Aracne, tessitrice di solare e imprudente talento, innervosisce gli dei con le sue ambiziose ostentazioni artistiche, malviste da un Olimpo geloso della propria egemonia culturale. L’indignata numero uno è Atena (Pallade o Minerva nelle “metamorfosi” romane dei miti greci), nel suo ruolo di ministra dell’artigianato e sovrintendente universale alle belle arti. Ma la sua giovane allieva, ringalluzzita dai propri successi e da un passaparola che l’ha resa popolare in tutta la regione lidia, si è montata la testa e va in cerca di guai. Ogni occasione è buona per dileggiare la suprema maestra e protettrice, e la sua insistenza fa sí che le provocazioni vadano a segno:
Si ostina nel suo proposito e per insensata brama di gloria
corre alla sua rovina…
Punta – si direbbe – sul vivo, Pallade accetta di entrare in competizione diretta con la spudorata. Bella sfida: una di qua e una di là, telaio contro telaio, fibra contro fibra, fuso contro fuso, fino all’ultima virgola di porpora o d’oro:
L’ordito è avvinto al subbio, il pettine separa i fili,
con l’aiuto delle dita la spola affusolata
inserisce la trama che, passata attraverso i fili,
è compressa con un colpo dai denti intagliati nel pettine.
La dea dell’ingegno allestisce una composizione vasta e pomposa, gonfia di solenne propaganda teocratica. I numi vi trionfano nei gesti, nelle posture e nelle situazioni del piú retrivo conformismo retorico: «siedono con aria grave / e maestosa su scranni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto / la propria identità; l’aspetto di Giove è quello di un re.» Ovidio descrive il tutto con cura minuziosa e malcelato sarcasmo: si capisce che gli abitatori dell’Olimpo non gli stanno simpatici, e che la Iovis regalis imago alla quale allude non è migliore delle facce dei nostri candidati politici quando si atteggiano a fratelli del popolo e salvatori della patria, nella ritrattistica tipica delle campagne elettorali.
La rivale indulge in sketch polemici da murale ante litteram: il suo manufatto si configura come un esplicito statement contro il potere. Un insolente campionario di caelestia crimina, «misfatti degli dei», illustrati con impressionante realismo; con l’aggravante di non risparmiare nessuna delle star superne, nemmeno Giove, il Führer in persona di quel giardino di delizie e del mondo sottostante. Sua Maestà compare in molteplici e ingannevoli sembianze, protagonista di reiterati abusi, molestie e violenze sessuali a danno dell’umanità: cigno sul corpo supino di Leda, satiro mentre ingravida la ninfa Antiope, sosia di Anfitrione quando approfitta della fedele moglie di costui. Fuori di sé, Minerva si avventa sulla sfrontata a colpi di spola, decisa a finirla una volta per tutte con quella terrorista del virtuosismo; poi ci ripensa e opta per un castigo piú raffinato e duraturo, trasformando in ragno Aracne e condannandone la progenie alla stessa sorte. Il mito prefigura con anticipo bimillenario l’ostilità delle attuali destre d’Occidente nei confronti dei cosiddetti radical chic.
Nessuno racconta quella vecchia storia, e infinite altre di uguale potenza, meglio di Ovidio: il duello tra Pallade e Aracne è reso con sottigliezza e precisione ammirevoli, e trattandosi di uno scontro di natura non militare ma artistica stupisce la ricchezza di allusioni estetiche, psicologiche e politiche di cui si nutre la sua narrazione.
L’idea di metamorfosi ispira e permea immensi giacimenti di letteratura antica e moderna, occidentale e non. Dopo Ovidio fu un altro autore latino, Apuleio, a occuparsi di leggende sulla trasformazione dei corpi: e le loro opere sono tra le poche ad esserci state tramandate, e ad essere tuttora note, con la metamorfosi nel titolo. Metamorphosĕon libri XV, Ovidio; Metamorphosĕon libri XI, Apuleio. Il secondo è noto anche come Asinus aureus (L’asino d’oro).
Apuleio narra di un giovane Lucio curioso e intraprendente, turista in Tessaglia. Ospite di una incantatrice nella città di Ipata, si ritrova trasformato in asino per sbaglio mentre si esercita da apprendista stregone; per colmo di sventura viene rapito da una gang che lo schiavizza come bestia da soma. Dovrà mangiarne di rose consacrate a Iside, per riconquistare le perdute fattezze! Le avventure di Lucio costituiscono il tema principale dell’opera; da esso si dipanano altre storie e digressioni varie, tra cui la piú importante riguarda Amore e Psiche.
Nella mitologia antica abbondano le metamorfosi, come a volerci insegnare che non esiste destino senza cambiamento. Un immenso teatro di mutanti e mutazioni: questo ci lascia in eredità la letteratura degli archetipi e delle radici. Il romanzo di un morphing incessante, di esseri che diventano altro; l’apoteosi di un fenomeno – il trasformismo – che ai tempi nostri ha perso del tutto il suo magico splendore, degradandosi allo status di effetto poco speciale dell’opportunismo subpolitico. Ma consentiamoci ancora un passo indietro, prima di spingerci fino a Kafka e McEwan.
La maga di Apuleio e dell’Asino d’oro, col suo vezzo di convertire gli uomini in altri animali, conduce in volo la mente del lettore all’isola di Eèa, governata da un’élite di dèi, semidei e mortali in carriera. Vi risiede Madama Circe, «Diva terribile, dal crespo / crine e dal dolce canto», imparentata con oligarchi di spicco (è figlia di Elios, il Sole, e della ninfa Perseide). Esperta in erboristeria magica come tante Grimildi del futuro, si diverte a tramutare i forestieri in quadrupedi. Ulisse, durante uno scalo sulla rotta di Itaca, manda in giro per l’isola una pattuglia di ricognizione. I ragazzi (metà dell’equipaggio) vengono intercettati dalla signora, invitati a pranzo e mutati in maiali mediante un giro di cocktail dagli effetti istantanei:
La Dea li pose
sovra splendidi seggi; e lor mescea
il pramnio vino con rappreso latte,
bianca farina e mèl recente; e un succo
giungeavi esizïal, perché con questo
della patria l’oblío ciascun bevesse.
Preso e vôtato dai meschini il nappo,
Circe batteali d’una verga, e in vile
stalla chiudeali: avean di porco testa,
corpo, setole, voce; ma lo spirto
serbavan dentro, qual da prima, intégro.
(Il pramnio vino, avvertono le note nell’edizione che sto consultando, era ricavato dai vigneti del monte Pramno, presso Smirne. Un passito dolce, fortemente alcolico, molto pregiato). Ha una morale l’episodio evocato da Omero nel Libro X dell’Odissea? Preferirei di no; ma se l’avesse non dovrebbe dispiacere a una metà dell’odierna militanza femminista, incoraggiata a riconoscere in Circe l’ennesima, indomita antesignana della resistenza al patriarcato (marinai itacensi trattati letteralmente da male chauvinist pigs). Con l’altra metà non c’è niente da fare: Omero e Ulisse sono già sotto tiro woke per maschilismo acuto e meritano una visitina da parte dei pompieri di Fahrenheit 451.
Per il terzo, grande racconto con la metamorfosi nel titolo – anzi: Die Verwandlung, in tedesco – bisognerà attendere qualcosa come 1.760 anni, o anche di piú. L’anno 1915 si desta con l’incipit piú ansiogeno della narrativa mondiale: «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.» Un risveglio che sa già di necrologio: riletta oggi, la frase sembra l’epitaffio del secolo XX. Contiene, in nuce, sentori di decomposizione sociale e preavvisi di futuro distopico. La prima guerra mondiale non era ancora incominciata quando Kafka scrisse la mala novella, un concentrato formidabile di satira e tragedia. Era l’autunno del 1912, a Praga, e la creazione si consumò in tre settimane. Il testo uscí per la prima volta a Lipsia tre anni piú tardi (1915), nel numero di ottobre di Die weißen Blätter, rivista letteraria di orientamento espressionista diretta da René Schickele. La prima edizione in forma di libro apparve nel dicembre dello stesso anno, nella collana Der jüngste Tag (Il giorno del giudizio) pubblicata da Kurt Wolff. A quel punto già si moriva a grappoli, in trincea.
Precisazione: netta e necessaria, altrimenti comincio a fraintendermi da solo. Non credo né a Nostradamaus né a Franz Kafka “profeta”. Sono d’accordo con quanto molti altri hanno scritto su come Kafka dovesse sentirsi all’epoca e nell’ambiente in cui è vissuto. Per esempio: «Se riuscí a immaginare l’uomo ridotto a un insetto, non fu perché fosse profetico. Gli scrittori, anche i piú geniali, non sono dei veggenti. Kafka conosceva il proprio status e la propria condizione. La sua lingua era il tedesco, e forse è proprio questo il punto. Il fatto che Kafka abbia respirato, pensato, aspirato e sofferto in tedesco – e a Praga, una città che odiava i tedeschi – potrebbe essere l’esegesi definitiva di tutto ciò che ha scritto.» (Cynthia Ozich, The New Yorker, 3/01/1999). Insomma: siamo in Boemia in pieno impero asburgico, i boemi parlano ceco tranne una piccola élite di borghesi che parla tedesco, i Kafka parlano tedesco e sono ebrei, in Boemia si fa strada un nazionalismo aggressivo: antigermanico e pure antisemita. Che cosa scrivereste voi nei panni di Franz, e col suo talento, se aveste ventinove anni e vi trovaste in un contesto cosí ostile?
Non sullo scrittore sto dunque indagando, ma sull’opera: che, morto l’autore, se ne va in giro da sola per il mondo, a seminare metamorfosi nell’animo di chi legge. La metamorfosi è una pianta perenne che permea di sé il suo habitat e chiunque entri nel suo raggio. Le metamorfosi di oggi s’incrociano con le precedenti, tenute in vita dalla memoria storica e letteraria; diventano metafore di cambiamenti ulteriori (panta rhei!), e da quelli traggono linfa e sostanza, nel bene e nel male, per diventare strumenti di interpretazione, attrezzi a disposizione della coscienza. Ovidio e Kafka nulla hanno in comune se non la sorte di essere stati tra i piú sorprendenti ed efficaci “portatori sani” di una visione fantasiosa, e al tempo stesso drammatica, della nozione di ambiguità. In questo senso le opere, distaccandosi dagli autori, possono rendersi “profetiche” per conto loro, in totale indipendenza dalla volontà o dall’intuizione da cui sono scaturite.
Nella sua monografia sul grande romanziere boemo, Pietro Citati immagina una metamorfosi del corpo di Kafka mentre crea la metamorfosi del corpo di Samsa: «nello spazio di quasi un mese, assunse con freddo delirio un altro corpo; con occhi attentissimi e voluttuosi seguí la metamorfosi del suo personaggio, come se anche lui, mentre copriva la carta di segni piú fitti di quelle zampette vibranti, stesse lentamente diventando un Ungeziefer, un enorme insetto parassitario.» Io mi chiedo, invece, a quale personale metamorfosi vada incontro il lettore di un’opera cosí unica e speciale, cosí penetrante da essersi imposta tra gli asset permanenti della cultura novecentesca. Avendola letta a vent’anni e riletta ad ottanta, posso dire senza sbagliare di essere un altro rispetto ad allora: che mi sento contaminato dal Grande Insetto e che la Storia è entrata dentro di me con un esercito di bugs armati fino ai denti. Sentirmi compreso da Franz Kafka, o soltanto da Gregor Samsa, è quasi una consolazione.
© Pasquale Barbella, Dixit Café, 3/06/2024.
Centesimo anniversario della morte di Franz Kafka.
P.S. – Questo post non è ancora completo. Bibliografia in arrivo. Eventuale revisione idem.