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Donne e assassini

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Crime songs: Fenesta che lucive

La più famosa delle canzoni ispirate dalla tragica vi­cenda della Principessa (o Barunissa) di Ca­rini, uccisa dal proprio padre nel 1563 in nome dell’onore di famiglia.

{Finestra illuminata}, romanza in dialetto napoletano di autore anonimo e incerta ori­gine, Regno di Napoli. © Girard / Curci.

Del testo esistono più lezioni, tutte riela­borate da versi di cantastorie siciliani; anche di queste canzoni narrative in dialetto sici­liano si conoscono numerose varianti. Tema comune sembrerebbe essere la tragica vi­cenda della Principessa (o Barunissa) di Ca­rini, uccisa dal proprio padre nel 1563 in nome dell’onore di famiglia. Protagonisti del dramma: don Cesare Lanza di Trabia, il nobiluomo che non esita a brandire la spada contro la propria creatura per punirne l’adulterio; Laura (spesso indi­cata come Caterina), la vittima; il barone Vincenzo La Grua Talamanca, marito di lei; il cavaliere Ludovico Vernagallo, cugino di Laura e suo presunto amante. Osserva Roberto Leydi: «Come la maggior parte delle “storie” siciliane anche quella della Baronessa di Carini, composta non si sa da chi, fu certo portata in giro per l’isola dai cantastorie, per lo più orbi com’erano una volta in maggioranza i croni­sti ambulanti. È assai probabile che il primo dettato della “storia” risalga ai giorni suc­cessivi al fatto cui si riferisce, sia stato dif­fuso già nel XVI secolo dagli orbi, abbia poi continuato a vivere, uscito forse dal reperto­rio sempre rinnovato dei cantastorie, nell’uso popolare, giungendo fino a noi.»[1]

C’era na principissa di Carini
Ièra affacciata nna lu sò barcuni
Viri viniri na cavalleria
Chisto è me patri chi bèni pi mìa...

«C’era una principessa di Carini / era affac­ciata al suo balcone / vide arrivare una ca­valleria / questo è mio padre che viene per me...»

Gli endecasillabi siciliani cominciano così, con la principessa affacciata al balcone del castello (che in Fenesta che lucive di­venta una finestra). Il balcone (o finestra) è la scenografia fatale della storia: usava af­facciarvisi la fanciulla in attesa impaziente dell’amante; vi si affaccia un’ultima volta per vedere arrivare il padre vendicatore al comando d’un manipolo di cavalieri armati; appare poi ostinatamente chiuso a Verna­gallo, che comincia a sospettare il peggio; si riapre per la madre (o la sorella) di Laura, che si affaccia per dargli l’orrenda notizia. Il racconto procede con una seconda parte al­quanto faustiana: sulla tomba dell’uccisa l’innamorato stringe un patto col diavolo, da cui ottiene il permesso di visitare l’inferno per rivedere l’amata.

Il castello di Carini, in Sicilia. Di notte, secondo la voce popolare, nelle stanze si aggira il fantasma della baronessa uccisa.

Nonostante la rigida e sessuofobica morale dell’epoca e del luogo, i cantastorie trattano con accoramento e compassione i due scalognati amanti e mo­strano animosità e disprezzo nei confronti dei perbenisti: un monaco delatore e lo stesso padre omicida (abbandonato da Dio e dagli uomini e braccato senza tregua dallo spirito della figlia).

Torna alla memoria, in edizione folk, la commovente tragedia di Paolo e Francesca e di tutti gli amanti colpiti dal castigo degli uomini e della malasorte; ma anche la mito­grafia di Orfeo e del suo viaggio agli inferi per ritrovare l’adorata Euridice. Poco o nulla si dice del marito cornificato; due versi (ri­presi in napoletano anche in Fenesta che lucive) alludono a una sua probabile latitanza dal letto coniugale:

E idda si scantava a dormiri sula
Ora cu l’autri morti accumpagnata,

«E lei aveva paura di dormire sola / ora da­gli altri morti è accompagnata.»

Fenesta che lucive, il remake napoletano, traspone la materia grezza dei cronisti di strada in una composizione poetica e melo­dica di assorta e sublime eleganza. Fra le ipotesi avanzate sull’identità del composi­tore spiccano quelle, illustri, di Gioachino Rossini e soprattutto di Vincenzo Bellini (1801-1835): Fenesta che lucive sembra in­fatti vagamente accostabile, per pathos me­lodico, a qualche aria belliniana come Do­lente immagine di Fille mia. Se fosse di Bellini, Fenesta che lucive potrebbe essere stata composta fra il 1819, quando l’artista si trasferì a Napoli per studiare al Conser­vatorio di San Pietro a Majella, e il 1835, anno della prematura scomparsa. A sostegno dell’ipotesi, che però non risulta finora suf­fragata da prove consistenti, giocano debo­lissimi indizi: la vicenda siciliana cui la can­zone si ispira (Bellini era di Catania), il sog­giorno napoletano, un quaderno in cui usava trascrivere canti popolari siciliani, e i con­tatti che il musicista ebbe con Guglielmo Cottrau, uno dei primi editori di Fenesta che lucive.

Ma Cottrau intrattenne rapporti an­che con Rossini, Spontini, Mercadante e Donizetti: e se Fenesta che lucive fosse di quest’ultimo? Il moodè più vicino a Una furtiva lacrima che a tutto il materiale belli­niano. Bellini scrisse effettivamente, oltre alle opere di maggiore impegno, un certo numero di romanze, ariette e ballate; alcune risalgono all’infanzia, altre all’ultima fase della sua breve esistenza. Tutte però deno­tano — nella scelta tematica e stilistica — un gusto lontanissimo da quello, dantesca­mente demoniaco, di Fenesta che lucive: si tratta di melodie e testi di sapore neoclassico e salottiero, intitolate Torna, vezzosa Fillide o Malinconia, ninfa gentile; a fornire i versi sono grecisti del passato come Pietro Meta­stasio o contemporanei come Ippolito Pin­demonte.

L’aura belliniana di Fenesta che lucive potrebbe essere l’effetto indotto da una tra­scrizione fatta nel 1842 dallo stesso Cottrau dei canti siciliani di cui s’è detto. Altre tra­scrizioni portano le firme di Mariano Pao­lella (1854) e Achille Longo. Tradotto in italiano, il testo partenopeo suona più o meno così: «Finestra ch’eri accesa, ora sei spenta: / segno che la mia piccola è amma­lata. / Si affaccia la sorella e me lo dice: / “La bella tua è morta è sotterrata. / Le hanno fatto una gran bella cassa / e ci hanno infisso tanti chiodi d’oro. / Se non ci credi va’ a Santa Maria, / férmati a manca alla prima navata.” / Vado alla chiesa e la trovo nella bara; / “Piccola che sei morta a causa mia, / ti lamentavi che dormivi sola; / ora dormi dai morti accompagnata. / O vermi che vi­vete in questo sito / di Rosa mia le carni non toccate. / Dolce parroco mio, abbine cura, / fa’ che una lampada si mantenga accesa.” / Quella boccuccia che sapea di fiori / ora fio­risce vermi. Dio, pietà! / Andai all’inferno, ché ci fui mandato, / tant’era pieno che quasi non c’entravo. / C’era Pilato a guardia sulla soglia, / mi fece posto ché mi cono­scea. / Più in là c’era la mia innamorata / dentro una caldaia che ribolliva. / Io mi voltai e a Pilato dissi: / “Se l’amor mio avesse fatto il male, / mettete dentro me al posto suo.” / Pilato si girò e mi rispose: / “Chi commise il peccato sconta la pena!” / L’amore mio si volta e dice: “Non parlare, / ché invece d’aiutarmi aumenti la mia pena.” / Voglio andare randagio per il mondo, / vi­vendo d’erba come un animale; / e poi inol­trarmi nei deserti / piangendo questa vita mia da cani. / Andai all’inferno per scoprir l’incanto, / e m’incantai per tener bene a mente. / C’era una donna ch’era bella tanto, / e combatteva contro il fuoco ardente. / A lei mi volgo con occhi di pianto: / “Che hai fatto, bella, per stare all’inferno?” / Lei mi risponde in un mare di pianto: / “Non ti ri­cordi il nostro amore innocente?”»

In una versione più breve di Fenesta che lucive manca tutta la parte dell’inferno, e nei versi finali torna la finestra dell’inizio: «Piangeva sempre se dormiva sola, / ora dorme dai morti accompagnata. / Addio finestra, non ti aprire più, / ché l’amor mio non si può af­facciare. / Non passerò mai più per questa via, / al camposanto andrò a passeggiare.»

Ferruccio Busoni incorpora elaborazioni della melodia di Fenesta che lucive e altri canti popolari italiani nel suo concerto per pianoforte, orchestra e coro maschile op. 39, eseguito per la prima volta a Berlino nel 1904. Impressionanti affinità melodiche si avvertono in alcune pagine della musica cèca e boema della seconda metà dell’Ottocento: il tema introduttivo della sinfonia n. 1 in do minore Le campane di Zlonice di Antonín Dvořák, composta nel 1865 e ricusata dall’autore, e soprattutto il famoso poema sinfonico Vltava {La Mol­dava} di Bedřich Smetana. Sebbene con il ciclo Má vlast {La mia patria}, di cui La Moldava (1874) fa parte, Smetana si propo­nesse di tradurre in un solenne affresco mu­sicale i tratti identitari della propria cultura nazionale, che è come dire l’anima stessa del suo paese, la composizione si ispira di­chiaratamente a La mantovana o Ballo di Mantua, aria e danza rinascimentale di corte nel ducato dei Gonzaga. Giuseppino del Biado usò la stessa melodia per un leggiadro madrigale pubblicato nel 1600, Fuggi, fuggi da questo cielo. Entrambe le composizioni ebbero larga circolazione in tutta Europa, dalla Scozia all’Ucraina, diventando la ma­trice di innumerevoli adattamenti locali; persino l’inno nazionale israeliano, Hatik­vah {La speranza}, ci riporta alla melodia de La mantovana e alle sue più immediate derivazioni. Ed è forse proprio nella tradizione del madrigale italiano e delle antiche danze per liuto – più che tra gli operisti dell’Ottocento – che occorrerebbe indagare per ricostruire l’identikit di Fene­sta che lu­cive e della sua “gemella” melo­dica, Fene­sta vascia.

Selezione discografica:1907, Vincent Barile, Victor. 1911, Fernando De Lucia, 1911 Fonotipia Recor­dings, Opal. 1913, Enrico Caruso, Victor Orchestra, The Complete Recordings, vol. 8 (1913-1914), Naxos. 1917, Fernando De Lucia, Phonotype. 1934, Enzo De Muro Lomanto, Columbia. 1945, Francesco Alba­nese, Francesco Albanese, Clama. 1947, Gino Bechi, orch. Dino Olivieri, La Voce del Padrone. 1948, Roberto Murolo e la sua chitarra, Fenesta ca lucive, Durium. 1952, Tito Gobbi, Armando La Rosa Parodi & London Symphony Orchestra, Opera and Song, Testament. 1956, Gabriele Vanorio, Untitled, Vis Radio. 1957, Giuseppe Di Ste­fano, orch. Dino Olivieri, emi. 1959, Mario Lanza, Mario!, rcaVictor. 1961, Charles Craig, orch. Michael Collins, Operatic Arias and Italian Songs, Testament. 1961, Franco Corelli, orch. Franco Ferraris, Sings Neapolitan Songs, emi. 1962, Giampiero Reverberi and His Orchestra, Imported from Italy, cgd. 1963, Roberto Murolo e la sua chitarra, Na­poletana. Antologia cronologica della can­zone partenopea, vol. 3, Ricordi. 1964, Giorgio Gaslini, L’integrale – Antologia cronologica: Dodici canzoni d’amore, Soul Note. 1985, Luciano Pavarotti, Passione, Decca. 1988, Giuni Russo, A casa di Ida Rubinstein, L’Ottava. 1992, Tony Bruni, Viva Napoli, vol. 10 (av), Phonotype. 1997, Roberto Alagna, Serenades, Emi Angel. 1998, Maria Pia De Vito, orch. Bruno Tommaso, Bruno Tommaso: Oltre Napoli, la notte, Dischi della Quercia. 2001, Dmitrij Hvorostovskij, Passione di Napoli, Delos. 2007, Jouko Harjanne (t), Kari Hanninen (p), Romantic Trumpet, Alba. 2008, Ema­nuela Degli Esposti (arpa), Adagio e canta­bile: Italian adagios, Tactus.

film: 1987, “Angel Heart” di Alan Parker (“Angel heart – Ascensore per l’inferno”); Franco Corelli.

citazioni:«Sotto quale canzonetta napoletana nacqui, nel remotissimo novecentodue? Mentre le donne gridano mettendoci al mondo, c’è sempre qualche altra voce al di là della parete o nel vicolo o presso il letto (l’ostetrica, magari) che se non canta dice, bisbiglia una canzonetta. Quale fu la mia? Indagherò. Voglio saperlo; è importante; ogni mio conterraneo dovrebbe svolgere una speciale inchiesta per conto proprio, stabilire se i versi che si confusero coi suoi vagiti esclamavano: “che bella cosa è una giornata di sole – l’aria serena dopo una tempesta”, o invece riferivano con straziante semplicità che una finestra buia ispirava a un tale il timore che l’amata fosse inferma; e subito la sorella di lei si affacciava per dirgli macché, la tua ragazza è morta e seppellita.» (Giu­seppe Marotta, L’oro di Napoli, Milano: Bompiani, 1947). 



[1] R. Leydi, I canti popolari italiani, con la collaborazione di Sandra Mantovani e Cri­stina Pederiva, Milano: Mondadori, 1973.




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