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Diario di una gamba

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Sono fortunato. Posso ancora guidare.
Fino a quando?
Il problema, per ora, non è l’auto. È come arrivarci.
Ogni gesto, anche il più cretino, adesso è un’avventura.
Aprire e chiudere una porta. Un cancello.
Usare le stampelle con un mazzetto di chiavi in mano. O un giornale sotto il braccio.
Attraversare la strada senza farsi centrare da una Golf.
O da un ciclista della domenica.
(E pensare: proprio io, che non ho mai imparato ad andare in bicicletta, adesso sono condannato alla cyclette. Meno male che non deraglia).
Raggiungere il box di fronte. Sarà più facile inerpicarsi sui gradini, o affrontare spavaldamente lo scivolo?
Infilarsi nel posto di guida sfidando il mezzo metro che separa la Panda dal muro a sinistra. Per chi è magro come un serpente la cosa è sempre stata semplicissima; ma adesso come la mettiamo con le torsioni?
Ahi.
Il morale, comunque, regge. Merito del sole domenicale: non importa se freddo. Spuntato a sorpresa per concedermi un break, dopo giorni di castigo pluviale. E conseguenti arresti domiciliari.
Uscire da solo, senza consorte o altri angeli custodi, per il solo gusto di uscire da solo. Beh, anche per le sigarette. Le ho finite. Dovrei dire goodbye alle Camel blu, non aiutano né il respiro né le arterie. Ne fumo parecchie di meno, da quando sto così, e già mi dico “bravo”. Ma l’idea dello stop definitivo mi getta nell’angoscia.
Uscire per conto mio. Navigazione solitaria, in un oceano senz’acqua. Il giornale è un pretesto. Persino deprimente. Altro che legge di stabilità: io barcollo. E il fuorilegge di Arcore, dopo aver spento le mie accensioni per la politica, adesso mi uccide anche fisicamente. Pretende addirittura la grazia, l’incompreso; e dice che il rifiuto di concedergliela equivale a un golpe. Parole che pesano non solo sul mio cervello e sul cuore, ma anche sul collo del femore.
La grazia!
Forse non la merito io: figuriamoci lui.
Devo spingermi oltre il quotidiano. Oltre il titolo su quattro colonne. Oltre l’edicola. Oltre lo scazzo.
Un caffè: ecco cosa ci vuole. Cento metri in linea d’aria, il doppio al volante. Nell’uno e nell’altro caso un viaggio come da Troia a Corfù, prima di proseguire per Itaca. Tra la nave Panda e la scialuppa Grucce, propendo per la prima. L’importante è non rinunciare al caffè. Oggi ho scelto di sentirmi più ardimentoso che livido.
Le stampelle le lascio a bordo, anche a destinazione raggiunta. Le odio. Amorevolmente, ma le odio. Come si possono odiare due Kessler meccaniche, sirene che ti adescano con promesse di fox-trot e poi, appena ci sei caduto in braccio, si divertono a massacrarti anche l’altra gamba. Quella buona.
Ossa e giunture hanno deciso di cambiar mestiere e fare un salto (si fa per dire) di qualità. Prima si accontentavano di gestire il movimento, ora puntano alle metafore. Giocano a imitare il paese: forse, velleitariamente, l’intero pianeta. Il mondo lo vedono così compromesso e disarticolato, nel corpo e nell’anima, che hanno deciso di rispecchiarne il collasso, per solidarietà.
Ed eccomi infine approdato alla consueta workstation, nel conforto della quiete domestica. Scrivere quisquilie ascoltando Bartók. Quattordici bagatelle e due elegie. Per pianoforte. Fossi almeno capace di suonarlo. Nessuno che sappia suonare il pianoforte può mai dirsi, o sentirsi, diversamente abile. Ma chi le inventa queste sciagurate locuzioni? Già disabile era un pugno allo stomaco, ma almeno ci avevo fatto l’orecchio. A questo, dunque, serve l’analfabetismo musicale: a coniare parole e suoni decalcificati, sgraziati sul nascere, e farlo spalancando trasparenti occhi azzurri, come se l’azzoppamento del vocabolario fosse la via più sicura per migliorare il destino sociale.
Altro che coxalgia. Lo Stivale è ormai in ginocchio grazie a una sequela di attentati al bell’idioma, perpetrati da una sedicente “classe politica” che, pur di starsene incollata alla sedia del potere, non ha esitato a ridurre sulla sedia a rotelle la logica e la democrazia. Parole un tempo gentili come “grazia” sono state spostate, a calci e spintoni, in tutt’altro campo semantico. Fanno ora parte del più banale e abusato lessico terroristico.

Hồ Chí Minh City, Vietnam, gennaio 2005. Centro internazionale di riabilitazione della Croce Rossa. Veterani di guerra vietnamiti in attesa di visita ortopedica di controllo. Foto di Patrick Zachmann, Magnum Photos.

Interpreto il capitano Achab da sole tre settimane e già il mio habitat mostra segni di disagio più evidenti dei miei. A soffrire di più è la scrivania. Non era mai stata un modello di virtù; ma guardatela adesso: è una discarica di vecchio stampo, penosamente refrattaria alla dignità della raccolta differenziata. Sulla piccola pianura di palissandro è cresciuta una collina di oggetti disparati quanto disperati: riviste e libri letti a metà, scatole di diapositive con relativo visore, pile di CD, cartelle di notifiche bancarie, bollette acqua-luce-gas, boccali ricolmi di matite spuntate, calendari nuovi e agende scadute, elastici, sacchetti di plastica della farmacia, appunti alla rinfusa, iPod e cavetti, manuali d’uso (la cyclette), referti diagnostici, ricette mediche, inviti a eventi e manifestazioni che mi vedranno assente, flaconi superflui, ricevute fiscali, custodie di occhiali, guide di Parigi e di Sicilia, palette schiacciamosche, fazzolettini di carta, fermagli, stilografiche rinsecchite da decenni di immobilismo.
La nube tossica della coxartrosi sovrasta la stanza e, non contenta, ne varca il confine, spingendosi implacabile verso il giardino. Sembra volermi dire, goliardicamente, «tu non scoperai.» Non scoperai le rosse foglie d’acero di cui i venti e le piogge di novembre hanno cosparso non solo il piccolo prato, ma anche il vialetto di beola. Non scoperai gli scontrini, i frammenti di cellophane, i mozziconi gettati via dai finestrini delle auto di passaggio, che rendono così dimessi, così indecenti quei venti metri che mi separano dalle buche dell’asfalto. Non scoperai né polveri né ceneri né residui di terriccio, né altre piccole brutture messe lì come ferite extracorporee, doloretti in outsourcing. Non mi ero mai sentito così “diversamente io”.
E così “diversamente e intrinsecamente importante”, come se una modesta débâcle personale potesse degnamente rappresentare, in scala, un dramma geopolitico. Macché cocaina, macché ecstasy: l’unica droga che possa farti sentire un dio è la malattia. Più t’incalza e più ti catapulta nel regno di Narciso, cioè al centro dell’universo. La malattia, qualsiasi malattia che si protragga oltre le due settimane, ingrossa il tuo ego come se ne fosse il lievito miracoloso. La malattia indebolisce le membra ma rafforza la vanagloria di cui eri stato solo un portatore sano. Ancora altre settimane, non tante, e mi troverò nel pieno di una mutazione biologica, forse morale; oppresso quanto basta da una patologia più fastidiosa che realmente grave, mi metterò a smadonnare come un comune scaricatore di porto, a reprimere la gioia che può darti un tiranno decaduto, persino a scambiare osceni sorrisi con qualche nemico politico.
Comunque, sissignori, andrò a votare. Anche in barella, se necessario. Senza pretendere la grazia da nessuno. Senza cedere alla magia dell’ex voto. Perché di ex voto ce n’è già fin troppi: gente fisicamente in piedi, ma che non muoverebbe il culo nemmeno se glie lo ordinasse l’ortopedico personale del Padreterno.

Dicevo di Bartók e di musica: la mia terza stampella, assai più in gamba, docile e materna delle altre due. La musica aiuta. E c’è dappertutto, basta tendere l'orecchio. Molti che conosco si dichiarano “claustrofobi” quando sono costretti ad affrontare la risonanza magnetica. Io invece la prendo come un’esperienza musicale. Mentre ero sotto, tutto preso dall’ascolto di quelle note meravigliose che tanti definiscono “assordanti”, andavo componendo versi che potessero descrivere la situazione. Ho smesso per più di un’ora di rimuginare sul sadismo dell’artrosi e ho continuato, anche in macchina, a versificare con la mente, preoccupato dall’idea di dimenticare, una volta a casa, i passaggi che mi erano sembrati più efficaci. Risultato: una breve poesia, non così dissonante e spigolosa come la volevo, ma tutto sommato sincera:

Magnetica risonanza:
suona bene. Schoenberg,
la dodecafonia
è decromatizzata
dalla spettroscopia.
Superbo ma supino giaci come
il più tonale degli scimpanzè
cadenzando il respiro mentre scruti
un cielo più basso del soffitto.
Ascolta. Mi sa
che gli automi del laboratorio
vadano impressionando
un’altra eternità.

P.B.



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