Sciacquare i suoni barocchi in Arno…
di Till Neuburg
Sulla copertina del numero di luglio di Amadeus campeggia, in tutto il suo splendore di eterno ragazzaccio livornese, un mio vecchio complice che, purtroppo, non vedo e non sento da qualche anno: Federico Maria Sardelli. “Complice” perché nella collana di cose che ha scritto, suonato e vissuto, quel fuori di testa ha infilato anche una serie di perle umane e ridanciane che mi fanno sentire istintivamente dalla sua parte.
C’eravamo conosciuti in modo naturale, forse persino fatale. Certi incontri sono così tosti, così preziosi che i sei gradi di separazione della famosa teoria si riducono drasticamente a tre. Non è un teorema, è solo una constatazione. Se volessi rovistare nei ricordi personali, potrei citare decine di casi per provarlo.
Ecco, dunque, com’era iniziato questo nostro allegro (e tuttora incompiuto) plot. Un Capodanno di un quarto di secolo fa, spremuto dal sovraccarico d’impegni accumulati durante l’anno e arcistufo di quegli eccessi di lavoro, decisi d’emblée di prendermi un lungo weekend, tutto per me. Salutai la famiglia e presi l’auto per fuggire chissà dove. Forse la luce di quella mattina, la bussola dell’incoscienza, la tendenza a orientarmi di preferenza verso sud, mi portarono dritto dritto sull’Autosole… Fino a fermarmi – a debita distanza geografica e lavorativa da Milano – nella città di don Milani, dei peggiori moccoli anticlericali, di Machiavelli e di Margherita Hack.
Scesi all’Hotel Ducale in via della Pergola, un albergo che avevo trovato seguendo le frecce gialle per gli smarriti turisti mitteleuropei (come me). Non era un Cinque Stelle, ma nemmeno una semplice locanda per viandanti in pensione o in adolescenziale ubiquità Erasmus. Al ricevimento proposero con garbo di sistemarmi l’auto in qualche autorimessa nei paraggi.
Contento di aver finalmente staccato da tutto quanto oggi chiameremmo “assuefazioni tecno-snob”, mi concessi un lieto pisolino pomeridiano. Dopo un’ora abbondante (saranno state le 5), cominciai pian piano a tornare in me. Un po’ stordito, un po’ continuando a sognare, mi resi finalmente conto che quell’aggettivo, “piano”, stava magicamente trasfigurandosi in un sonante sostantivo… preciso, martellante, leggiadro, paradossale: perché all’orecchio m’arrivavano note percepite già tantissimi anni prima – quando mia madre usava esercitarsi con i frammenti sonori, per lei allora appena accessibili, di un’ardita suite per clavicembalo del sommo Thomaskantor protestante.
Uscito per confidarmi meglio con i dintorni storici di quell’agognata dimora da weekend, a pochi passi, nella stessa via, m’imbattei in un palazzo con l’insegna “Teatro della Pergola”. Sotto c’era una locandina: «Sabato 5 gennaio 1991, ore 16.00, unico recital di Svjatoslav Richter che interpreta la prima, terza, quarta e sesta delle Suite inglesi di Johann Sebastian Bach.» Letteralmente “sconcertato”, scoprii chi era stato, appena un’oretta prima, ad accompagnarmi dal torpore alla più fatata delle eventualità. E da dove provenivano quei suoni. E paffete!, il mio inatteso tragitto dal sogno pomeridiano alla realtà dei massimi sistemi sonori era semplicemente svanito.
Mi sentivo vuoto, smarrito e defraudato. Che fare? Mi sembrò sensato, per consolarmi, compiere un gesto che nulla avesse a che fare con le mie solite abitudini serali. Decisi di brindare, tutto solo, alla fortunosa contiguità tra le mie origini laico-ebraico-protestanti e la maestosa Toscana, a una spontanea allegria contemplativa e un’indomabile brama di scoprire. Tornai all’albergo per prenotare un tavolo, tutto per me, all’Enoteca Pinchiorri. Inutile cantare e decantare qui le inebrianti ore serali trascorse in quel di via Ghibellina 87 – visto che mai e poi mai un avido mangiapreti come me avrebbe potuto sedersi in un diverso luogo di ristoro, magari in una via intestata alla memoria dei detestatissimi Guelfi.
Sarà stata quasi mezzanotte quando sazio, sereno e leggermente insicuro sulle gambe, dopo il banchetto solitario m’incamminai in direzione di piazza della Signoria e del Duomo. Qualche minuto di vagabondaggio nell’unica città italiana gemellabile con l’antica Athinai, ed ecco che incocciai nella mia seconda locandina della giornata. Incredulo e sbalordito, lessi un secco tris identitario tedesco abbinato a una breve sigla in lingua latina: «Georg Philipp Telemann» e «Modo Antiquo». L’avviso annunciava, per la stessa domenica appena iniziata, l’esecuzione della Wassermusik di Telemann da parte di un complesso barocco a me (ancora) completamente ignoto.
Quella grida concertistica non era un programma, era un proclama. Da noi, il più prolifico compositore tedesco di tutti i tempi era un emerito sconosciuto. Telemann aveva composto oltre cinquemila opere, era legato da profonda amicizia a Händel e Bach e parlava perfettamente non solo l’inglese, ma anche l’italiano. Come musico era completamente autodidatta ma, oltre al prediletto organo, suonava in modo virtuosistico il violino, la viola da gamba, il contrabbasso, il flauto traverso, l’oboe, il trombone, la ciaramella. Per scoraggiarlo a proseguire nella sua irrefrenabile passione per i suoni, sua madre gli sequestrò – quando il ragazzo aveva solo dodici anni – tutti quanti gli strumenti, per avviarlo (ovviamente senza alcuna speranza di carriera) allo studio della giurisprudenza.
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Statua di Georg Philipp Telemann a Sorau (attualmente Żary, nella Polonia occidentale), dove il compositore fu maestro di cappella tra il 1704 e il 1708 presso il conte di Promnitz. |
Proporre un programma interamente dedicato a un insolito outsider germanico, che da noi era a malapena conosciuto da qualche studioso, suonava come una sorta di solitario bip bip sprigionato con discrezione nel chiassoso scenario musicale italico dove, a turni sempre più prevedibili e regolari, rintocca solo il classicismo sinfonico, il romanticismo pianistico e il mélo-dramma operistico. Invece, quel gruppo di giovani “antichi” s’avventurava con slancio sobriamente insistente nello studio e nell’esecuzione dell’immenso patrimonio barocco (sia nostrano che tedesco e francese) identificandosi in una breve sigla sostanzialmente storica, ma allo stesso tempo anche stilistica e strutturale. Quel “Modo Antiquo” era tenuto “a bacchetta”, con ferma gentilezza, da un giovane dalle intenzioni palesemente filologiche, ma prima di tutto pre-direttoriali, pre-romantiche e pre-spettacolari.
Quando l’indimenticabile esecuzione nella Chiesa Santa Margherita Cerchi (meglio nota tra i fiorentini come “Chiesina di Dante”) ebbe espirato il suo ultimo accordo, una specie di attrazione sonnambulo-fatale mi spinse verso il front man di Modo Antiquo, che aveva appena finito d’interloquire in modo struggente con il suo flauto traverso. Gli altri avevano condominato in modo altrettanto toccante e coerente due violini, una tiorba, un basso continuo e una viola da gamba. La voce corposa e respirante di quest’ultima era tenuta a bada dall’unica straniera in quella ciurma di ben temperati italici eroi. Si chiamava (e spero che continui a chiamarsi per almeno un secolo ancora) Bettina Hoffmann… risultando poi essere l’insostituibile compagna “d’armi” e di vita del nostro protagonista.
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Bettina Hoffmann. |
La perfezione non è una chimera: esiste, e quella fu per me una rara quanto nitida conferma di tale verità. Presentandomi, quatto quatto, a quegli squisiti suonatori della buona notte, bisbigliai in modo fermo ma sorridente: «Voi e io dobbiamo fare qualcosa insieme.» E così fu.
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Alessandro Scarlatti. |
Sardelli aveva appena scovato una partitura di Scarlatti padre mai eseguita prima di allora e perciò nemmeno ascoltata e registrata. Per contro, all’epoca io “conducevo” una casa di produzione di documentari e spot la quale, in omaggio al framing in uso tra i pittori fiamminghi (chi non ricorda l’occulta camera obscura che accomuna gli sguardi voluttuosi di Colin Firth e Scarlett Johansson nel magnifico film dedicato a Vermeer?), si chiamava Camera S.r.l. L’intenzione era di produrre per gli amici un aristocratico cd che vezzosamente avrebbe dovuto intitolarsi, appunto, Musica da Camera.
In un convento romanico sopra i colli fiorentini (credo di ricordare che si trattasse del monastero di San Francesco all’Incontro, a Bagno a Ripoli), Federico organizzò in modo impeccabile quel nostro appuntamento con la purezza e la magia. La registrazione digitale fu affidata a chi m’era sembrato un tecnico più che titolato a eseguire un recording e un’equalizzazione coerenti con la portata dell’evento: il titolare in persona della casa discografica veneziana Rivo Alto, notoriamente specializzata in un repertorio nazionale che spaziava da Gesualdo da Venosa ai due Scarlatti.
Per motivi mai completamente appurati, quella registrazione – peraltro perfettamente riuscita – un “bel” giorno sparì. Non avremmo mai saputo se a causarne la perdita fosse stata una disgrazia tecnico-finanziario-legale-fiscale o semplice cialtroneria editoriale. Fatto sta che l’avventuroso e promettente petting tra Sardelli e il sottoscritto non generò alcun erede.
Com’era ovvio che accadesse, in tutti questi rigogliosi venticinque anni di afflati storiografici, concertistici e discografici, Modo Antiquo è diventato un riferimento culturale di valore e ampiezza internazionale. Dopo decine di registrazioni per la Deutsche Grammophon, Naïve, CPO, il Westdeutscher Rundfunk, Tactus, Authentic, Opus 111, Brilliant Classics, Sony, per ben due volte (nel 1998 e nel 2000) il complesso ha ricevuto la nomination ai Grammy Awards. La raccolta con rarità giovanili di Vivaldi, appena uscita con il numero di luglio, è già il sesto cd pubblicato come allegato al mensile di riferimento per gli appassionati di musica colta Amadeus.
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Modo Antiquo. |
Nonostante l’infanticidio di quel nostro agognato primogenito di nome Alessandro, con Sardelli ci saremmo ancora sentiti, scritti e rivisti con intensa solidarietà, perché il nostro Federico Maria non è solo uno stimato studioso, interprete e divulgatore di un’infinità di tesori musicali del Seicento e del Settecento, ma anche tante altre cose, cosette e cosacce messe insieme. Dispone di una cultura abbondante, onnivora, sottile. Aggiungere che è pure un toscanaccio spiritoso sarebbe un understatement quasi censorio e deviante. Come tutti gli sbeffeggiatori contagiosi, Sardelli è persona serissima, combattiva e, come si dice nel gergo dei tuttologi dei nostri giorni, profondamente “impegnata”. Un indizio risolutivo? Eccolo: sono decenni che la penna arrabbiata di Sardelli si esibisce, in modo irriverente e blasfemo, sulle pagine del Vernacoliere, il mensile satirico italiano più empio e anticlericale, fondato e diretto dal suo conterraneo Mario Cardinali nella città dove nel 1984 tre dei loro amici più cattivoni sbeffeggiarono mezzo Gotha della storia dell’arte con i sassi spacciati per sculture di Modigliani.
Ma, a parte i pentagrammi, i suoni, i gesti del direttore d’orchestra e le vignette, cos’altro riescono a generare quelle sue mani mirabolanti? Voilà.
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Un disegno di Federico Maria Sardelli. |
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Un dipinto di Federico Maria Sardelli. |
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Una vignetta di Federico Maria Sardelli. |
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Sardelli: ritratto di Bettina Hoffmann. |
Prima ancora di essere un musicista illuminato, un competente e cocciuto dissotterratore di fertili vene e luccicanti pepite dell’epoca barocca, un tremendo umorista e un ispirato artista figurativo, Sardelli è – per temperamento, passione e affinità – il gemello spirituale, praticamente monozigotico, di Antonio Vivaldi.
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Sopra: Vivaldi. Sotto: Sardelli. Notare la rassomiglianza. |

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Carlo VI in una caricatura di Sardelli. |
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Tom Hulce è Mozart nel film Amadeus di Milos Forman, 1984. |
A proposito dell’Amadeus in carne e ossa ricordo che, in una trattoria fiorentina lungo l’Arno con i tavoli storti sopra il selciato (ma dove si mangiavano fagioli all’uccelletto prelibati), Sardelli mi confermò la sensazionale diceria biografica (e cinematografica) secondo la quale, in tutta la sua vita, Mozart non avesse mai scritto una sola riga che contenesse un pensiero profondo o rilevante. Questo gigante assoluto dell’universo musicale, che aveva vergato milioni di segni sublimi sul pentagramma, con la parola scritta non ha mai espresso un solo cenno che squarciasse il velo del quotidiano e andasse oltre le esili battute, i promemoria contabili, le agende di lavoro, le faccende familiari o casalinghe… insomma, oltre l’irrilevanza e la banalità.
Fra scritti, concerti dal vivo e registrazioni, Federico Maria Sardelli e Bettina Hoffmann si sono dedicati a non meno di ottanta autori “nobili”. Vale la pena di elencarli per dimostrare quanto poco convenzionale sia la loro ricerca, che affianca ai compositori più illustri una corposa legione di talenti semidimenticati: Karl Friedrich Abel, Tomaso Albinoni, Carl Philipp Emanuel Bach, Johann Christian Bach, Johann Sebastian Bach, Wilhelm Friedemann Bach, Adriano Banchieri, Francesco Barsanti, Ludwig van Beethoven, Carlo Boccadoro, Cosimo Bottegari, Nicola Campogrande, Marchetto Cara, Fabrizio Caroso, Francesco Cavalli, Marc-Antoine Charpentier, Nicolas Chédeville, Andrea Chenna, Francesco Colombini, Francesco Bartolomeo Conti, Francesco Corbetta, Arcangelo Corelli, Francesco Corteccia, François Couperin, Chiara Margarita Cozzolani, Jean-François Dandrieu, André-Cardinal Destouches, Louis de Caix d’Hervelos, Alfonso della Viola, Robert de Visée, Gaetano Donizetti, Jacques Duphly, Antonín Dvořák, Antoine Forqueray, Girolamo Frescobaldi, Johann Jakob Froberger, Domenico Gabrielli, Baldassare Galuppi, Silvestro Ganassi, Ghirardello da Firenze, Antonio Giramo, Christoph Willibald Gluck, Giovanni Lorenzo Gregori, Georg Friedrich Händel, Franz Joseph Haydn, Ludwig Christian Hesse, Tobias Hume, Girolamo Kapsberger, Joseph Martin Kraus, August Kühnel, Pietro Antonio Locatelli, Jean-Baptiste Lully, Marin Marais, Biagio Marini, Georg Mathias Monn, Claudio Monteverdi, Wolfgang Amadeus Mozart, Georg Muffat, Carl Orff, Diego Ortiz, Arvo Pärt, Giovanni Battista Pergolesi, Jacopo Peri, Jean-Philippe Rameau, Maurice Ravel, Jean-Féry Rebel, Franz Xavier Richter, Francesco Sacrati, Camille Saint-Saëns, Antonio Salieri, Domenico Natale Sarro, Alessandro Scarlatti, Johann Schenck, Igor Stravinskij, Orazio Vecchi, Girolamo Venier, Francesco Maria Veracini, Tommaso A. Vitali, Antonio Vivaldi, Adriano Willaert, Domenico Zipoli.
A quest’ultimo è legato in modo singolare anche l’autore di queste righe. Anni prima d’aver incontrato il protagonista livornese di questo reportage, produssi e diressi un filmato celebrativo sulla Richard-Ginori. Negli stabilimenti di Doccia a Sesto Fiorentino (ai margini settentrionali di Firenze), girammo e documentammo l’intero ciclo delle fasi produttive, tutte mirabilmente manual-artigianali. Una magica anticipazione visiva e lavorativa di uno dei pensieri più nobili espressi dal sociologo del lavoro americano Richard Sennett: «Le mani sono le finestre della mente».
Al momento di accettare l’incarico per realizzare quel filmato, avevo posto due condizioni: 1) niente commenti fuori campo e 2) completa libertà nella scelta della colonna sonora. Essendo l’azienda sorta a cavallo tra il Seicento e il Settecento, era implicito che avrei cercato un brano musicale dell’epoca ma – e questo fu l’inghippo più duro da risolvere – che l’autore fosse toscano pure lui. Fu più che ovvio che la mia “prima scelta” cadesse su Jean-Baptiste Lully, un autore naturalizzato francese ma, di fatto, di solide origini fiorentine. Purtroppo nell’opera omnia di quel prolifico genio multinazionale e multimediale ogni nota, ogni percorso melodico e ogni timbro orchestrale erano improntati ai fasti di Versailles, dove il suo enorme talento mirava prima di tutto a celebrare ed esaltare la grandeur, lo strapotere e i balli di corte del suo committente principale, le Roi Soleil. Nel documentario io volevo invece esaltare l’immenso patrimonio artigianale che da oltre un quarto di millennio guidava il gusto e la danzante manualità di chi in quel di Doccia sapeva creare quei prodigi in porcellana – che nulla avevano da invidiare alle migliori manifatture di Sèvres, Limoges, Meissen, Copenhagen, Faenza, Capodimonte, Delft. Perciò cercavo un brano che allo stesso tempo fosse solido, semplice e cadenzato, ma anche solenne, ampio, luminoso.
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Jean-Baptiste Lully in una caricatura di Sardelli. |
«Chi cerca trova» per me non è mai stato solo un calembour. Fu così che scovai il “mio” Zipoli, grazie a uno dei più ispirati virtuosi della tromba di tutti i tempi, Maurice André, che da ragazzo aveva diviso i suoi anni tra l’attività di minatore e le lezioni serali impartitegli, a titolo gratuito, da un messianico professore di tromba del conservatorio di Nîmes. In quarant’anni di mirabili ricerche e passioni nell’universo della musica barocca, con la sua tromba e il cornetto a quattro pistoni (sviluppato su sue precise indicazioni dalla prestigiosa officina Selmer parigina), Maurice André avrebbe realizzato oltre 250 registrazioni discografiche tra le quali spiccava, appunto, l’Adagio struggente della Suite per tromba e orchestra d’archi in Fa maggiore del pratese Domenico Zipoli.
Alla fine della presentazione del documentario, l’ultimo nome ad apparire nei titoli di coda fu, appunto, l’autore di quella suite. Prima di complimentarsi con il sottoscritto, l’amministratore delegato, ovviamente toscano pure lui, si lasciò sfuggire un’esclamazione alquanto inattesa: «Ma ’sto Zipoli ’un sarà per ’aso un parente der nostro ’aporeparto delle de’orazioni?» Aveva ragione lui: si scoprì che tra il “suo” operaio e il “mio” autore c’era un diretto seppur lontanissimo legame familiare. Senza saperlo avevamo dissotterrato un meraviglioso link cultural-industriale tra il Settecento e il fine millennio fiorentino.
Tornando a parlare di cose toscane un tantino meno balzane, e delle ampie e variegate affinità che connettono – attraverso il tempo – il Barocco a Federico Maria Sardelli, si ha la conferma che non c’è nessun gap culturale tra ricerca filologica e modernità. Quando nel suo website sono andato a spulciare se il nostro protagonista si fosse cimentato anche nella composizione, ho scovato i titoli di ben centosessantuno sue scritture musicali tra le quali, oltre a innumerevoli arie, canoni, cantate, Lieder, quartetti, partite, fughe, cadenze, rondò, opere buffe, musiche di scena e sinfonie, ho contato anche 13 suite, 31 sonate e 42 concerti per uno o più violini, chitarra, flauto a becco, arpa, tromba, fagotto, timpani, oboe, violoncello, cembalo e archi… quasi sempre scanditi dal basso continuo praticamente d’ordinanza.
Dai suoni che via YouTube mi sono arrivati dal mio Mac, sembra che anche come autore Sardelli non rinneghi i suoi più grandi amori musicali di una vita, anche se non mancano esempi di coraggiosa sperimentazione ritmica, timbrica, d’intervalli e di magici percorsi orizzontali. I suoi Noch ein Wiegenlied (Ancora un’altra ninna nanna), Im Winter (D’inverno) e soprattutto Se d’inverno il vento, correndo sono esplorazioni che si lasciano guardare con grande emozione e stupore. Dico “guardare” perché sembra evidente che Federico Maria potrebbe fare grandi cose anche come compositore di musica da film.
Till Neuburg