Nel primo capitolo di questa ricerca abbiamo osservato le doti che permettono agli uccelli di surclassarci in una serie immaginaria di competizioni agonistiche. Ci soffermiamo ora su alcune loro facoltà di cui noi umani siamo sprovvisti del tutto, a partire dalla capacità di volare. Non c’è popolo, lingua, mito, storia o religione che non abbia drammatizzato questo divario, o non abbia tentato di compensare la nostra inferiorità a colpi di miracoli e altre manifestazioni del divino, prima ancora di ricorrere alle opportunità tecnologiche.
Dopo Dedalo e suo figlio, la prima sperimentazione tecnica per supplire alla nostra mancanza di ali dobbiamo ascriverla a Leonardo da Vinci. Come strumento per un ipotetico decollo verticale, già nel 1489 Leonardo aveva progettato una rivoluzionaria vite aerea. Ventisei anni piú tardi, nel 1515, il genio toscano realizzò una macchina volante con la quale il suo amico e collaboratore Tommaso Masini decollò dalla collina di Fiesole per una planata di quasi mille metri. Il battesimo dell’aria procurò allo spericolato collaudatore una doppia frattura alle gambe, ma non si può negare l’importanza storica dell’evento. Si inaugurava, con la prima discesa a bordo di un apparecchio ad ali fisse, l’epopea del volo umano.
Ci fu chi provò a sollevarsi dal suolo sfruttando aria calda o materie gassose, tentativi che denotano passione e fantasia ma che non vanno molto al di là dell’espediente fisiochimico di breve respiro. Occorre fare un volo mentale di oltre tre secoli per trovare un sequel di rilievo all’esordio leonardesco. L’umana emulazione del volo d’uccello viene ripresa solo nel 1849, quando l’ingegnere britannico George Cayley fa planare un ragazzino di dieci anni su un velivolo ad ali fisse da lui concepito e costruito.
È poco noto che, per prepararsi al primo volo con un aereo motorizzato, i fratelli Wilbur e Orville Wright effettuarono una quantità di studi e prove con alianti derivati dalle esperienze dei francesi Alphonse Pénaud e Octave Chanute e soprattutto del tedesco Otto von Lilienthal. Con i suoi apparecchi Lilienthal eseguí oltre duemila voli: l’ultimo, purtroppo, gli costò la vita.
Nel settembre del 1943, un temerario raid con apparecchi volanti senza motore, ruote e carrello consentí al comandante delle Waffen-SS, Otto Skorzeny, di coordinare un atterraggio ultrasilenzioso sui prati del Gran Sasso per liberare il prigioniero Mussolini. Su un campo decisamente piú striminzito, nel film 1997: Fuga da New York l’eroe di guerra Jena Plissken atterra con un aliante sul tetto di un grattacielo di Manhattan per liberare il presidente degli Stati Uniti.
Prima con gli alianti, poi con i deltaplani, i parapendio e infine con le tute alari per il base jumping abbiamo solo emulato ma mai, nemmeno lontanamente, raggiunto la strabiliante perfezione del volo d’uccello.
Per puntare la preda con il massimo di efficacia e precisione mentre ali, artigli e coda continuano a muoversi senza soluzione di continuità, il gheppio (Falco tinnunculus) tiene la testa perfettamente ferma, come bloccata nell’aria da un invisibile morsetto meccanico. Il principio che sovrintende a questa mirabile immobilità ha ispirato ai moderni costruttori di carri armati lo sviluppo di un sistema autoregolante e compensativo in grado di assicurare la stabilità delle torrette anche sui terreni piú accidentati. In tal modo i cannoni riescono a mantenere la mira, senza inciampi e sbavature compromettenti, sul bersaglio preimpostato.
Sebbene i colibrí (Colibri spix) siano in assoluto gli uccelli piú piccoli (anche da adulti il loro peso può restare al disotto dei tre grammi, l’equivalente di una monetina), il loro cuore dalle dimensioni di un pisello compie fino a milleduecento battiti al minuto – sette volte di piú di un atleta sotto sforzo. Per garantire, sempre in volo, la stabilità necessaria a estrarre il nettare dai fiori, le ali compiono fino a 70-80 fremiti al secondo grazie a un ricambio energetico molto elevato e un sistema di snodi ossei pluridirezionali. Una frequenza stupefacente, che consente una mobilità direzionale (altrimenti riservata solo alle libellule, ai bombi e ai droni telecomandati) talmente sofisticata da rendere possibile il controllo di spostamenti millimetrici, persino in verticale – su e giú – e in “retromarcia”.
Per orientarsi durante le migrazioni, gli uccelli non stanziali dispongono di una combinazione sensoriale molto complessa, con “caratteristiche tecniche” variabili a seconda della specie. Il “piano di volo” è il risultato di molteplici dati incrociati: il luogo di partenza, la destinazione, la rotta piú favorevole, la dimensione dello stormo, il controllo della formazione, la memoria dei viaggi precedenti, le condizioni meteorologiche e, ovviamente, lo specifico corredo genetico e comportamentale dei viaggiatori. La combinazione degli strumenti impiegati può includere, parzialmente o in toto: riferimenti visivi come monti, laghi, fiumi, coste, oasi, ma anche strade, porti, ferrovie, aeroporti, fari, città; informazioni olfattive generate o indotte da vegetazione, piantagioni, allevamenti, industrie, esalazioni urbane; la posizione del sole; la posizione di stelle e costellazioni (per le specie che si muovono anche durante le ore notturne) e, come ausilio piú studiato e complesso, la magnetoricezione che, a sua volta, si manifesta con due modalità. Per non atteggiarmi a sapientone, copio e incollo le relative spiegazioni direttamente da Wikipedia: «Il meccanismo della magnetite è analogo a una bussola che si orienta rispetto all’asse Nord-Sud. Se vengono messi in certe condizioni di luce, gli uccelli migratori mostrano risposte di ‘direzione fissa’ al campo magnetico, che ha origine nei recettori nel becco. (...) Invece la magnetoricezione mediante coppia di radicali dipende dalla luce ed è nell’occhio degli uccelli migratori che sono state trovate delle molecole proteiche, i criptocromi. Queste proteine sono le uniche a formare radicali liberi al momento dell’eccitazione da parte di un fotone. La magnetoricezione mediante coppia di radicali è considerata un fenomeno quantistico, e fa quindi parte della biologia quantistica».
Questi studi sono stati effettuati con una particolare attenzione al pettirosso (Erithacus rubecula), non perché sia un migratore a lungo raggio ma perché si sposta preferibilmente di notte («...quando i fotoni necessari per la magnetoricezione sono scarsi»).
Come si vede la materia è scientificamente complessa: il profilo biologico degli uccelli li pone decisamente al di sopra del solito immaginario naturalistico, poetico, canterino.
In tema di migrazione aviaria, merita di essere segnalato che il 2 giugno 2023 alcuni studiosi finlandesi hanno dato il benvenuto di rientro a una femmina di falco pecchiaiolo (Pernis apivorus) che, prima di emigrare per il Sudafrica, era stata equipaggiata con un localizzatore satellitare di due grammi. La rotta minuziosamente registrata e mappata dimostra che, coprendo una distanza media di 238 km al giorno, in soli 42 giorni la vigorosa “messaggera” ha percorso un tragitto di quasi 10.000 km.
Le distanze coperte da taluni migratori sono impressionanti. La pittima minore (Limosa lapponica) è in grado di volare per oltre 11.000 km senza mai fermarsi: è stato registrato un caso di 13.520 km, sulla rotta Alaska-Tasmania. Il record spetta però alla sterna artica codalunga (Sterna paradisaea) la quale, volando esclusivamente sopra l’Oceano Atlantico, per un’andata e ritorno tra le due calotte polari percorre la distanza di 90.000 km, il doppio della circonferenza terrestre. In una vita che può durare anche trent’anni, le sterne possono volare per un totale di 2.400.000 km, distanza che corrisponde a sei viaggi dalla Terra alla Luna.
Queste facoltà “disumane”, connesse alle ali e al volo, non sono le sole specialità stupefacenti degli uccelli. A conoscerli meglio sembrano esseri piú inventati che reali, eroi di una saga metafisica. Prendiamo i picchi (Picidae), per esempio. Si dividono in 42 generi e 228 specie delle quali appena una decina sono presenti in Italia: il picchio verde, il nero, il rosso maggiore, il rosso minore e il rosso mezzano, il torcicollo, il tridattilo, il cenerino, il muratore e il dorsobianco; ma tutti si distinguono per il tipico martellamento dei tronchi d’albero, ripetitivo e frenetico, che non serve soltanto alla ricerca di cibo (larve, vermi, formiche) e alla creazione di cavità per accogliere i nidi, ma anche a marcare il territorio circostante. La frequenza delle percussioni arriva fino a 20 beat al secondo. Per mantenere il ritmo, la testa del picchio oscilla alla velocità supersonica di oltre duemila chilometri orari. La lingua, indispensabile alla cattura degli insetti da ingoiare, viene proiettata in avanti per un’estensione di 10/12 cm: è una specie di elastico protettivo per l’intero cervello, essendo in grado di ammortizzare la veemenza di rinculo delle sue percussioni. Il “martello pneumatico” (il becco) e il cranio dell’animale sono separati da un cuscino di cartilagine spugnosa, una sorta di airbag organico. L’insieme di queste dotazioni consente al “sistema picchio” di sopportare una forza gravitazionale pari a cento volte quella subita da un astronauta durante la fase di decollo di un missile spaziale.
L’ingegneria della nidificazione è un’altra delle tante prerogative considerevoli degli uccelli, a partire dalla varietà progettistica e costruttiva. I loro nidi, com’è noto, non sono dimore per l’accoppiamento o il riposo, ma strutture unicamente destinate alla deposizione e alla cova delle uova, e poi al nutrimento e alla crescita della prole.
I nidi piú grandi, vistosi, ammirati e “altolocati” sono quelli costruiti dalle cicogne (Ciconia ciconia). Questi maestosi uccelli monogami e migratori scelgono di preferenza campanili, torri, tetti e pali elettrici, spesso isolati, per accatastarvi con notevole perizia rami, erba secca, fuscelli e persino stracci, fino a formare ampi e robusti intrecci residenziali che anno dopo anno vengono rioccupati dalla stessa coppia di pendolari stagionali tra l’Africa e i paesi europei.
In Italia, recenti iniziative di ripopolamento hanno comportato un discreto successo in varie regioni, fino a raggiungere un totale di trecento coppie nidificanti. In Lombardia le zone piú popolate sono il Pavese, Cerro al Lambro e soprattutto la Cascina Venara di Zerbolò che ogni anno ospita una dozzina di coppie. Curioso destino quello dell’Italia: i nonni lasciavano credere ai nipoti che i bambini fossero distribuiti dalle cicogne, quando il nostro tasso di natalità era fin troppo alto; ora che siamo diventati il paese europeo in cui si nasce di meno, siamo piú interessati alla riproduzione delle cicogne che alla nostra.
Un’altra specie, che secondo l’ennesimo detto popolare dovrebbe puntualmente annunciare l’arrivo della primavera, sono le rondini (Hirundo rustica) che i loro nidi non li costruiscono, ma li cementano, con un intruglio sapientemente mescolato di fango, saliva e materie vegetali. Per motivi di peso e di aderenza, non li fissano mai al soffitto dei nostri passaggi, anditi, grondaie o sottotetti, ma sempre e solo ai muri verticali, preferibilmente angolari.
Fango e terreni argillosi servono al gruccione (Merops apiaster) per scavarvi un nido molto profondo, che sarebbe piú appropriato chiamare cunicolo artificiale. Preferibilmente lungo i greti o le ripe dei corsi d’acqua, questo uccello dai colori talmente arcobalenici da farlo sembrare esotico o addirittura tropicale, scava gallerie lunghe anche 3-5 metri che in fondo si allargano fino a trasformarsi in antri sufficientemente spaziosi da contenere fino a otto piccoli, piú almeno uno dei genitori. Spesso queste “tane” sono talmente numerose da formare colonie affollate: perforazioni ambientali che interessano le sponde di fiumi e ruscelli, terreni cespugliosi o boscosi, ma anche lunghi tratti di fasce costiere e sabbiose.
Una prodigiosa struttura di cova e allevamento di eredi alati sono i nidi costruiti dagli uccelli tessitori (Ploceidae), che il sottoscritto ha avuto la fortuna di vedere all’opera a Churchhaven, uno sperduto borgo di pescatori, esploratori e marinai di tempi lontani, situato in una laguna a un centinaio di chilometri a nord di Città del Capo. Partendo dal nulla (leggi: da un isolato rametto pendente), questo solerte artigiano fai-da-te inizia ad annodare frammenti e fili d’erba, fino a formare una dimora sferica od ovale che può ospitare sia i genitori che gli eredi. Su YouTube ci sono decine di filmati che raccontano tutte le fasi preparatorie e produttive di questo capolavoro di pazienza, agilità e creatività. Vedere quest’uccellino – peraltro bellissimo – che riesce a valutare, scegliere, spezzettare, intrecciare e annodare centinaia di frammenti vegetali, è commovente. Vederlo da pochi metri di distanza (com’era successo a me) è un’esperienza paragonabile solo alla visione di una maestosa cascata, di un arcobaleno o dei primi passi di un cavallino appena nato.
Ambienti altrettanto insoliti, ma destinati a fini piú eccentrici, li preparano i maschi dell’uccello giardiniere satinato (Ptilonorhynchus violaceus). Questo uccello australiano che per forma, colore e dimensione assomiglia al nostro corvo, è un interior designer di straordinario talento creativo: per ammaliare le femmine, il seduttore individua piccoli spiazzi boschivi che spiana e pulisce con grande scrupolosità e infine li incornicia con ripari di sterpaglia, fino a ottenere un ambiente pronto per essere da lui stesso decorato e trasformato in una invitante showroom monocromatica.
Tutti questi estri, capacità e talenti – specifici e non collegabili a nessun altro tipo di essere vivente – hanno indotto lo scrittore statunitense Jonathan Franzen a diventare non solo un appassionato birdwatcher, ma anche un sostenitore strenuo e militante a favore dell’imponente universo degli uccelli. Why Birds Matter è il titolo di un suo saggio pubblicato dal National Geographic nel numero di gennaio 2018. Nel paragrafo iniziale del suo appello, l’autore confessa: «...se qualcuno mi chiede perché gli uccelli siano cosí importanti per me, l’unica cosa che riesco a fare è prendere un lungo respiro e scuotere la testa, come se mi avesse domandato per quale motivo amassi i miei fratelli». Viene spontaneo associarmi al volo (sic) a questa frecciata con un’accoppiata verbale che in questi anni è diventata alquanto popolare:
«Me Too!».
Fine del saggio.
© Till Neuburg + Dixit Café
Nell’immagine di apertura: Frederic Leighton, Icarus and Dædalus, olio su tela, 1869. Collezione privata.