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Blanco y Negros

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I dipinti riprodotti in questo servizio sono di Agostino Brunias (1730-1796), pittore romano ignorato in patria ma molto attivo a Londra e soprattutto nelle Piccole Antille. La sua esuberante produzione nelle isole dei Caraibi è stata apprezzata per il suo valore di documentazione, anche se criticata per il garbo eccessivo con cui viene edulcorata una realtà dominata dal colonialismo e dallo schiavismo.



Da Venezia, Franco Bellino chiama a raccolta una schiera di amici fidati con un grido di dolore che è anche un grido di colore:


«Carissimi! Siete gli unici tra i miei amici che amano la musica. Mi sembra doveroso condividere con voi questo mio sfogo mattutino. Faccio coming out: sono politically s-correct!

 

Pensa te come eravamo politically s-correct tutti noi, da giovani! Nel 1968 abbiamo cantato allegramente con Fausto Leali Angeli negri. È la storia di un “povero negro” (è lui a definirsi cosí) che implora un pittore di mettere un “angelo negro” accanto alla Vergine bianca perché “tutti i bimbi vanno in cielo, anche se son solo (sic! ‘solo’) negri”.

 

A New York il giornalista Donald McNeil è stato licenziato in tronco dal New York Times, dove lavorava da 45 anni, perché ha usato la parola “negro”. Non per insultare una persona di colore, ma solo per riferire di una conversazione con una studentessa. Hanno preteso il suo licenziamento 150 suoi colleghi (colleghi!).

 

Leali non fu condannato, anzi ebbe grande successo e fu con grande ammirazione chiamato “il negro bianco della canzone italiana”. Prima di lui in Italia avevano cantato Angeli negri Luciano Tajoli, Marino Barreto, Claudio Villa. Ma prima ancora Angelitos negros era stato un gran successo in Sudamerica. I versi sono del poeta Andrés Eloy Blanco. 

 

Quanto eravamo politically s-correct noi allora. E quanto (loro sí) sono profondamente razzisti i 150 fanatici del New York Times. Con loro passerebbe dei guai anche Tosca che rivolgendosi a un altro pittore, impegnato a dipingere una bionda Maddalena, lo implora di farle almeno “gli occhi neri”? Oggi Illica e Giacosa forse scriverebbero per Puccini: “Falle gli occhi verdi”. Ma rischierebbero comunque un’accusa di “stalking” e “mobbing”, con l’aggravante di averlo fatto in luogo sacro, visto che agli atti Tosca dichiara: “Dio! Quante peccata! M’hai tutta spettinata!”.

 

E anche su Otello e Aida ci sarebbe da preoccuparsi. Diciamo che c’è da preoccuparsi comunque e a prescindere.»


 

Caro Franco,

 

grazie per aver sollevato il problema. Si tratta di un busillis non da poco; in America continuano a matar negros (come lamentava Neruda), ma in compenso nessuno osa piú chiamarli cosí. Uno di questi giorni – o mesi, o anni – parleremo di opera lirica come dell’unico ambito culturale in cui non si è mai badato troppo ai colori della pelle (che bellezza!); non nell’ultimo mezzo secolo, almeno, quando la meravigliosa Jessye Norman si è imposta come interprete ideale di Wagner e Richard Strauss, alla faccia di tutti gli svasticati del mondo. No, adesso invece dobbiamo stare sul pezzo che hai messo sulla bilancia; hai evocato gli angeli negri, e di quelli parliamo.



 

Angelitos negros

 

[Angioletti negri], parole del poeta e politico venezuelano Andrés Eloy Blanco (tratto da una sua precedente poesia, Pín­tame ange­litos negros), musica del messi­cano Manuel «Maciste» Álvarez Rentería, 1946 (1942 secondo altre fonti di incerta attendibilità), Venezuela/Messico. Lanciata da Toña la Negra (pseu­donimo di María Antonia del Carmen Peregrino Álvarez, 1912-1982), cantante afromessicana detta la sensación jarocha, voce tra le piú po­polari dell’America Latina. Grande successo anche per Antonio Ma­chín. Nel 1948 la canzone dà il titolo a un film di Joselito Fernández con l’attore e cantante Pedro Infante come protagonista. In Italia Angeli negri, testo di Giacomo Mario Gili e Gian Carlo Testoni, viene prontamente incisa da Aldo Alvi, Carlo Buti, Giorgio Consolini, Aldo Donà, Natalino Otto, Bruno Pallesi, Luciano Tajoli.

 

Insolito bolero di protesta, tra il liturgico (contiene un frammento dell’Ave Maria di Schubert) e il mamboso, in difesa dei gruppi etnici emarginati dall’élite creola dominante nelle ex colonie spagnole dell’America La­tina. L’etnologo messicano Marco Polo Her­nández Cuevas sostiene che la componente culturale africana, pre­sente nel mestizaje del suo paese, è stata sistematicamente rimossa dalla me­moria e dall’identità nazionale. Le istituzioni ufficiali, saldamente in mano ai creoli, hanno svalutato, ignorato, negato la negritudine messi­cana, specialmente in fun­zione dell’alleanza con gli Stati Uniti d’America – ai quali hanno tenuto a pre­sentare un Messico bianco e perciò «rassi­curante». Negli anni Quaranta circolò in Messico, ma in forme quasi sempre blande e inoffensive, una sorta di «presa di co­scienza» sulla questione razziale; film po­polari come Angelitos negrosNegra consentidaNegro es mi color affronta­vano il pro­blema delle disparità sociali ma, in pratica, lasciavano le cose come stavano, mostrando afromessicani poveri, amabili, divertenti e – ciò che piú conta – quieti e obbedienti. (M.P. Hernández Cuevas, African Mexicans and the Discourse on Modern Nation, Lanhart, Maryland: University Press of America, 2004). 

 

Piú sincera è l’ispirazione della canzone Angelitos negros, la cui genesi ha a che fare non solo con la realtà sociale del Venezuela e del Messico, ma soprattutto con la personalità letteraria e l’impegno civile di Andrés Eloy Blanco. La sua vita subí alterne vicende condizionate dai regimi di turno nel suo paese. Da giovane scontò sette anni di car­cere per aver aderito a Generación del ’28, il movimento studentesco che quell’anno insorse contro la dittatura di Juan Vicente Gómez. Dopo la morte di costui partecipò da protagonista alla fondazione della demo­crazia in Venezuela: fu presidente dell’assemblea costituente e, durante il breve governo di Rómulo Gallegos, il rappresentante del paese all’assemblea delle Nazioni Unite. Nel 1948, caduto Gallegos per un golpe militare, andò in esilio: prima a Cuba, poi in Messico, dove morí per un incidente stradale. La poesia Píntame angelitos negros, pubbli­cata nella raccolta di versi sparsi La juanbimbada, contesta la discrimi­nazione razziale e in particolare l’esterofilia dell’artista creolo, pronto a tradire i temi identificativi della propria terra e del proprio am­biente per ridursi all’imitazione caricaturale di culture non sue. Il testo è una sup­plica a un pittore di altari:

 

Pintor nacido en mi tierra

con el pincel extranjero,

pintor que sigues el rumbo

de tantos pintores viejos,

aunque la Virgen sea blanca

píntame angelitos negros…

 

«Pittore nato nella mia terra / con il pennello straniero, / pittore che se­gui la rotta / di tanti pittori vecchi, / anche se la Vergine è bianca / di­pingimi angioletti negri…» Nella poesia originale l’implorazione è della Negra Juana, sconvolta dalla morte del suo bambino. Amputato e ridotto a misura di canzone, il testo originale ovviamente ci perde e, in piú, corre il rischio di amplificare ulteriormente i toni enfatici e lacrimosi, sollecitando molti cantanti a strafare. Persino Marino Barreto Jr., di solito molto controllato (bravissimo in Arrivederci di Umberto Bindi e A felicidade di De Moraes-Jobim), non esita a tirar su col naso per simulare il pianto. Ma non mancano interpretazioni di assoluto va­lore, a cominciare da quella originale di Toña la Negra: imperdibile. Magnifica anche Eartha Kitt e superlativa Roberta Flack, che nel suo album d’esordio, prodotto da Joel Dorn, si avvale anche di un arran­giamento di gran classe, di una spirituale sezione d’archi e dell’apporto di jazzisti leggendari come il contrabbassista Ron Carter e il chitarrista Bucky Pizzarelli. 

 

Ecco una selezione – incompleta ma indicativa della sua fortuna internazionale – di versioni discografiche tributate alla nostra canción morisca:

 

1946 (o 1942), Toña la Negra, Victor.

1946, Pedro Vargas, Victor.

1947, Antonio Machín y su Conjunto, Odeon. 

1947, Conchita Piquer, La Voz de su Amo.

1948, Bruno Pallesi, La Voce del Padrone.

1949, Aldo Alvi e coro, Parlophon. 

1949, Aldo Donà e i Radio Days, orch. Pippo Barzizza, Cetra. 

1949, Carlo Buti, Columbia. 

1949, Giorgio Consolini, orch. Lelio Luttazzi, CGD.

1949, Natalino Otto, orch. Eros Sciorilli, Fonit. 

1949, Rico’s Creole Band, La Voix de Son Maître.

1950, Luciano Tajoli, orch. Vigilio Piubeni, Odeon. 

1953, Eartha Kitt, RCA Victor Presents Eartha KittRCA Victor. 

1954, Maria Zamora & Thom Kelling, Maria Zamora y sus muchachos, Philips.

1957, Lola Flores, ¡Olé!, Seeco. 

1957, Xiomara Alfaro, Siboney, RCA Victor.

1958, Javier Solís, Añoranzas, CBS. 

1958, Miguelito Valdés, orch. Chico O’Farrill, La voz de Cuba, RCA Victor.

1959, Ma­rino Barreto Jr., Angeli negri, Philips. 

1964, Los Indios Tabajaras, The Mellow Guitar Moods of Los Indios Tabajaras, RCA Victor. 

1965, Ângela Maria, Boneca, Copacabana. 

1965, Gregório Barrios, Verde luna, Odeon.  

1966, Al Hirt, orchestra Lalo Schifrin, Latin in the HornRCA Victor. 

1966, Cate­rina Valente & Silvio Francesco, Go Latin!, London Records. 

1966, Chavela Vargas, Hacia la vida, Orfeon.

1966, Clark Terry & Chico O’Farrill, Spanish Rice, Impulse! 

1966, Leo Marini, Leo Marini, Odeon.

1966, Olga Guillot, Olga Guillot, Zafiro. 

1967, Celia Cruz, 67, Tico Records. 

1968, Dalida (“Les anges noirs”), Le temps des fleurs, Barclay. 

1968, Fausto Leali, Il negro bianco, Ri-Fi Records. 

1969, Roberta Flack, First Take, Atlantic. 

1970, Los Olimareños, Cielo del 69, Orfeo. 

1972, Los Ángeles Negros, La Cita, Odeon. 

1974, Los Pasteles Verdes, Recuerdos de una noche, Infopesa. 

1974, Squallor, Palle, CBS. 

1976, Los Diablos del Paraguay, La bamba, Vogue.

1977, Willie Colón, El Baquiné de Angelitos negros, Fania. 

1978, Vicente Fernández, A pesar de todo, CBS.

1982, Paolo Mengoli, Paolo Mengoli, RTK.

1989, Mina, Uiallalla, PDU. 

1992, Maricene Costa, Correntes alternadas, Independente. 

1994, Eartha Kitt, Back in Busi­nessDRG

1995, Julia Zenko, Sin rótulos, Columbia. 

2002, Nana Mouskouri, Un bolero por favor, Mercury.

2007, Cat Power, Jukebox, Matador. 

 

Ma ora, a proposito di negros, dedichiamo qualche riga alla canzone cilena che abbiamo già menzionato di striscio:

 

Así cómo hoy matan negros

 

[Cosí come oggi ammazzano i negri], versi di Pablo Neruda, musica di Sergio Ortega Alvarado, 1967, Cile. Lanciata da Víctor Jara. Dalla cantata Fulgor y muerte de Joaquín Murieta (Splendore e morte di Joa­quín Murieta) di Neruda, in scena al teatro Antonio Varas di Santiago del Cile dal 14 ottobre 1967 con la regia di Pedro Orthous. 

 

Así como hoy matan negros

antes fueron mexicanos...

 

«Come oggi ammazzano i negri / prima toccò ai messicani. / Cosí am­mazzando cileni, / nicaraguensi, peruviani, / si scate­navano i gringos / con istinti disumani. / Chi osa sbarrargli la strada, / chi osa affrontarli di petto? / È un bandito cileno, / è il nostro Joaquín Murieta. / Un giorno per il sentiero / passò un cavallo di seta. / Adesso per le strade / galoppa il nostro destino / e come papaveri / fiammeggiano le pistole.»

 

Joaquín Murieta (1829-1853 circa), «Robin Hood messicano» o «Robin Hood dell’El Dorado» secondo la voce popolare, fu l’incubo dei potenti e la speranza dei miserabili nella California della corsa all’oro. La sua fama fluttuava in nuvole di leg­genda. Non si sa bene nemmeno da dove provenisse: chi lo diceva messicano di Alamos, chi cileno di Quillota. Demonio per chi aveva ordine e ricchezze da difendere, santo e patriota per gli scontenti, diventò – a torto o a ragione – un simbolo della resistenza al dominio, politico e culturale, degli yankee in Cali­fornia. Forse era giunto anche lui in quei luoghi in cerca di fortuna, at­tratto dal mito dell’oro facile, come legioni di altri illusi. Ma, provata la crudezza del razzismo e della discrimina­zione, ecco che si era fatto fuorilegge, capo di una «banda dei cinque Joaquín» con altri quattro briganti dallo stesso nome piú un braccio destro, Manuel García, detto Jack Tre-Dita. E via con le scorrerie: furti d’oro e di bestiame in un’ampia area ai piedi della Sierra Nevada, con conseguenti taglie sulla sua pelle, sparatorie, ammazzamenti di vigilantes (ma anche di mi­na­tori). Nel 1853 il governatore della California, John Bigler, dopo aver tentato invano di sgominare la banda con gli uomini e i mezzi disponi­bili, istituí con un decreto un corpo speciale generosamente incentivato, i California Rangers, allo scopo di rendere piú produttiva quella fru­strante caccia all’uomo. Al passo di Panoche, tra i rilievi della Coast Range a mezza strada tra Fresno e Monterey, i Rangers aprirono il fuoco su certi messicani sospetti. Due dei messicani uccisi furono iden­tificati, tra dubbi e controversie, come Murieta e Jack Tre-Dita. Un po’ per raccogliere conferme su quell’identità contestata, un po’ per dimo­strazione propagandistica e dissuasione preventiva, i Rangers organiz­zarono una macabra mostra itinerante, con la testa del presunto Murieta e la mano del presunto Tre-Dita op­portunamente imbarattolate sotto spirito. Nemmeno questa iniziativa produsse la certezza sperata. Mezzo secolo piú tardi, il terremoto del 1906 che distrusse San Francisco si portò via anche la testa del misterioso decapitato.

 

La figura di Murieta ha alimentato, e continua a far cre­scere, una fioritura di leggende, narrazioni, film, ballate e spettacoli teatrali. Pure il romanzesco personaggio di Zorro si ispira parzialmente a lui. In Cile prevale, a sinistra, l’idea di un Murieta eroe popolare e ribelle politico. I Quilapayún gli hanno dedicato una canzone intitolata Premonición de la muerte de Joaquín Murieta; The Sons of San Joaquín una Ballad of Joa­quín Murieta inclusa nell’album Way Out Yonder. La canzone di Neruda e Ortega Alvarado è stata popolarizzata da Víctor Jara, portavoce della Nueva Canción Chilena assassinato dai fascisti cinque giorni dopo il golpe di Pinochet; e dal gruppo dei connazionali e compagni Inti-Illimani, scampati alle persecuzioni grazie a un tour italiano nel 1973, l’asilo politico concesso dal nostro paese e un esilio durato quindici anni.


© Pasquale Barbella



 


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