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Michel Houellebecq. Foto: Miguel Medina, AFP/Getty Images. |
Nuove distopie
Negli ultimi 66 anni, le distanze letterarie tra il presente e l’apocalisse si sono accorciate dell’80%. Tra il 1949, anno di prima pubblicazione, e il 1984 di George Orwell c’era un intervallo di trentacinque anni. Tra il 2015, anno in cui esce Sottomissione, e il 2022 di Michel Houellebecq il salto è di soli sette anni. Siamo diventati più veloci: il futuro ci soffia il suo alito in faccia, e se la ride come se volesse toglierci di mezzo.
Non date retta a chi liquida l’ultimo libro di Houellebecq definendolo pamphlet o accusandolo di cinismo, quando non addirittura di astuzia mercantile. Sono tentativi un po’ patetici di esorcizzare il contenuto (inquietante, non c’è che dire) di un romanzo che sembra scritto da una cupissima Cassandra, nel frattempo laureata alla Sorbona. Sottomissione ha il potere di allarmare come certi classici della letteratura sulla fine delle utopie (Wells, Kubin, Huxley, Orwell, Bradbury, Burgess...), con un s.o.s. in più: la crisi culturale e politica dell’Europa è già in atto da un bel pezzo, è cosa nota e incontestabile, ci siamo dentro fino al naso, ed è per questo che le ipotesi profetiche di Houellebecq ci terrorizzano.
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Bompiani, 2015. |
Lo scrittore affonda la penna, a mo’ di pugnale, in quella “crisi di valori” diventata ormai uno stereotipo verbale, tanto se ne è diffusa – se non la coscienza – almeno la chiacchiera mediatica e, di conseguenza, da bar Sport e beauty salon. A parlare di crisi valoriale dell’occidente, insomma, siam buoni tutti; ma pensarci con lucidità è difficile e doloroso, per cui tanto vale rifugiarsi nell’attendismo, nel fatalismo, nella rassegnazione. L’altro stereotipo corrente, “morte della politica”, ha saputo generare solo infezioni più letali di quante ne avesse in corpo la defunta: la cosiddetta “antipolitica” e la trionfale rentrée dei peggiori impulsi nazifascisti di una volta. E mentre l’ideale democratico deperisce fino a trasformare le istituzioni in teatro di marionette, convenzioni rituali, ring elettorale e bugie grossolane – oscenità che il marketing mediatico amplifica con il più assordante e ridondante dei servilismi, – non si può non temere che a questo punto tutto sia possibile, persino il fantaislam (se così vogliamo chiamarlo) di Michel Houellebecq.
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L’abbazia Saint-Martin di Ligugé, fondata nel 361 e più volte rimaneggiata. |
Conversioni a catena
Il nocciolo del romanzo, noto ormai anche a chi non l’ha letto e a chi per partito preso non lo leggerà mai, è presto detto. Approfittando della debolezza dei partiti democratici tradizionali, in Francia si afferma una compagine imprevista, la Fratellanza musulmana, che fa breccia persino tra laici e moderati spaventati dall’avanzata del Fronte nazionale di Marine Le Pen. La new entrypolitico-religiosa riesce a organizzare una coalizione vincente grazie alla paradossale alleanza con un incongruo ventaglio di partiti di opposizione (compresi quelli che fanno capo, tanto per intenderci, a Hollande e Sarkozy), e questa vittoria, irrobustita dai finanziamenti dei paesi del petrolio, prelude a una rapida islamizzazione che si espande a macchia d’olio: in Francia e nel Belgio inizialmente, e in seguito nell’intera Europa occidentale.
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La Vergine nera di Rocamadour. |
La forza di Houellebecq sta nel rigore matematico con cui rende verosimile un’ipotesi che oscilla tra il romanzesco e la logica. Più che con la fantapolitica, Sottomissioneavvince e atterrisce con l’antropologia, descrivendo con crudeltà entomologica il processo di adattamento degli sconfitti al nuovo habitat culturale in cui sono precipitati. La conversione collettiva ai principii dell’islam parte, guarda un po’, proprio da quelle élite intellettuali che dovevano essere il baluardo della nostra civiltà. I sauditi fanno shopping e, tra le prime scatolette che buttano nel carrello, c’è il sistema dell’istruzione. Coranizzano la Sorbona in un baleno, per occuparsi subito dopo delle altre scuole. Il protagonista del romanzo, così come la maggior parte dei suoi comprimari, è un accademico (studioso di Huysmans, gran convertito d’altri tempi): in un crescendo di smarrimento e desolazione, perde l’amante ebrea in fuga verso Israele e assiste impotente alla scalata degli opportunisti. I più intraprendenti sono pronti ad autogiustificarsi con elaborate strategie filosofiche di trasformismo, “conversioni” dettate non solo dal bisogno di sopravvivenza ma anche e soprattutto dalla determinazione a proteggere e persino incrementare i propri privilegi.
Un po’ come aveva fatto, in tutt’altro gioco enigmistico, Edwin A. Abbott immaginando in Flatlandiacome sarebbe il nostro mondo se fosse privo della terza dimensione, Houellebecq schizza un’Europa ridotta alla rinuncia di ogni europeità, con tutte le ricadute del fenomeno sui vari aspetti della civiltà che ancora – ma sempre più fiaccamente – condividiamo: dal repertorio delle opinioni a quello dell’alimentazione, dall’industria ai commerci, dai diritti del cittadino alle pratiche sessuali.
Altro che “crepuscolo degli dei”, sembra suggerirci il libro. Gli dei sono più vivi e più vispi che mai. Ateismi, laicismi, autonomie di pensiero e aneliti libertari sono illusioni da soccombenti. Luxury goods per élite votate all’autoesclusione. Mentre le religioni – specialmente le monoteistiche – continuano imperterrite a mobilitare la nostra specie, a disegnarne o ridisegnarne la scena con tutte le armi a disposizione (dalla fede agli esplosivi, dalle relazioni pubbliche all’economia), a prendere il sopravvento l’una sull’altra quando e dove si aprono crepe nei “sistemi” che sembravano inscalfibili.
«L’opposizione sinistra-destra struttura il gioco politico da così tanto tempo, che ci sembra impossibile superarla»: e invece zac!, nuove categorie e nuovi parametri vanno a occupare all’improvviso gli spazi lasciati liberi dal vecchio dualismo. Risultato? «Bisognava arrendersi all’evidenza: giunta a un livello di decomposizione ripugnante, l’Europa occidentale non era più in grado di salvare sé stessa – non più di quanto lo fosse stata la Roma del V secolo della nostra era.» Sottomissione ha l’afflato delle grandi narrazioni sulla decadenza e la fine degli imperi. In un’intervista a La Stampa del 2010, Houellebecq sembrava, tutto sommato, ancora appeso a un filo di speranza, per quanto esile fosse: «Trovo che sia in atto una rinuncia alla produzione industriale in occidente. Ma la Francia e l’Italia sono i due paesi che se la possono cavare, in Europa. Questi due paesi possono uscirne in una modalità turistica, agricola. È una via per il futuro. Ciò che fa perdere tempo è cercare di salvare tutto il resto dell’economia. Diciamo semplicemente che l’occidente sta vivendo pienamente il suo suicidio. Le condizioni produttive fanno sì che non riesca più a riprodursi, dal punto di vista demografico per esempio. Saremo persi, a breve termine. Se continueremo di questo passo, se continueremo a vivere in queste condizioni di produzione, spariremo tutti.»
Uno che pensa e parla così non può che essere impopolare. Ma sia benvenuta l’impopolarità, se costringe a riflettere. Donne, state in guardia. Ce n’è anche per voi: roba da guastarvi l’8 marzo: «Quella che è stata definita la “liberazione della donna” conveniva di più agli uomini che vi vedevano l’occasione di un moltiplicarsi degli incontri sessuali. Ne è conseguita una dissoluzione della coppia e della famiglia, cioè delle ultime comunità che separavano l’individuo dal mercato. Credo che sia molto generalmente una catastrofe umana; ma che, anche in questo caso, siano le donne a soffrirne maggiormente. Nella situazione tradizionale, l’uomo si muoveva in un mondo più libero e più aperto di quello della donna; cioè anche in un mondo più duro, più competitivo, più egoistico e più violento. Classicamente, i valori femminili erano permeati di altruismo, amore, compassione, fedeltà e dolcezza. Anche se questi valori sono stati messi in ridicolo, bisogna dirlo chiaramente: sono valori superiori di civiltà, la cui scomparsa totale costituirebbe una tragedia.» È un Houellebecq vintage: risale al 1996, in un’intervista a Humanité. Ma è un pensiero che si ritrova, presentissimo, anche nel romanzo. E può passare per misoginia spicciola, ma non è detto che lo sia.
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Prima edizione britannica di 1984 di George Orwell. Londra: Secker and Warburg, 1949. Copertina di Michael Kennard. |
L’autore non fa mistero della sua collocazione culturale: «Sono un conservatore», va dicendo senza inibizioni a chiunque abbia in animo di sfruculiarlo un po’. Ma da tempo le etichette tradizionali di “conservatorismo” e “progressismo” si sono sfilacciate e frammischiate fino a perdere qualsiasi senso definitorio. Houellebecq è troppo intelligente, e troppo sarcastico, per non saperlo. Sa anche di essere antipatico, forse anche odiato; ma rimane uno dei pochi scrittori, e pensatori, che sarebbe sciocco e colpevole ignorare.
Anche perché il suo libro, per quanto scorbutico e minaccioso sembri e sia, trasuda di amarezza e sconforto, di dolore sincero, di implacabile masochismo. Gli inserti sentimental-sessuali rasentano la disperazione. Ridotti allo slang sbrigativo e insolente tipico della pornografia più cheap, denotano la ferma intenzione di disattivare qualsiasi residuo di quella retorica “ornamentale” con cui abbiamo cercato, nei secoli, di sublimare noi stessi.
© Pasquale Barbella.