Questo articolo è uscito per la prima volta su Bill n. 10, aprile 2014.
![]() |
Buster Keaton in The Goat (Il capro espiatorio), 1921. |
La maggior parte degli investitori pubblicitari è favorevole all’umorismo. Quello degli altri.
La sofferenza unisce, l’ilarità divide.
Si piange per le stesse cose: il dolore, la malattia, la perdita.
Ma si ride o sorride per ragioni diverse. Io, ad esempio, non ho mai esultato per le barzellette sui carabinieri, anche se hanno elettrizzato milioni di mascelle.
Christian De Sica – che qui arbitrariamente cito come rappresentante di una intera categoria – ha su di me un effetto deprimente, mentre suscita ondate di buonumore in vaste platee.
Evito le fiction patetiche, che strappano fiumi di lacrime ai sentimentali, perché le trovo ridicole – nel senso meno laudativo del termine.
Risulta dunque arduo compilare regole per la buona riuscita del comico in pubblicità. Ciò che diverte certuni irrita gli altri, o – il che è peggio – non ne scalfisce l’indifferenza.
La pubblicità è piena di gente che ride o sorride. Si vede che il marketing attribuisce alle dentature scoperte un valore imprescindibile. Soprattutto se non c’è nessun motivo logico per metterle in mostra.
Gli investitori sembrano esser certi che mostrare la felicità, soprattutto se finta, sia il più positivo e contagioso metodo di coinvolgimento collettivo. Non si spiega altrimenti la frequenza con cui nelle réclame di alimenti, bevande, autovetture, acque minerali, yogurt, attivatori intestinali, shampoo e persino pannoloni per anziani si vede gente tanto felice. Solo l’alta moda preferisce il broncio all’esultanza. Fa più figo, perché il sorriso è una perversione da mass market.
Come al cinema o nelle freddure scritte e parlate, la pubblicità che pretende di essere spiritosa si divide, grosso modo, in due filoni. Il comico e l’umoristico. Che sembrano gemelli, ma non sono nemmeno cugini.
Dov’è la differenza?
![]() |
Buster Keaton in The Love Nest (Il nido d'amore, 1923). |
Secondo Carlo Dossi, «il comico è riso, l’umorismo sorriso» (Note azzurre). Dossi pensava all’understatement. Uso la parola inglese perché in italiano il concetto non esiste nemmeno. I dizionari tentano di tradurla con “eufemismo” e “minimizzazione”, ma non ci siamo. Gli italiani sono mediamente più sensibili alle espressioni forti che alle sottigliezze. Un ridondante vaffanculismo domina gli stadi, i social network, la politica e i relativi talk show. Le mezze misure sono considerate minestra scondita.
Eppur si ride, e tanto. Ma di cosa?
Secondo Menandro, «il riso abbonda sulle labbra degli stolti.»
Che avrà voluto dire? Menandro faceva il commediografo di mestiere: non ce lo vedo a remare contro la commedia. Forse voleva semplicemente anticipare, di un paio di millenni e qualcosa di più, la poetica di Buster Keaton.
Nessuno ha mai visto ridere Buster Keaton. Il suo volto era l’immagine della tristezza. Mister Stabat Mater. Eppure è riuscito a far ridere fino alle lacrime intere generazioni. Non quelle di oggi, temo.
Occorre distinguere tra farsa e humour. La prima è atemporale e astratta, il secondo si applica a situazioni concrete, reali. La farsa è buffoneria, boutade: Totò si caccia gli spaghetti in gola e in tasca, ed è una gag disancorata dall’epoca; poteva adattarsi alla commedia atellana del quarto secolo avanti Cristo e potrà essere riesumata senza problemi nel quarto millennio, se ci saranno ancora creature capaci di farsi una risata.
L’umorismo non ha niente di bonario né di strillato né di licenzioso. L’umorismo è semplicemente realistico, malizioso, cattivo, intrinsecamente ribelle – e, paradossalmente, non violento.
Ho rivisto un film di Nanni Loy del 1965, Made in Italy. Un collage di brevi episodi che dovrebbero farci morire dal ridere e che – a distanza di mezzo secolo – risulta invece moscio e stereotipato. C’è dentro, quasi per intero, il gotha della commedia all’italiana: da Walter Chiari ad Aldo Fabrizi, da Nino Manfredi a Peppino De Filippo, da Alberto Sordi a Lando Buzzanca. Ma c’è una sola sequenza degna di essere ricordata. Quella con Anna Magnani che cerca di attraversare, tra mostruose difficoltà, un trafficatissimo stradone della periferia romana, a rischio e pericolo suo e di una pattuglia di pedoni la cui sorte dipende da lei: tre marmocchi, la madre decrepita, il marito psicolabile. Per poi scoprire, al termine dell’impavida impresa, che alla gelateria finalmente raggiunta sono finite le agognate Coppe del Nonno. La differenza tra questo sketch e tutti gli altri sta nel fatto che la Magnani trasforma mirabilmente, con poche battute e le espressioni del volto, una semplice barzelletta in un doloroso dramma sociale. Si ride, certo, ma proprio perché l’apparente minimalismo del raccontino si carica di significati seri: miseria, degrado urbano, malessere, sacrificio, denuncia...
La forma più colta dell’umorismo è l’irrisione dissimulata. L’ironia. Il calcio nel sedere mascherato da carezza.
Non esistono ironia né umorismo se non sono riferiti alla realtà riconoscibile come tale. La commedia si eleva dal buffonesco alla critica sociale con intenzioni etiche: diventa così il meccanismo che, per dirla ancora in latino, castigat ridendo mores. La parodia e la satira fustigano i costumi e le azioni del nemico assai meglio di quanto saprebbe fare una predica altisonante e severa.
Ironia, derisione, sarcasmo, satira e caricatura sono sempre contro qualcuno o qualcosa. Sottintendono la protesta, l’accusa, il dissenso. Farsa, goliardia, clownerie sono più innocue dello humour, che esprime sempre un punto di vista critico su qualche tema che ci riguarda.
Nell’ironia si annida una contraddizione di fondo, messa in luce già nel XVIII secolo da un aforista simpatico, Nicolas de Chamfort: «Un uomo che abbia almeno una volta riso di gusto non può essere tutto sommato irrimediabilmente malvagio.» Chi non capisce o non approva lo humour è persona di cui diffidare. Hitler non era Buster Keaton: prendeva molto sul serio la serietà, mentre Keaton la usava per incrinarla.
![]() |
Buster Keaton in Seven Chances (Le sette probabilità, 1925). |
Non è divertente la puzza in ascensore.
Proprio per la sua carica di malizia l’umorismo fa ridere gli estimatori di Oscar Wilde e di altri campioni dell’aforisma, compresi molti di quei marketing manager pronti a bocciare qualsivoglia ombra di divertimento dalle loro réclame. Il mio amico Lee Garfinkel, già direttore creativo in agenzie come DDB, BBDO, Lowe e attualmente CEO della Draftfcb di New York, ama appuntarsi nei suoi taccuini le frasi più curiose pronunciate dai committenti nelle sale riunioni. Alcune me le sono trascritte:
«La vostra idea creativa non funziona, è troppo divertente.» (Emittente TV specializzata in sitcom, 1989, a un’agenzia in gara).
«Volkswagen può permettersi di fare dello spirito: le sue macchine costano poco. Noi invece vendiamo un prodotto di fascia alta.» (Manager di una marca di automobiline giocattolo, 1981).
«Guardi, la nostra non è mica un’azienda spiritosa. Anzi è piuttosto noiosa. La nostra pubblicità non dovrebbe riflettere chi siamo?» (Primaria compagnia di assicurazioni, 1994).
«Temo che la vostra campagna sia un po’ troppo divertente.» (Parco giochi tipo Disneyland, 1997).
Immagino che questi commenti si riferissero a proposte umoristiche più che banalmente allegrotte. L’umorismo sgomenta perché, applicandosi alla realtà e sfiorando temi variamente rilevanti, è sempre problematico (“ansiogeno”, secondo i professionisti della ricerca motivazionale). Ma è, paradossalmente, una delle risorse più efficaci a disposizione delle imprese che aspirino a connotarsi come eticamente sensibili.
Ci sono prodotti che non esisterebbero se la vita fosse tutta una favola con annesso happy end. Due esempi concreti, per non citare l’ovvio ramo assicurativo: le dentiere con i relativi accessori e i pannoloni per l’incontinenza degli adulti. A guardare certi break pomeridiani, sembra che le protesi dentali siano un passaporto per la felicità (gran sfoggio di sorrisi!) e che non si possa parlare di pannoloni se non ridicolizzando chi è costretto a ricorrervi (la signora puzza in ascensore). Questo in Italia. In India hanno inventato una campagna stampa per una marca di pannoloni bella già nel nome, Friends. In una foto si vede un water al posto di un sedile d’automobile. In un’altra il water sostituisce una delle poltrone di un teatro. In una terza c’è un orinatoio in un’aula universitaria, proprio accanto alla lavagna. E accanto alla confezione di Friends c’è scritto soltanto: «Quando non c’è una toelette a portata di mano.»
Le immagini fanno sorridere, ma la proposta è seria, garbata, onesta, convincente.
La serietà e la comicità farsesca sono unidimensionali. L’umorismo consente invece una doppia o tripla lettura dei fenomeni. È uno sguardo che indaga oltre l’apparenza. Un efficace antidoto contro l’arroganza. Il suo tono di voce è più cordiale, più complice, più vicino alla verità. L’ironia dà il giusto peso al prodotto o servizio reclamizzato; lo smitizza e gli conferisce un tocco umano, quotidiano, verosimile.
Proprio quando nell’aria si avverte che c’è poco da scherzare (crisi, violenza, terrorismo e quant’altro) è il momento perfetto per l’umorismo.
Perché ridere è una cosa seria.
Talmente seria che nelle aule universitarie, quando mi toccava dedicare una lezione all’umorismo in pubblicità, cominciavo con questo avvertimento: «Vi do una buona notizia: oggi sono di pessimo umore. Quando sono di pessimo umore, tendo a parlare di cose divertenti.» Pochissimi ridevano. Così come nessuno rise quando in agenzia, una volta, accolsi una ventina di studenti – tutti aspiranti copywriter – facendomi trovare in sala riunioni con una Colt 45 a portata di mano. Era un giocattolo, naturalmente, un’imitazione perfetta del revolver vero. Il trucco mi serviva come introduzione al tema che mi ero proposto: il valore dell’inatteso e dell’effetto-sorpresa nella comunicazione. Mi aspettavo una reazione, un segno qualsiasi, ma le facce degli ospiti non tradivano né turbamento né semplice curiosità. Uno solo ebbe il coraggio di azzardare un incerto sorriso e di domandarmi a cosa mi servisse quell’arma. Era il meno spento della classe e spero abbia fatto carriera. Gli altri, come poi ebbi modo di accertare, avevano forti lacune in grammatica, ortografia e sintassi.
Uno scarso senso dell’umorismo si accompagna quasi sempre ad altre carenze, non solo di tipo scolastico. E non di rado confina con le opposte regioni della rassegnazione e della violenza. Basta partecipare a una riunione di condominio per farsi un’idea di come si può arrivare dalla stretta di mano alla guerra civile.
La pubblicità italiana, specialmente quella televisiva, è lo specchio fedele della nostra tetraggine. Guardiamo gente che continua a sorridere e a ridere senza un perché. O meglio: solo per convincerci di essere soddisfatta del detersivo o del biscotto che sta usando. In un raptus di surrealismo, Antonio Banderas chiacchiera con una gallina mentre Julia Roberts sfodera un sorriso da orecchio a orecchio nel paradiso del caffè. Troppo poco per un paese che si vanta di aver inventato la commedia dell’arte. O, forse, è qui che doveva condurci la commedia dell’arte: un genere di teatro più vicino alla farsa popolare che non a quella complessa mistura di ingredienti che va sotto il nome di humour.
Da noi, i cinepanettoni e Checco Zalone battono Billy Wilder 9 a 1 e questo non incoraggia nessuno a investire in campagne realmente graffianti. Anche perché il vero umorismo, applicato alla comunicazione commerciale, mina alla base gli stereotipi di cui questa si nutre.
Etica della risata: dieci classici della pubblicità.
Quando si va a caccia di umorismo (quello vero) nella pubblicità, ci si ricorda di poche cose, le solite. Segno che il tipo di divertimento che stiamo cercando è piuttosto raro. Sfido la mia memoria ripromettendomi di elencare dieci campagne che mi hanno fatto ridere di cuore. Le prime dieci che mi vengono in mente. Eccole (non è una graduatoria, è solo una lista in ordine alfabetico). Tralascio le italiane per non fare torto a nessuno, ma non posso non citare, almeno di striscio, le campagne della STZ (Bidone Aspiratutto, Boffi, Vortice etc.); la campagna Telecom (Armando Testa) con Massimo Lopez condannato a morte che allungava a dismisura l’ultima telefonata per ritardare l’esecuzione; lo spot Euro RSCG in cui si vedeva un giovane indiano massacrare la carrozzeria della propria utilitaria per farla somigliare a una Peugeot 206.
Alka Seltzer: A Spicy Meatball, Doyle Dane Bernbach, New York, 1969.
Uno dei capitoli più polemici dell’umorismo pubblicitario riguarda proprio la pubblicità in quanto tale, o meglio i suoi cliché più euforici, falsi, edulcorati. La pubblicità ride di se stessa in tutta l’opera di Gossage, per esempio, e in buona parte dell’opera di Bernbach: due maestri non solo di creatività, ma anche di etica del marketing e dei consumi. Il più famoso degli spot Alka Seltzer è concepito come backstage di uno spot immaginario per qualcosa d’altro, le polpette piccanti di Mamma Mogadini. L’attore sbaglia continuamente la battuta («Mamma mia, questa sì che è una polpetta piccante!») e per questo è costretto a ripetere la scena troppe volte, tanto da stressare lo stomaco fino all’indigestione e dover ricorrere al soccorso di un Alka Seltzer. Si ride ancora oggi: per la sofferenza del maldestro testimonial costretto a simulare un piacere che non prova; per la bonaria presa in giro della cucina e del mammismo italiani; per la gag finale (la cucina sul set perde uno sportello proprio nell’unico take in cui l’attore riesce a pronunciare decentemente la battuta). Anche la sorpresina finale fa parte, da sempre, della struttura narrativa di uno sketch che si rispetti.
Chivas Regal: This bottle is ½ empty. This bottle is ½ full. Doyle Dane Bernbach, New York, 1970.
«Questa bottiglia è mezza vuota. Questa bottiglia è mezza piena.
Se è la vostra bottiglia di Chivas a restare a metà, probabilmente la vedrete mezza vuota.
Se invece siete in visita da un amico e la bottiglia è sua, potete rilassarvi, sapendo che è ancora mezza piena.»
Se è già difficile strappare un sorriso con uno sketch audiovisivo, figuriamoci con una pagina di carta stampata. Una marca di whisky, per giunta. In un’epoca, mai tramontata, in cui l’intero settore merceologico si ostina a combattere le sue battaglie solo a colpi di status symbol. Qui non si vedono né facce ebeti né ambienti chic: l’art direction lavora per sottrazione di simboli, mentre il testo va a scavare nella psicologia per portare alla luce certe piccole meschinità dell’animo umano.
Dr. White Towels and Tampons: Have you ever wondered how men would carry on if they had periods? Bartle Bogle Hegarty, Londra, primi anni novanta.
«Vi siete mai chieste come se la caverebbero gli uomini se avessero le mestruazioni?»
Gran colpo di umorismo al femminile, grazie alla testa e alla penna di una strepitosa Barbara Nokes. Che qui azzecca un affondo nella carne del maschio universale, suscitando immediata condivisione in tutte le donne d’occidente. Anche l’art direction concorre in modo arguto ed esemplare alla demolizione del machismo. Le didascalie intorno all’immagine sono così acuminate da sfiorare la crudeltà assoluta: «Come faccio ad andare alla finale di Coppa con questo mal di testa?», «Con queste eruzioni sul mento, a radermi non ci penso neanche», «Se ti si gonfiasse il seno e ti facesse male, ti guarderesti bene dal chiedermi abbracci e moine», «Altro che lavare la macchina; ho un tale mal di schiena», «Lo stomaco mi fa male ed è così gonfio che il capo mi ha domandato se fossi incinto», «Non riuscirò mai a dare la scalata al successo con queste gambe che vacillano una volta al mese.»
Ho spesso presentato questa campagna in aule piene di studentesse e posso dire che nessun altro lavoro ha suscitato altrettanta ilarità. Le donne riconoscono inevitabilmente i loro partner e altri congiunti di sesso maschile nel ritratto che ne fa la Nokes:
«A rischio di sembrare sessisti, dobbiamo osservare che quando non si sentono bene gli uomini sono peggio dei bambini.
Basta un piccolo raffreddore ed è subito “influenza”. Un mal di testa diventa “emicrania”. Un’indigestione, “sospetto attacco cardiaco”.
Se gli uomini avessero i periodi, la lagna andrebbe avanti per tre lunghe settimane al mese, altro che settimana corta.
Il fatto è che sono le donne ad avere i periodi. Mese dopo mese dopo mese… per circa 35 anni.
E più che pensare a come cavarsela, le donne sono impegnate a fare il lavoro di tutti i giorni nonostante le difficoltà.»
La superiore virtù dell’umorismo consiste nel fatto di rivelare verità variamente sgradevoli rendendole accettabili persino alla vittima di turno. Non sono pochi i maschi, a cominciare dal sottoscritto, che trovano divertente e ammirevole questo annuncio: anche quelli che, sottoposti alle stesse critiche dal vivo, si metterebbero subito a litigare di brutto con la propria accusatrice.
L’umanità ha bisogno di umorismo: è salvifico. L’Italia di oggi soffre di gravi carenze anche sotto questo profilo. Ecco perché gli italiani si azzannano senza ritegno dappertutto, a cominciare dalla scena politica. E non parlatemi di Beppe Grillo. Sarà pure stato un comico, ma l’umorismo è un’altra cosa.
Guinness: Bet on Black. Abbott Mead Vickers BBDO, Londra, 2000.
Siamo ai Caraibi, in un posto che somiglia all’Avana degli anni quaranta o cinquanta del secolo scorso, prima della caduta del regime di Batista e della vittoria della rivoluzione di Castro. Atmosfera depressa e miserabile dappertutto, in forte contrasto con l’ottimismo canterino di Benny Moré e il mambo sparato dagli ottoni di Pérez Prado. Entriamo in un immenso e degradato salone che si va rapidamente affollando di umanità marginale e rigorosamante maschile. Che ci fanno lì? Scommettono il poco che possono su una gara di lumache da corsa. Un nano gestisce l’evento. Alza la voce per farsi sentire nel brusìo generale. Finalmente spara un colpo di pistola verso il soffitto: è il segnale di start. La folla si zittisce all’istante. I molluschi dovrebbero muoversi, ma permangono immobili, più morti che vivi, indifferenti all’attesa colma di speranza dei poveri scommettitori. Si trattiene il respiro. Nell’aria vola solo una mosca, che si posa sui calzoni di uno dei tanti e si mette a passeggiare indisturbata. Quando ormai tutti sembrano rassegnati al nulla assoluto, le chiocciole partono tutte insieme, a razzo. Inseguiti lungo una pista che si estende fino all’esterno del salone, i turbogasteropodi compiono il miracolo di trasformare la delusione generale in festa carnevalesca. A suggellare l’evento scorrono fiumi di Guinness: «Good things come to those who wait», le cose buone succedono a chi sa aspettare, perché per spillare la pinta perfetta di quella birra ci vogliono esattamente 125,27 secondi.
La straordinaria regia di Frank Budgen crea adeguata suspense intorno all’avvenimento narrato, ma non si limita a questo. La caratterizzazione di luoghi e personaggi è talmente realistica da rasentare il documentario. L’umorismo è nell’oggetto della scommessa: non un cruento corpo a corpo di galli o di cani, ma una corsa di animali proverbiali per la loro lentezza. Un minuto di spettacolo emozionante e superbo, tutto giocato sui contrasti: lentezza-velocità, disperazione-consolazione, silenzio-trambusto. Ancora una volta, sotto il velo pacioso dell’ironia, ribolle l’autenticità della condizione umana: persino della più gravosa, come in questo caso.
Hamlet: Happiness is a cigar called Hamlet. Collett Dickerson Pearce, Londra, 1966-1991.
Per anni la comunità creativa internazionale che in giugno si riversa a Cannes per il festival della pubblicità soggiacque a un vero e proprio culto per la campagna Hamlet, chiedendosi quale sarebbe stata l’ultima novità della serie. Episodi sempre diversi tra loro, format immutabile: andava in scena il fallimento di qualcuno, e lo sconfitto si consolava con un sigaro Hamlet. Fallimento: una delle voci più dolorose del cosiddetto “approccio negativo” teorizzato dalla rivoluzione creativa degli anni sessanta.
Persino l’austero e insospettabile Johann Sebastian Bach concorse a rendere fulminante l’ironia di quegli spot. Le note iniziali dell’Aria sulla quarta corda, jazzificate con garbo dal trio di Jacques Loussier, facevano da contrappunto al primo sbuffo di fumo alla fine di ogni sketch, un po’ per suggerire la quiete subentrata allo smacco e un po’ per prendere deliziosamente per il culo il perdente di turno.
Di quella galleria di perdenti il più ricordato è un tizio che non riesce a farsi fotografare da una macchina a gettone. Compie sforzi sovrumani per assumere la postura e l’espressione giuste, ma lo scatto parte sempre fuori tempo.
Nestlé: Elephant. Ammirati Puris Lintas, Amsterdam, 1996. Regia di Rogier van der Ploeg.
1996, Cannes: Grand Prix a un piccolo spot olandese, davvero minimale, per Rolo Nestlé. Un bambino sfotte un elefantino allo zoo. Tende il braccio, finge di offrirgli uno snack. Ma quando l’animale è sul punto di prenderlo, l’infame ritrae il braccio, mangia lo snack e, in ultimo segno di dileggio, fa due versacci per imitare il barrito della vittima. Passano gli anni; il ragazzino è ormai un giovanottone, ma a parte la stazza nulla è cambiato in lui. Mastica Rolo e ostenta l’odiosa arroganza di sempre. Mentre assiste alla parata di un circo, viene riconosciuto e schiaffeggiato a colpi di proboscide dall’elefante che un giorno aveva offeso.
Al di là della gag carina, ciò che rende irresistibile e innovativa la storiella è la precisione – acutamente realistica – con cui è caratterizzato il protagonista. Un deplorevole vilain, come mai si era visto prima in pubblicità. Si ride fino alle lacrime ogni volta che si rivede questo spot, per la semplice ragione che quel personaggio lo abbiamo incontrato tutti, almeno una volta nella vita. Lo abbiamo avuto come sgradito compagno di classe, o come insopportabile cugino, o come infiltrato nel nostro gruppo di giochi. L’elefante si vendica ed è come se vendicasse tutti noi: per questo il successo dello spot è garantito.
The Economist. Abbott Mead Vickers BBDO, Londra, dal 1987.
Centinaia di poster senza foto e con rare illustrazioni: prevale il testo, frasi composte in Bauer classic bianco (ridisegnato per l’occasione) su uno squillante fondo rosso. Una battuta dopo l’altra e una più brillante dell’altra, perché l’obiettivo di The Economist è proprio quello di connotarsi come settimanale illuminante per lettori non superficiali: «“Mai letto The Economist”. Stagista area management, 42 anni», «Se più donne leggessero The Economist, ci sarebbero meno posti di lavoro per gli uomini», «C’è vita intelligente su Marte? Il nostro ufficio abbonamenti dice di no.»
A volte la provocazione diventa una sfida in diretta: bisogna far ruotare un po’ il cervello per captare il significato dell’annuncio di turno. Ed è come sottoporsi a un test di intelligenza, il che fa parte del gioco. Memorabili le installazioni ambientali derivate dalla campagna, come ad esempio la lampadina che si accende sul tabellone rosso quando l’inconsapevole passante entra nel raggio d’azione di una cellula fotoelettrica.
Alla case history ha dedicato un bel volume Alfredo Marcantonio, gloria del copywriting britannico di origine italiana: Well-written and Red. The Story of The Economist Poster Campaign, Dakini Books, Londra 2002.
Volkswagen: «It was the only thing to do after the mule died.» (“È stata l’unica cosa da fare dopo che ci è morto il mulo.”) Doyle Dane Bernbach, New York, anni sessanta.
La leggendaria campagna Think small trabocca di episodi divertenti. Ho scelto probabilmente il più eccentrico, almeno per quanto riguarda l’apporto di Helmut Krone: che qui scantona dal minimalismo monacale tipico della serie e si concede una composizione fotografica riccamente descrittiva. Con una citazione di American Gothic, il dipinto di Grant Wood che sta agli States come la Gioconda sta all’Italia. La foto ha un intento parodistico nei confronti dell’American way of life e specialmente dell’America rurale, concreta, austera, conservatrice, orgogliosa, tutta chiesa e fattoria, mai immemore delle fatiche dei nonni che crearono, col sudore e col sangue, la nazione più potente della terra. La coppia di farmer dell’annuncio – «gli Hinsley di Dora, Missouri» – deve cavarsela da sé in un ambiente isolato e affrontare «gli aspri inverni dell’Ozark. Troppo duri per un mulo a sangue caldo». Per questo, dopo la morte del prezioso quadrupede, hanno deciso di cedere un poco alla modernità e di comprarsi una Volkswagen usata, resistente al freddo grazie al motore raffreddato ad aria che evita congelamenti nel radiatore. Senza contare che «Quando si rompe un mulo, c’è una cosa sola da fare: sparargli. Ma qualora e quando si rompesse il maggiolino, gli Hinsley avrebbero un’officina Volkswagen a soli nove litri di distanza.»
Volkswagen: Funeral. Doyle Dane Bernbach, New York, anni sessanta.
Lo stesso sense of humour e lo stesso stile discorsivo profuso in dozzine di annunci stampa si ritrovano nella creatività cine-televisiva di Bernbach e dei suoi collaboratori. Con un vantaggio in più: il racconto audiovisivo consente di portare al massimo grado l’effetto-sorpresa desiderato.
Uno dei primi capolavori televisivi della Volkswagen si apre con un negative approach inconcepibile in pubblicità: un funerale. Parenti e amici del defunto, uno di quei self made men così cari all’immaginario USA, sfilano nelle loro auto di lusso. Fuori campo, la voce della buonanima legge il suo testamento. Vale la pena di riportare il racconto sotto forma di sceneggiatura e commentare quasi frame-by-frame la perfezione del congegno narrativo:
Video | Audio |
Esterno giorno. Clima gelido e piovoso.[1] Una fila di prestigiose autovetture coi fari accesi sbuca da una curva e avanza verso la mdp, lungo un’anonima strada extraurbana. | Voce maschile fuori campo: Io, Maxwell E. Snaberly, in condizione di intendere e volere, lascio le seguenti disposizioni: |
Stacco. Piano americano di un’elegante signora in gramaglie, di mezza età, accomodata sul sedile posteriore di una limousine. La signora trattiene a stento le lacrime.[2] | A mia moglie Rose, che spendeva denaro come se non ci fosse un domani, lascio cento dollari e un calendario.[3] |
Stacco. La mdp si concentra sulla vettura seguente (ripresa dall’esterno) – una Rolls-Royce. | Ai miei figli Rodney e Victor, |
Stacco su interno vettura. Primo piano di Rodney. Giovane, abbronzato, occhiali da sole, look da playboy. Un impercettibile, amaro sorriso sfiora le sue labbra. | che spesero ogni decino che gli davo |
Primo piano di Victor, meno giovane e calvo, sul cui volto si dipinge una smorfia di ambiguo significato. | in automobili stravaganti e donnine svelte,[4] lascio cinquanta dollari in monete da un decino. |
Stacco su esterno: altra auto in arrivo – una tipica vettura di rappresentanza. | A Jules, mio socio in affari, |
Sul sedile posteriore della vettura appena vista, Jules – pelato, maturo e sovrappeso – fuma un sigaro e sembra piuttosto a suo agio, stretto com’è fra una bionda e una bruna che sembrano Marilyn Monroe e Jane Russell in Gli uomini preferiscono le bionde. | il cui unico verbo fu spendere, spendere, spendere, non lascio niente, niente, niente. |
La mdp torna in esterno, sul resto del corteo. | E agli altri amici e parenti che pure non impararono mai il valore di un dollaro, io lascio un dollaro. |
Ultimo e distanziato dal resto del corteo, entra in campo un maggiolino Volkswagen.[5] | Quanto a mio nipote Harold, |
Vediamo il maggiolino sfilare di profilo. | che usava ripetere: “Un penny risparmiato è un penny guadagnato”, |
Stacco sul finestrino anteriore. Harold è al volante della sua utilitaria, ed è l’unico sinceramente addolorato. Con una mano guida, con l’altra si deterge le lacrime. | e altrettanto spesso diceva: “Cacchio, zio Max, non hai idea di quanto rende una Volkswagen”, |
Stacco su esterno. Viste dall’alto, le auto si allontanano verso l’orizzonte sulla strada altrimenti deserta. Harold segue con la sua Volkswagen a debita distanza. | lascio il mio intero patrimonio di cento miliardi di dollari. |
Wendy’s: Where’s the beef? Dancer Fitzgerald Sample, New York, 1984. Sceneggiatura di Cliff Freeman.
Tre vecchiette ordinano tre panini con l’hamburger, presumibilmente in un McDonald’s. L’ambiente è appena stilizzato, connotato da un’insegna immaginaria, «Home of the Big Bun», già piuttosto allusiva al regno del Big Mac. Controllano il contenuto dei sandwich, effettivamente più grossi del normale, e protestano per l’esiguità della carne ricevuta: una robetta scura e solitaria al centro del panone. Una di loro sbotta ripetutamente nella domanda: «Dov’è il manzo?» Esilarante campagna comparativa per mettere bene in chiaro che da Wendy’s le porzioni di carne sono più abbondanti che nelle altre catene di fast food.
Qui il confine tra comicità e umorismo è più sfumato. La situazione è talmente surreale da far pensare alla farsa grottesca più che alle raffinatezze dell’ironia. Ma la cattiveria c’è, eccome.
Tipica dello stile di un regista, Joe Sedelmaier, molto amato negli anni ottanta per i suoi leggendari spot caricaturali, la campagna riuscì a incidere così profondamente nell’opinione pubblica da promuovere la frase Where’s the beef? a modo di dire comune. Negli Stati Uniti e in Canada la si ripete spesso in senso metaforico in conversazioni su qualunque argomento, come per dire «Embè? Dov’è la sostanza? Dove vuoi arrivare?»
P.B.
[1] Fin dalla prima immagine (establishing shot) si delineano l’ambiente e l’atmosfera del racconto. La giornata, alquanto tetra, conferisce spessore drammatico alla situazione.
[2] Come in una commedia degli equivoci, si sorride sul dolore della vedova: piange per il lutto che l’ha colpita, o per la deludente quota ereditaria riservatale?
[3] Il calendario fa parte della legge del contrappasso con cui il defunto punisce gli spreconi: ricorda alla vedova che i domani esistono, eccome.
[4] Nell’originale fast women, con l’aggettivo fast che ricorda anche le macchine “veloci”. Ironia sul cliché “donne & motori”, la doppia passione di ogni playboy o aspirante tale.
[5] La posizione della Volkswagen, ultima nel corteo e distanziata dalle altre, è un colpo di genio narrativo e simbolico. Ritorna qui il concetto ispiratore di tutta la campagna, Think small– la piccola utilitaria che non ha nulla da spartire con le sontuose regine della strada. E se ne sta in disparte con discrezione, umile e forse persino bruttina ma autentica, previdente, sincera, intelligente, simpatica.