femminile nelle arti e nell’artigianato del Novecento) nella storica cornice dell’Hôtel de la Monnaie di Parigi; Le projet Ixiana di Gilardi al Musée des Arts Décoratifs del Louvre di Parigi. Queste ultime due mostre avevano il compito di fare impressione sul gruppo Eurocom e di consolidare, presso i partner francesi, l’idea dell’autorevolezza imprenditoriale e multidisciplinare dei pubblicitari italiani.

(1 - Continua)


Regards sur la femme, catalogo della mostra alla Monnaie de Paris, 1993. 
Tra sponsor giganteschi compare anche la piccola Barbella Gagliardi Saffirio.



Piero Gilardi: Le projet Ixiana, 1989/1990. Mostra patrocinata da BGS al Musée des Arts Décoratifs del Louvre, Parigi.

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Penne all’arrabbiata


Il lancio della nuova compagine societaria e della nuova ragione sociale (BGS) fu anticipato da azioni teasing, rumorose ma reticenti: il sipario si alzava, si accendevano i riflettori ma gli attori non comparivano ancora sulla scena. Il nostro coinvolgimento nella mostra di Vittorio Storaro e un annuncio nel paginone centrale de La Stampa facevano parte del nostro trailer.


Pre-lancio di BGS su La Stampa di Torino (totale e dettaglio), 1989.

Nel paginone de La Stampa, intitolato «Avere un nome fa bene. Cambiarlo fa meglio», compariva un elenco di 111 personalità, città, enti e sostantivi comuni che hanno avuto successo con un nome cambiato. Frederick Austerlitz = Fred Astaire, Norma Jean Baker = Marilyn Monroe, etc. L’ultimo cambio di nome riguardava il PCI, che stava cercando la sua nuova identità dopo il recente abbattimento del Muro di Berlino; l’elenco, pertanto, si concludeva con: Partito Comunista Italiano = ? In rigoroso ordine alfabetico, ma evidenziati in grassetto, erano compresi i cambi di nome da CGSS a Barbella Gagliardi Saffirio, da Bélier WCRS a Eurocom WCRS Della Femina Ball e da Eurocom WCRS Della Femina Ball a EWDB – mutamenti di naming avvenuti quasi simultaneamente. In quel periodo anche il nostro partner di maggioranza si stava dando molto da fare.

Subito dopo producemmo un nuovo annuncio-stampa per comunicare chi c’era dietro la BGS e cosa si proponeva di fare la nuova società. Accanto al titolo Penne all’arrabbiata c’erano le firme dei partner stilate con altrettante Aurora 88, uno dei clienti della sede torinese. Il testo era lo squillo di tromba per la riscossa di una creatività supportata non solo dal razionalismo e dalla qualità dei servizi, ma anche da una coscienza imprenditoriale nient’affatto inferiore a quella dei nostri clienti.
Toscana-Barbella, fotografo Antonio Capa, 1990.

Finiti i festeggiamenti, ciascuno si ritirò nel suo ufficio per rimboccarsi le maniche. A Milano non avevamo ancora nessun cliente (il precedente contratto con Bozell mi impediva di contattare i suoi), ma facevamo più rumore possibile per incuriosire il mercato ed entrare in qualche gara. Nessuno di noi era del tutto sconosciuto, ma quel nuovo assortimento di nomi aveva bisogno della massima visibilità. A lungo evitammo di presentarci con la sigla BGS inducendo le centraliniste a pronunciare la ragione sociale per esteso. Scoprimmo che tutti e tre i nomi venivano storpiati in vario modo nella corrispondenza. Collezionai le buste con gli errori per esibirle in un annuncio intitolato «Chi si rivolge a Barbella Gagliardi Saffirio non sbaglia mai.» Usammo tutti i pretesti immaginabili per promuovere la nostra notorietà, adottando un tono scanzonato e talvolta provocatorio. Sulla rivista di bordo dell’Alitalia uscimmo con una doppia pagina di rara perfidia: «Se la sua pubblicità fa questo effetto, provi a cambiare agenzia.» L’immagine mostrava, appena usato e tenuto cautamente fra due dita, uno dei sacchetti di vomito in dotazione ai passeggeri in volo. L’AssAP, che era allora la nostra associazione di categoria, mi convocò indignata per farmi una severa lavata di testa. L’annuncio aveva fatto arrabbiare tutti gli associati, tranne i creativi. Dal punto di vista della nostra strategia, non ho difficoltà ad ammettere che fu una mossa sbagliata. Non avevamo bisogno di nemici, ma di amici. In seguito affinammo i nostri strumenti di autopromozione, rifuggendo da episodi scopertamente e offensivamente comparativi.

Annuncio sulla rivista di bordo Alitalia, 1990. Art: Agostino Toscana. Fotografo: Stefano Massei.

Quando Jerry Della Femina, da poco importato nel gruppo Eurocom, venne a visitarci, i miei soci torinesi non si lasciarono sfuggire l’occasione di esibirlo come testimonial. Jerry era una leggenda del copywriting. Era, tra l’altro, autore di un divertente best-seller uscito nel 1970, From Those Wonderful Folks Who Gave You Pearl Harbor, uno dei materiali che hanno ispirato la serie Mad Men. Della Femina aveva già proposto quel titolo provocatorio per una campagna di lancio della Panasonic negli Stati Uniti, idea ovviamente bocciata e rimasta nel cassetto. Dal momento che il mad man statunitense era un idolo anche per i creativi italiani, i miei soci gli organizzarono un intervento pubblico al Museo dell’Automobile per galvanizzare i suoi fan.


Jerry Della Femina a Torino, 2 aprile 1990.

Per dare visibilità all’agenzia e al suo stile mettemmo del pepe ovunque fosse possibile, persino nei piccoli avvisi di recruiting. Cercammo per Torino un «copywriter a colori» chiedendogli, insieme al curriculum, due pagine dattiloscritte sul tema «Rosso e blu», i colori del nostro logo. Vinse un ragazzo che aveva scritto due pagine per denigrare in cento modi il rosso, firmandole “Blu”. Si chiamava (si chiama) Aurelio Tortelli, ed è attualmente la T di un’agenzia importante, la STV DDB.
Recruiting.


Sfatare false impressioni


Queste incursioni nell’umorismo favorivano moti di simpatia, ma nei primi tempi sentivamo di essere considerati troppo piccoli: un’allegra brigata di creativi d’assalto, che non aveva ancora dimostrato niente e mancava persino di un portfolio clienti. Piccoli eravamo davvero, a Milano; ma a Torino c’era un’agenzia più che consolidata, in grado di offrire servizi sofisticati a clienti di calibro Fiat. Dovevamo correggere la falsa impressione di essere una boutique di esordienti. A Milano potevamo contare su tutti i servizi di Torino, dalle elaborazioni strategiche sui media alla produzione e quant’altro. Sui trade magazines feci circolare un annuncio semiserio sulle ricerche di mercato. Riportava una serie di dati statistici commentandoli così: «L’agenzia di pubblicità Barbella Gagliardi Saffirio ha, tra Torino e Milano, 34 collaboratrici e 38 collaboratori di età compresa tra i 20 e i 55 anni. In media, ciascuno rappresenta un nucleo familiare di 3 persone. Indichiamo qui di seguito, per alcuni settori merceologici, le marche più presenti nelle loro abitazioni il giorno 22 febbraio 1991.» A questo seguiva un primo elenco. «Se operate in questi o altri settori e volete mettere alla prova la nostra sensibilità sulle questioni che riguardano il vostro mercato, fateci un fischio. Per vostra comodità indichiamo ora i prodotti e le marche su cui siamo già impegnati.» (Secondo elenco).

Nel 1991, una rivista di marketing diffusa in vari paesi europei ci regalò una pagina. In quel momento non si parlava d’altro che di Tangentopoli, anche sulla stampa straniera. La nostra immagine nazionale, già fortemente incrinata dalle mafie (famosa la copertina di Der Spiegel con la pistola nel piatto di spaghetti), subiva un altro durissimo colpo. Decidemmo di fare un po’ di autoironia, pubblicando lo still life di una casacca carceraria elegantemente confezionata in una scatola da abbigliamento di moda. Il titolo era in forma di domanda: «Is Italian lifestyle changing faster than advertising?» Questo modo di ancorare la comunicazione all’attualità diventò una costante del nostro stile. Spesso adottammo lo stesso criterio anche nella pubblicità dei clienti.

Affacciarsi sull’Europa, 1991.




Alcune delle prime campagne BGS. Toscana-Sollazzi per Telethon, Barbella e Bruno Guglielmotto per Robe di Kappa, 1990.

Nel frattempo, per un colpo di fortuna, BGS fu chiamata da una grande azienda storica, la Galbani, che era stata appena acquisita dal gruppo Danone. Il nuovo amministratore delegato era francese e si era trovato tutto solo a gestire una realtà complessa, dotata di un ricco patrimonio produttivo ma totalmente priva di un dipartimento marketing. Oltretutto, Galbani non faceva pubblicità dai tempi di “Carosello”. Produceva formaggi e salumi e li distribuiva senza difficoltà, quasi per inerzia, provvista com’era di buona reputazione e di una invincibile flotta di mezzi di trasporto capaci di raggiungere ogni angolo d’Italia in poche ore. Il dirigente francese invitava la BGS e la Saatchi & Saatchi non a una convenzionale gara di pubblicità, ma a collaborare con lui nella messa a punto di piani di marketing applicabili a due diverse linee di prodotto. Un modo inedito e intelligente di mettere alla prova le nostre capacità.

Era una superba occasione di new business, ma il compito era tutt’altro che facile. Richiedeva competenze ed esperienze di gran lunga superiori a quelle usualmente diffuse nelle agenzie di pubblicità. Era necessario investire nella collaborazione di specialisti esterni e fidati, perché su quel progetto non doveva trapelare nemmeno un fiato. Non fidandoci al 100% né di noi stessi né di un singolo consulente esterno, ne arruolammo due e li facemmo lavorare l’uno all’insaputa dell’altro. Poi mettemmo a confronto le due ipotesi di lavoro, salvammo i contenuti comuni e quelli compatibili, scartammo le proposte più avventate e unificammo i progetti, aggiungendovi anche qualcosa di nostro. L’operazione ci costò un sacco di tempo e di soldi, ma fu premiata. Sia noi che la Saatchi & Saatchi uscimmo da quell’impresa con le ossa tutte a posto, ed entrambe conquistammo – come premio – dei budget importanti. Non solo; la reputazione conquistata in Galbani ci mise in buona luce nel gruppo Danone: nel portfolio clienti di BGS Milano entrò anche il riso Flora.


Prime campagne Galbani. Toscana-Sollazzi-Barbella, 1991.

L’ufficio milanese cominciava ad essere un’agenzia vera e propria: vivace, completa, rispettabile. Al nucleo di partenza si erano aggiunti altri collaboratori tra cui Roberta Sollazzi, copywriter che non esito a definire “ideale”. Il valore del team era il nostro asso nella manica. Sto scrivendo di strategie e pratiche di autopromozione, ma non dobbiamo mai dimenticare la ciccia: al centro di tutto c’è il lavoro che produci, ciò che realmente dai al cliente in termini di creatività e servizio; e se il tuo output non è all’altezza di quanto prometti, fai la figura di un asino che canta ’O sole mio.

«La festa appena cominciata è già finita», cantava Sergio Endrigo in una delle sue canzoni più malinconiche. Ci eravamo appena piazzati nel mass market quando la crisi del 1990 si aggravò. Il fenomeno emergente dei discount stores e delle private labels nell’ambito della grande distribuzione seminò il panico fra le industrie del mercato di massa, convinte che sarebbero state mortalmente penalizzate da questo nuovo e aggressivo tipo di concorrenza. Molte aziende presero a trascurare la pubblicità di sostegno alla marca per correre al ribasso con convulse tattiche promozionali. Ne risentì il mercato della consulenza, a partire dalle agenzie di pubblicità. Nel 1992 la BGS assunse simbolicamente la rappresentanza del settore con una campagna di incoraggiamento agli investimenti.

La lama delle forbici


Pensai che le grandi aziende avevano impiegato decenni, talune anche più di un secolo, a mettere in piedi le proprie marche, e che ridurle a una miserabile sopravvivenza stile 3x2 fosse come bruciare il lavoro compiuto da intere generazioni. Mi vennero in mente le statue greche e romane di dei e atleti che avevano perso, col tempo, i genitali. Scrissi di getto un testo sull’autocastrazione cui andavano incontro i tagliatori di budget. Ne parlai con Agostino Toscana e gli dissi anche delle statue, ma lui ebbe un’idea migliore. L’idea era di andare dritti alla sostanza: facciamo vedere un tizio in carne e ossa che sta per tagliarsi l’uccello. La franchezza, a volte, conta più della diplomazia.

Ne uscì un annuncio così tagliente da farsi tagliare a sua volta. La metafora dell’automutilazione non piacque al Giurì dell’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP), che censurò l’annuncio accusandolo di volgarità e costrinse l’agenzia a sospenderne le pubblicazioni. Ma fu proprio l’intervento dello IAP a incentivare involontariamente il successo dell’iniziativa, inducendo gli organi di informazione a occuparsi del caso e le maggiori agenzie di pubblicità a schierarsi con la BGS e a rilanciare l’attenzione sull’argomento. Nel 1993 il controverso annuncio attirò anche la curiosità internazionale vincendo un Leone di bronzo a Cannes, nella sezione Press & Poster. E diventò non solo la bandiera della BGS, ma di chiunque si trovasse nella condizione di proteggere i propri budget dalle forbici dei ragionieri. Persino dai clienti stessi arrivarono congratulazioni, attestati di stima e – quel che più conta – riconferme e persino incrementi di budget.


Scandalo e sequel, 1992-1993. Toscana-Barbella, fotografo Antonio Capa.

Partecipammo ad altre gare, ne vincemmo almeno la metà: crescevamo. Ma ora che ci eravamo fatti la fama di esperti di marketing (grazie a Galbani) e di crisi da gestire (grazie alle forbici), sarebbe stato un errore imperdonabile addormentarci sugli allori. Dovevamo architettare qualcosa di concreto al quale ancorare la fiducia accordataci. I soci di Torino ebbero l’idea di organizzare una serie di conversazioni periodiche tra esperti di macrofenomeni (economici, finanziari, geopolitici e sociologici) e gli amministratori delegati delle aziende servite dalla BGS. Sia nella sede di Torino che in quella di Milano invitammo, a turno, relatori di valore – provenienti dal Centro Einaudi di Torino, dalle file dell’opinionismo finanziario e dai maggiori istituti di ricerca – per farci raccontare scenari e prospettive utili a tutti i settori di produzione. Gli incontri avevano un tale successo da protrarsi ben oltre l’orario di chiusura previsto.

Sul fronte del new business acquisimmo, tra altri, due clienti istruttivi. Dal gruppo Danone arrivò il pastificio Agnesi. Nella gara eravamo sfavoriti in partenza, perché i vertici di Agnesi ascrivevano enorme importanza all’esperienza specifica nel segmento della pasta e nessuno di noi poteva ragionevolmente vantarla nel proprio curriculum. È vero che avevo lavorato al lancio della pasta integrale Misura, uscita dagli stabilimenti della Plasmon, ma quello era considerato un know-how atipico e non sufficiente a coprire le loro aspettative. Sembravamo bruciati già nell’incontro preliminare, ma quando – un paio di settimane più tardi – presentai uno studio sul mercato e la comunicazione della concorrenza, il loro scetticismo si tramutò prima in sorpresa e poi in entusiasmo. Il poderoso dossier, concepito come una tesi di laurea, conteneva una dettagliata analisi degli ultimi dieci anni di comunicazione sulla pasta, con attenzione anche alle marche locali e alla pubblicità locale, ricavandone deduzioni sulle strategie di marketing, lo sviluppo degli obiettivi desiderati e dei posizionamenti realmente raggiunti, l’impatto che certi marchi avevano avuto sul passaparola e sulla cultura popolare in quel ramo così italiano e così particolare dell’alimentazione. Al comportamento delle grandi marche, soprattutto Barilla e Buitoni, era dedicato anche un capitolo relativo ai mercati esteri. Tutto l’ambaradan era stato pensato e scritto da un copywriter, cosa che generava stupore negli interlocutori. Quando anche il progetto creativo fu pronto, mi trascinarono a Parigi perché fossi io stesso a presentarlo al quartier generale di Danone. Fu lì che incontrai per la prima volta Jacques Séguéla, il loro guru di riferimento, che essendo anche vicepresidente di Eurocom era praticamente uno zio per me.
Toscana-Sollazzi per Swatch, 1993.

Il secondo cliente istruttivo fu Swatch. Lavorare per loro non era solo una palestra creativa in azione otto ore su otto, ma anche l’opportunità di esportare progetti in ogni parte del mondo. Anche per Fiat si lavorava parecchio, a Torino, per i mercati esteri, e l’agenzia ebbe ulteriori occasioni per affinare la conoscenza delle problematiche proprie della comunicazione senza frontiere con Olivetti, Cassina e infine con Procter & Gamble, di cui più tardi sarebbe stato istituito, nella sede di Milano, un hub di ventidue persone interamente dedicato alla creatività europea per i prodotti dell’igiene dentale.

Il knowledge derivante da queste esperienze – dedizione al marketing creativo e alla creatività senza confini – fu ampiamente utilizzato nel nostro programma di P.R.

(2 - Continua)

BGS story/3

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Da Mameli a Moroder

Il 1° agosto 1994 esplose lo scoop nazionale della BGS. Il 17 luglio, il Brasile aveva sconfitto l’Italia ai rigori per 3 a 2. Ci avevano soffiato la Coppa del mondo e avevamo versato lacrime amare. Alla vigilia delle vacanze estive, non avendo altro da fare in agenzia, ripensai a quella triste finalissima e incolpai Goffredo Mameli e Michele Novaro della nostra disfatta, per aver creato un inno impossibile da eseguire con la verve, la grinta e l’euforia che ci vogliono negli stadi. I brasiliani cantavano e ballavano al momento degli inni, mentre gli Azzurri se ne stavano muti e compunti come a un funerale. Fratelli d’Italia non metteva le ali ai piedi. Un po’ per scherzo e un po’ per esperimento (volevo vedere, per l’ennesima volta, se fosse vero quello che dicevano i clienti, cioè che i testi lunghi non li legge nessuno), approntai un appello senza troppi fronzoli ornamentali, da far uscire sulla prima mezza pagina disponibile di Repubblica. Il titolo andava subito al sodo: «Dieci modeste proposte per la sostituzione dell’inno nazionale.» Fra le proposte c’era di tutto: da Verdi a Lucio Battisti, da Modugno a Jovanotti.

La Repubblica, 1° agosto 1994. Versione spartana.

Versione a colori per i magazine. Designer: Manuela Colombo.

Fu il finimondo. Le agenzie di stampa, forse a corto di argomenti più spinosi, rilanciarono il testo nelle redazioni. Il giorno dopo tutti i giornali, nazionali e locali, uscirono con titoloni in prima pagina, corsivi d’autore (da Muti a Pavarotti) e intere pagine interne dedicate a inchieste sull’inno ideale. Molti, famosi e non, reagirono indignati. Era uno scandalo. Un anonimo patriota mi telefonò in ufficio minacciando di farmi la pelle.

La bagarre andò avanti tutta l’estate. Subito dopo i quotidiani, si gettarono nella mischia i settimanali, le radio, le televisioni, i mensili. Fui invitato a trasmissioni radiofoniche e talk-show televisivi. Politici di spicco dichiararono pubblicamente la propria ostilità a quella proposta, altri l’appoggiarono con riserva. La Lega Nord non era ancora nata – e, del resto, se fosse già nata mi sarei ben guardato dal fornirle un pretesto di baccano come quello che avevo ideato a nostro esclusivo uso e consumo. Un avvocato israeliano lanciò l’idea di cambiare l’inno nazionale del suo paese «come stava facendo l’Italia». Giorgio Moroder, vincitore di tre Oscar (per le colonne sonore di Fuga di mezzanotte, Flashdance e Top Gun), mi telefonò da Los Angeles chiedendomi un incontro. Due giorni dopo era già a Milano. Disse che aveva pensato anche lui alla sostituzione di Fratelli d’Italia e che aveva pronta da tempo una composizione adatta alla bisogna. Aveva portato un CD e me la fece ascoltare. Bella, solenne, epica. «Che possiamo farne?», chiese fiducioso. «Pubblichiamo lo spartito sul Corriere della Sera e invitiamo i lettori a scrivere le parole», proposi. «Perché solo sul Corriere della Sera?», replicò deluso. «Beh, se hai soldi da giocarti aggiungiamo la Repubblica», dissi per confortarlo. «Io», incalzò, «includerei anche Il Sole 24 Ore.» Non avevo nessuna voglia di contraddirlo, e mi dichiarai d’accordo. L’annuncio uscì su tutti e tre i quotidiani, a sue spese. Fu una nuova miccia: sui media si riaccese il dibattito, più fervido e polemico che mai.

Fedeli alla linea secondo la quale alle parole devono seguire i fatti, aggiungemmo due capitoli concreti al caso dell’inno nazionale. Commissionammo al famoso ricercatore Nando Pagnoncelli un referendum popolare (sì o no alla sostituzione dell’inno di Mameli) e un sondaggio sulle eventuali preferenze alternative. In più, ottenemmo di presentare in anteprima l’inno di Moroder – che avevo intitolato Pace agli eroi – al Regio di Torino, in apertura della stagione sinfonica 1994-1995. Gli spettatori si videro consegnare, all’ingresso nel teatro, un dépliant informativo e una scheda per votare pro o contro l’inno di Moroder. Fu allestita anche un’urna per raccogliere le schede. Tutto firmato BGS. L’inno fu eseguito dal coro e dai fiati dell’orchestra, prima del concerto in programma.

Sequel, 1995.

Alla fine, Mameli – che aveva perso contro il Brasile – vinse su Moroder, Giuseppe Verdi, Paolo Conte, Domenico Modugno e gli altri attaccanti che gli avevamo aizzato contro. Ma noi ridevamo felici per aver fatto parlare di noi tutta l’Italia, e continuammo a ridere anche quando il nome BGS scomparve dai giornali, perché a lungo andare i cronisti si dimenticarono di chi aveva fomentato quel pandemonio.

La creatività come bene esportabile, 1994.

Si vous êtes italiens and you love la patria

Il 1994 non fu soltanto un anno di scherzi. Fu un anno di sviluppi importanti per la BGS, sia a Milano che a Torino, nonostante la crisi economica che già allora sembrava piuttosto grave. Niente di paragonabile a quella in cui siamo tuttora immersi, d’accordo, ma già risonante di troppe campane d’allarme. Erano trascorsi due anni dalla provocazione delle forbici (vedi BGS story/2), ma l’argomento continuava a starci a cuore. Anche perché i committenti avevano preso il vizio di puntare al ribasso nei compensi alle agenzie, e a schierarne tante in gare suicide, con la scusa che non erano più tempi di vacche grasse. C’erano aziende che non avevano affatto risentito della crisi, ma che piangevano miseria e imponevano condizioni capestro. Non si tagliavano più soltanto i budget, ma anche i compensi, e c’era sempre qualche agenzia che, presa con l’acqua alla gola, cedeva ai ricatti. In più, l’evoluzione delle tecnologie informatiche – accorciando i tempi tecnici dell’elaborazione di layout e montaggi televisivi – dava a molti committenti il potere di pretendere rapidità a minor costo, con conseguenze deleterie sulla qualità media delle idee e sugli investimenti che un’agenzia che si rispetti deve fare a sua volta per migliorare i propri servizi. Anche il mondo delle agenzie aveva le sue défaillances, determinate da fattori diversi – consuetudine alla routine e alla passività in un mondo che stava cambiando, e talvolta l’ingordigia dei network di riferimento, sempre più dominati da ragionieri avidi di growth.

Metafore anticrisi, 1994. In difesa del mercato.

Naturalmente la BGS non fu, in quegli anni, l’unica agenzia a salvare il business e la dignità. Ma era preoccupata dal clima che si respirava nel mercato, consapevole che i cedimenti altrui avrebbero minato equilibri e decenza. Intervenne come e dove poté per rivendicare, non tanto a nome proprio quanto nell’interesse comune, la nobiltà del mestiere ben fatto, l’etica degli affari, la correttezza dei rapporti. Continuò a difendere la pubblicità da chi pensava di screditarla, e lo fece col tono leggero e quasi “sindacale” che le era proprio. E il suo, va detto e sottolineato, non era l’atteggiamento di chi s’incolla alla statu quo per difendere a oltranza posizioni raggiunte. BGS era un’impresa innamorata del futuro. Non solo: cercava di instaurare con tutti una relazione alla pari, senza calare le brache con nessuno e senza alzare la voce con nessuno.

Il tempo fa un passo indietro. Speriamo che vada avanti l’economia.

Del resto, non era una società astratta ma un collettivo di piccoli imprenditori. A metà degli anni novanta, i piccoli partner italiani del colosso francese non erano solo i tre della ragione sociale: c’erano anche Alessandro Magnano, Stefano Pesce, Giancarlo Villa. Negli incontri con i clienti potenziali, anche quelli col budget più modesto, potevamo promettere che sarebbero stati seguiti day-by-day da almeno uno dei titolari dell’agenzia. Cioè da persone che, in caso di errore e risoluzione del contratto, ci avrebbero rimesso di tasca propria.

Dico queste cose non per fare l’apologia della BGS o del passato, ma perché credo che l’etica paghi più del cinismo. Ovviamente dò al verbo “pagare” un significato più largo di quello meramente pecuniario. BGS è stata un’agenzia, tutto sommato, felice. Ha avuto, come tutte, scazzi e delusioni, momenti di frustrazione, scogli da superare. Ma ancora sono convinto che il suo modello di comportamento fosse migliore di quanto il contesto consentisse.

Prove tecniche per il nuovo millennio. Designer: Lisa Imperia. Fotografo: Jacopo Cima.

La morte dell’advertising

Quando, nel febbraio 1994, Wired pubblicò il servizio di Michael Schrage intitolato «Is Advertising Dead?», analizzando il futuro dei media e l’impatto che l’interattività avrebbe avuto sulla comunicazione, seminò meno panico di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. BGS era una delle agenzie più sensibili ai mutamenti che si andavano profilando all’orizzonte. Fu tra le prime a generare un embrione di web agency, quando ancora non si chiamavano così. Era un laboratorio sperimentale affidato alle cure di un manipolo di appassionati, un team che in pochi anni crebbe di dimensione e fu presto in grado di fornire servizi. Credo che i costi per mettere in piedi quella creatura non siano mai stati recuperati, ma nessuno di noi se n’è mai pentito. Era nostro dovere, oltre che piacere, tentare nuove strade, gettare nuovi semi, «afferrare il futuro per le corna», per citare uno dei nostri annunci di self branding. BGS è morta ancor prima dell’advertising, non per le ragioni previste da Wired ma per accidenti più banali; fosse vissuta più a lungo, oggi avrebbe un profilo diverso e sarebbe probabilmente avvantaggiata da un mix tutto suo di memoria storica e pionierismo tecnologico.

Stiamo comunque parlando di un periodo in cui l’agenzia era viva e vegeta, e si faceva molto notare per il piglio della sua creatività. Oreste Del Buono recensiva, nella sua rubrica su L’Espresso, le campagne BGS con una frequenza più che lusinghiera. Nel frattempo, dietro le quinte dell’agenzia stava maturando un divorzio. La piccola legione italiana stava per dire adieu ai francesi di Euro RSCG per sposare il gruppo D’Arcy Masius Benton & Bowles (DMB&B). Ragion di stato. La Fiat, nostro massimo cliente, aveva tollerato obtorto collo la nostra convivenza – anche se castissima – con “quelli della Citroën”. Vittorio Ravà, allora responsabile della comunicazione Fiat Auto, favorì un nostro contatto con gli americani, che già allora si occupavano in Europa dell’azienda torinese. Il trapasso da un network all’altro fu più fluido e rapido di quanto temessimo.

(3 – Continua)

Tanti target, ma uno speciale: il personale interno. Senza il quale non si va da nessuna parte. BGS aveva cura della comunicazione interna e faceva molti sforzi per creare spirito di gruppo. Non era facile far familiarizzare i collaboratori milanesi con quelli torinesi: si conoscevano poco tra di loro e non avevano compiti in comune, salvo rare eccezioni. Ma il rispetto reciproco fu sempre alto, grazie al diffuso sentimento di appartenenza alla stessa bandiera.


Lehman Trilogy

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Massimo De Francovich (Henry Lehman). Foto: Attilio Marasco.


Com’è noto anche a chi non ha avuto la fortuna di assistervi, Lehman Trilogyè stato il capolavoro d’addio di Luca Ronconi, al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Ma a prescindere dalla sua destinazione teatrale, il testo di Stefano Massini è letteratura allo stato puro, anzi poesia. E a chi si meraviglia che un tale fuoco pirotecnico di lingua e di idee, originale quanto avvincente, sia scaturito da un campo tematico – capitalismo, economia, finanza – sempre considerato arido, specialistico, antipoetico, rispondo che Massini, volendo, saprebbe virare in poesia, romanzo, dramma e commedia persino l’elenco telefonico, la manualistica meccanica e i rilievi del catasto. Per forma e contenuto, la sua trilogia va molto più in là delle convenzioni da palcoscenico. “Contiene” il teatro – cioè la capacità di tradursi in scena – ma funziona anche come organismo mirabilmente autonomo, una narrazione epica e grandiosa la cui lingua, sebbene applicata al cotone, al ferro, al dollaro e alla Borsa, scintilla di ritmo ed eufonia musicale, incorporando rap senza rime, talking blues, rock industriale e list songs:

New York
venditori
casse e cassette
bambini e vecchi
New York
ebrei ortodossi e colonie di neri
preti cattolici, marinai, cinesi e italiani
New York
il grigio dei palazzi con le facciate in pietra
statue e giardini, fontane, mercati
New York
predicatori e gendarmi
e ancora animali, cani al guinzaglio e randagi
New York
bamboline aristocratiche con ombrellini aperti
pezzenti moribondi
streghe cartomanti
New York
suonatori di tamburo
gentlemen inglesi
poeti in vena, soldati
New York
uniformi e tuniche
cappelli e sottane
New York
bastoni e baionette, bandiere, stendardi
tutto e il contrario di tutto
contemporaneamente
senza il minimo decoro: spudorato, eppure
grande, grandissimo, eccelso
New York
Baruch HaShem!

La dinastia Lehman. Da sinistra: Massimo Popolizio (Mayer), Fabrizio Gifuni (Emanuel), Paolo Pierobon (Philip), Fausto Cabra (Robert), Massimo De Francovich (Henry). Foto: Attilio Marasco.

Di grande effetto è pure l’intrusione sistematica di parole e locuzioni ebraiche, che oltre a svolgere l’ovvia funzione di farci calare nella cultura dei protagonisti (i tre fratelli fondatori della Lehman Brothers e altri uomini d’affari con cui hanno a che fare) concorrono alla tessitura musicale, al sound, del testo. Non solo: scandiscono di continuo, a mo’ di refrain, l’osservanza religiosa dei Lehman e la sua evoluzione nel tempo – dall’ortodossia ashkenazita alla teologia del business.
Fabrizio Gifuni (Emanuel). Foto: Attilio Marasco.
Massini ha evitato persino le convenzioni più sedimentate della scrittura per il teatro: non ci sono né istruzioni sceniche, né suddivisioni in atti (sostituiti, come in un saggio o in un romanzo, da capitoli), né dall’indicazione di chi dice cosa. Non sappiamo, né ci interessa sapere, neanche il numero dei personaggi occorrenti alla rappresentazione: lo decida, liberamente, il regista. Tanto tutto il testo è in terza persona (anche quando, nel magnifico spettacolo di Ronconi, ciascun Lehman parla di sé stesso), e la distribuzione dei ruoli è totalmente aperta. Lo stesso Massini ha chiarito, in un’intervista a Francesco Giordani che vi consiglierei di non perdere: «Posso dire che in qualche modo Lehman Trilogy, cosa alla quale peraltro tengo molto, non è neanche un testo prettamente teatrale, quanto piuttosto un “materiale scenico”. Al festival letterario di Mantova moltissime persone sono venute a sentirmi, indipendentemente dal fatto che si trattasse di teatro. Il testo non ha una forma teatrale. Dentro di esso è possibile operare le scelte più diverse. È possibile far recitare il testo a due, tre, quattro, venti attori oppure farne un monologo. Ogni regista può condurre il testo lungo la strada che preferisce.»[1]
Fabrizio Gifuni (Emanuel) e Massimo Popolizio (Mayer). Foto: Attilio Marasco.
Opera apertissima dunque, che si presta all’immaginazione registica in miliardi di combinazioni, come una scacchiera offerta allo scacchista. Il genio di Ronconi ha saputo cavare dal “materiale scenico” di Massini quasi cinque ore di rappresentazione tenendo altissima, in ogni secondo, l’attenzione e la partecipazione degli spettatori. Scenografia ipergeometrica e ridotta all’osso – un parquet di insegne rettangolari LEHMAN BROTHERS, qualche sedia o tavolino o colonna che sbuca da sotto il tavolato o vi sprofonda, in alto un orologio di ferro e ghisa e una stretta passerella sospesa nel vuoto sulla quale cammina Solomon Paprinskij, il funambolo che simboleggia gli avventurosi quanto precari equilibri di Wall Street. Ma gli attori stessi sono scenografia. Impegnati in una recitazione antinaturalistica, assumono gesti e posture al limite del coreografico e – nei momenti di fissità statuaria – il loro sorprendente body language evoca, con l’aiuto d’una dominante scenografica fra il giallastro e l’ocra e il design delle luci, vignette illustrate da newspaper ottocentesco, come a richiamare l’iconografia del giornalismo finanziario, politico e satirico d’antan. Pure la disposizione dei corpi sul palcoscenico è svincolata da obblighi realistici e risponde invece, con ironia decorativa, a un programma d’impaginazione grafica dello spazio: come quando le due signore con la puzza sotto il naso prendono il tè insieme, ma si fronteggiano da due poltrone sistemate lontanissime l’una dall’altra, alle due estremità del proscenio.

Lo sbarco in America di Henry Lehman (Massimo De Francovich). Foto: Attilio Marasco.
Naturalmente uno show così congegnato è un tour de force per gli attori. Virtuosismo a dir poco mostruoso, specialmente di chi è quasi sempre in scena: la vicenda si snoda dalle origini (il 1844, data di arrivo in America di Henry, il maggiore dei tre fratelli fondatori) fino all’ultima fase dell’impresa e al patatrac del 2008; ma i morti continuano a recitare, perché il loro spirito aleggia tra i sopravvissuti, i discendenti e i nuovi boss e reagisce con perplessità, incomprensione, stupore, delusione o disgusto ad ogni nuova metamorfosi del capitalismo e dell’impero che hanno creato. Il meno che si possa tributare a Massimo De Francovich (Henry Lehman), Fabrizio Gifuni (Emanuel Lehman), Massimo Popolizio (Mayer Lehman), Paolo Pierobon (Philip Lehman), Fabrizio Falco (Solomon Paprinskij), Fausto Cabra (Robert), Roberto Zibetti (Herbert) e al resto della compagine è una standing ovation.

Da sinistra: Massimo De Francovich (Henry), Fabrizio Gifuni (Emanuel), Massimo Popolizio (Mayer), Paolo Pierobon (Philip), Roberto Zibetti (Herbert); in alto Fabrizio Falco (Solomon Paprinskij). Foto: Attilio Marasco.

Massini e Ronconi riescono entrambi a sganciarsi dai limiti documentaristici d’una vicenda fin troppo attuale e ad evitare facili messaggi e predicozzi: anche se didattico al punto da far trasalire di grato stupore il fantasma di Brecht, il loro congegno procede con il fiato, la sostanza, la densità delle grandi saghe. Il “materiale scenico” è talmente eccitante da fornire anche al semplice lettore, o spettatore, la chance di ritagliarsi mentalmente una visione al tempo stesso estetica, politica e morale.

© Pasquale Barbella
I credits.


Stefano Massini
Lehman Trilogy
Prefazione di Luca Ronconi
Einaudi, 2014






[1]Da “La finanza appesa a un filo. Francesco Giordani intervista Stefano Massini”, pubblicata sul blog Poetarum silva. Leggi qui l’intervista.

BGS story/4

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La reticenza è l’anima del casino.

Tutti insieme appassionatamente

La stampa di settore ci marcava a vista. Cosa c’era di vero nelle voci di corridoio che davano per imminente una fusione tra BGS e DMB&B? Anche a bocche cucite, il rumore di fondo cresceva di volume. Quello era il tipo di notizia che ha sempre mandato in estasi i cronisti del trade. Quando il forno fu ben caldo, dal silenzio passammo alle mezze ammissioni. La reticenza è l’anima del casino.

L’accorpamento ebbe luogo a Milano, perché era lì che stava di casa la DMB&B. In via Correggio, zona Fiera. Erano in tanti. C’era anche Gavino Sanna, famosissimo, che stimavo da sempre. Ero fiero di fare un balzo tra le top ten, ma anche un po’ spaesato. Temevo di perdere la dimensione artigianale che mi era propria. Il cambiamento era notevole, ma la cosa per me più alienante fu quella di dover rinunciare all’apertura dell’ufficio alle sette del mattino. Lo facevo tutti i giorni, in via Zebedia, come i negozianti che tirano su la saracinesca. Non perché fossi stakanovista (solo in casi disperati mi sono trattenuto in agenzia oltre le otto di sera, né ho mai preteso di trattenervi i colleghi). Ma perché ho fatto il pendolare tutta la vita, e mettermi al volante all’alba era il modo più sicuro di arrivare in ufficio senza incazzarmi.

Ma queste sono quisquilie personali. Le cose che contano sono altre. Una settimana prima del trasloco in via Correggio, sentii nell’aria odore di bruciato. I nostri nuovi fratelli ricevettero il benservito da uno dei loro clienti più redditizi, non ricordo se Motta o Buitoni. Comunque bisognava stringere i denti e andare avanti. E dar fiato alle trombe.

Il famiglione del 1996.

La nuova agenzia si affacciò al mercato con un investimento sulla stampa piuttosto imponente. Gavino disegnò un format ad hoc. Scrissi un testo informativo cercando di armonizzare gli opposti: piccolo-grande, serio-scanzonato, autorevole-familiare. L’impresa era diventata un enorme contenitore di diversità, anche perché si presentava come gruppo (BGS DMB&B, Gavino Sanna, Azzurra, IMP e Limiteazero, la divisione sperimentale sui new media). Non avevo mai creduto agli assembramenti, ma riuscimmo a trasformare un potenziale svantaggio in un plus. Promettemmo di trattare ogni cliente, piccolo o grande, come «un numero uno assistito da numeri uno». La promessa fu mantenuta.

Nonostante la perdita iniziale, la carrozza andò in salita. Su tutti i fronti: gare, qualità dei servizi, creatività, premi, fatturato. L’offerta era ampia e i clienti potevano scegliersi gli interlocutori preferiti. C’erano molte culture da mettere insieme – Torino, Milano, Roma, l’America, la grande agenzia, lo shop creativo, Swatch, Procter & Gamble, Fiat, Infostrada, l’advertising tradizionale, l’approccio one-to-one e molto altro, – ma provammo a tenerle unite con un filo immateriale: il tocco umano, merce piuttosto insolita nel bazar degli affari. Le campagne per i clienti e i progetti autopromozionali varati fra il 1996 e il 2002 documentano meglio delle parole l’andamento dell’agenzia e del clima che vi si respirava.

BGS DMB&B fa il verso a una sua fortunata campagna per Lacoste progettata da Alessandro Omini e Marcello Porta.

La nostra vetrina era illuminata dai fatti. Vincemmo due volte (per Swatch e Fiat Doblò) i festival televisivi (Mezzominuto d’oro, Gala della pubblicità) allestiti da Mediaset con tanto di televoto finale, che era un po’ come vincere a Sanremo per un cantante. La comunità creativa rappresentata dall’Art Directors Club Italiano ci attribuì due Grand Prix a distanza ravvicinata, per Swatch e Lacoste. A Cannes, invece, non vincemmo mai un granché: a quei tempi gli italiani tornavano a casa dalla Costa Azzurra con un bagaglio colmo di frustrazione, salvo sporadiche eccezioni. Provai un paio di volte a fare dell’autoironia sulla nostra sfiga nazionale, pubblicando sulla stampa di categoria circolante a Cannes annunci beffardi come Dear Jury e La Croisette des Italiens.


Black humour sulla sindrome di Cannes.

L’orologio marciava inesorabile verso la fine del millennio. Non era un countdown all’acqua di rose. Il mondo si era andato caricando di presagi infausti, tra conflitti planetari e disastri ambientali, economie impazzite e malattie sconcertanti come l’Aids. Il peggio non era ancora avvenuto: le torri del World Trade Center stavano ancora in piedi, i Lehman Brothers pure, ma c’erano già elementi bastevoli a giustificare un po’ di pessimismo collettivo. Si diffuse rapidamente, in tutti gli angoli del pianeta, il terrore dell’Y2K – il bug per cui tutti i sistemi informatici del mondo sarebbero andati in tilt alla mezzanotte del 31 dicembre 1999, a causa di un potenziale difetto di programmazione nella scrittura sintetica delle date (00 = 1900 = 2000). Per esorcizzare quell’apocalisse, ordinammo un migliaio di palette ammazzabug e le diffondemmo come auguri di buon anno.

Per rincarare la dose dei buoni auspici e ringraziare i clienti che ci avevano permesso di crescere, comprammo tutti gli spazi pubblicitari di Repubblica del 1° gennaio 2000 e li riempimmo di annunci costruiti ad hoc per ciascuno di loro. Inventammo anche azioni e annunci per gratificare il nostro personale. Lanciammo inviti agli studenti mettendoci a loro disposizione per aiutarli nelle tesi di laurea sull’advertising. Un sondaggio di cui ho perso i dati e la fonte ci individuò come una delle aziende commerciali più stimate d’Italia dai propri dipendenti.

Onore alle centraliniste sul numero speciale di Repubblica, a Capodanno del 2000.

Apertura ai giovani talenti.

Nel frattempo, i ragionieri d’America erano instancabili. I veri “creativi” erano loro. Noi pensavamo a fare gli spot; loro ne inventavano una dopo l’altra per fare i soldi. Tutto il sistema D’Arcy Masius Benton & Bowles – una costellazione di circa duecento unità come la nostra, sparse dappertutto nel mondo – passò da New York a Chicago, nelle mani del gruppo Leo Burnett.

L’età nuda


Il millennium bug era stato solo un film di fantascienza, ma l’11 settembre 2001 fu una cosa vera. Quando l’agenzia decise di approntare un nuovo strumento di comunicazione con i clienti, un dossier periodico di studi e ricerche sui mutamenti in atto nella società dei consumi, lo intitolai The Naked Age. Nella press release che ne accompagnava la prima edizione internazionale, rinunciai per una volta al mio solito humour:
 

«L’11 settembre 2001 il mondo occidentale si è scoperto più vulnerabile, più indifeso, più nudo. Il giorno dopo in molti ci siamo chiesti se non fosse giunto il momento di modificare qualcosa nel nostro modo di pensare e di agire. E, se sì, come.

Nell’agenzia di pubblicità che rappresento, la BGS D’Arcy, la prima reazione è stata quella di interrogarci sul senso del nostro lavoro in un’epoca che si annuncia foriera di eventi e turbamenti non del tutto prevedibili e non facili da affrontare. Epoca che siamo stati subito indotti – per vizio professionale – a definire con uno slogan: The Naked Age, “l’età nuda”.

The Naked Age è diventata anche la testata di un nostro dossier che raccoglie periodicamente opinioni, studi e ricerche sui cambiamenti dell’umore collettivo in relazione alla pubblicità e ai consumi. L’idea, e soprattutto lo spirito – etico e professionale – che la pervade, ha contagiato la rete di cui facciamo parte, D’Arcy. Il risultato – a un anno dall’11 settembre – è una pubblicazione internazionale a più voci sull’impatto del presente e delle sue incertezze sul costume, sulle arti, sulla comunicazione.

I tempi – offuscati non solo dalla minaccia del terrorismo e dall’inasprirsi di vecchi e nuovi malanni come la guerra e la fame, ma anche dal crollo a catena di sicurezze nel sistema economico e finanziario – sembrano richiedere alla comunicazione, pubblicità compresa, un significativo cambio di rotta. Per esempio una maggiore attenzione ai valori meno superficiali, più autocontrollo, maggiore aderenza alla vita reale, più sensibilità… L’esperienza umana, riprodotta nella pubblicità, dovrebbe diventare meno astratta e fittizia, più verosimile. Dovremmo cominciare seriamente a eliminare dal nostro vocabolario la parola “consumatori”, che designa una categoria inesistente; i “consumatori” sono nient’altro che persone – anche quando mangiano, bevono o guidano la macchina.»

Un tributo a Cesare Pavese nel cinquantenario della morte, a cura di BGS Torino.

Com’era diverso il tempo presente dalla futile euforia degli anni ottanta! Invecchiando, diventavo scettico e apprensivo. Ero anche tentato dall’idea di mollare tutto: uscire dalla pubblicità, ritirarmi nell’ombra, chiudere – come si suol dire – “in bellezza”. Avevo da tempo annunciato le mie dimissioni, volevo andarmene più o meno alla scadenza del millennio. Ma non avevo calcolato gli effetti del mio pessimismo. Piaceva! BGS aveva fatto breccia nel cuore del sistema. Era una delle poche agenzie realmente creative del network, e ne vinceva spesso i premi organizzati al suo interno. Negli incontri internazionali esibivo smorfie di disgusto contro la roboante retorica del successo e delle pratiche per conseguirlo. Invece di licenziarmi, sembravano apprezzare la mia bizzarria. Ero io il bug. Mi invitarono a tenere un seminar per i direttori creativi del network, a Miami. Ne approfittai per sconfessare un sacco di stereotipi e diventai il loro guastafeste preferito.

Per indurmi a rinnovare il contratto, gli americani mi offrirono dei ruoli internazionali. Mi cooptarono nel Worldwide board of directors della rete D’Arcy e come trainer delle direzioni creative d’Europa e Nordamerica. Dire che mi convinsero è poco: riaccesero il mio entusiasmo. Fra i miei nuovi compiti c’era anche quello di organizzare e stilare l’agenda dei cosiddetti creative councils, riunioni periodiche con i leader creativi europei per eccitare la febbre creativa e misurarne i risultati. Trascinai i colleghi a Stresa, ad Amsterdam, a Londra. A Venezia legai il nostro council alla Biennale, sostenendo che l’arte forniva più ispirazione di tutto lo scambio di bla-bla che potevamo farci intorno a un tavolo. Invitai Harald Szeemann, il direttore artistico della Biennale, a una conversazione con tutti noi. Deragliare dai binari era uno sport che avevo sempre coltivato: ero un pessimista felice.

Annuncio per ricerca di personale. Il neoassunto fu Vicky Gitto, allora del tutto sconosciuto.

Ebbi carta bianca per inventarmi iniziative di supporto al Creative uprising, un ambizioso programma di rinnovamento e rilancio creativo lanciato dai vertici della holding con una convention a Puerto Rico. Probabilmente era una delle tante manovre preparatorie alla messa in vendita di Bcom3, il calderone nel quale erano confluiti i supergruppi Leo Burnett, MacManus, Dentsu, Starcom MediaVest e altri. Ma questo è senno di poi.

Mi inventai un Creative lab che si occupasse di attività non strettamente pubblicitarie e della visibilità internazionale di D’Arcy, il nostro ramo di appartenenza. Si decisero azioni specifiche da realizzare a Cannes durante il festival dell’advertising. Era il luogo ideale per farsi vedere da un’enorme concentrazione di operatori internazionali – non solo pubblicitari ma anche utenti e media. Pensai che, spulciando fra i seimila collaboratori delle D’Arcy di tutto il mondo, avrei potuto mettere in piedi una redazione di alto livello e pubblicare un magazine autorevole, intitolato Creative Uprising, da distribuire a Cannes. Stilai un sommario dei contenuti, coinvolsi writer di mia fiducia selezionandoli tra i colleghi italiani e stranieri e gestii via e-mail tutto il lavoro. Pietro Gagliardi e la sua équipe torinese si occuparono del design, dell’impaginazione e della produzione dei due numeri unici, usciti a Cannes nel 2001 e nel 2002. Pietro riuscì anche a procurarsi carta riciclata dalle banconote europee sostituite dall’euro, che usammo per scriverci sopra un editoriale sui grandi cambiamenti in corso. Altri provvidero a organizzare un servizio di shuttle gratuito e aperto a tutti sulla Croisette, per il trasporto dagli alberghi al Palais e viceversa. Il bus era vistosamente personalizzato D’Arcy, dentro e fuori. A bordo i passeggeri erano sottoposti alla visione della nostra showreel internazionale e potevano prelevare una copia di Creative Uprising.



Operazione D’Arcy-Cannes: magazine, shuttle e pubblicità.

La rivista conteneva servizi sulla creatività espressa in ogni campo, dalla letteratura alla musica, dal cinema al design. Nel primo numero c’erano un’intervista originale a Joe Pytka, il regista pubblicitario più premiato a Cannes, e articoli su Saul Bass, Giorgetto Giugiaro, il regista indiano Prasoon Pandey, Michelangelo Pistoletto, Mark Rothko, Saul Steinberg, Henryk Tomaszewski. Per il n. 2 affidai alla redazione un tema trasversale, The Naked Age, chiedendo analisi sull’influenza esercitata dai problemi contemporanei sulla società, sul marketing e sulle arti. Incaricai il mio corrispondente da Los Angeles, Terry Balagia, di intervistare Tyler Cassity, presidente di Hollywood Forever, il cimitero più creativo del mondo. Terry prese molto alla lettera il briefing “Naked Age”, tanto che riuscì a convincere Cassity, sé stesso, il fotografo e la sua assistente a togliersi di dosso tutti i vestiti – comprese le mutande – durante l’intervista al camposanto. Titolo: «The Naked Truth About Dying».

Era un servizio premonitore: uscì a giugno, nel 2002, e in capo a soli quattro mesi D’Arcy si estinse. Senza neanche una lapide all’Hollywood Forever. In ottobre sui giornali uscì il notizione che Publicis aveva comprato Bcom3, e che il sistema D’Arcy sarebbe stato eliminato. Cinque grossi clienti multinazionali erano stati informati per tempo, noi no. Lo stesso giorno ricevetti telefonate imbarazzanti da un paio di nostri clienti. Il succo era questo: «Pasquale, che cazzo sta succedendo alla BGS? Fronzoni (il capo della Leo Burnett in Italia, ndr) mi ha contattato per dire: venite subito da noi, la BGS non esiste più.»

Saffirio rimproverò me e Pietro Gagliardi per aver deciso di uscire di scena. Non aveva tutti i torti. Le nostre dimissioni indebolivano irrimediabilmente le difese della BGS, che poteva aspirare – forse – a mantenere qualche forma di indipendenza, o di sopravvivenza, nell’ambito del nuovo gruppone. Ma che senso avrebbe avuto un futuro presidiato da sessantenni? Un’epoca si stava chiudendo, definitivamente. La nostra. Meglio metterci una pietra sopra e non pensarci più.

Il cambio di proprietà fu oggetto di una convention a Parigi. Pioveva a dirotto, c’era un traffico disperato e le sedie della location scricchiolavano in modo penoso. I delegati portavano all’occhiello un badge col logo delle rispettive società: Publicis, Saatchi & Saatchi, Leo Burnett... Noi portavamo il logo dei condannati a morte, D’Arcy. Ci guardavano con occhi rossi di contrizione. Io cercavo di contare, tra me e me, quante volte ero stato comprato e venduto come un bullone o una salsiccia. Sbagliavo e ridevo. Ridevo e sbagliavo.

© Pasquale Barbella

(4 – fine)


Il personale di BGS DMB&B protagonista di gadget natalizi: video augurali, carte da gioco e altro. Persino una serie di francobolli, ideata dal team Gavino Sanna-Dario Mondonico-Silvano Cattaneo.


A pranzo con Orson

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Hors-d’œuvre


Ieri, leggendo un libro, sono scoppiato a ridere in modo indecente. È un caso singolare, almeno per quanto mi riguarda. Perché ero solo, nel mio studio; mentre, di solito, si ride ad alta voce in presenza di testimoni. Così ho sempre creduto. La risata ha poco a che fare con la solitudine. Esplode in compagnia; bisogna essere almeno in due per contagiarsi a vicenda. La lacrima no, la lacrima se ne frega dell’audience – in ogni senso. Si manifesta sia in privato che in pubblico con uguale, urgente strafottenza. La lacrima è una carogna: non esita a scaraventarti nell’imbarazzo. E se succede al cinema, pazienza: sei al buio e, se il naso tira al fazzoletto, puoi sempre fingere un raffreddore. Ma se ti capita, per esempio, di leggere Una cosa piccola ma buona di Raymond Carver mentre sei a bordo di un aereo in volo, e ti metti a piangere in business class, fai una figura da schifo. Io l’ho fatta. Imparando, innanzitutto, che non bisogna leggere Carver in presenza d’altri; e poi che ogni lettura va scelta in funzione del luogo e della situazione in cui ti trovi o troverai. Se vai in vacanza al mare e ti porti dietro dei libri leggeri o divertenti, stile autogrill, sbagli strategia. Perché è proprio in vacanza che puoi permetterti letture impegnative: hai il cervello mediamente più sgombro che a casa, i problemi che di solito ti turbano li hai presi a calci in culo. Kafka è perfetto per le vacanze più frivole, mentre le freddure di Totti – ammesso che ti piacciano – stanno bene dove regnano lo scazzo e l’angoscia, agendo come temporaneo antidoto. Quanto a Proust, è ovvio che leggerlo sarebbe meglio che non leggerlo; ma bisogna aspettare il periodo giusto, che sta a mezza strada fra la vacanza e la normalità. La circostanza ideale è una convalescenza post-operatoria. Lunga quanto basta per assorbire almeno metà della Recherche. Il corpo deve essere debilitato a dovere per impedirti di andare a spasso, ma immune da dolori che potrebbero compromettere la voglia di leggere.

Entrée

Il libro che mi ha fatto ridere senza freni e senza testimoni è adatto a qualsiasi location, dall’ultimo banco dell’aula alla stanza d’ospedale: A pranzo con Orson. Una delle cose più divertenti ­– ma anche, in un certo senso, profonde – che mi siano capitate di recente tra le mani. L’ho comprato perché sono maniaco del cinema e mi aspettavo un libro-conversazione come quello di Hitchcock e Truffaut. Qui i due chiacchieroni sono l’anziano Orson Welles e un amico di venticinque anni più giovane, Henry Jaglom, meno famoso ma anche lui regista, attore e sceneggiatore. Già dalle prime righe si capisce che Welles e Jaglom non stanno a raccontarsi l’arte del cinema come Hitchcock e Truffaut. Sono due alleati che si vedono per due anni – dal 1983 al 1985, anno della morte di Welles – a pranzo al Ma Maison di West Hollywood e, ogni volta che sistemano le gambe sotto il tavolo, fanno a pezzi l’universo. È lo stesso Welles ad aver chiesto all’amico di registrare i dialoghi, purché il registratore stia nascosto in una borsa: non vuole vederlo. Non parlano solo di cinema ma anche di teatro, di politica, di cibo e di Napoleone, o di qualsiasi altro argomento gli passi per la testa. Random. Henry fa da spalla ed è bravissimo a provocare l’amico, che è un torrente dai percorsi imprevedibili. Orson spara un paradosso dopo l’altro, fottendosene del politically correct e delle buone maniere: il dialogo fra i due, che ha trovato in Peter Biskind l’editor ideale, attinge a vette di crudeltà e surrealismo semplicemente meravigliose.

Il gossip più spudorato confina, grazie all’intelligenza dei due soggetti, con il pessimismo e la saggezza. Si parla di come procedono certi progetti che hanno in comune, di produzioni velleitarie a causa dello stato di depressione in cui il grande maestro è precipitato a causa di delusioni professionali, debiti e malattie, e Jaglom – che lo adora – lo tratta e lo consola come neanche il migliore degli psicoterapeuti saprebbe fare. A ruota libera, Orson si lascia andare a un fuoco pirotecnico di battute. Sostiene, per esempio, che i fascisti e poi i nazisti hanno copiato il saluto romano dai film di Cecil B. DeMille; e allo scetticismo di Henry risponde che non c’è altra spiegazione che possa essere ragionevolmente dimostrata. Piovono malignità, insulti e rivelazioni imbarazzanti su personaggi come Laurence Olivier, Sartre, Juliette Gréco, Charles Chaplin, Pauline Kael, Josef von Sternberg, Woody Allen e tanti altri. A Richard Burton, che gli si avvicina al tavolo e vorrebbe presentargli Elizabeth Taylor, il maestro bofonchia: «Come vedi sto mangiando. Passo da voi quando esco.»

Welles è il genio che sappiamo, un monumento (anche fisico) del cinema e della cultura, l’unico che sia riuscito a sacralizzare l’insuccesso portandolo ad altezze sublimi. Indipendente fino al midollo, precoce in tutto (persino nell’obesità e nell’invecchiamento), innovatore del teatro e dello schermo, salutato per Quarto potere come cineasta insuperabile; e al tempo stesso tradito dai produttori, scansato dai finanziatori, boicottato dagli stessi critici che non potevano negarne la grandezza, e infine nemico di sé stesso, condannato a seminare nell’oblio una quantità di progetti incompiuti o abortiti. Un gigante senza potere.

La chiacchiera procede, indomita e avvolgente. La resistenza francese. I collaborazionisti. La guerra civile di Spagna. Gli intellettuali venduti. L’arroganza di De Gaulle. Casablanca. Humphrey Bogart. La recitazione. Il maccartismo e i delatori di Hollywood. La CIA. Il Sessantotto. Castro e Guevara. La differenza tra un attore e un divo. E certi giudizi così acuminati da diventare aforismi: «Per me i sessi sono sempre stati tre: uomini, donne e attori. Gli attori riuniscono le peggiori qualità degli altri due.»

L’eloquio sintetico e tagliente di Orson Welles traduce la storia del Novecento in una sorta di tragicommedia shakespeariana, imperniata sulle sconcezze del potere e della stupidità. Consapevole del proprio egocentrismo, il maestro sa come smascherarlo in chi lo nasconde sotto i veli dell’ipocrisia e della retorica.

Dessert

Per chi ama il cinema e/o il teatro, A pranzo con Orsonè un libro formidabile. Potrebbe esserlo per chiunque, a patto che non sia completamente digiuno di storia dello spettacolo. Se non avete mai sentito nominare, per esempio, Paulette Goddard, scoprire che «faceva pompini da Ciro’s» non vi procura alcuna emozione.

© Pasquale Barbella

A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles
(titolo originale: My Lunches with Orson. Conversations between Henry Jaglom and Orson Welles, 2013)
A cura di Peter Biskind
Traduzione di Mariagrazia Gini
Con uno scritto di Tatti Sanguineti
Adelphi, 2015

Arte a Torino

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Torino, Gagliardi Art System. Jane & Wil, scultura cinematografica con due Talking Heads, di Daniel Glaser e Magdalena Kunz (2010/2011). Due teste in argilla fuse in alluminio, due proiettori, due lettori, due altoparlanti, indumenti e materiali vari.

Le sculture parlanti

Daniel Glaser e Magdalena Kunz, artisti svizzeri che lavorano in coppia e vivono tra Zurigo e Torino, hanno trovato il modo di far parlare le statue. Dando anche l’illusione di far muovere loro le labbra e fargli sbattere le palpebre. Le loro creazioni più note fanno parte di una serie intitolata Talking Heads, “teste parlanti”. L’omonima band di David Byrne (1977-1988) non c’entra per niente.

Le installazioni ambientali di Glaser e Kunz hanno un merito sorprendente: quello di fondere materiali concreti (stoffe, argilla, metalli e qualsivoglia altro ingrediente idoneo alla scultura iperrealistica) con la videoripresa cinematografica, il teatro, la poesia, la filosofia e la critica sociale. Tutto in un colpo solo. Immaginatevi un gruppo di figure umane life size, vestite di stracci e con il volto – solo il volto – scoperto, sedute per terra in mezzo a sacchi di rifiuti e scatoloni di cartone (così le ho viste alla galleria di Pietro Gagliardi, la Gas di Torino). Magicamente, a un clic d’interruttore, i volti si animano e, a turno, interpretano densi monologhi di spessore poetico, degni di una performance teatrale. Dov’è il trucco? Sui volti dei manichini vengono proiettate le facce vere dei modelli/attori che son servite da stampo, e in sincrono ascoltiamo ciò che, in primissimo piano, hanno registrato davanti a una videocamera. L’effetto è sconcertante: i match sono così precisi che gli homeless sembrano vivi.
Glaser/Kunz: dettaglio di Jane & Wil con proiettore in azione. 

I testi, variamente improntati alla condizione umana contemporanea e recitati da voci volutamente monocordi, meriterebbero una recensione ad hoc. Pensati in inglese e altre lingue, italiano compreso, hanno la cadenza musicale e ossessiva dei mantra. Il tono di voce e l’immobilità dei corpi danno alle figure una solennità ieratica e dolente; le posture, tipiche di un’emarginazione estrema, alludono a uno straniamento universale, a una definitiva sconfitta del genere umano, crollato sotto il peso delle proprie macchinazioni. La parola sembra essere l’ultima risorsa dei perduti, l’unica ricchezza non ancora del tutto spenta. Ma anch’essa si è logorata e depressa per abuso di luoghi comuni, retoriche ingannevoli, abrasione dei significati d’origine. In una di queste “sculture cinematografiche”, Aton & Amen (si notino le valenze mortuarie del binomio), due gemelli si pongono un’incalzante serie di domande destinate a restare senza risposta. Il montaggio delle domande sembra incongruo:

Ti capita di ballare come un matto quando non ti vede nessuno?
Qual è il tuo libro preferito?
Hai mai fatto puntate al casinò?
Qual è il tuo giocattolo preferito?
Hai mai avuto un amico immaginario?
Che programmi hai per stasera?
Quale aspetto di te stesso ti è più caro?

E così via. L’interrogatorio è lunghissimo, estenuante, e fa pensare da una parte alla perdita di senso del linguaggio, dall’altra a una sete disperata di valori dispersi: l’identità individuale e la relazione col prossimo.[1]

Glaser e Kunz, inventori d’una forma d’arte che potrebbe condurre i loro personaggi persino sui palcoscenici e i set a interagire con mezzo cast in carne e ossa, hanno allestito dal 2007 in poi diversi gruppi di Talking Heads, ciascuno dotato di propria sceneggiatura.
Glaser/Kunz: dettaglio di Jane & Wil.

Micromondi al femminile

Altrettanto interdisciplinare è l’impegno di Paola Risoli, artista milanese le cui opere, esposte al Mamac di Nizza tra l’autunno dell’anno scorso e il 18 gennaio di quest’anno, si sono poi riviste alla Gagliardi Art System. Paola assembla miniature inaudite, le infila in contenitori (fusti e barili riciclati) attraverso feritoie, con arte microchirurgica le dispone fino ad arredarne gli interni, come se si trattasse di ambienti abitabili. A questo punto l’impresa diventa multimediale: l’artista si serve di microcamere e proiettori per simulare accadimenti dentro e fuori i contenitori, ed espone anche stampe fotografiche di cosa si vede lì dentro: ambienti e oggetti assumono dominanti cromatiche (sul sanguigno: come in Deserto rosso di Antonioni e Sussurri e grida di Bergman) e distorsioni che ne alterano l’originario realismo. Le frequenti citazioni riportano alla memoria famosi film d’arte (Godard, Resnais, Antonioni) che hanno a che fare con la condizione della donna.
Torino, Gagliardi Art System. Elementi del progetto Sitemotion di Paola Risoli: Sa vie (frame 3) del 2012, stampa lambda su Dibond®.  Citazioni da Vivre sa vie: Film en douze tableaux di Jean-Luc Godard con Anna Karina, 1962, noto in Italia col titolo Questa è la mia vita.

Paola Risoli chiama «micromondi alloggiati in container» i suoi lavori, e la definizione è neutra solo in apparenza. Il suo sguardo illumina ed espande costrizioni esistenziali, e le saturazioni cromatiche (rosso scuro, rembrandtiano) fanno pensare a un’indagine “viscerale” nella coscienza. Una sorta di psicanalisi visiva, mutuata in parte dall’immaginario cinematografico. Non a caso il titolo dato alla mostra di Nizza era Sitemotion, che sovrappone le parole motion ed emotion.

Oro grigio

Altra artista ammirata alla Gas: Aurore Valade, francese, autrice di una serie di fotografie elaboratissime – L’or gris, l’oro grigio – dedicate alla senilità. Se Paola Risoli vedeva rosso, Aurore Valade vede bianco, rosa e oro, almeno in questa serie. Scene desaturate fino alla purificazione, alla luminosità metaforica dell’innocenza, per “mondare” la terza età da ogni grumo di reputazione negativa: grazie, Aurore, sto per compiere 74 anni. Valade avvolge nello stesso chiarore i vecchi, i bambini e le donne, con amabile senso dell’umorismo e soprattutto del gioco. Ha poco più di trent’anni, ma non ha conti da regolare con gli anziani: per lei, essi sono solo la prosecuzione di ciò che sono stati; l’infanzia che hanno vissuto ha lasciato tracce indelebili nel loro esistere di oggi. Fosse vero! Io temo che invecchiando si peggiori, dentro sé stessi ancor più che fuori. (Naturalmente non parlo di me. Gli “io” fanno sempre eccezione).
Copertina del catalogo Aurore Valade: L’or gris, a cura di Maria Cristina Strati e Gagliardi Art System, Torino, 2013. L’opera riprodotta è Masques de vieillesse.

I lavori di Valade vanno osservati possibilmente in formato gigante, per misurare al meglio l’uso poetico che fa dello spazio, del colore e della composizione. Il contenuto delle immagini si presta a molte letture – tra il sociologico e l’antropologico, - ma l’analisi non deve guastare il piacere che istintivamente si prova con gli occhi e col cuore.

© Pasquale Barbella

Pietro Gagliardi nella sua galleria di via Cervino 16, a Torino: un ex capannone industriale ristrutturato. Gli elementi in primo piano fanno parte de La macchina per azioni (2012), installazione dell’artista torinese Michelangelo Castagnotto.

Torino, Gagliardi Art System. Deserts e Permanent Eclipse, elementi di GoRe– un ampio progetto dell’artista pugliese Daniele D’Acquisto.

Gagliardi sfoglia elementi della serie Dust (2012) di Daniele D’Acquisto, 
realizzati con acrilico, plexiglass e legno sbiancato.

Torino, Gagliardi Art System. Aerei in marmo bianco con specchio (2003), di Fabio Viale.

Fabio Viale: Aerei in marmo bianco con specchio. 
Deformati nello specchio compaiono Pietro Gagliardi e Pasquale Barbella.

Torino, Gagliardi Art System. La Suprema (2014), opera in marmo di Fabio Viale.

Gagliardi nella sua galleria.


Gagliardi Art System partecipa a Scope Basel 2015 con opere di Glaser/Kunz, Santissimi, Daniele D’Acquisto e Fabio Viale. 16 - 21 giugno 2015. Scope Art Show, Uferstrasse 40, CH - 4057 Basel. Stand B09. 




[1]Il testo poetico è di Amen Shepsu Adio, Daniel Glaser, Magdalena Kunz.

Il numero 8

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Di giorno il Moderno era un caffè come ce ne sono tanti nelle periferie: non grande, stile settanta, arredi economici, luce cruda, avvisi d’ogni genere appiccicati in prossimità della cassa e molto traffico di ricariche telefoniche e gratta-e-vinci. Alle otto di sera, Rudy tirava giù la saracinesca e cominciava la seconda vita del locale. Lo sapevano tutti, ma non importava a nessuno. Fino a mezzanotte Rudy vegliava su un gruppo di segregati, i soliti otto salvo assenze, e oltre a servire risotti riscaldati al microonde e alcolici a prezzi maggiorati incassava una quota fissa, a prescindere dal numero dei presenti. Quando si stancavano del poker, della briscola o del tressette, gli uomini uscivano un po’ alla volta per non dare nell’occhio, passando per il retrobottega e il cortile.

Ettore era stato l’ultimo ad aggregarsi alla compagnia, e per questo lo chiamavano «il numero 8». Di lui non si sapeva granché. Era spuntato lì e basta, un giorno qualsiasi. Non era del quartiere, non si era mai visto prima. Forse non era neanche della città. Parlava senza accenti dialettali o regionali. Dopo qualche settimana di frequentazione, aveva familiarizzato un po’ con gli abitudinari. Nulla di importante, solo «come va?» e stupidaggini da bar. C’era un televisore sempre acceso: a volte era di lì che si traeva spunto per un commento, una critica al governo, una bestemmia sulle tasse, e da quello si passava a rapidi sfoghi sulla politica, gli immigrati, lo sport... Cose già sentite e risentite, buttate lì non tanto per il bisogno di addentrarsi nelle viscere dell’argomento quanto per affermare o confermare la propria esistenza, la propria singolarità così simile a quella di milioni di altri.

Quando s’incontravano di giorno, evitavano di parlare in pubblico della loro passione notturna. Era un falso segreto, ma bisognava fingere di proteggerlo. Ogni tanto, però, un’allusione ci scappava. Umani si nasce. Una domenica, all’ora dell’aperitivo, Gualtiero non poté fare a meno di stuzzicare il numero 8.

«Gran movimento al tuo tavolo, ieri. Al mio si dormiva. Ti hanno cappottato di brutto, dicono. Come ti senti?»

«Si vince, si perde. Funziona così.»

«Ma quanto ci hai rimesso?»

«L’importante è non indebitarsi.»

Gualtiero la prese come una frecciata. Era il tipo che andava in rosso per poco e aveva debitucci con tutti, compreso Ettore. Che, sì, era il più delicato nel reclamare il dovuto; e proprio per questo i suoi crediti erano gli ultimi a esser presi in considerazione. Ma un sollecito è un sollecito, e anche se lo condisci con lo zucchero non piace a nessuno. Per dargli uno schiaffo morale, Gualtiero pretese di pagargli la consumazione e non solo usò eccessiva insistenza nel farlo, ma alzò la voce in modo che i presenti potessero registrare la sua magnanimità.

Intendiamoci, non era una bisca da ricchi. I quattro e quattro gatti che la bazzicavano erano pensionati o semioccupati, a parte un paio di commercianti. Gente senza obblighi tali da esigere una sequenza regolare di sonno e veglia, o di bar e famiglia. Ettore aveva in effetti perduto una cifra ragguardevole quel sabato sera, e il fatto di aver scucito fino all’ultimo centesimo senza la minima smorfia di dolore aveva sollevato sospetti.

Gualtiero andò a trovare Paolo nel negozio di ferramenta. Aspettò che uscissero due clienti e, rimasto a tu per tu col titolare, gli chiese a bruciapelo se convenisse fidarsi di quell’Ettore.

«Magari non è neanche il suo vero nome», aggiunse.

«Chi vuoi che sia? Un infiltrato? Se fosse della polizia ci sarebbe già stata una retata. A che gli serve tirarla in lungo?»

«Magari spera in un colpo più grosso. Non so, uno smercio di roba.»

Paolo si mise a ridere. «Hai visto troppo film.»

«Non si sa mai. E se fosse uno di qualche banda?»

Paolo non capiva.

«Metti che Rudy sia sotto pressione. Che abbia sulla schiena qualcuno del racket.»

«Embè?»

«Sai com’è. Banda contro banda. Quelli del giro più grosso mandano in avanscoperta uno dei loro, per vedere come girano i danè, e poi.»

«E poi? Non lasciare le frasi a metà.»

«E poi, e poi. Che ne so io? Sono mica esperto di mafia. Tiro a indovinare.»

«Ho da fare», tagliò corto Paolo, anche perché nel negozio era entrata una cliente. Una donna grigia di capelli, magra come la morte. Voleva vedere dei guanti da giardino e non stava zitta un momento. Si lamentava di un guanto sparito chissà come, e non riusciva a capacitarsi di quella perdita.

«Comunque», disse Paolo ignorando il mantra della donna e rivolgendosi a Gualtiero, «ha un’aria troppo per bene per fare quello che dici tu.» Nel frattempo andava esponendo sul banco una dozzina di paia di guanti da giardino, d’ogni modello e colore.

La donna li provava tutti, a turno e con lentezza. C’erano dei guanti verdi che sembravano non dispiacerle. Vi infilò le mani e articolò le dita come per una ginnastica contro l’artrite. Inspiegabilmente, rimirandosi le mani guantate e senza rivolgersi a nessuno in particolare, disse: «Dio ci guardi da quelli con l’aria di santità.» Dal tono sembrava che la sapesse lunga sull’argomento.

«Sentito, Paolo?», ridacchiò Gualtiero. «Non sono il solo a dubitare di quei tipi lì. Hanno sempre qualcosa da nascondere.»

«Sono rigidi», sentenziò la cliente. Forse alludeva ai guanti verdi e forse no. Salutò e se ne andò senza comprare niente. Gualtiero si aspettava che Paolo borbottasse qualche insulto, invece non disse una parola.

«Ma che razza di clienti hai? Quella ti mette a soqquadro la bottega, ti fa aprire una scatola dopo l’altra e se ne va com’è venuta.»

«Le persone vanno e vengono, a volte si fermano da qualche parte solo per scambiarsi una parola o uno sguardo.»

«Sei un filosofo.»

«E tu? Come mai non compri niente? Magari ti serve un paio di cesoie, o una lattina di vernice.»

«Che c’entra. Io sono un amico.»

Gualtiero andò a casa, mise la padella sul fuoco con un filo d’olio sul fondo e, dopo qualche minuto, adagiò sull’olio bollente quattro segmenti di salsiccia al seme di finocchio. Poi presa la bottiglia di brandy dalla dispensa, pronto a versarne due dita sulle salsicce sfrigolanti. Da quando viveva da solo, si arrangiava alla bell’e meglio. Cucinare non gli dispiaceva, ma evitava di affrontare ricette lunghe o laboriose. Quando tutto fu pronto, invece di sedersi a mangiare telefonò a Riccardo.

«L’hai spennato bene il pollo, stanotte. Quanto gli hai portato via? [...] Alla faccia! Dobbiamo festeggiare. Ma la sai una cosa? Non gli hai fatto né caldo né freddo. Dev’essere più ricco di una banca. [...] Certo, non dico di no. Magari si rifà, uno di questi giorni. Ma è uno strano, se vuoi sapere come la penso. Non mi fido di uno così. [...] Che c’entrano, il peso e i capelli? [...] Devi essere matto, Riccardo. Mi vieni a dire che uno così grosso e roseo di carnagione... pelato come un culo di neonato... gli occhi azzurri...»

Le salsicce si stavano raffreddando, così Gualtiero chiuse la conversazione ridendo. Era un comico, quel Riccardo. Sosteneva che dei grassi ci si può fidare più che dei magri, perché se ti fanno un brutto scherzo non possono darsela a gambe. Sì, ma quale sarebbe la virtù della calvizie?

Alle otto Rudy abbassò la saracinesca. Ettore non c’era. Gualtiero era più nervoso del solito. Continuò a rimescolare le carte senza decidersi a distribuirle. «Che ti prende?», domandò qualcuno.

«Stasera non me la sento», borbottò Gualtiero sventagliando il mazzo sul tavolo e alzandosi di scatto. «Io me ne vado e, se aveste un po’ di sale in zucca, ve ne andreste anche voi. Dico bene, Rudy?»

Rudy non si scompose. «Cos’è che non va?»

«Gualtiero è convinto che abbiamo una spia», disse Paolo con gli occhi che gli ridevano.

«Una spia?»

«Il numero 8.»

«Beh, Ettore non c’è. Spia o non spia, qui non lo vedo. Comunque», ragionò Rudy, «fate come volete. Siete mica obbligati a restare. Giocare o non giocare è affar vostro, non mi riguarda.»

Aveva parlato da oste, in piedi e con le braccia conserte. Quelli non sapevano cosa fare. Quando Gualtiero si avviò all’uscita pestando i tacchi, lo seguirono in fila indiana, senza fretta e senza parole, con le mani in tasca.

Nessuno lo aveva detto, ma la bisca era finita. Nessuno del gruppo mostrò più alcuna intenzione di fermarsi al bar dopo le otto di sera. Lo stesso Rudy sembrò non meravigliarsi molto di quella svolta.

Dopo un’assenza di due settimane Ettore ricomparve al Moderno, un pomeriggio. Gualtiero e Riccardo stavano giocando a carte allo scoperto, senza soldi, tanto per ammazzare il tempo. «Guarda chi si rivede! Dov’eri finito?»

«Sono stato via.»

I due volevano saperne di più. Specialmente Gualtiero.

«Via dove? In vacanza? In ospedale? In prigione?»

«Sono stato al mare.»

Era il suo tipico modo di dialogare. Non c’era verso di cavargli di bocca alcunché di preciso. Era fatto così. A Gualtiero dava sui nervi per questo.

«Costa Adriatica? Costa Azzurra?»

«Costa niente.»

Anche lo spiritoso, faceva. Gualtiero, che non ci aveva mai badato troppo, lo squadrò da cima a fondo per analizzare com’era vestito. Un bel completo blu chiaro, non c’è che dire. Di mezza stagione. Stoffa da manager. E la cravatta! La cravatta! Non si era mai visto, da quelle parti, un pensionato con la cravatta – se non alle cresime e ai matrimoni. Scarpe nere, lucide, da negozio in centro e funerale di lusso.

«Fammi vedere le mani.»

«Le mani?»

Gualtiero gli prese le mani, spudoratamente, per vedere da vicino quanto fossero curate.

«Vai dalla manicure?»

«Ogni tanto. Perché?»

Gli occhi di Ettore erano pieni di stupore. Le folte sopracciglia di Gualtiero, invece, sembravano diaboliche. La domanda successiva fu ancora più incongruente. E insidiosa. Riccardo, nel sentirla, volse la testa dall’altra parte.

«Ma tu ce l’hai una donna?»

«E tu?»

«La mia è morta.» Lo affermò in modo perentorio, come se la vedovanza fosse per lui motivo di vanto.

«Mi dispiace», commentò il numero 8 senza cambiare espressione. «Ti offro un caffè, se ti va.»

Una moglie per un caffè, pensò istintivamente Gualtiero. Non sapendo come esprimere il suo livore, si limitò semplicemente a scuotere il capo. Poi gli voltò le spalle e uscì senza salutare.

«Che cosa gli ho fatto?», domandò Ettore.

Riccardo lo invitò a sedersi e gli chiese se volesse giocare. Ettore ripeté la domanda.

«Lo sai com’è fatto, Gualtiero.»

«No, non lo so com’è fatto. Cosa dovrei sapere?»

«È diffidente.»

«Allora siamo pari. Sono diffidente anch’io.»

Riccardo era ansioso di cambiare discorso. «Rudy non fa più quel servizio», annunciò.

«Peccato», si limitò a dire.

Giocarono un po’, senza metterci anima. C’era gente che entrava e gente che usciva. Il televisore era acceso, come sempre. Nessuno ci badava. Dopo il notiziario e la pubblicità, comparve sullo schermo una ragazza spigolosa e smunta, con la chitarra. Suonò qualche accordo di introduzione e cominciò a cantare un vecchio motivo in francese, malinconico come l’autunno. Ettore mise sul tavolo l’asso di denari e, senza curarsi della partita, si girò per guardare e ascoltare la cantante.

«L’hai perso», esultò Riccardo. Gli aveva portato via il carico con una briscoletta da niente. Ettore era tutto preso dalla canzone. «La bionda ti ha stregato», commentò il compagno, che aspettava invano la prossima mossa. Quando la canzone fu finita, Ettore guardò l’orologio, si scusò e lasciò la partita a metà. Subito dopo uscì dal bar. Rudy, che teneva sempre tutti sotto controllo, aveva seguito la scena.

«Hai visto che roba, Rudy? Mi pianta a metà partita per guardare la tivvù e poi, come se niente fosse, si alza e se ne va. Come lo interpreti un simile modo di fare? Ha ragione Gualtiero quando dice che l’amico è strano.»

«Boh, io non ci vedo niente di particolare. Ha sentito una canzone che gli ricorda qualcuno o qualcosa d’importante. A te non succede mai?»

«Io non so niente di canzoni, me ne sbatto delle canzoni. Mi servivano da giovane, quando suonavo la fisa per rimorchiare.»

«Questa non la sapevo. E che suonavi?»

«Le solite cose di campagna: qualche valzer, chi si ricorda. Ah, sì: c’era quella musica da zingari, Occhi neri. Era, come si dice?, il mio cavallo di battaglia.»

Il giorno dopo, la storiella aveva fatto il giro della compagnia. Quando Gualtiero venne a saperlo, andò apposta da Rudy per domandargli che canzone fosse quella che aveva sconvolto il numero 8.

«Sconvolto non è la parola giusta. Le ha solo prestato un po’ d’orecchio, forse gli piaceva. Comunque non sono un intenditore, non so che roba sia. Non mi è nuova, ma di più non so dirti.»

Gualtiero era curioso, senza sapere perché. Aveva fatto un patto con sé stesso: evitare Ettore, anche a costo di cambiare bar. Ma infranse il suo proponimento e si rifece vivo tutti i giorni da Rudy al solo scopo di incontrare l’avversario e rubargli, chissà come, qualche segreto. Quando si rividero si scambiarono sorrisi e smancerie, come se nulla fosse successo tra loro. Bevvero del prosecco insieme, brindando alla fortuna e alla vita. Quando la tivvù mandò in onda un quartetto di buontemponi alle prese con un inno da osteria, Gualtiero ne approfittò per unirsi al coro, suscitando l’ilarità degli avventori.

«Guarda che non sei mica in gita sul pullman», lo redarguì Rudy.

«Deve averci dato dentro col bianchino», biascicò ridendo una vecchia a corto di denti.

«Evvia, che tristezza!», sbottò Gualtiero prendendosela con tutta l’adunata. «Cosa c’è che non va nella musica? Provate a immaginare a come sarebbe il mondo senza neanche una canzone. Dico bene, Ettore? Perché almeno a te la musica dovrebbe piacere.»

«Sì», ammise l’interpellato. «Qualche volta mi va di ascoltare un po’ di musica.»

«Cosa ti piace, di preciso? Io vado pazzo per le canzoni allegre. Quelle di una volta.»

«A me piace un po’ di tutto.»

«Fammi un nome.»

«Chopin.»

Gualtiero gli voltò le spalle, piantò i gomiti sul bancone e chiese ancora da bere. Ingoiò il vino tutto d’un fiato borbottando «Chopin» tre volte di seguito, come se si trattasse di una parolaccia. Poi si rigirò bruscamente, puntò gli occhi in quelli di Ettore come a volerlo sfidare a duello e, di botto, gli domandò:

«E a che squadra tieni?»

«Come?»

«A che cazzo di squadra tieni?»

«Al Milan.»

Gualtiero fece tre passi e si lasciò cadere a peso morto sulla sedia più vicina. Sembrava fuori di sé. «Non è possibile. No, non è possibile», continuava a dirsi, in preda a un implacabile tormento.

Ettore guardò Rudy con aria interrogativa. Il senso di quell’avversione gli sfuggiva. Rudy disse a bassa voce che anche Gualtiero era milanista. Ettore si mostrò ancora più perplesso di prima. Quando se ne andò, Rudy ebbe la netta sensazione di aver perso un cliente.

«Contento, adesso?», disse a Gualtiero, con le mani conserte, come un padre che rimprovera il figlio bocciato a scuola.

«Se lo avessi saputo prima, lo avrei lasciato in pace.»

«E se fosse stato interista o juventino?»

«Gli avrei messo le mani addosso.»

«E perché? Io ti sembro milanista?»

«Tu non c’entri un cazzo.»

«Perché ce l’hai con lui?»

«Non lo so. Non l’ho mai saputo. Non lo saprò mai.»


© Pasquale Barbella

L’ultima biglia

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Nicola aveva trovato un impiego provvisorio a Potenza, città fatta di scale e di vento. Vi aveva già trascorso l’inverno più gelido della sua vita. Approfittò delle feste pasquali per andare a dare l’ultimo addio alla casa in cui aveva vissuto, nelle Murge. Era vuota: i suoi si erano trasferiti al nord. Ma qualcosa di suo era rimasto – libri, scartoffie, una branda e poco altro – e bisognava darci un’occhiata per decidere cosa salvare e cosa lasciare, prima di restituire le chiavi al proprietario.

Molti dei suoi amici si erano dileguati altrove, dopo il diploma. Leonardo, però, c’era ancora. La sera del venerdì santo andarono insieme al Pidocchio. Era un vecchio cinema fallito. Nessuno ne ricorda più il nome vero; era Pidocchio e basta, per via della sporcizia e della rovina. Verso la fine dei cinquanta qualcuno aveva comprato il locale, chiuso da anni, e gli aveva dato una ripulita. Nella platea sventrata erano stati piazzati dei tavoli da biliardo, nuovi di zecca. C’era anche un piano superiore con ufficio, bagno e stufa affacciati su un ballatoio da saloon.

Nicola e Leonardo avevano frequentato di tanto in tanto, nelle sere di noia, quella sala giochi, sul tardi. Con le stecche erano due schiappe, ma con le boccette avevano imparato a cavarsela. Non che fossero proprio devoti alle biglie e al velluto verde; solo che a una cert’ora non sapevano che altro fare. Leonardo era sempre sul depresso, forse era nato con un’impronta congenita di tristezza. Rideva spesso, ed era anche un gran parlatore, ma la sua era un’euforia sarcastica, da teenager colto e infelice. Al Pidocchio sembrava rianimarsi un po’.

Trovare un tavolo libero non era facile. Il locale era sempre pieno, la sera. Bisognava mettersi in coda e aspettare che altri si togliessero di torno. Alcuni si installavano lì come se fosse l’ultimo rifugio del mondo, e dal pomeriggio a mezzanotte non c’era verso di schiodarli. Altri avevano l’aria di teppisti ed era prudente tenersi a distanza, attenti a non cedere alle provocazioni. Non era esattamente il posto più adatto ai ragazzi di buona famiglia. Giravano maschere truci e, nell’aria satura di fumo, volavano parole grosse. Per fortuna non si servivano alcolici. Pagavi e giocavi – nient’altro. Se qualcuno faceva lo smargiasso doveva vedersela con Barabba, il padrone del regno. Che ovviamente non si chiamava Barabba, ma chissà come. Del resto, a chi potevano importare i suoi dati anagrafici? O la sua biografia? Barabba era Barabba e basta, con bicipiti tatuati a dovere e un’autorevolezza che nessuno avrebbe osato mettere in discussione.

Succedeva spesso che entravi e in cinque minuti facevi dietro-front, perché vedevi tutti i tavoli occupati e, dalla mobilità espressiva dei giocatori, capivi che erano troppo eccitati per rinunciare alla postazione. Quella sera, come per miracolo, Nicola e il suo amico trovarono un tavolo già sgombro invece di fare la solita coda. Leonardo era più in forma che mai. Era confortante vederlo così preciso nei tiri e persino un po’ strafottente. Al diavolo i malumori. Quel gioco, e il fatto di vincere due volte su tre, lo metteva su di giri. Una specie di terapia, per quel che poteva durare.

Tumpf, tumpf, tumpf. La sala era tutta un concerto di biglie scontrate, di sponde colpite, di buche violate. A Nicola piaceva quella musica. Gli piacevano i colori delle palle, così vividi sotto la luce del neon. Stava giusto calcolando un tiro assassino quando, al lato lungo del tavolo, comparve quel trio di canaglie. Il più basso, che aveva una faccia di tufo, domandò a bruciapelo: «Avete finito?»

Lo informai che avevamo appena incominciato. E quello: «Beh, adesso avete finito. Stop.»

Continuai a trastullarmi con le biglie senza dargli retta. Sbagliai vistosamente il tiro e mi sentii avvampare di vergogna. I tre risero sguaiatamente. Faccia di tufo incalzò: «Non è gioco per bambine. Fuori dai coglioni, tocca a noi.»

Azzardai un vaffanculo. Dalla parte opposta del rettangolo, Leonardo ci mise del suo: «Questo è un posto pubblico. Quando avremo finito, giocherete voi.»

«Hai sentito?», disse il bassetto a uno dei suoi servi, che aveva il viso coperto di pustole. «Questo è un posto pubblico, ha detto. Però si comporta come se il posto fosse suo.»

Nicola e Leonardo continuarono a tirare boccette, ad abbattere birilli, a elaborare geometrie complicate e a misurare con le mani le distanze fra le biglie e il pallino, ignorando gli scocciatori. Come per incanto, quelli si tolsero dai piedi. Nicola bolliva di rabbia. Anche perché non poteva credere che si arrendessero così facilmente.

Dopo tre minuti, infatti, successe qualcosa. Sul bel mezzo del tavolo si abbatté, come un colpo di cannone, un ciocco di legno. Un ceppo della stufa, lanciato dal ballatoio. I due levarono lo sguardo e li videro lassù tutti e tre, che sghignazzavano come iene.

Uno del trio minacciava di tirar giù un secondo proiettile. Fu allora che Nicola andò a cercare Barabba. Gli disse come stavano le cose. «Ci penso io», disse il gigante senza un’ombra di emozione. Giocarono fino a dopo mezzanotte, senza pensare più all’incidente. I tre erano scomparsi da un pezzo. Usciti all’aria aperta, i due amici si salutarono, avviandosi in direzioni opposte.

Nicola s’incamminò per il suo chilometro di strada. Attraversò il centro deserto, chiedendosi che senso avesse quel suo ritorno e a cosa mai gli giovasse la nostalgia. Aveva lo stomaco vuoto e la testa piena di niente. Pensò alle due arance che lo aspettavano a casa, alla valigia lasciata semiaperta sul pavimento, a tutta quell’assenza di suono e di rumore. Stava costeggiando la cancellata della Villa comunale, il punto meno abitato del percorso, quando percepì lo scalpiccio alle sue spalle. Qualcuno gli impose una mano sulla spalla sinistra. Dovette fermarsi e subire quel risolino inconcludente. Faccia di tufo gli parlava come si parla a un fratello minore.

«Che bella faccetta che hai», disse. «Però non sei stato gentile. Devi ammetterlo.»

«Vieni al dunque».

«E come faccio a venire al dunque? Hai l’aria di uno che corre subito dai carabinieri, se ti guasto il faccino. Tu che ne dici?»

«Io non ho niente da dirti.»

«Sicuro?»

«Vado di fretta.»

«Adesso non hai niente da dirmi. Ma lì mi hai detto vaffanculo. O sbaglio?»

«Vaffanculo di nuovo.»

Non l’avesse mai detto. In un baleno, i suoi lacchè lo afferrarono per le braccia, uno da destra e uno da sinistra. Il nano lo sgambettò facendolo crollare sull’asfalto, e gli assestò uno, due, tre pugni sul naso e sulle labbra, come a volerlo sfigurare. Cadendo, Nicola gli si era aggrappato con la sinistra allo scollo del pullover, e lo tirò giù con tutte le forze per avere la faccia di tufo a portata di pugno. Da quella posizione scomoda tirò dei colpi alla cieca con la mano libera. Non era fatto per la guerra, era nato col Nobel stampato in fronte. Lo avrebbero ridotto a pezzi se non si fosse materializzato, alla luce dei lampioni, un angelo in bicicletta.

Il ciclista puntò diritto verso quel groviglio di corpi nel buio, scampanellando a ripetizione. I picchiatori se la svignarono all’istante. L’uomo scese dalla bici e aiutò la vittima a rimettersi in piedi. Si riconobbero a vicenda, con stupore. Era proprio lui, il Sarto. Il suo padrino di cresima. «Fammi vedere», disse prendendogli il mento tra le dita. «Stai sanguinando. Vieni, andiamo in bottega. Ce la fai a camminare?»

«Sì che ce la faccio. Non è niente, non mi fa male.»

Quella che chiamava bottega era il suo laboratorio, in verità modestissimo, di taglio e cucito. Attraversarono la strada e, dopo un centinaio di passi, l’uomo si chinò con la chiave e tirò su la serranda. «Attento a dove metti i piedi», disse prima di accendere la luce. Lo fece sedere. «Apri la bocca.» Un filo di sangue gli era sceso lungo il mento e il collo, macchiandogli anche il maglione. Cercò dell’ovatta e delle garze, gli ripulì le macchie, tamponò a colpetti qua e là. «Hai un labbro gonfio, ma i denti sembrano a posto. Chi erano quelli?»

Nicola gli raccontò la storia.

«L’ho visto, il tuo nano», disse. «Non è uno di qui, ma so chi è. Ha un banco di formaggi al mercato. Quando non è in galera.»

«In galera?»

«Stagli alla larga. Deve avere una fedina da schifo. Non è il nemico che fa per te. Ma tu che ci fai qui? Ti credevo a Bari. O a Potenza. Perché non mi hai avvisato che eri qui? Come mai non sei venuto a trovarci? Hai già cenato?»

Il ragazzo rispondeva all’interrogatorio con qualche verità e qualche bugia. «Domani, comunque, ti voglio assolutamente a pranzo da noi», concluse il Sarto. «Poi, per sicurezza, ti converrà sparire per qualche tempo.»

La mattina del sabato, Nicola raccontò l’avventura ai primi ex compagni di liceo incontrati per strada. Quando descrisse Faccia di tufo, e accennò al banco dei formaggi, Nunzio esclamò: «O cazzo! Proprio stamattina l’ho visto al mercato. Aveva un cerotto enorme tra il naso e un orecchio.»

Nicola se lo fece ripetere, gongolando segretamente di gioia.

«L’hai sistemato, ma ho paura che non te la fa passare liscia. Se vuoi un consiglio da amico, fai la valigia e squagliati.»

Ma non poteva andarsene all’improvviso. Era tornato con un programma ben definito – impegni burocratici, gente da salutare, oggetti da recuperare. Ma era in allarme. Talmente in allarme che, senza ricordare né come né dove, si procurò un coltello di quelli pieghevoli, a serramanico. «Non si sa mai», andava dicendo a sé stesso.

Fece la posta a un tizio della Pubblica sicurezza. Lo conosceva, era fidanzato con un’amica di famiglia. Voleva consigliarsi con lui, in via del tutto ufficiosa. Gli domandò se conoscesse un tizio, alto all’incirca un metro e sessanta, che vendeva formaggi al mercato.

«Se lo conosco! Entra ed esce di cella.»

Gli disse che aveva pestato e minacciato un amico, riportandone una ferita sul volto. «Che succede se il mio amico lo denuncia?»

«Succede che lo prendiamo, lo fermiamo per una notte e domani è di nuovo a piede libero.»

«Anche se è già schedato?»

«Anche se è già schedato. Lo so che dovrei essere l’ultima persona al mondo a parlarti così. Ma non mi va di vederti vittima di qualche vendetta. Quello è un delinquente coi fiocchi.» Aveva capito al volo che l’antagonista del formaggiaio era Nicola. Ci tenne a fargli sapere che il nano, se denunciato, sarebbe stato assai più pericoloso di come già era.

Per quei pochi, ultimi giorni in paese, Nicola evitò – specialmente la sera – di passare da solo in zone deserte. Si fece accompagnare da frotte di coetanei, stava sempre in gruppo anche se non si trattava degli amici più cari. E, senza dirlo a nessuno, accarezzava il manico del coltellino ripiegato in tasca. Pensava a come lo avrebbe usato, in caso di bisogno. Non era esperto in materia. Doveva colpire alla pancia? Al torace? Alla gola? No, alla gola no, avrebbe dovuto alzare un po’ il braccio, anche se l’avversario era basso. Addestrato com’era, il nano avrebbe avuto tempo e modo di bloccarlo. Senza contare che aveva due guardie del corpo. Ma quelli, si diceva Nicola per farsi coraggio, erano dei gregari, delle nullità, e al primo fiotto di sangue sarebbero scappati via. Il ventre gli sembrava più abbordabile, più facile da trafiggere, perché lì la carne è molle e non oppone resistenza. Si perdeva in questi pensieri, fantasticando su mille varianti di attacco e difesa.

Di notte faticava a prender sonno. Si sforzava di immaginare non solo la scena cruciale, ma anche le sue conseguenze. Fra un brivido e l’altro, inseriva qualche speranza. L’avrebbe scampata, se fosse riuscito a sopravvivere fino al lunedì dell’Angelo, giorno fissato per la partenza. Dopotutto non era ancora successo niente di tragico, ed erano già passati due giorni dalla prima imboscata. Gli dispiacque di aver evitato la compagnia di Leonardo, dopo l’ultimo incontro. Ma non voleva metterne a repentaglio la sicurezza. Lui era prossimo a partire ma Leonardo sarebbe rimasto lì, in balia dei predatori.

Cominciava ad aver paura anche del suo coltello. Sapeva bene di non esserne all’altezza. Qualunque arma, nelle sue mani, si sarebbe ritorta – in un modo o nell’altro – contro di lui. Ma non si decideva a disfarsene.

Il giorno di Pasqua ripassò a salutare il Sarto e la sua famiglia. Quanto gli doveva! Non solo per il salvataggio e il pranzo, ma per tutto il sostegno che gli avevano dato dopo la morte di suo padre. Non aveva soldi per un regalo. Allora regalò al Sarto una confessione, perché il poveruomo si stava mostrando troppo apprensivo sul destino di quel figlioccio.

«Se mi tocca di nuovo», dichiarò Nicola con una certa vaghezza, «glie ne faccio passare la voglia.»

«Stagli lontano e basta. Non puoi farcela contro uno di quella specie.»

«Ne sei certo?»

Con un mezzo sorriso, si sfilò di tasca il coltello a serramanico e lo fece scattare con un bel clac.

Quanto si arrabbiò, il Sarto! Tante glie ne disse e tanto alzò la voce che riuscì a farsi consegnare il coltello. Probabilmente era ciò che Nicola voleva fin dal principio, anche se non capiva perché mai l’avesse presa tanto alla larga. Avrebbe potuto semplicemente lasciare quell’oggetto nella casa vuota, o gettarlo nella fognatura. Ma si sentiva un po’ eroe, per aver avuto l’idea di attrezzarsi allo scontro. Adesso era di nuovo disarmato, ma per decreto di una forza superiore. Il fatalismo ebbe il sopravvento sull’angoscia. Vado inerme al macello, si diceva, e ne esco bene anche da morto: tre contro uno, se tutto va male. Uno contro tutti, se per miracolo la scampo.



Venne il lunedì della partenza. Definitiva. Aveva salutato le persone più care, sapendo che molte non le avrebbe più riviste. Il vecchio autobus della Sila partiva di prima mattina e il viaggio era lungo. Era sano, salvo, allegro e triste. Temprato, anche. Il luogo in cui era cresciuto lo stava scaricando per sempre, lasciandogli per ultimo ricordo uno schizzo di sangue.

Sì, era al sicuro – almeno dagli aggressori. Poteva finalmente concentrarsi su altre insicurezze. Ma per quelle c’era più tempo. Poteva permettersi il lusso di soffrire un po’ alla volta, in caso di necessità. Se hai dieci problemi che ti assillano, pensò, preoccupati solo del primo. Gli altri nove contano meno di zero.

Con quella bella scoperta si lasciò cullare dalla corriera, che intanto si era messa in movimento. In pochi minuti, l’abitato scomparve alle sue spalle. Amici e nemici impallidivano, a poco a poco, nei vapori della memoria. Era un altro. Si sentiva rotolare nel futuro come una biglia in moto perpetuo, rimasta sola e senza tiratore su una pianura di velluto verde disseminata di buche.

A Potenza, una domenica sera, un tale gli venne incontro in mezzo alla folla del corso, con un largo sorriso stampato sul volto. Per un po’ Nicola finse di non vederlo. Accennò anche a un cambio di rotta, nell’estremo quanto patetico tentativo di evitare quella seccatura.

Faccia di tufo era al settimo cielo. «Che combinazione!», andava ripetendo, incredulo. Gli si attaccò al braccio, come si fa con un fratello ritrovato dopo anni di prigionia. Lo sospinse nel bar più vicino e gli offrì da bere.

© Pasquale Barbella












L’arte spiegata ai bambini

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Ci sono argomenti che sembrano difficili da spiegare ai bambini, e ancor di più agli adulti non troppo edotti in materia. L’arte è uno di questi. Come si fa a raccontare il Beato Angelico o Braque a persone pur sensibilissime, ma abituate a “giudicare” e “soggettivizzare” (è bello, è astruso, mi piace, non mi piace) anziché a “osservare”? I professionisti della storia e della critica d’arte non sempre sono i più adatti all’opera di divulgazione. Del resto, non è quello il loro compito. Rendere comprensibili i temi complessi è un’arte di per sé, affine alla migliore letteratura concepita per lettori in erba. Ci vorrebbero tanti Rodari per raccontare la matematica, la fisica, la giurisprudenza – e, naturalmente, la poesia e le arti.

Non a caso il francese Alain Korkos, divulgatore molto efficace, è illustratore e scrittore di romanzi per l’adolescenza. Chiunque abbia in casa bambini e ragazzi farebbe bene a dotarsi di Entrate nel quadro! e Bambini nel quadro!, due preziosi strumenti di accesso ai «piccoli enigmi dei grandi capolavori». In Italia sono stati pubblicati da L’Ippocampo nella collana Junior. Un’ottima idea anche per chi non sa cosa regalare ai bambini degli altri.

P.B.




Alain Korkos

Petites histoires de chefs-d’oeuvre, éditions de la Martinière Jeunesse, 2011
Edizione italiana:
Entrate nel quadro!
Traduzione di Monica Zardoni
L’Ippocampo, Milano, 2011

Alain Korkos
Histoires d’enfants en 50 chefs-d’oeuvre, éditions de la Martinière Jeunesse, 2013
Edizione italiana:
Bambini nel quadro!
Traduzione di Monica Zardoni
L’Ippocampo, Milano, 2013


Come (non) cambia l’informazione

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Da Action Comics n. 11 del 4 luglio 2012.


15 giugno 2015, ore 13:44.

Mentre mi accingo a scrivere queste impressioni, l’on. Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, sta esultando in diretta, su Sky 24, per i risultati conquistati dal centrodestra nei ballottaggi comunali a Venezia, ad Arezzo e in altri comuni italiani. Sky 24 è un canale d’informazione che, come dice il nome, è in onda tutto il giorno a qualsiasi ora. Per tutto il giorno e per i prossimi, dunque, c’è da aspettarsi che il mantra sui ballottaggi andrà avanti ad libitum, a meno che non succeda nel frattempo qualcosa di grave come un terremoto o un femminicidio.

I telegiornali delle reti generaliste offrono il vantaggio di essere più brevi, ma durante il giorno sono tanti e comunque, a rinforzare la chiacchiera politica, ci sono i talk-show.

La politica italiana, anche quella minore, gode da sempre di una sovraesposizione mediatica spacciata per approfondimento. In realtà non si tratta di approfondimento ma di banale ripetizione. Si può definire “approfondimento” solo un complesso di considerazioni analitiche espresse da studiosi e osservatori esterni alla politica militante. In televisione invece vediamo e rivediamo in continuazione i protagonisti, grandi e piccoli, della scena politica. Ciò che ascoltiamo da loro è in gran parte prevedibile, e – più che a un razionale progetto politico rivolto alla coscienza dei cittadini – concorre a un programma di marketing elettorale senza principio né fine. Inquinato, oltretutto, da un tono di voce spesso aggressivo, quasi mai propenso al fair play.

I media, specialmente gli audiovisivi, mantengono nei confronti dei politici italiani una posizione talmente acritica o remissiva da sconfinare nel servilismo. Frotte di cronisti esagitati inseguono il primo onorevole, sottosegretario o portavoce che gli capita a tiro, per piazzargli il microfono sotto il naso. E accolgono qualsiasi dichiarazione – o slogan, o insulto – come manna dal cielo. I conduttori di talk-show sono più schierati, ma con la scusa della par condicio danno fiato a qualsiasi tromba e a qualsiasi trombone, partecipando anch’essi alla divulgazione del nulla. Con Lucia Annunziata va meglio, perché si limita a intervistare un personaggio alla volta risparmiandoci lo strazio degli alterchi in diretta.

Mi chiedo se l’informazione, in generale, stia cambiando e, se sì, in che modo, tenendo conto anche del fatto che ai giornali, alle radio e alle televisioni si sono aggiunte le molte voci del web. Voci sia istituzionali che spontanee: il movimento di Grillo e Casaleggio se ne è giovato per ottenere una quantità enorme di consensi, fregandosene dei media tradizionali e, anzi, osteggiandoli apertamente.

Ma che si tratti di canali tradizionali o informatici, resta il fatto che in Italia la comunicazione politica ruota senza tregua intorno a sé stessa, appiattendosi sul “tema del giorno” e sulla polarizzazione di sentimenti e pulsioni elementari (euro sì, euro no, zingari sì, zingari no, migranti sì, migranti no, Europa sì, Europa no, Tav sì, Tav no, Expo sì, Expo no, e così via). Non esistono né sfumature né vie di mezzo, perché – dal punto di vista propagandistico – non funzionano. La retorica politica vigente, comune a tutti i partiti e movimenti ma persino alla protesta di piazza, tende alla semplificazione. A volte gli obiettivi immediati degli attori in campo sono chiari, ma alle strategie per conseguirli rimane poco spazio, a meno che non siano anchesse funzionali al proselitismo.

Da 22 anni a questa parte, il settimanale cartaceo Internazionale (con l’ausilio della versione quotidiana on line) distribuisce notizie e commenti secondo priorità e parametri alternativi rispetto alla stampa tradizionale. D’accordo: è una testata di nicchia e si chiama così perché è un osservatorio dichiarato sulla scena mondiale. Quasi tutti i servizi sono tradotti dalla stampa estera. Ma se viviamo in un habitat globale, e se i nostri accidenti economici e culturali dipendono sempre di più dai macrofenomeni geopolitici, il nostro sistema d’informazione dovrebbe guardare più al modello di Internazionale che all’esagerato localismo al quale siamo abituati dall’Ottocento. La velocità informativa del web, e lo sguardo senza frontiere di Internazionale, fanno sembrare le nostre testate nazionali qualcosa di appena più autorevole di un foglio locale, o addirittura parrocchiale.

La maggior parte dei media italiani, vecchi e nuovi, è incastrata in una contraddizione: sembra incapace di connettersi a visioni di respiro universale e, al tempo stesso, ha assunto un ruolo decisivo nella veicolazione e ripetizione delle opinioni correnti, quasi tutte di matrice partitica. I cittadini sono disorientati: non reagiscono solo con la fuga dalle urne, ma anche con l’adesione confusa, irrazionale, agli slogan del momento. La Lega, per esempio, sta cavalcando la xenofobia popolare con accenti più feroci che in passato, ed è in ascesa per questo. A un vicino di casa che ce l’ha col governo perché «non fa nulla per frenare i migranti», ho chiesto cosa farebbe lui se avesse il potere di dirigere il paese. La risposta è stata: «Non tocca a me, sono loro che ci devono pensare.» Ho insistito offrendogli alcune opzioni: sparare sui barconi? Invadere militarmente i paesi di provenienza? Sospendere i soccorsi? Si è dichiarato contrario a tutte e tre le contromisure, giudicate troppo violente. Sono certo che voterà per la Lega, come probabilmente ha sempre fatto: ma ho riportato il suo punto di vista per concludere che nessuna tv, nessuna radio, nessun medium alla sua portata gli ha mai dato l’opportunità di inquadrare, oltre ai tanti problemi sbandierati dai politici, anche le eventuali soluzioni.

© P.B.





Giardiniere anarchico

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Ritratto di Guglielmi da giovane.


Il 20 aprile 2015 Libereso Guglielmi, al quale abbiamo dedicato il post Il taglio del tiglio, ha compiuto 90 anni. Per l’occasione il comune di Sanremo, dove Guglielmi è tornato a risiedere, gli ha tributato una targa d’onore e lo ha festeggiato con una serata pubblica al Teatro del Casinò. Einaudi sta per pubblicare, a cura di Claudio Porchia, il volume Libereso: manuale di un giardiniere anarchico.
Libereso a 90 anni.

Da Savona News, 17 febbraio 2015

«Libereso Guglielmi è nato a Bordighera nel 1925. Il suo nome è stato scelto dal padre, anarchico tolstoiano e studioso di esperanto, e significa “assolutamente libero di pensiero, parola e azione”. A quindici anni, grazie a una borsa di studio, viene chiamato dal professor Mario Calvino (agronomo e grande botanico) a lavorare presso la stazione sperimentale di Floricoltura di Sanremo. Durante i dieci anni trascorsi lì conosce Italo, di cui diviene amico. Dopo aver diretto una grande azienda floricola del sud Italia, si trasferisce in Inghilterra dove diventa capo giardiniere del giardino botanico Myddleton House e ricercatore dell’Università di Londra. Sposato e con due figli torna in Italia dove, su incarico del Credito Italiano, rimette a nuovo i 40 ettari del Parco di Villa Gernetto a Lesmo.

Ha viaggiato in moltissimi paesi europei e dell’Asia. Ha curato diverse pubblicazioni e scritto sulle più importanti riviste italiane e straniere dedicate ai fiori e al giardinaggio. Oggi è pensionato, vive a Sanremo, ma continua a viaggiare e tenere conferenze spiegando il valore delle erbe e trasmettendo il suo amore per le piante, accompagnato dalla sua straordinaria conoscenza della botanica e della floricoltura. Negli ultimi anni hanno riscosso grande successo le sue ricette vegetariane con l’utilizzo di fiori e di erbe spontanee.»

Savona News pubblica quiun’intervista di Christian Flammia a Libereso Guglielmi.



Il movente

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Illustrazione di Jos van Uytregt, dal volume European Contact Photographers and Illustrators,
Elfande Art Publishing, Reigate (UK), 1988.


Continuavo a salire, tornante dopo tornante. Oltre la diga, oltre la cascata, oltre i vapori che avvolgevano a quell’ora le cime. Mi ero lasciato alle spalle, da un pezzo, il centro abitato, col suo campanile d’un grigio bagnato e severo. Doveva essere quella, pensavo, la parrocchia che aveva offerto a Ileana D. l’ultima chance. La Casa della gioventù, sormontata da un’insegna consunta con l’immagine stilizzata d’un capriolo, stava nella frazione più alta e isolata. Ne avevo visto una foto su internet. Era una vecchia costruzione in legno, che appariva depressa e incupita dal gelo e dal vento. Nei mesi estivi, approfittando della tiepida e incostante clemenza del sole, accoglieva adolescenti in vacanza, affidati alla guida di sacerdoti o volontari da oratorio. Per poco prezzo offriva dormitori e camerette comuni, pensione completa e, su richiesta, colazioni al sacco. Proprio della mensa si occupava, con altri, la donna che ero andato a cercare.

C’era stato un breve scambio di corrispondenza: botta e risposta, in quattro tempi. Le avevo spiegato il motivo della visita, assicurandole che non scrivevo per i giornali ma che mi stavo documentando per un libro ispirato al suo caso. Lasciavo a lei la decisione di usare nomi veri o posticci. Avrei scritto il libro anche senza il suo consenso, precisavo; ma in tal caso sarei inevitabilmente scivolato in un vortice di congetture e banalità, con risultati che ci avrebbero scontentati entrambi. La sua reazione non mi era parsa né promettente né ostile. Aveva preso tempo e manifestato il proposito di consultarsi con don Anselmo, l’unico confidente di cui ormai disponesse. Temevo che il sacerdote troncasse sul nascere le mie aspettative, imponendole un virtuoso silenzio. Invece non solo approvò l’idea, ma quasi la incoraggiò ad aprirsi con me, come se ciò potesse aiutarla a mettere ordine nella sua coscienza. Questo, almeno, è quanto ho creduto di poter desumere dalla sua lettera d’assenso, non meno formale e laconica della prima.

Mi domandavo se l’avrei riconosciuta. Poteva essere molto cambiata dall’epoca dei fatti. In vent’anni si passa dai cinquanta ai settanta – un salto che lascia il suo segno, specialmente se in partenza dimostri molti anni di meno. Le foto stampate sui giornali del tempo la mostravano magra e decisamente più giovane della sua età. Con i capelli neri, cortissimi, su un volto pallido, spigoloso e confuso. Così era stata sorpresa dai flash dopo il ritrovamento su quella spiaggia della Riviera ligure, dopo tre giorni di sparizione. Con la sua utilitaria era uscita dal box sotto casa alle otto di un lunedì mattina, come faceva tutti i giorni feriali alla stessa ora per recarsi al lavoro. Svolgeva mansioni contabili in una piccola fabbrica di infissi e serramenti a nord di Milano, non troppo lontano dalla villetta unifamiliare dove conduceva col marito un’esistenza priva di sbalzi. I colleghi l’hanno sempre dipinta come persona schiva, dedita al lavoro con serietà, poco incline al cameratismo ma non per questo asociale. I vicini di casa serbavano di lei un ricordo altrettanto benevolo, sebbene tendessero a preferirle Francesco, il marito, per l’innata giovialità che alcuni di loro definivano “calore umano”. La coppia era nota nel quartiere per irreprensibilità e gentilezza. Nella bella stagione, capitava due o tre volte di essere invitati da Francesco a una grigliata domenicale in giardino. Sapeva ridere e far ridere, in tenuta da cuoco, mentre si dava da fare con la carbonella e il ventaglio. Ileana provvedeva ad allestire una tavolata alla buona, sotto il pergolato col glicine, e badava a tener lontano il gatto dalle costate e dalle salsicce. Quel lunedì, in azienda non la videro arrivare. La sua assenza non destò allarme: si pensò a una banale influenza. Qualcuno ricordava di averla sentita tossire, prima del weekend. Fu solo il giorno dopo, martedì, verso le undici del mattino secondo i colleghi, che l’assenza di Ileana diventò un caso da prendere sul serio.

Comparve finalmente, alla mia destra, un pannello di legno scritto a mano, con una vistosa freccia ad indicare la mia destinazione. Non era tardi, ma il buio era calato precoce e improvviso. Dall’asfalto si passò a un sentiero disseminato di sassi, largo quel tanto che basta per farci passare a malapena un camion. Poco più in alto il viottolo si apriva in uno spiazzo, anch’esso sterrato, davanti al rifugio. Vi erano parcheggiati un minipullman e un paio di vetture. Due lampioni illuminavano svogliatamente la scena.

La hall, se si può chiamare così, era un ampio e sciatto salone dai molti usi. C’era un desco per la reception, e il resto dello spazio era occupato da una tavola lunga da refettorio, tavolini per quattro, sedie di plastica, un paio di divani a buon mercato, un tavolo da ping pong e un calcio balilla con uno dei centravanti decapitato. Al momento del mio arrivo la sala era inondata da odori di cucina e non si scorgeva anima viva. Attesi pazientemente qualche segno di vita. Un uomo di mezza età, in maniche corte nonostante il freddo pungente della sera a quell’altitudine, irruppe nella sala con un carico di legna fra le braccia, affrettandosi verso il camino. Deposto il peso, si asciugò con un gomito la fronte sudata e mi prestò attenzione. Aveva stazza da pugile e sguardo mansueto. Volle a tutti i costi portarmi il bagaglio, su per le scale, e scusarsi per gli scarsi conforti della stanzetta a me destinata, provvista di un letto a castello e un armadietto sbilenco. Mi indicò il bagno comune, sul corridoio. Gli chiesi dove fossero finiti i ragazzi del pullman. Disse che erano in gita fin dal mattino, e che sarebbero tornati da un momento all’altro. Avrebbero fatto baccano come al solito, si premurò di avvisarmi. Mi guardava come si guarda, nei luoghi d’avventura, un malcapitato appena giunto dalla città, incapace di affrontare i rischi e i disagi a cui va incontro. Gli domandai se e quando avrei potuto incontrare la signora D. Mi fece capire che con i ragazzi in giro sarebbe stata troppo impegnata, e che bisognava aver pazienza almeno fino alle nove, l’ora in cui quelli – piegati dagli strapazzi della giornata – sarebbero crollati nel sonno. Ordinai una grappa, ma non servivano alcool. Ripiegai su un caffè e mi ritirai in camera.

Mi ero quasi appisolato quando il silenzio fu rotto dagli schiamazzi. Sorrisi. Ero stato, come loro, un baraondista di prim’ordine. Quel trambusto di minorenni era il miglior contrappunto alle ansie che mi avevano preso. Che ci ero andato a fare, lassù? Perché mi interessavo a una vicenda così estranea, remota, dimenticata? Che cosa avevo sperato di scoprire e imparare io, ultimo arrivato in una storia voltata e rivoltata – come il risotto in pentola – da inquirenti, avvocati, giornalisti, medici e luminari d’ogni branca delle scienze umane? Non sapevo già a memoria tutto quanto c’era da sapere al riguardo? Non avevo compulsato giornali, dossier, libri che avevano già sviscerato il caso oltre ogni limite? E avevo davvero la stoffa per fronteggiare quella donna e strapparle dichiarazioni inedite? Chi credevo di essere? Pensavo forse che intervistare Ileana D. fosse una passeggiata, come l’aver scambiato quattro chiacchiere con le mezze calzette che avevano avuto a che fare con lei?

La collega, la vicina di casa, i negozianti che avevo braccato in Brianza non potevano che raccontare, sul suo conto, inezie risapute e prevedibili: sciocchezze espresse con dovizia di dettagli insignificanti, come s’addice a chi si sente sotto i riflettori per aver respirato nell’aria il gas dell’eccezione alla regola. Sentite, sentite la vuotaggine di tali testimonianze: ne cavo una a caso dalle registrazioni che ho fatto, sbobinato e corretto: «...Due poliziotti chiesero di parlare col titolare e si trattennero a porte chiuse una buona mezz’ora, nel suo ufficio. Il padrone, poi, si affacciò sulla soglia e ordinò alla segretaria di convocare immediatamente la signora Zurbini. Sembrava nervoso. La signora Zurbini condivideva con Ileana la stessa stanza, quella che fungeva da ufficio amministrativo, che noi chiamavamo “il buco” per quanto era piccola e brutta. Anche Zurbini ebbe un lungo colloquio con gli uomini in uniforme, al riparo da orecchie indiscrete...» Avessi almeno potuto parlare con Zurbini in persona, o con l’imprenditore; ma il tempo fa il suo mestiere e, per farmi un dispetto, erano morti tutti e due. Molte delle persone più vicine alla Ileana di allora non c’erano più, decimate dall’età, dalle malattie, dai trasferimenti. Solo i suoi coetanei, del resto, erano in grado di dire qualcosa di lei: per i più giovani non era mai esistita. Le figlie, poi. Entrambe si erano rifiutate, con indignazione, di ricevermi. Era noto che avevano tagliato i ponti con la madre e che non volevano più saperne. Anche quello era stato un tormentone implacabile, sulle riviste di gossip.

Vidi Ileana D. all’ora di cena, quando – disceso in mezzo alla bolgia dei vocianti – mi feci servire, dal solito factotum, un piattino di taleggio e insalata e un bicchiere di latte. Lei uscì dalla cucina asciugandosi le mani nel grembiule e puntò a occhi bassi verso di me. Aveva capelli sfilacciati d’un grigio spento, occhi chiari e sfuggenti, braccia robuste, ed era in sovrappeso. A mo’ di benvenuto mi tese una mano molliccia che strinsi solo io; subito dopo, svelta com’era venuta, corse a rintanarsi di nuovo in cucina.

Era stata ritrovata quasi per caso nel pomeriggio di mercoledì, sulla spiaggia di Rapallo. C’era cattivo tempo. Camminava lentamente lungo la battigia, incurante dei tuoni e del mare agitato. Indossava un paio di jeans e un giaccotto della stessa tela, che teneva serrato con entrambe le mani all’altezza del collo per proteggersi dal vento umido e freddo. Quando la pattuglia le si avvicinò volle sapere come avessero fatto a trovarla. I giornali e la televisione riportarono frammenti d’intervista al gestore d’un baretto situato a meno di cento metri dal luogo della cattura. Manifestando un certo orgoglio, l’uomo aveva dichiarato di aver riconosciuto subito, nella cliente che gli aveva ordinato un doppio espresso, la donna ritratta nelle prime pagine. Nonostante il diverso taglio dei capelli e l’espressione un po’ meno smarrita.

All’epoca dell’arresto Ileana D. aveva cinquant’anni appena compiuti, due figlie già sposate e, in prospettiva, un avvenire senza problemi economici, sentimentali o di salute. Questo, almeno, è quanto si evince dalle cronache. Su esplicita richiesta dei difensori, l’imputata fu sottoposta a più d’una visita psichiatrica, per accertare se fosse perfettamente in grado d’intendere e volere. La sua confessione fu immediata e spontanea, immune – a quanto pare – dalle reticenze e dai sotterfugi tipici di chi si trova sotto interrogatorio o sotto choc.

Stralci dai verbali degli interrogatori, letti e riletti in aula durante il processo, sono stati trascritti e pubblicati alla lettera infinite volte. Più che interrogatori, sembrano conversazioni. Lineari. Freddamente descrittive, anche quando si scende nella “dinamica dei fatti”, come i giornalisti amano definire l’ingegneria del crimine.

«Mi hanno sempre trattata con rispetto», disse Ileana quando le chiesi se le avessero estorto la confessione. Passeggiavamo nel bosco dietro la Casa della gioventù, quando i ragazzi erano via per le solite escursioni. Tutte le nostre conversazioni si svolsero lì. Era stata lei a deciderlo. Immaginai che non potesse sopportare l’idea d’un tête-à-tête, seduti l’uno di fronte all’altra. Camminare, meglio ancora se su un terreno scosceso, le evitava di guardarmi negli occhi e di sottostare all’autorità che forse mi attribuiva. All’inizio si mostrò un po’ delusa dalla mia età. «Mi aspettavo una persona meno giovane», disse. Le chiesi perché. Non rispose.

Prima di quegli incontri mi ero baloccato con diverse ipotesi sul modo migliore di entrare nel vivo dell’argomento. Scelsi di partire dal presente: da come fosse arrivata tra quelle montagne, come si svolgesse il suo nuovo lavoro, come vivesse fuori stagione – quando la Casa della gioventù rimaneva vuota. Da quei preamboli speravo che nascesse un appiglio casuale, un pretesto per entrare in mare aperto. Non succedeva. Rispondeva spesso a monosillabi, e persino i «sì» e i «no» sembravano costarle fatica. Forse la mia età accentuava la sua soggezione. Era come se la posterità le fosse piombata addosso per prolungare sine die la sua sofferenza, rendere più resistenti e inamovibili i ricordi anziché seppellirli.

I ricordi, il ricordo. Ileana D. si alza dal letto al canto del gallo, si chiude in bagno per urinare, si lava accuratamente le mani col sapone liquido, le asciuga, va in cucina, accende la luce, apre un cassetto, sceglie il coltello più affilato, lascia la luce accesa, ritorna nel corridoio puntando verso la camera da letto, si accerta che la luce proveniente dalla cucina sia sufficiente, prima di entrare in camera si sfila le pantofole per far sì che non si sentano strisciare, si accosta al letto dove Francesco continua a dormire, aiutata dalla tenue illuminazione calcola bene il punto di affondo: appena a destra del pomo d’Adamo, immerge di scatto la punta e, con agilità superiore a quella espressa dal convulso soprassalto della vittima, recide più gola che può. Ritorna in bagno, si spoglia, getta nel bidet la camicia da notte insozzata da schizzi di sangue, si trattiene sotto la doccia più del necessario. Torna in camera, accende la luce, distoglie lo sguardo dal macello, apre l’armadio, preleva prima la valigia e poi alcuni indumenti – non troppi, l’occorrente per una latitanza di 48/72 ore al massimo, – indossa jeans e una camicia, eccetera. Il suo racconto era stato assai più minuzioso di questo, ma è stato ripetuto tante di quelle volte che non ha senso rivangarlo.

E ora, protetti da larici e abeti e attenti a sporgere il passo, sembriamo la caricatura del cronista e dell’interlocutrice disperata dei più infami servizi televisivi, quando l’uno chiede all’altra «Come si sente, signora, dopo quanto è accaduto?». Mi toccava girare intorno alle spine, come se alle conifere del paesaggio esteriore corrispondesse, nel segreto dell’anima, un roveto letale.

«Suo marito la tradiva?», le domandai a metà della seconda passeggiata, a bruciapelo e vergognandomi per l’imbarazzo.

«No, che io sappia», rispose senza trasalire.

«Ritiene di poter escludere del tutto questa eventualità?»

«Non si può mai escludere niente, signore.»

«Era quel che si dice un uomo attraente. Ne era gelosa?»

«So di alcune donne che gli stavano alle calcagna. Ma no, dei due era lui il geloso.»

«La sua gelosia la irritava?»

«No, signore.»

«Se ne sentiva lusingata?»

«Non capisco la domanda.»

Provai a cambiare il filo del discorso.

«Avete mai avuto problemi di salute?»

«Sono stata visitata più volte prima e durante il processo. Anche dopo, in carcere. Non hanno mai trovato niente di serio.»

«Intendevo la salute di Francesco.» Avevo elaborato alcune ipotesi sull’eutanasia precoce, sulla soppressione pietosa di malati terminali. Andavo a braccio. Il movente di quel delitto era la mia ossessione. Nessuno era mai riuscito a venirne a capo. Era tutto chiaro: il quando, il dove, il chi e il come. Ma era sempre mancato il perché.

«Stava bene. Soffriva solo di malesseri marginali.»

«Per esempio?»

Il sentiero, adesso, si inerpicava bruscamente per un tratto. Le porsi istintivamente la mano per aiutarla nel passaggio più critico. Ritrasse di colpo la sua, come se trovasse offensiva la mia premura.

«Disturbi respiratori.»

«Apnee notturne?»

«No. Una leggera roncopatia. Cronica.»

«Mi perdoni: cos’è una roncopatia?»

«Russava», tagliò corto.

«Dev’essere fastidioso dividere il letto con qualcuno che russa», azzardai.

«Cosa sta cercando di farmi dire?»

«Oh, niente, assolutamente niente d’importante.»

«Sono stanca, vorrei tornare in albergo.»

Scendemmo per il declivio in silenzio. Era più svelta, meno impacciata di me. Varcata la soglia della Casa, sparì rapidamente dal mio orizzonte. Dove dormiva, se riusciva a dormire? Per tutto il resto del giorno non si fece più vedere da me.

Il mattino successivo, appena sveglio, notai un foglietto ripiegato sul pavimento, passato attraverso l’interstizio sotto la porta d’ingresso. Non appena lo ebbi fra le mani riconobbi la sua grafia. «Signore, le chiedo scusa per il mio nervosismo di ieri. Non c’era nessuna ragione che lo giustificasse. Oggi sono disponibile dalle 11 a mezzogiorno e dalle 13,30 alle 15.»

Così. Espresso in quel modo, era un appuntamento di lavoro. Forse prendeva nota dei suoi impegni in un’agenda da tavolo, come se avesse conservato il suo ruolo nella ditta di serramenti di tanto tempo prima. Sindrome burocratica: e se fosse anche questa, una patologia? Un veleno per menti deboli e gregarie? Sei scemo, dissi a me stesso mentre mi radevo. Concentrati piuttosto su quelle scuse non richieste.

«Lo sa che russo anch’io?», buttai lì a casaccio, con un cattivo gusto degno di miglior causa.

«Mi dispiace, signore.»

«Perché continua a chiamarmi signore? Non sono né Dio né il suo sergente. La prego, sono un semplice Daniele. Un Daniele da niente. Mi chiami così.»

«Sì, signore.»

«D’accordo, faccia come vuole. La mette a suo agio chiamarmi signore

«Non lo so. Non ha importanza.»

«Che cosa è importante, per lei?»

«Le domande che non riesce a fare sono importanti.»

«Vediamo se è vero. Il suo gesto era premeditato?»

«Non è una domanda nuova. Mi è stata rivolta centinaia di volte.»

«E lei cosa ha risposto? Mi perdoni, non c’ero.»

«Che la premeditazione è un concetto difficile.»

«Suvvia, non è difficile affatto. Lei sa cosa vuol dire, e io anche.»

«Se adesso le venisse in mente di arrampicarsi su quel masso, ma prima di decidersi a farlo lasciasse passare cinque minuti, si potrebbe parlare di un gesto premeditato?»

«No, ma non si potrebbe nemmeno parlare di impulso improvviso, di raptus.»

«Ecco, lo vede che si è risposto da solo.»

«Né raptus né premeditazione. Capisco. Ma cinque minuti sono sempre cinque minuti. Un tempo sufficiente per desiderare, rinunciare, desiderare, rinunciare. Lei non ha...»

«Non ho rinunciato, lo so. Ma le assicuro che ero già pentita prima di farlo.»

«Non esiste il pentimento preventivo.»

«Quand’è per questo, non è mai esistito ciò che lei chiama desiderio, signore. Non ho mai desiderato la morte dell’uomo che amavo.»

«Lo amava, dunque.»

«Cosa le fa credere che non lo amassi? Se non lo avessi amato, mi creda, lo avrei lasciato e sarei andata a vivere per conto mio. Francesco ne avrebbe sofferto, ma senza muovere un dito per fermarmi. Lo conoscevo bene.»

Mi ero cacciato in un vicolo cieco. Perdevo tempo prezioso, in un luogo che non mi piaceva e con una donna che mi piaceva ancor meno. Una donna che riusciva a mentire senza sprecare nemmeno una bugia.

Anche il cielo si innervosì per quello scambio di frasi senza sapore. Preannunciata da tuoni e saette, nel giro di pochi minuti – gli stessi che separano l’intenzione dall’azione – la pioggia cominciò a schiaffeggiare il fogliame e chi c’era sotto. Ci affrettammo. Mi sfilai la giacca a vento e tentai di fargliela indossare. Rifiutò sdegnosamente. Era in giro con una maglia a mezze maniche, grigiastra e funerea come i suoi capelli. Possibile che non avesse mai freddo?

Approfittai del maltempo per starmene a poltrire nel letto. Non avevo voglia né di rivederla, né di scendere in paese a ubriacarmi di grappa, sebbene questa fosse l’unica cosa ragionevole da fare in un posto come quello. A un certo punto mi alzai di scatto, scesi nella sala e cercai del factotum – quello che provvedeva alla reception, al camino, al servizio in tavola e a chissà quanti e quali altri accidenti del cazzo.

«La chiave», dissi con un accento perentorio che non mi è congeniale. «La chiave della camera. Nella serratura non c’è.»

Grande e grosso com’era, arrossì. «Non usiamo chiavi, signore», disse. «Per sicurezza.»

«Per sicurezza? Sicurezza di chi?»

«Dei ragazzi. Vede, se uno di loro si sentisse male di notte...»

«Sì?»

«Se succedesse qualcosa...»

«Beh?»

«...le porte chiuse sarebbero di impedimento...»

«Mi faccia il piacere: non sono un bambino. Ho bisogno di privacy. Per favore: la chiave.»

Si avvicinò al bancone a testa bassa, aprì un cassetto e mi porse una chiave enorme, con annesso un portachiavi altrettanto ingombrante. Un rettangolo di metallo, illustrato col capriolo della Casa e il numero 108.

Tornai in camera e chiusi la porta a doppia mandata. Mi gettai di nuovo sulla branda inferiore di quello stupido letto a castello, dopo aver spalancato la finestra sui larici. Respiravo aria piovana e me ne inebriavo, nonostante la fastidiosa sensazione di far da prosciutto tra due fette di pancarré. L’ozio porta consiglio. Presi non una, ma due decisioni apprezzabili, abbandonato all’ascolto di quella pioggia rilassante. La prima: ridimensionare il progetto. Invece del libro avrei scritto soltanto una novelletta da blog: quella che stai cortesemente leggendo, gentile lettrice o lettore. La seconda: invece di perdermi in chiacchiere con Lady Knife sarei andato a trovare quel prete, don Anselmo, per farmi raccontare le sue impressioni sull’ex detenuta.

Detto, fatto. Il giorno dopo, senza avvertire né Ileana D. né il factotum, mi assentai fino al tramonto, come i tredicenni della Casa. Me la presi comoda. Comprai dei giornali (lassù non ce n’era l’ombra), mi attardai in un bar, bevvi un paio di grappini, lessi qualcosa qua e là, osservai il movimento meccanico dei turisti sulla piazzetta. Dal barista mi feci indicare il miglior ristorante della zona: ero stufo di bistecche fibrose, formaggi alpini e polenta. Gli chiesi anche dove avrei potuto trovare il reverendo, dato che la chiesa e la canonica erano chiuse. Mi suggerì di dare un’occhiata al giardino adiacente: «Non sempre indossa la veste talare. Se vede uno spilungone coi capelli bianchi e un gran naso, tutto preso dal giardinaggio, quello è il suo uomo.»

Il mio uomo non aveva nulla di pretesco. Sembrava, piuttosto, un uomo d’azione, più incline alla vanga che al breviario. Anche lui provvide a incrementare il mio tasso alcolico, offrendomi un liquore d’erbe fortissimo nell’ombra d’un alloggio spartano. Faceva più domande di quante avessi in mente di porgli. Voleva sapere se fossi contento di quel soggiorno e del trattamento, se avessi tratto qualcosa di utile da quei colloqui, e come stesse Ileana, che non si era fatta vedere alla messa di domenica.

«Non sapevo che fosse praticante».

«È molto devota a nostro Signore», rispose. «Ha commesso un errore gravissimo, ma la sua indole non è violenta.»

«È stata messa in libertà molto prima di scontare l’intera pena», ammisi, «per buona condotta.»

«Buona condotta. Prima e dopo il gesto insensato, la sua condotta – stando a tutte le testimonianze che conosciamo, e anche alla mia – è sempre stata buona.»

«Come si spiega, lei, quell’unica eccezione?»

«Non me la spiego. Ne prendo atto e basta, non spetta a noi giudicare. Del resto l’omicidio è sempre un’eccezione, quando non è determinato da consuetudini malavitose.»

«Sì, ma bisogna essere anche concreti. Come possiamo fidarci di una che, di notte, colta dal brivido dell’eccezione, può entrare e uscire a piacimento dalle camerate dove dormono dei ragazzini?»

«Lei adora quei ragazzi», disse con fermezza.

«Non ne dubito. Adorava anche suo marito.»

«Lei è sicuro di non essere prevenuto?»

«Prevenuto in che senso?»

«Se fosse stato lui a uccidere lei, troverebbe la cosa più normale

«Certo che no», dissi con un accento che rendeva evidente il mio sdegno. Come si permetteva di sminuirmi in quel modo?

Si accorse del mio risentimento e addolcì la domanda.

«Intendevo statisticamente normale.»

«Beh, se la mettiamo così. In ogni caso, la statistica è senza cuore.»

«Il cuore. Il cuore è fallibile, mio caro. Il cuore commette più errori della mente.»

Detto da un prete, suonava strano. Al limite dell’eresia. Ma su quel punto eravamo d’accordo. Allora gli domandai che senso avesse il perdono. Lo pregai, spudoratamente, di non citare i Vangeli, ma di darmi una risposta tutta sua, umana, spontanea. Non ero in vena di subir prediche.

«Il perdono è il più grande dei misteri», disse dopo aver cercato a lungo le parole. Per me non era una risposta soddisfacente. Lo sapeva. Allora aggiunse: «Ileana non si è mai perdonata.»

Stavo per dire «chi se ne frega». Ma lui continuò: «Ci sono criminali che si pentono, dopo. Pentirsi è un po’ come perdonarsi. Ileana non conosce né il pentimento né il perdono. Ha fatto qualcosa che non voleva fare, da sonnambula, in trance.»

«A maggior ragione le chiedo: sono al sicuro, quei ragazzi?»

«Io credo di sì», rispose. «Ma dirò a Giulio di distribuire le chiavi.»

«Almeno fin quando non sarà chiaro il movente.»

«Il movente? Quale movente?»

«C’è sempre un movente.»

Di nuovo si mise a piovere. Odio la montagna per questo.

«Domani riparto», dissi a don Anselmo. «Qui non ho imparato niente. È stato il viaggio più inutile della mia vita.»

«Peccato», disse con un sorriso obliquo. «Speravo che il mio liquore d’erbe non le fosse dispiaciuto.»

© Pasquale Barbella

Charleston

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A diciotto anni, dopo lo scoppio della guerra, si arruolò per un anno nell’arsenale di Charleston, come mozzo, a lucidare ottoni. –– Francis Scott Fitzgerald, Il fannullone[1]
Charleston, South Carolina. Il New Cooper River Bridge visto dal Waterfront Park. Foto: Steve Grundy.

Charleston


Charleston, la città portuale del South Carolina dove un razzista ha ucciso in chiesa nove afroamericani il 17 giugno 2015, è famosa per almeno due motivi. Ebbe un ruolo primario nello scoppio della Guerra di secessione, perché le guarnigioni locali scatenarono subito un’offensiva militare contro il fortino unionista presente nel porto. Il secondo motivo è musicale: ha dato il nome al ballo che andò tanto di moda negli “anni ruggenti”. Non solo: nel porto di Charleston è ambientata la vicenda di Porgy and Bess, scritta da un romanziere del luogo, DuBose Heyward, e poi musicata da Gershwin.

Affacciata sull’Atlantico, la città, meta turistica molto apprezzata dagli americani, conta all’incirca 130.000 abitanti. Un quarto della popolazione ha origini africane. Il centro storico, miracolosamente risparmiato dal perfido uragano Hugo del 1989, è raccolto su una penisoletta formata dai fiumi Ashley e Cooper. Lo stragista della chiesa ha inferto un brutto colpo all’immagine moderna di questa ridente Holy City[2], amministrata fin dal 1877 – senza interruzioni – da leader democratici e apprezzata per la vivacità della  scena culturale. Gian Carlo Menotti vi ha istituito, nel 1977, un American Spoleto Festival equivalente, per contenuti d’avanguardia, al modello italiano.
Eubie Blake in un ritratto di Tom Caravaglia, 1979. Nato nel 1883, il pianista e compositore di Charleston ragè vissuto per un secolo. A quindici anni, senza il permesso dei genitori, suonava già il pianoforte all’Aggie Shelton’s, un bordello di Baltimora.

A ritmo di charleston

I neri di Charleston hanno contribuito non poco alla definizione del background culturale della musica d’America. E la musica è quanto di meno razzista esista al mondo, specialmente in un paese fondato sulla molteplicità etnica. Le tradizioni dei gullah, discendenti dagli schiavi delle piantagioni del South Carolina e della Georgia, hanno avuto profonda influenza sulle origini del jazz. Musiche e ritmi che scandivano le fatiche degli scaricatori di porto di Charleston ispirarono al pianista nero Eubie Blake, già nel 1899, Charleston rag, composizione non meno anticipatrice di quelle di Scott Joplin, pubblicata però solo nel 1915. La febbre del charleston iniziò invece con l’omonimo brano pianistico di James P. Johnson, composto nel 1913. Dieci anni dopo, il Charleston di Johnson – con parole aggiunte da Cecil Mack – arrivò sui palcoscenici di Broadway, nella rivista all-black Runnin’ wild di Flournoy Miller e Aubrey Lyles.
James P. Johnson (1894-1955), pioniere – con Jelly Roll Morton – del pianismo stride. Nel 1913 compose Charleston, il brano all’origine del popolare ballo in voga negli anni venti del secolo scorso.

Affermato compositore ed esecutore di ragtime, Johnson fu l’iniziatore del pianismo stride e si distinse, tra l’altro, come accompagnatore di Bessie Smith in varie registrazioni per la Columbia. All’inizio, Charlestonè solo una delle tante composizioni di ragtime e il titolo nasce come omaggio alla città del South Carolina. A New York, Johnson usava suonarla alle feste da ballo dei portuali immigrati da quello stato. L’arrangiamento del 1923 in Runnin’ wild e l’esuberante performance di Elisabeth Welch, coreografata da Willie Covan, fanno di Charleston il virus scatenante di una moda prima americana, poi internazionale. Welch incide il motivo accompagnata da Paul Whiteman e la sua orchestra.
Elisabeth Welch (1904-2003) lanciò il charleston in una rivista di Broadway, Runnin’ wild, nel 1923. Questo ritratto, eseguito dal grande fotografo di celebrità Carl Van Vechten, risale al 1933.

Subito dopo la prima guerra mondiale, negli Stati Uniti si diffonde una gran voglia di feste danzanti e ritmi sincopati. Il ragtime fornisce la materia prima a una serie di derivazioni atte a scatenare le orchestre da ballo, le dive del vaudeville e i muscoli della nazione. Piace la musica che impegna atleticamente le spalle, il bacino e le articolazioni con bruschi scuotimenti e torsioni, serpeggiamenti e giravolte, scatti e sobbalzi, oscillazioni e dondolii. Nel 1918 esplode la moda dello shimmy, partita da un caffè di Chicago frequentato da gente di colore e rimbalzata nei teatri di Broadway. Gilda Gray si agita a tempo di shimmy al Winter Garden su un arrangiamento di St. Louis blues, e più tardi fa impazzire gli spettatori del varietà The Ziegfeld Follies of 1922 con la sfrenata esibizione in un pezzo intitolato It’s getting dark on old Broadway. La bomba erotica Mae West si dà da fare in un’operetta di Rudolf Friml, Sometime, e la sua immagine compare sullo spartito originale di Everybody shimmies now. Bea Palmer non è da meno e si muove con I want to learn to jazz dance. Ethel Waters, prima di affermarsi come cantante meravigliosa, si fa notare come ballerina di shimmy.
Dorothy Sebastian, Joan Crawford e Anita Page nel film Le nostre sorelle di danza (Our dancing daughters, 1928) di Harry Beaumont.

La voga del charleston domina la vita sociale per un triennio. Le cronache del tempo, come ricorda David Ewen in All the years of American popular music[3], riferiscono di ragazzini che lo ballano sui marciapiedi, all’esterno dei teatri, per mendicare spiccioli; di cinquanta morti a Boston nel crollo del Pickwick Club, dovuto alle vibrazioni inferte al pavimento dalla moltitudine scalpitante; di una maratona di charleston alla Roseland ballroom di New York protrattasi per circa ventitré ore consecutive. Allo Small’s Paradise, uno dei club più in vista di Manhattan, i camerieri ballano il charleston te­nendo in equilibrio i vassoi. Nel 1925, tra le famiglie bianche altolocate in cerca di personale domestico, si diffonde il vezzo di assumere collaboratori afroamericani capaci di insegnare il nuovo ballo ai padroni. Joan Crawford, neodiva della Metro-Goldwyn-Mayer, balla il charleston in un film muto, Our dancing daughters (1928) di Harry Beaumont.
In Francia la profetessa del charleston è Josephine Baker, ballerina di Saint Louis importata da Broadway. Con la nuova danza lancia anche la moda dei capelli à la garçonne, ovvero “alla maschietta”, come sotto il fascismo si preferisce tradurre da noi. 

Era inevitabile l’espansione in Europa di quella moda così elettrica. Josephine Baker ne fa, a Parigi, la nuova attrazione delle Folies-Bergère. Cole Porter, dal canto suo, fa casino sulla Laguna. «A Venezia, nell’estate del 1926, i Porter alloggiavano a Ca’ Rezzonico, ma sentivano la mancanza di qualcosa», scrive William McBrien, uno dei suoi biografi. «Decisero che era il charleston. Allora chiesero a Bricktop {una vedette afroamericana che furoreggiava nei cabaret parigini, ndr} di venire a passare l’estate con loro. Per fortuna era libera nei mesi che i parigini trascorrono en vacances, e per di più non era mai stata a Venezia. I Porter avevano già ingaggiato Leslie Hutchinson per suonare e dirigere l’orchestra da ballo sul proprio battello, e lo trattennero per animare i party estivi. Bricktop aveva già lavorato in precedenza con la sua band, il che costituiva per lei un ulteriore richiamo.»[4] I sollazzi porteriani suscitano l’indignazione di Serge Djagilev, il leggendario impresario e direttore artistico dei Ballets Russes. Al segretario, librettista e amante Boris Kochno scrive in una lettera: «Tutta Venezia è sul piede di guerra contro Cole Porter a causa del suo jazz e dei suoi negri. Ha messo su un demenziale nightclub su un barcone ormeggiato alla Salute, e così adesso per tutto il Canal Grande sciamano proprio quegli stessi negri che ci avevano fatto scappare da Londra e da Parigi. Insegnano a ballare il charleston sulla spiaggia del Lido! È orribile. I gondolieri minacciano di massacrare tutte le vecchie americane di stanza qui. Il solo fatto di aver preso in affitto il Palazzo Rezzonico fa molto nouveaux riches[5]
Yes, Sir, that’s my baby, scritta nel 1922 per Eddie Cantor (idolatrato commediante del vaudeville) da Gus Kahn e Walter Donaldson, diventò il charleston più famoso d’Italia con il titolo Lola: «Lola, cosa impari a scuola? / Manco una parola sai di charleston», secondo i versi di Angelo Ramiro Borella. Il regime fascista proibì agli uomini in uniforme di sputtanarsi con quel ballo indecoroso.

Non solo a Venezia, ma in tutta Italia i «balli negri» spopolano, non senza scorno delle autorità fasciste e degli intel­lettuali più fedeli alle italiche virtù. Anton Giulio Bra­gaglia, uomo di teatro e intellettuale dai molti interessi, pone mano alla penna nel 1929, anno VII dell’era fasci­sta, per rivendicare perentoriamente l’urgenza di studi e sperimentazioni sulla creatività musicale e coreografica d’Italia contro il dilagare delle danze esotiche. Il libro (edito da Corbaccio) s’intitola Jazz band e tratta la «ritmica dei negri» con mal dissimulata ammirazione, sfociante qua e là in bordate di livore razzista indegne dell’autore: «L’estetica del Charleston è l’espressione più risoluta d’una dottrina estetica antiellenica, diciamo subito per in­tenderci. Ardita­mente piantando i termini d’un gusto nuovo per noi, — diverso, ep­però barbaro, come si dice qui da tre­mil’anni — si capisce che non solo non è un debito per il ballo ne­gro americano, l’essere goffo e animalesco, ma è un ca­rattere, una origina­lità, una virtù. Quanto più impone il proprio carattere violentemente, tanto più esso è virtuoso. Infatti sembrerà goffo e osceno a noi, ma per colpa della vecchia estetica greca, maestra gelosa, esclusivista, dogmatica. [...] I popoli primitivi si ispirano danzando agli spiriti maligni ed agli animali. Ecco le fondamenta del Charleston. [...] Le frenesie delle epilettiche torsioni di Char­leston sanno insieme di ginnastica sessuale e di mec­canazione della vita.»
Copertina dello spartito di una delle canzoni di Porgy and Bess, 1935.

Porgy and Bess


Porgy and Bessdebutta al Colonial Theatre di Boston il 30 settembre 1935 prima di approdare, dieci giorni dopo, all’Alvin di New York, con la regia di Rouben Mamoulian e l’orchestra diretta da Alexander Smallens. Tra le perle del primo atto: Summertime (Abbie Mitchell nel ruolo di Clara), My man’s gone now (Ruby Elzy nel ruolo di Serena). Nel secondo atto: I got plenty o’ nuttin’ (Todd Duncan nel ruolo di Porgy), Bess, you is my woman now (duetto di Todd Duncan e Anne Brown, ossia Porgy e Bess), It ain’t necessarily so (John Bubbles nel ruolo di Sportin’ Life), I loves you, Porgy (Anne Brown). Nel terzo atto: There’s a boat dat’s leavin’ soon for New York (Anne Brown). L’opera è un adattamento di Porgy, romanzo (1925) di DuBose Heyward, poi dramma teatrale (1927) dello stesso Heyward e di sua moglie Dorothy, ed è un indimenticabile — e inizialmente incompreso — tributo alla negritudine da parte di George Gershwin, ebreo bianco di origine russa.
Charleston, South Carolina. Il vecchio mercato degli schiavi, costruito nel 1859 e oggi adibito a museo.

Per Summertime, Gershwin si ispira vagamente all’inciso di St. Louis blues di W.C. Handy. Un altro ebreo bianco, Jerome Kern, aveva eretto otto anni prima — in Show boat— un analogo monumento al pathos afroamericano: Ol’ man river. La musica degli schiavi entrava nel pentagramma dei compositori bianchi, a dimostrare che non può esserci apartheid dove arte, sensibilità e intelligenza regnano sovrane. Porgy and Bessè una vasta miniera di gemme, molte delle quali, a cominciare da Summertime, brilleranno di vita propria, isolate dalle altre, adattandosi flessibilmente agli stili di esecuzione più vari: come se le arie della Turandot o della Butterfly si prestassero, senza opporre resistenza e senza suscitare scalpore fra i critici, ai virtuosismi vocali di una Fitzgerald o strumentali di un Miles Davis. Nelle intenzioni di Gershwin Porgy and Bess è, a tutti gli effetti, un’opera lirica; la differenza sta nelle matrici culturali, che qui si chiamano gospel, spiritual, Broadway e jazz. A chi gli obietta che è solo una suite di canzoni, l’autore replica che la Carmen di Bizet non è poi tanto diversa. Per noi è un magnifico esperimento di musica trasversale, di quelli che possono fiorire in America: paese che, orfano di tradizioni autoctone – quelle che c’erano erano state purtroppo spazzate via dalla violenza del colonialismo più brutale – e di radicate convenzioni estetiche, ha saputo coltivare tutti gli stimoli con entusiasmo e verginità mentale, senza complicazioni e incrostazioni accademiche.
Fuga di schiavi in una vecchia illustrazione conservata all’Old Slave Mart Museum di Charleston.

Schiavi venduti all’asta in un cartello conservato all’Old Slave Mart Museum di Charleston.

La vicenda di Porgy and Bess si svolge a Charleston, nella zona portuale di Cabbage Row ribattezzata col nome fittizio di Catfish Row, e i suoi protagonisti sono tutti neri. Heyward, l’autore della storia, era un uomo d’affari di Charleston con un sincero interesse per la letteratura realistica, e con sua moglie Dorothy aveva a lungo osservato, con occhio da antropologo, la vita e i comportamenti nei ghetti della città. La trama: Crown, scaricatore di porto, uccide un compagno di gioco dopo una partita a dadi e se la svigna, lasciando sola la sua donna, Bess. Circuita da Sportin’ Life, cinico ma simpatico spacciatore di cocaina che vorrebbe portarsela a New York, Bess preferisce rifugiarsi nel tugurio di un mendicante zoppo, Porgy, innamorato perso di lei. Ma Crown ritorna con le peggiori intenzioni; rivuole la sua amante ad ogni costo. Durante una lite, Porgy uccide il rivale con una coltellata al torace per difendere Bess. Viene arrestato e rilasciato dopo pochi giorni di detenzione, ma nel frattempo lei si è decisa a seguire Sportin’ Life a New York. Porgy non demorde: si mette in strada, con un carretto di stracci tirato da una capra, per andare a snidarla nella metropoli sconosciuta.
La Jenkins Orphanage Orchestra (foto del 1905 circa), jazz band di adolescenti fondata nell’Harleston Village di Charleston verso la fine del secolo XIX.

La storia narrata da DuBose Heyward con tre diversi mezzi espressivi (romanzo, teatro di prosa, teatro musicale) si ispira, assai liberamente, a personaggi e fatti di cronaca autentici. La figura di Porgy ricalca quella di un vero accattone di Charleston: Samuel Smalls, sciancato, lunatico e violento, che circolava per Cabbage Row, nei bassifondi della città, con la capra e il carretto; e che aveva spesso avuto guai con la giustizia, soprattutto per aggressioni e tentativi di stupro. Porgy non è pericoloso come “Goat Sammy”, Sammy della Capra, il suo modello; è solo altrettanto miserabile, brutto, deforme ed emarginato (un equivalente del Quasimodo di Notre-Dame de Paris); condizione che rende, per contrasto, eroico e sublime il suo amore per Bess.

Non mancarono dure critiche a Porgy and Bess da parte di artisti e intellettuali neri, a cominciare da Duke Ellington: accusarono Heyward e Gershwin di paternalismo e inautenticità nella loro rappresentazione stereotipata dei “poveri negri”, e considerarono velleitario e forzato il tentativo di ibridare la musica afroamericana con la cultura dei ricchi europei. Molte di quelle critiche sono state in parte ridimensionate da commentatori altrettanto autorevoli, ma in teatro Porgy and Bess ha sempre attratto in larga maggioranza spettatori bianchi. L’opera si apre con la ninna-nanna più famosa del secolo:

Summertime, and livin’ is easy,
Fish are jumpin’ and cotton is high.
Oh, your daddy’s rich
And your ma’ is goodlookin’,
So hush little baby and don’t you cry...

«Tempo d’estate, ed è facile la vita, / i pesci guizzano ed è alto il cotone. / Sì, tuo padre è ricco / e tua madre è bella, / e allora sta’ buono, piccolo, e non piangere...» Le parole rievocano il mondo dei possidenti del sud, le piantagioni, gli schiavi, le balie fedeli, insomma l’universo che di lì a un anno, nel 1936, Margaret Mitchell descriverà nel bestseller Via col vento e che nel 1939 Victor Fleming tradurrà nell’omonimo affresco cinematografico.
Clark Gable interpreta in Via col vento il personaggio di Rhett Butler, spregiudicato affarista. La vicenda si svolge ad Atlanta, ma Butler viene da Charleston e gode di pessima reputazione in tutto il South Carolina. In realtà è uno dei protagonisti meno indecenti del romanzo e del film.

My man’s gone now, cantata dal personaggio di Serena, vedova dell’uomo assassinato da Crown, corrisponde a un momento altamente drammatico del primo atto. It ain’t necessarily soè il pezzo forte di Sportin’ Life, il personaggio buffo della storia, che qui si diverte a contestare alcuni passi della Bibbia con scetticismo un po’ satanico: la melodia – in cui vengono allo scoperto modi del folklore ebraico, spesso presenti ma non sempre facilmente percepibili nella musica di Gershwin – ha un andamento ambiguo, serpentino, tentatore.
Le canzoni di Porgy and Bess nella storica incisione Verve del 1957, con le voci di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong.

La storia discografica di Porgy and Bess e delle singole arie che la compongono è pressoché infinita. Già nel 1936 esce per la Vocalion un’interpretazione imperdibile di Summertime, quella di Billie Holiday. Limpida come cristallo la versione di Ella Fitzgerald, che con Louis Armstrong e l’orchestrazione di Russell Garcia incide per la Verve, nel 1957, i momenti più emozionanti dell’opera. Altrettanto irrinunciabile la superba suite strumentale di Miles Davis con l’orchestra e gli arrangiamenti di Gil Evans. Frequenti anche i tributi dal mondo della lirica, tra i quali vanno ricordati almeno quelli di Eileen Farrell (1957), Leontyne Price (1965), Cathy Berberian (1970), Barbara Hendricks (1986), Kiri Te Kanawa (1987), Kathleen Battle (1991). Discutibile, anche se adorata da milioni di fan, la Summertime di Janis Joplin, nevroticamente sopra le righe.

Al cinema Porgy and Bessci va nel 1959: è l’ultima produzione di Samuel Goldwyn, e la regia è di Otto Preminger. Porgy è Sidney Poitier, doppiato da Robert McFerrin (padre di un altro vocalista formidabile, Bobby McFerrin). Bess è Dorothy Dandridge, doppiata – lei che pure è stata una cantante di tutto rispetto – da Adele Addison, forse per sopperire a limiti di estensione vocale. Brock Peters è Crown. Sammy Davis Jr. .;impersona Sportin’ Life, ma nel disco Columbia con la colonna sonora originale è sostituito, per problemi contrattuali, da Cab Calloway. Loulie Jean Norman doppia un’altra cantante, Diahann Carroll, nel ruolo di Clara (la balia di Summertime), mentre Ruth Attaway, doppiata da Inez Matthews, è Serena (My man’s gone now). Direzione d’orchestra e supervisione musicale di André Previn con la collaborazione di Ken Darby, entrambi premiati con l’Oscar. Anne Brown, Bess sul palcoscenico, interpreta Summertime in Rhapsody in blue di Irving Rapper, biografia romanzata di Gershwin impersonato da Robert Alda.

© Pasquale Barbella

Charleston, South Carolina, 1969. Coretta Scott King (al centro), vedova di Martin Luther King, partecipa a uno sciopero contro la discriminazione del personale di colore del Medical College Hospital. Foto: Avery Research Center.






[1]“The Jelly-bean”, comparso sul Metropolitan Magazine, ottobre 1920; poi nella raccolta Tales of the jazz age, Scribner’s, New York 1922; ed. it. “Il fannullone”, trad. Giorgio Monicelli, in Racconti dell’età del jazz, Mondadori, Milano 1968.
[2]Gli stati e le principali città degli USA amano identificarsi in uno slogan. Holy City sta a Charleston come Big Apple sta a New York.
[3]Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1977.
[4]William McBrien, Cole Porter – A biography, Alfred A. Knopf, New York, 1998.
[5]W. McBrien, ibidem.

Alla Grecia con dolore

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Atene, 2013. Foto di Alex Majoli, Magnum Photos.


Kaimós (Il dolore)

Parole di Dimitris Christodoulou
Versione italiana di Sandro Tuminelli
Musica di Mikis Theodorakis
Grecia, 1962

È un fiume amaro dentro me
il sangue della mia ferita,
ma ancor di più è amaro il bacio
che sulla bocca tua mi ferisce ancor.

Lunga è la spiaggia e lunga è l’onda,
l’angoscia è lunga, non passa mai.  
Cade il mio pianto sul mio peccato,
sul mio dolore, che tu non sai.

E tu non sai che cosa è il gelo,
cos’è la notte senza luna
e il non sapere in quale istante
il tuo dolore ti assalirà.

Lunga è la spiaggia e lunga è l’onda,
l’angoscia è lunga, non passa mai.  
Cade il mio pianto sul mio peccato,
sul mio dolore, che tu non sai.
Mikis Theodorakis a Parigi nel 1967.

La canzone fu presentata per la prima volta nella rivista Omorphi poli {La bella città} da Grigoris Bithikotsis e ripresa nel 1963 dalla sedicenne Maria Farantouri, diventata da quel momento l’interprete più rappre­sentativa delle canzoni di Theodorakis. Ver­sione italiana per Iva Zanicchi: Un fiume amaro, testo di Sandro Tuminelli molto fedele all’originale. Versioni francesi: Attendre, attendre, testo di Claude Lemesle, e L’amour brillat dans tes yeux. Tedesca: Ich hab’ die Liebe geseh’n.

Canto dell’esilio e dello struggimento di un artista, Theodorakis, perseguitato per le sue idee politiche dal regime dittatoriale im­posto in Grecia dal colpo di stato militare del 21 aprile 1967 e durato sette anni. Quando i colonnelli si impadroniscono del potere, Theodorakis è da tre anni delegato del partito di sinistra nel parlamento, oltre che presidente dell’Organizzazione giova­nile Lambrakis. La sua musica viene imme­diatamente proibita nonostante i numerosi successi conseguiti in patria e all’estero, gli studi con Messiaen, l’ammirazione di Mil­haud e le appassionate analisi teoriche ela­borate con Jannis Xenakis sulla riforma della musica greca. Finisce anche in pri­gione. Liberato nel 1970, fonda e presiede in esilio il Fronte di liberazione patriottico chiamando a raccolta tutte le forze di oppo­sizione alla giunta di estrema destra.

Un fiume amaro dentro me
è il sangue della mia ferita...

diventa molto popolare in Italia nell’interpretazione della Zanicchi, ma a molti sfugge l’esatto e doloroso senso politico di quei versi dedicati alla Grecia. Kaimósè una melodia mediterranea di respiro quasi sa­crale, intimamente legata alle radici del fol­klore ellenico, pervasa di passione e soffe­renza. Fa parte della produzione più popo­lare di un autore la cui opera spazia fra composizioni sinfoniche, oratori, teatro li­rico, musica per balletto e canzoni (circa 750).
Mosca, 1966. Maria Farantouri con Aram Khachaturian.

Selezione discografica

1962, Grigoris Bithikotsis, Paikse Grigori mou, Capitol.
1967, Mikis Theodorakis, The Greek sound, Columbia.
1970, Iva Zanicchi, Caro Theodorakis, Ri-fi.
1971, Melina Mercouri (“Attendre, attendre”), Master série, Podis/PolyGram.
1972, Vicky Leandros (“Ich hab’ die Liebe geseh’n”), Singt Mikis Theodorakis, BMG.
1995, Mikis Theodorakis, Mikis Theodorakis & Maria Farantouri: The birthday concert ’95(live), Bravo Records.
2005, Yannis Parios, O erotikos Theodorakis, EMIGrecia.

Spiazzamento

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Questo testo è stato pubblicato per la prima volta nel volume di autori vari Il dolce tuono. Marca e pubblicità nel terzo millennio a cura di Marco Lombardi, Milano: Franco Angeli, 2000. Lo ripubblico qui dopo quindici anni, con qualche correzione.

Introduzione.

Com’era prevedibile, il passaggio “magico” dal 1999 al 2000, con il suo portato di curiosità, eccitazione, spavento (il bug! la fine del mondo! il raddoppio di “mille e non più mille” di gotica memoria!) e predisposizione a una sorta di cambiamento universale e definitivo (tecnologie da fantascienza! Internet che più internet non si può! la clonazione umana! la vita su Marte!), ha generato in tutti i campi ogni sorta di bilancio e una sola domanda, che però le riassume tutte: «Dove va l’umanità?»

«Dove va la pubblicità?» è la domanda che mi viene rivolta più spesso ultimamente. Non è facile rispondere, perché non è facile nemmeno sapere con esattezza dove stia adesso, la pubblicità, o dove stesse prima del fatidico 2000. La pubblicità “sta” e non “sta”, “va” e “non va” allo stesso tempo; è statica e mobile, multiforme e capricciosa, è tutto e il contrario di tutto, e continuerà a essere tutto e il contrario di tutto, com’è giusto che sia. Ogni giorno il pianeta sforna migliaia e migliaia di messaggi commerciali, attraverso i mezzi che c’erano e i nuovi mezzi che hanno fatto irruzione nella nostra vita. Si tratta di una molteplicità che azzera la concezione del tempo e dello spazio: se si va al Festival di Cannes, per esempio, e si osservano pazientemente i cinquemila spot in programma, si scopre che il passato è più resistente di ogni possibile futuro, e che si avvicendano sullo stesso schermo gli approcci più risaputi e prevedibili con quelli che, cogliendoci di sorpresa e “spiazzandoci”, ci fanno dire: «Oh!». Il pubblico di Cannes talvolta dormicchia, talvolta si sveglia e reagisce fisicamente agli stimoli, alternando fischi di disapprovazione (molti) a ululati di soddisfazione (pochi).

Dove va la pubblicità? Si potrebbe rispondere che va dove è sempre andata: verso una speranza di sicurezza del risultato, raggiungibile, a seconda delle fazioni culturali che la esprimono, attraverso il canale prudente delle esperienze già collaudate (che palle!) o attraverso l’invenzione intelligente e inaspettata. Una delle parole più abusate del gergo professionale è “creatività”: ma che altro è “creare”, se non partorire qualcosa da zero? E che effetto produce un fenomeno “creato” da zero, se non quello di sorprendere e spiazzare chi lo osserva?

Se stiamo al gioco dei bilanci di fine secolo (lasciamo perdere il millennio, è troppo laborioso nonché arrogante presumere di affrontarlo) e delle indicazioni e previsioni e modus operandi per il prossimo futuro, scopriremo che in un universo della comunicazione sempre più complesso e sofisticato dovremo per forza di cose aguzzare il potere dell’intuizione e acuminare tutte le lame retoriche di cui già disponiamo. Una più di tutte: il paradosso, tema ricorrente di questo libro a più voci.

Proviamo a liquidare sommariamente i bilanci del Novecento. Nei suoi ultimi anni, qualcuno lanciò a più riprese una sfida agli intellettuali: con quale formula riassuntiva definire il Novecento? Cos’è che lo ha caratterizzato? Se il Settecento è stato “il secolo dei lumi”, se l’Ottocento è stato “il secolo del romanticismo”, che cavolo di secolo è stato quello appena defunto? Da qualche parte si è letto che è stato “il secolo della morte”. Giudizio crudele ma esatto: le guerre e i conflitti di ogni genere hanno prodotto nel Novecento qualcosa come duecento milioni di morti ammazzati, imbarazzante e ferocissimo record dovuto, duole riconoscerlo, alle meraviglie del progresso tecnologico e industriale. Il Novecento ha reso possibili gli sterminî di massa, laddove ammazzarsi era sempre stato un paziente, artigianale e defatigante esercizio da espletarsi corpo a corpo.

Ma “il secolo della morte” è una definizione che non può piacere a nessuno, e figuriamoci a noi della pubblicità, che per mandato istituzionale aspiriamo all’ottimismo. In parziale contraddizione con il “secolo della morte” e con le mostruose animosità che hanno determinato i massacri, il ventesimo secolo è stato anche caratterizzato dalla scoperta dell’ambiguità. Prendiamo le grandi teste pensanti del secolo, da Freud a Picasso, da Pirandello a Stravinskij, da Proust a Einstein: che cosa accomuna le loro intuizioni, le loro ricerche, le loro rivelazioni? Che non esiste una netta separazione fra gli opposti, né fra le dimensioni (il bene e il male, i buoni e i cattivi, la colpa e l’innocenza, la luce e l’ombra, il tempo e lo spazio, Dr. Jekyll e Mr. Hyde...) Tutto è relativo, persino il tempo (Einstein). Una persona è la somma di tutti i sedimenti in ebollizione nel suo inconscio (Freud). L’individuo è singolare e plurale a seconda delle circostanze (Pirandello: Uno, nessuno, centomila). Il volto umano rivela solo in minima parte ciò che si è (altro che Lombroso!), e se si vuole tentare una descrizione dell’io nascosto occorre rappresentarlo attraverso una lente deformante (Picasso). La valse di Debussy è un valzer che ha perso la sua solarità e la sua schematicità ottocentesca per farsi strada a gomitate in una foresta di dissonanze e impedimenti. Eccetera eccetera.

Arte, letteratura e scienza del XX secolo ci hanno insegnato che la realtà è assai più complicata di come si credeva. I fenomeni non seguono un percorso lineare ma si muovono a zigzag in una selva di contraddizioni.

È stato, insomma, il secolo del paradosso e dello spiazzamento, anche se all’uomo è spesso convenuto appoggiarsi alle semplificazioni del passato: Hitler che sbandiera liste ufficiali di “cattivi” (gli ebrei, gli zingari, i polacchi, gli omosessuali, gli artisti problematici e quant’altro); la guerra fredda che oppone netti schieramenti avversari (l’ovest, l’est).

A capire, accettare e indagare con intelligenza la scoperta dell’ambiguità sono soprattutto gli intellettuali e gli artisti, cioè i “creativi” per antonomasia. La narrativa e l’arte del Novecento ruotano intorno al Paradosso e alla Negazione dell’apparenza come la trottola intorno al suo perno. Ma cos’è il paradosso, e perché occupa un ruolo così centrale nella nostra trattazione? Partiamo dal Devoto-Oli: «Paradosso, s. m. Proposizione che contraddice il reale o presunto meccanismo logico ovvero l’esperienza comune: i p. degli stoici; più precisamente, in senso oggettivo, tesi apparentemente in contrasto con principî od opinioni generali, ma che all’esame critico si dimostra valida [...]; in senso soggettivo, affermazione che, indipendentemente dalla sua verità o falsità intrinseca, è presentata in forma tale da sorprendere il lettore o l’uditore [...] Nella letteratura greca, spec. dell’età ellenistica, breve narrazione di fatti straordinari o aneddoti bizzarri tratti dalla natura e dalla storia, per lo più raccolti in sillogi [...]» Non sembra, questa, la definizione di un annuncio pubblicitario particolarmente riuscito?

Lombardi (cap. 1) disserta con proprietà su paradosso e antinomia, anticonvenzionalità a ambivalenza, come di risorse irrinunciabili per lo sviluppo della comunicazione contemporanea. E sostiene una verità affascinante e assolutamente condivisibile allorché profetizza che «nel prossimo futuro la pubblicità sarà in competizione con l’industria culturale: dovrà divertire, dare spettacolo, aggiornarsi continuamente, stimolare interattività [...]» Il Grand Prix 1999, a Cannes, è stato vinto per unanime consenso da Litany, uno spot per il quotidiano The Independent, che non è solo un bell’esempio di pubblicità ma un’opera poetica di notevole valore espressivo.[1] La voce fuori campo di un poeta punk elenca, come in una litania, una lunga serie di divieti familiari, sociali e culturali che impediscono all’individuo di essere intimamente libero e indipendente: l’ultimo divieto da infrangere è «Don’t read», non leggere, e solo a questo punto compare visivamente il prodotto, il giornale, mai menzionato dalla voce fuori campo, ma il cui nome — The Independent — basta a chiudere il cerchio del teorema (chi sottovaluta il valore dell’informazione soggiace schiavisticamente ai condizionamenti altrui, senza mai afferrare in pieno il valore della democrazia e della libertà).

Hitch docet.

Marion Crane è una brava ragazza di Phoenix, Arizona. Fa la segretaria in un’agenzia immobiliare, ha trent’anni e sogna un marito e dei bambini, come milioni di altre ragazze in ogni parte del mondo. Ha anche un fidanzato, bello e simpatico, con un solo difetto: è già sposato. Lui abita in un’altra città ed è impiegato in un drugstore. Si danno frettolosi e clandestini convegni, una volta alla settimana e durante la pausa pranzo, in una sordida camera d’albergo. Siamo nel 1960, e la provincia americana non è molto tenera con chi pratica il sesso fuori dal matrimonio. Il ragazzo è ai ferri corti con la moglie; vorrebbe divorziare, ma non ha nemmeno i soldi per pagarsi l’avvocato.

Un venerdì pomeriggio Marion è incaricata dal suo datore di lavoro di depositare in banca 40.000 dollari in contanti. Una bella tentazione. Ci pensa, ci ripensa, e infine decide di fare la bravata che deciderà della sua vita. Invece di portare i soldi in banca, si mette al volante della sua auto e se la squaglia. Strada facendo, nella speranza di confondere le tracce, compra un’auto usata e dà in permuta la sua, suscitando la curiosità di un poliziotto. Si fa tardi, e la fuggitiva sceglie di pernottare nel motel più defilato della regione. Talmente defilato che tutte le camere sono libere. Il giovane gestore del motel, un certo Norman Bates, ha dei problemi con la madre malata, che abita nell’edificio accanto e lo tiranneggia senza mai uscire dal suo appartamento. Norman è carino, gentile, esageratamente introverso: la balbuzie è solo uno dei suoi molteplici tic. Impaglia uccelli per hobby. Ha anche un altro hobby: spiare attraverso un foro nella parete l’intimità dei suoi rari ospiti, specie quelli di sesso femminile. Marion si concede una doccia ristoratrice e catartica: è pentita del furto, ed è intenzionata a restituire il denaro l’indomani. Non ci sarà domani; Norman, colto da uno dei suoi raptus, la pugnala forsennatamente nella doccia.

Tutti avrete riconosciuto in questo sommario la trama di Psycho, il film più spiazzante di tutta la storia del cinema. È il capolavoro di Alfred Hitchcock, che dello spiazzamento fu maestro indiscusso. In Psycho tutto è spiazzante: non solo il finale, quando si scopre che la madre di Norman è morta e impagliata da dieci anni ed è lui, schizofrenico, a impersonare contemporaneamente il figlio matricida e la madre inesistente. È spiazzante, per esempio, la scelta del cast. Marion è Janet Leigh e il suo amante John Gavin, due attori molto popolari negli anni Cinquanta: tipica coppia di belli, innocenti e asessuati modello college, che qui sudano insieme nella penombra un po’ tetra degli alberghi a ore, e come se ciò non bastasse lei si mette anche a rubare. Spiazzante è la struttura narrativa del racconto: per quaranta minuti Hitchcock ci fa credere che Marion sia la protagonista assoluta della vicenda. La macchina da presa non la perde di vista un istante. Lo spettatore si appassiona al suo caso e trepida per lei: soffre perché si è messa nei guai, si chiede cosa farà con quei soldi, se tornerà indietro, se riuscirà a sposare il suo amante. Ma, del tutto inaspettatamente, l’eroina (o antieroina) Marion Crane viene brutalmente assassinata a metà film. Un colpo di scena di cui non si ricorda alcun precedente. Il protagonista diventa un altro, il suo carnefice (Anthony Perkins, altra faccia da bravo ragazzo); e poi via con altri colpi di scena tipici, e atipici, del noir. È atipico (e dunque spiazzante) che Norman ammazzi anche il detective Arbogast (Martin Balsam), proprio quando lo spettatore comincia a coltivare l’idea che tocchi a lui sciogliere i nodi della vicenda. Ed è atipica e beffarda l’ironia con cui Hitchcock gioca a rimpiattino con lo spettatore, spargendo qua e là indizi e presagi che tingono di humour anche il destino più nero: il cognome di Marion è Crane, che in inglese vuol dire “gru”, e il suo carnefice è un impagliatore di uccelli.

Non c’è storia senza viaggio, non c’è viaggio senza suspense.

Psycho, insomma, può essere considerato come un catalogo completo e articolato di detour narrativi.[2] Tutte le trame del mondo, da quelle di Omero a Cappuccetto Rosso, dalla Commedia di Dante a On the road di Kerouac, dall’Ulisse di Joyce ai racconti pulp, dagli endecasillabi dei cantastorie siciliani alla fantascienza, da Moby Dick alle soap opera, raccontano la storia di un viaggio. Nello spazio, come nell’Odissea o Easy rider, o nel tempo, come nella Recherche proustiana. Un viaggio che però non conduce dal punto A al punto B in modo noiosamente lineare, ma dopo una serie di interessanti deviazioni. Queste deviazioni, o “spiazzamenti”, sono ciò che rende imprevedibile, drammatico, ansiogeno, e quindi efficace, il racconto. Marion Crane se ne va on the road da Phoenix verso un luogo dove spera di rifarsi una vita con l’uomo amato; la tappa al motel esige una deviazione – in senso letterale – dalla highway. E che deviazione! Cappuccetto Rosso affronta una scorciatoia per arrivare a casa della nonna. La scorciatoia passa attraverso il bosco. Nel bosco c’è poca luce, e c’è il lupo. Che ne sarà della povera creatura indifesa? Cominciamo a fremere per la sua sorte. Il lupo è più astuto e creativo di un normale serial killer. Potrebbe liquidare subito la preda (come Norman Bates in Psycho), ma il suo senso estetico gli suggerisce di tirare in lungo: prima conviene divorare la nonna, poi, come dessert, la carne – più tenera e dolce – della nipotina.

Lo spiazzamento è la digressione, il “pensiero laterale” – per dirla alla Edward De Bono, suo teorico ufficiale[3]– che sta alla base di ogni forma di creatività. Nella comunicazione, non importa se artistica o commerciale, è un’alternativa necessaria alla banalità del ragionamento lineare, che nella maggior parte dei casi lascia indifferente chi dovrebbe prestarvi attenzione. La pubblicità, costretta in pochi secondi a emergere fra milioni di stimoli e informazioni, non può più permettersi il lusso di essere eccessivamente didascalica, ripetitiva, prevedibile. Non basta più, se non in casi di assoluta novità del prodotto o servizio presentato, allineare una sequenza di stereotipi acquisiti nel tempo e logorati dall’uso.

Volkswagen come Cappuccetto Rosso.

Lo spiazzamento consiste essenzialmente nell’introduzione di uno o più colpi di scena all’interno di un programma di informazioni, e ha la funzione di rendere più intenso il messaggio, sottolinearlo, portarlo all’evidenza estrema. C’è un vecchio spot, esemplare, per il “maggiolino” Volkswagen. Alta montagna, notte, bufera, strade impraticabili. Un maggiolino avanza sulla neve, s’inerpica per impervie pendenze, giunge miracolosamente a destinazione. L’autista lascia l’auto, spalanca il portale di un deposito ed esce in missione col gatto delle nevi. Anche questa è la storia di un viaggio, anche questo è un piccolo thriller. Lo spiazzamento è insito nella struttura stessa del racconto. La struttura narrativa è quella di una favola a rovescio: il contrario, speculare, di Cappuccetto Rosso. Nella favola c’è un’atmosfera idilliaca di partenza (la bella bambina, il cestino da portare alla nonna, l’incanto del bosco) su cui il narratore fa incombere sadicamente un senso di pericolo e di terrore (il lupo). Nello spot Volkswagen la piccola auto (Cappuccetto Rosso?) procede fra mille difficoltà in una notte di tregenda. Ma sull’itinerario oscuro e inquietante aleggia, al contrario che nelle favole del lupo cattivo, una speranza che ci tiene col fiato sospeso («Riuscirà il nostro eroe a raggiungere la méta?»)

Unico neo in tanta perfezione: una voce fuori campo ci avverte fin dall’inizio che il viaggiatore solitario è l’addetto alla manutenzione delle strade. Lo speaker chiacchierone dice: «Vi siete mai chiesti come fa l’uomo del gatto delle nevi a raggiungere il gatto delle nevi? Quest’uomo guida una Volkswagen. Perciò smettetela di porvi domande come questa.» Lo spot risale a quarant’anni fa;[4]fosse più recente e smaliziato, gli autori ci avrebbero quasi certamente risparmiato quel commento superfluo. E ci avrebbero riservato un bel colpo di scena, perché le immagini sono già costruite in funzione di una rivelazione teatrale che non ha bisogno di spiegazioni: la porta del garage è infatti il sipario che si frappone fra lo spettatore e le sue attese («Dove va quest’uomo di notte? Perché sfida le intemperie? Come va a finire la storia?»). Il sipario si apre, scopriamo il gatto delle nevi: il messaggio arriva direttamente alla testa e al cuore, e sta a dirci — meglio di mille parole — quanto efficiente, coraggiosa e sicura sia quella piccola automobile.

Rovesciare i cliché.

Un famoso spot per il quotidiano britannico The Guardian non solo ci sorprende con due colpi di scena di grande intensità drammatica, ma addirittura ne spiega l’obiettivo: lo spiazzamento, in questo caso, è esattamente il tema di cui la campagna si occupa. Il film è girato in bianco e nero per conferire un senso di reportage, quindi di verità, a ciò che si vede. Nella prima scena vediamo uno skinhead che scatta in una corsa improvvisa sul marciapiede di una strada di periferia, e ci chiediamo: «Chi è costui? Dov’è diretto?». Prima rivelazione: lo skinhead dall’aria minacciosa punta decisamente verso un signore di mezza età, e ci prepariamo a una scena di violenza. Lo aggredirà? Gli darà uno spintone per rubargli la ventiquattrore? Lo ucciderà per vendicarsi di un torto? Ed ecco la sorpresa risolutiva: il campo visivo si allarga, l’uomo anziano sta per essere investito dal crollo di un cornicione, lo skinhead è scattato per salvarlo.[5]La tesi di The Guardian ora è chiara: i giornali seri sono quelli che presentano il quadro completo della situazione, non quelli che trattano l’informazione in modo artatamente frammentario per influenzare e fuorviare l’opinione pubblica.

Gli esempi riportati mettono in luce la straordinaria capacità dimostrativa del paradosso, quando è usato con intelligenza al servizio di una tesi. È paradossale che la piccola Volkswagen risulti altrettanto affidabile di un gatto delle nevi. È una tesi iperbolica, e la struttura thrilling del racconto contribuisce ad aumentare la credibilità della promessa, perché mette lo spettatore in condizione di identificarsi emotivamente nell’autista e di simpatizzare con lui. Entriamo in un’atmosfera di avventura e di piccolo eroismo quotidiano: Volkswagen ci sta dicendo, fra le righe, che tutti siamo in grado di dominare gli eventi e di superare gli ostacoli, se solo ci attrezziamo per farlo. La pubblicità funziona quando sa suscitare emozioni.

Il paradosso di The Guardian opera a un diverso livello. Mira a rovesciare i luoghi comuni, i pregiudizi, le idee preconcette. Vediamo un punk e pensiamo subito al peggio. Vediamo un signore col cappello, il cappotto e la ventiquattr’ore e pensiamo subito che, in quel contesto, è la vittima ideale. Provate a raccontare la stessa storia mettendo un boy scout al posto del punk, e tutto diventa non solo insipidamente “normale”, ma persino sbagliato.

Vendere è un’arte.

Alcuni sostengono che la pubblicità di questo tipo sia troppo complicata, poco diretta, non sufficientemente descrittiva del prodotto. Sono quelli che dividono nettamente la “pubblicità che vende” dalla “pubblicità che vince i premi”. Essi non ricordano che anche vendere è un’arte. Quando la pubblicità moderna non era ancora nata, i venditori di piazza dovevano fare uso del proprio talento creativo personale, esattamente come oggi è necessario fare nella comunicazione attraverso i mass media. Nelle fiere di paese arrivavano gli ambulanti con la loro variegata mercanzia, e il successo era direttamente proporzionale alla loro capacità di showmen. Per valorizzare le caratteristiche di un servizio di piatti, ne lasciavano cadere uno al suolo per dimostrarne l’infrangibilità; prima di questo gesto plateale ma efficace, facevano crescere la suspense promettendo e ritardando il lancio del piatto. La linearità del discorso era continuamente interrotta da sapienti tecniche di depistaggio: aneddoti, battute, provocazioni, smorfie da commedia dell’arte; e alla fine il piatto cadeva, e se per caso si rompeva ecco un altro paradosso: è fragile perché è puro cristallo, i piatti infrangibili sono di qualità più scadente.

Del resto basta sperimentare un po’ di shopping turistico nel Nordafrica o in Medio Oriente per rendersi conto di quanto irresistibile sia la capacità creativa dei mercanti e dei loro commessi, e di quanta immaginazione occorra dispiegare in una trattativa sul prezzo della merce. Provate a visitare un bazar di Marrakech con la pura intenzione di curiosare e basta; le probabilità che riusciate ad andarvene senza aver comprato una teierina, un tappetino berbero o almeno un sasso del deserto sono davvero scarse.

Depistare con la musica.

Ma torniamo alla pubblicità e alle infinite risorse del paradosso. Le tecniche di spiazzamento sono le più varie. Uno spot per la Lufthansa[6]dimostra in modo esemplare il potenziale emotivo (e spiazzante) di una colonna sonora. Il filmato di cui parliamo è suddiviso in due parti perfettamente simmetriche. Tutto ciò che vediamo nella prima parte si ripete esattamente nella seconda: l’unica variante sta in ciò che ascoltiamo. Un uomo d’affari europeo appena arrivato a New York è diretto in taxi dall’aeroporto all’albergo. Ancora un viaggio! Un viaggio apparente lineare, dal punto A (l’aeroporto) al punto B (Manhattan). Ma ciò che il protagonista vede attraverso i vetri del taxi è una metropoli inquietante fino alla mostruosità. Un montaggio, nervoso come quello di un videoclip, ci mostra frammenti di vita insopportabile – il caos del traffico, gente che corre da ogni parte, volti e gesti minacciosi che ci ricordano un po’ lo scenario ansiogeno di Taxi driver. Al montaggio isterico si accompagna un soundtrack che non è da meno: sirene impazzite, accavallarsi di voci e rumori, sferragliamenti, insomma tutti i decibel dell’inferno. La lunga sequenza viene replicata tale e quale, senza il minimo intervento sul montaggio; ma invece dei suoni e dei rumori questa volta ascoltiamo un rasserenante segmento di musica classica, il Canone di Pachelbel. Tutto ciò che abbiamo visto e stiamo rivedendo cambia completamente di tono e significato: ecco una metropoli affascinante e ricca di stimoli vitali, un mondo magnifico da scoprire, un luogo che esprime sé stesso con la stupefacente ricchezza e varietà culturale di un teatro aperto in modo permanente. La tesi è «You see the world the way you fly»: la tua visione del mondo dipende da come voli. Lufthansa vuole dirci che la lettura di un ambiente dipende dal nostro stato d’animo: se arriviamo da un lungo viaggio stanchi e nervosi saremo portati a vedere tutto in negativo, mentre se siamo sereni e riposati vedremo ciò che ci circonda con sana e partecipe curiosità.

Lufthansa ci offre un saggio eloquente sulla potenza significante dei suoni associati alle immagini. Non si tratta solo di aumentare la temperatura emozionale o il ricordo delle scene. Né soltanto di catturare l’attenzione e affascinare l’orecchio. La musica può ancora di più: orientare il senso stesso del messaggio, fornirne la chiave di lettura risolutiva.

Lo spiazzamento musicale, cioè l’apparente contraddizione fra musica e immagini, non è un procedimento retorico del tutto nuovo (Kubrick è stato un maestro in questo senso), ma ha avuto il suo massimo sviluppo solo negli ultimi tempi. Nelle campagne Swatch del 1997-1998, lo spiazzamento (musicale e non) ha un ruolo di primo piano e si fa carico di complessi sottintesi concettuali. La campagna «Time is what you make of it» ha addirittura comportato il recupero e l’ascensione nelle hit parade europee di un motivo pop che prima era passato fra l’indifferenza generale, in Italia come altrove. Il brano si intitola Breathe ed è eseguito dal suo autore, Midge Ure, ex leader degli Ultravox. La campagna parte con uno spot introduttivo, di valore istituzionale, che appoggia la sua tesi un po’ al pensiero di Bergson e un po’ alla teoria della relatività: Quanto dura un minuto? Cos’è il tempo? È una dimensione oggettiva, o un’estensione della coscienza che muta col mutare dei nostri stati d’animo? Einstein, che oltre a essere il genio che sappiamo era anche dotato di uno spiccato senso dell’umorismo, una volta cercò di spiegare la sua teoria con queste semplici parole: «Se siete seduti accanto a una ragazza carina, un minuto volerà in un attimo. Se invece siete seduti su una stufa bollente, quel minuto vi sembrerà un’eternità. La relatività è tutta qui.»

Lo spot introduttivo della campagna Swatch parte con la domanda «Quanto dura un minuto?» e fornisce una serie di risposte diverse (dieci secondi, un’ora, una vita), in un crescendo paradossale di piccole gag e grandi emozioni. In altri episodi del ciclo la campagna si fa più schiettamente umoristica: quanto dura un minuto, se stai per farti la pipì addosso e il bagno è occupato? Quanto dura un minuto, se sei in porta e devi parare un calcio di rigore? Quanto dura l’ultimo minuto di cammino della sposa diretta all’altare, se si fa prendere dai dubbi sulla scelta del consorte? Quanto dura un minuto, se non riesci a slacciare la cerniera lampo della nuova conquista che hai portato a casa dopo cena? La canzone Breathe viene impiegata come leitmotiv dell’intera serie, non solo per una necessità di collegamento sinergico fra i differenti episodi ma anche per riaffermare, nonostante la comicità in campo, la serietà della riflessione filosofica di fondo: «Il tempo è ciò che ne fai tu» è una tesi che, persino nei momenti di spassionato divertimento, merita una segnaletica sonora di una certa dignità. Breatheè una canzone di solenne respiro melodico, del tutto “fuori luogo” rispetto a una gagcome quella dell’uomo torturato dal bisogno impellente di orinare. La dicotomia fra musica e situazione produce un effetto esilarante, anche perché il torrenziale afflato melodico, in combutta con una serie di inserti visivi su fontane, cascate e altri stimoli acquatici, rende ancora più intenso il bisogno di liberare la vescica.[7]

Spiazzamenti multipli.

C’è un’altra famosa saga sulla pipì, quella della campagna Infostrada. Com’è noto, l’avvento di questo nuovo operatore telefonico in Italia coincideva con la fine del monopolio Telecom nei servizi di telefonia fissa. Lo spot di lancio impiega almeno tre diverse tecniche di spiazzamento. La prima riguarda la struttura del racconto, con una parte iniziale volutamente difforme da quella finale (due storie in una); la seconda è un colpo di scena che rovescia i codici narrativi della pubblicità comparativa; la terza è, ancora una volta, l’uso della musica. Si comincia con un piccolo cantiere in città. Una squadra di operai, di aspetto muscolarmente ed eroicamente macho come nei film di Stallone, installa in piazza una cabina telefonica verde. La sequenza è drammatizzata da diversi ingredienti: la curiosità dei passanti, il montaggio serrato, le angolazioni “epiche” della macchina da presa, la musica di Wagner (l’ouverture di Rienzi). Ci aspettiamo che lo spot sia finito subito dopo il collaudo della cabina. E invece no: quando gli operai se ne vanno, scopriamo che accanto alla totemica cabina verde ce n’era già un’altra, identica e rossa. Il simbolo di Infostrada contro il simbolo di Telecom. Arriva un cane; Wagner, da impetuoso che era, diventa leggero come un soffio d’aria. Il cane annusa le cabine, indugia. Vuoi vedere che adesso fa la pipì sul concorrente? Macché: il cane solleva la zampa contro la cabina verde. «Finalmente siete liberi di scegliere», commenta una voce fuori campo.[8]Telecom non può offendersi. E, del resto, i cani non fanno la pipì in segno di disprezzo, ma per contrassegnare il territorio che hanno scelto. Il cane ha scelto Infostrada, a modo suo. E Wagner sottolinea la solennità dell’evento, nobilitandone la platealità con uno spruzzo di poesia.

La pubblicità, come ogni genere narrativo, gioca sull’effetto sorpresa. Si potrebbe obiettare che la sorpresa è tale solo alla prima visione. Ma quando il messaggio è veramente riuscito si torna volentieri a goderne, soprattutto quando la sua semplicità è arricchita e impreziosita da virtuosismi, sfumature, piccole allusioni. I migliori annunci, i migliori spot non stufano mai, perché ci fanno scoprire ogni volta un dettaglio che prima ci era sfuggito. La secolare favola di Cappuccetto Rosso è tuttora più viva che mai: non tanto per la parte che ci è ultranota, quanto per i segreti che forse può ancora svelare.

Conclusione.

Come sanno bene i creativi di ogni parte del mondo, il loro è un mestiere schizofrenico. Da una parte si esige da loro lo sfrenamento di una fantasia senza inibizioni; dall’altra li si frustra in continuazione, pretendendo che si adeguino al ricettario iperlogico e ripetitivo del marketing. I poveracci non sanno più da che parte voltarsi, e prima o poi si beccano una bella depressione: una ricerca condotta anni fa negli Stati Uniti sugli stress professionali indica i pubblicitari in terza posizione, dopo i poliziotti e gli agenti di cambio, nella classifica dei lavoratori più esposti alle patologie gastriche e nervose.

Il problema è spesso una conseguenza dell’incompatibilità culturale fra gli addetti alla creatività e i manager aziendali. La formazione degli uni e degli altri è terribilmente specialistica, e ciascuno tira per la sua strada e parla il suo linguaggio. Anche fuori dall’ambito strettamente professionale, gli interessi e gli hobby coltivati coincidono solo di rado, e magari in ambiti (come lo sport) non sempre direttamente correlati al lavoro quotidiano. Ci sono grandi investitori che non vanno mai al cinema, ma che devono giudicare e approvare la sceneggiatura di uno spot; così come ci sono creativi espertissimi in materia cinematografica, fotografica o musicale, ma che ignorano del tutto le problematiche del mercato, le dinamiche di marca e le policy aziendali, rendendosi inaffidabili agli occhi del committente. In più, la forte competizione fra gli operatori per assicurarsi un budget li mette talvolta in condizione di accettare compromessi che non fanno bene alla qualità del lavoro: il sistema delle gare di creatività fra agenzie concorrenti, voluto dalla maggior parte degli investitori, non sempre garantisce la vittoria dei consulenti più coraggiosi.

Se non c’è creatività senza suspense, figuriamoci se può esserci creatività senza coraggio. Lombardi scrive che sono rari i manager aziendali che accettano di buon grado di farsi spiazzare da una buona idea. È molto vero, anche se è onesto ammettere che questa non è e non può essere l’unica ragione di tutta la pubblicità scadente che si vede in giro. L’ottusità di taluni non può diventare un alibi: anche i pubblicitari hanno l’obbligo di migliorarsi, di imparare in continuazione, di esercitarsi in una costante e costruttiva autocritica, di studiare e di leggere di più. In generale, chiunque si occupi in Italia di comunicazione dovrebbe rivedere ogni giorno le proprie opinioni e mostrarsi più flessibile; le certezze assolute, i pregiudizi e l’abuso di copy test non stimolano l’innovazione, ma sanciscono lo statu quo e promuovono il déjà vu. Nei contesti internazionali l’Italia fa ancora la figura di un paese conservatore, provinciale; la nostra sembra una fabbrica di pubblicità didascalica e funzionale, con tutte le cosine spiegate per bene a un pubblico di presunti deficienti. Fare bene questo lavoro implica una dose di eroismo: bisogna combattere contro sé stessi e gli altri, dribblare con eleganza ed entusiasmo le trappole della pigrizia mentale, compiere una piccola rivoluzione ogni giorno.

© Pasquale Barbella





[1] Agenzia Lowe Howard-Spink di Londra, direzione creativa di Paul Weinberger, regia di Rob Sanders.
[2] Un testo fondamentale per approfondire non solo l’opera e lo stile di Hitchcock, ma il linguaggio del cinema e, in assoluto, i percorsi della narratività, è Le cinéma selon Hitchcock, libro-conversazione tra François Truffaut e lo stesso Hitchcock.
[3] Si veda De Bono, 1967.
[4] Le campagne Volkswagen realizzate dalla Doyle Dane Bernbach di New York negli anni Sessanta, sotto la guida geniale di Bill Bernbach, costituiscono una delle case histories più brillanti e istruttive di tutta la storia della pubblicità. Si consultino in proposito Levenson 1987 e Dobrow 1984.
[5] Lo spot per The Guardian, unanimemente riconosciuto fra i migliori di tutti i tempi, è stato ideato nel 1986 da John Webster, leggendario leader creativo della Boase Massimi Pollitt di Londra. Anche il regista, Paul Weiland, è una celebrità: entrambi hanno collezionato premi internazionali a non finire.
[6] Autori André Haimaq e Hans Jürgen Lewamdowski, agenzia Springer & Jacoby di Amburgo, regia di Lászlo Kádar e Ralph Schmerberg, 1999. Leone d’argento a Cannes.
[7] La campagna internazionale Swatch è stata progettata dall’agenzia BGS D’Arcy e prodotta dalla Filmgo. Autori Roberto Greco e Franco Tassi, direzione creativa di Pasquale Barbella e Paolo Gorini, regia di Gary Johns. Uno degli episodi ha vinto un Leone di bronzo a Cannes nel 1999.
[8] Agenzia BGS D’Arcy, soggetto e sceneggiatura di Pasquale Barbella e Paolo Gorini, produzione BRW & Partners, regia di Thed Lenssen. 
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