«Si direbbe che senza i crepuscoli e le notti di Buenos Aires non possa nascere un tango, e che in cielo ci attende, noi argentini, l’idea platonica del tango, la sua forma universale (quella forma che appena riescono a sillabare La tablada o El choclo), e che questa specie fortunata abbia, per quanto umile, il suo posto nell’universo.» Jorge Luis Borges[1]
{La pannocchia}, musica e primi versi composti dal chitarrista, armonicista, cantante, cavallerizzo, mandriano, clown, tipografo, scrittore e dongiovanni Ángel Gregorio Villoldo fra il 1898 e il 1903, Argentina. Lo spartito per pianoforte viene pubblicato nel 1903 dall’editore Rivarola . F.;di Buenos Aires; la composizione vi è definita come «Tango criollo» ed è dedicata a José Luis Roncallo, direttore dell’orchestra che il 3 novembre 1903 esegue la composizione nel ristorante El Americano, nel centro di Buenos Aires.;il direttoil direil di. Del 1911 è l’edizione parigina di Édouard Salabert per piano e orchestra; El chocloè qui presentato come «Le vrai tango argentin». Il testo che conosciamo è stato aggiunto molto più tardi, negli anni quaranta, da Enrique Santos Discépolo con la collaborazione di Juan Carlos Marambio Catán.
Choclo sta per “pannocchia”, allusione all’organo sessuale maschile che tradisce le origini volgarucce del tango e le fantasie postribolari di cui la danza si fa metafora. El chocloè con molta probabilità il passaporto del tango in Europa: di certo uno dei primi motivi a sfondare in Francia, dove il tango viene accolto con entusiasmo e inizia la sua carriera internazionale. La nuova moda non passa inosservata fra governanti e intellettuali. Il Kaiser Guglielmo II e Luigi di Baviera giudicano il tango troppo indecente, e quindi indegno di essere danzato da chi indossi l’onorata uniforme militare. Di opposto parere, George Bernard Shaw dichiara: «Il tango è l’unico ballo di società che meriti l’appellativo di danza.» Nel 1912 El choclo comincia a spopolare anche negli Stati Uniti, grazie a una incisione della Victor Orchestra. Negli anni quaranta e cinquanta il brano si modernizza: Stan Kenton ne dà una fiammeggiante lettura jazzistica (1942) per big band; dieci anni dopo, Georgia Gibbs ne fa un aggressivo pezzo da hit parade.
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F.T. Marinetti, Abbasso il Tango e Parsifal!, Milano, Direzione del Movimento Futurista, 1914. |
L’11 gennaio 1914 esce in Italia lo sprezzante manifesto di Marinetti contro il tango e il Parsifalwagneriano. Riproduciamo qui integralmente la prima parte, cioè l’invettiva che riguarda il tango: precisando subito che a Marinetti preferiamo il tango e Wagner.
| Un anno fa, io rispondevo ad una inchiesta del “Gil Blas” denunciando i veleni rammollenti del tango. Questo dondolío epidemico si diffonde a poco a poco nel mondo intero, e minaccia di imputridire tutte le razze, gelatinizzandole. Perciò noi ci vediamo ancora una volta costretti a scagliarci contro l’imbecillità della moda e a sviare la corrente pecorile dello snobismo.
Monotonia di ànche romantiche, fra il lampeggío delle occhiate e dei pugnali spagnuoli di De Musset, Hugo e Gautier. Industrializzazione di Baudelaire, Fleurs du mal ondeggianti nelle taverne di Jean Lorrain, per voyeurs impotenti alla Huysmans e per invertiti alla Oscar Wilde. Ultimi sforzi maniaci di un romanticismo sentimentale decadente e paralitico verso la Donna Fatale di cartapesta.
Goffaggine dei tango inglesi e tedeschi, desideri e spasimi meccanizzati da ossa e da fracs che non possono esternare la loro sensibilità. Plagio dei tango parigini e italiani, coppie-molluschi, felinità selvaggia della razza argentina stupidamente addomesticata, morfinizzata e incipriata.
Possedere una donna, non è strofinarsi contro di essa, ma penetrarla.
Barbaro!
Un ginocchio fra le coscie? Eh via! ce ne vogliono due!
Barbaro!
Ebbene, sì, siamo barbari! Abbasso il tango e i suoi cadenzati deliqui. Vi pare dunque molto divertente guardarvi l’un l’altro nella bocca e curarvi i denti estaticamente l’un l’altro, come due dentisti allucinati? Strappare?... Piombare?... Vi pare dunque molto divertente inarcarvi disperatamente l’uno sull’altro, per sbottigliarvi a vicenda lo spasimo, senza mai riuscirvi?... o fissare la punta delle vostre scarpe, come calzolai ipnotizzati?... Anima mia, porti proprio il numero 35?... Come sei ben calzata, mio sooogno!... Anche tuuuu!...
Tristano e Isotta che ritardano il loro spasimo per eccitare re Marco. Contagocce dell’amore. Miniatura delle angoscie sessuali. Zucchero filato del desiderio. Lussuria all’aria aperta. Delirium tremens. Mani e piedi d’alcoolizzati. Mimica del coito per cinematografo. Valzer masturbato. Pouah! Abbasso le diplomazie della pelle! Viva la brutalità di una possessione violenta e la bella furia di una danza muscolare esaltante e fortificante.
Tango, rullio e beccheggio di velieri che hanno gettata l’ancora negli altifondi del cretinismo. Tango, rullio e beccheggio di velieri inzuppati di tenerezza e stupidità lunare. Tango, tango, beccheggio da far vomitare. Tango, lenti e pazienti funerali del sesso morto! Oh! non si tratta certo di religione, di morale, né di pudore! Queste tre parole non hanno senso, per noi! Noi gridiamo Abbasso il tango! in nome della Salute, della Forza, della Volontà e della Virilità. |
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Leopoldo Metlicovitz, La cumparsita, spartito, 1927. Edizioni G. Ricordi & C., Milano. |
La cumparsita
{Il piccolo corteo in maschera}, composizione strumentale di Gerardo Hernán Matos Rodríguez, 1915-1916, Uruguay; pubblicata per la prima volta nel 1916 a Montevideo dagli editori Arista y Lena e poi, nel 1917, a Buenos Aires dai Breyer Hermanos (che poi cedettero i diritti alla Ricordi).
Matos (a volte trascritto come Mattos) Rodríguez, diciassettenne di Montevideo, non si rende conto di aver ideato quello che sarebbe divenuto il tango più famoso di tutti i tempi: più modestamente, la sua vuole essere la marcetta ufficiale della propria federazione studentesca in vista delle sfilate di carnevale (da cui il titolo). Secondo la ricostruzione più attendibile sulle origini del brano, il ragazzo – che non ha molta dimestichezza col pentagramma – si fa aiutare da un pianista, Carlos Warren, per sgrossare un poco la creatura e renderla presentabile; organizza quindi una delegazione di studenti per abbordare il giovane ma già autorevole Roberto Firpo, leader di una orquesta típica argentina che in quel periodo suona al caffè La Giralda di Montevideo, per convincerlo a inserire La cumparsita nel suo repertorio. Il maestro accetta paternamente di dare un’occhiata allo spartito; è perplesso, perché si tratta di una cosuccia elementare e incompleta: a suo dire manca un’intera sezione; ma il ragazzino insiste, gli dia per favore almeno qualche consiglio per migliorarla; e il buon Firpo indugia al pianoforte, aggiusta di qua e allunga di là, riscrive le armonie, e fa persino di più: irrobustisce la melodia laddove gli sembra vacante, iniettandovi frammenti di La gaucha Manuela e Curda completa, due tanghi di suo pugno che sono stati due flop e che non intende più riutilizzare. C’è anche chi sostiene che agli ingredienti della ricetta abbia aggiunto, come aromatizzante, uno spruzzo di Verdi, tratto dal Miserere del Trovatore: ma senza esagerare. Grazie al provvidenziale contributo di Firpo e al suo esperto arrangiamento, la grossolana marcetta è diventata un tango più che dignitoso. Tanto che il maestro decide di suonare in pubblico quella novità la sera stessa, in formazione ridotta: un trio con lui al pianoforte, Tito Roccatagliata al violino e Juan “El Bachicha” Deambrogio al bandoneón. Prende così l’avvio la lenta ma irresistibile ascesa della Cumparsita, il tango dei tanghi che Piazzolla considerava il più rozzo e banale di tutti e che Roberto Firpo trascurò di co-firmare come autore, rimettendoci una fortuna. Anche il giovane Matos, da grande, si mangiò le mani per aver ceduto ai fratelli Breyer il suo tango per una miseria (20 pesos); però si fece furbo e cominciò ad agitarsi con gli avvocati, vincendo una causa contro gli editori e un’altra contro il team Contursi-Maroni, autori – come vedremo – del testo aggiunto, a sua insaputa, nel 1924. Pure Gardel dovette mettere mano al portafoglio: 5000 pesos per aver inciso il brano senza che Matos ne sapesse nulla.
Se sembra ormai assodato che si deve a Firpo la prima esecuzione pubblica della Cumparsita, molti dubbi sussistono invece sull’ordine cronologico delle primissime incisioni. A contendersi il primato ci sono lo stesso Firpo a capo di un quartetto – ovvero il trio della prima alla Giralda con l’aggiunta del clarinettista Juan Carlos Bazán (Odeon), il bandoneonista Juan Maglio detto “Pacho” (Era), l’orchestra di Alberto Alonso e Minotto Di Cicco (Victor) e il trio Juan Carlos Cobián-Osvaldo Fresedo-Tito Roccatagliata (Telephón).
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Elie Nadelman, Tango, scultura. Whitney Museum of American Arts, New York. |
Per otto anni La cumparsita procede in modo irregolare, con lunghi periodi di oblio lungo il cammino. Ed è ancora una melodia senza parole prima di diventare, nel 1924, Si supieras {Se sapessi}. I versi sono del poeta e commediografo Pascual Contursi, quello di Mi noche triste, ma sono accreditati anche a Enrique Pedro Maroni: i due erano coautori della rivista Un programa de cabaret, in scena al Teatro Apolo di Buenos Aires a partire dal 6 giugno 1924, e Si supierasera tra le canzoni dello show. Il primo a cantare questa versione della Cumparsitaè stato un certo Juan Ferrari, presto dimenticato, giustappunto nella rivista di Contursi e Maroni; il secondo, subentrato a Ferrari dopo un certo numero di repliche, Carlos Carranza. L’altro Carlos, il leggendario Gardel, incide subito il brano. Altri hanno provato a scrivere liriche per la Cumparsita, a partire dal suo stesso compositore Matos Rodríguez; ma nessuno è riuscito a scalzare Contursi, la cui versione è di gran lunga la più famosa ed eseguita di tutte. Contursi ha avvolto quella musica – inizialmente carnevalesca – in un testo biliare, iniettandovi la quintessenza del dolore degli amanti abbandonati:
Al cotorro abandonado
Ya ni el sol de la mañana
Asoma por la ventana
Como cuando estabas vos,
Y aquel perrito compañero
Que por tu ausencia no comía,
Al verme solo el otro día
También me dejó…
Al rifugio abbandonato
neanche il sole del mattino
spunta più alla finestra
come quando c’eri tu,
e il fedele cagnolino
che per la tua assenza non mangiava,
al vedermi solo l’altro giorno
se n’è andato pure lui…
In abito orchestrale o vocale, La cumparsita-Si supieras attraversa la storia e l’evoluzione del tango come se del tango fosse l’anima, la sigla, il compendio. Sbarca presto in Europa e dovunque si diffonda la febbre contagiosa del tango, da Parigi a Tokyo. Si difende dall’età che avanza risorgendo ciclicamente dalla cenere delle mode. L’originario tempo di marcia, trasfigurato da Firpo e dal suo arrangiamento, accentua il carattere marziale del suo passo. I due principali temi melodici che si sviluppano da quel telaio ossessivamente percussivo sembrano serpeggiare nello spazio, tutto viscerale, del fatalismo e dello spleen.
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Autore ignoto, Mi noche triste, spartito, 1916 circa. Editore Juan S. Balerio, Buenos Aires. |
Mi noche triste (Lita)
{La mia notte triste}, parole di Pascual Contursi, musica di Samuel Castriota, 1916, Argentina. La melodia, che precede il testo di uno o due anni, si intitolava inizialmente Lita; il compositore usava suonarla al pianoforte al caffè El Protegido di Buenos Aires. Mi noche triste debutta invece al cabaret Moulin Rouge di Montevideo, cantata da Pascual Contursi.
Il tango ebbe le sue parole, o parolacce, fin dai postribolari inizi, raccontando di ruffiani e puttane, bravate di guapos e compadritos, spavalderie sessuali di ogni genere. Se a cantare era una donna, come ne La morocha (1905), indulgeva in insensate e gaie autogratificazioni, quale che fosse la propria condizione sociale: «Io, con dolce accento, / nella mia capannuccia, / canto una canzoncina / con tenera passione, / mentre il mio padroncino / esce al trotto / sul suo cavallo bizzoso» (Ángel Gregorio Villoldo).
Con i versi di Mi noche triste entra in campo, per la prima volta, quel senso di perdita, di spinosa amarezza, che ha ispirato a Enrique Santos Discépolo la famosa definizione «il tango è un sentimento triste che si balla.» Prima, l’universo immaginario del tango rifletteva gli stereotipi del maschio dominatore e della donna-preda; ed ecco che arriva Contursi a iniettare, in quella spensierata tradizione, il veleno della tristezza e della nostalgia, merce autentica e nient’affatto rara in una metropoli di immigrati e sradicati come Buenos Aires.
Altro primato: con Mi noche triste si leva il sipario sulla leggenda di Carlos Gardel, il divo più carismatico che questa musica abbia mai prodotto (comunque detestato da Borges). L’evento ha luogo nella primavera del 1917 al teatro Empire (secondo altre fonti all’Esmeralda) di Buenos Aires, dove Gardel canta per la prima volta questa canzone. Il biennio 1916-1917 è importante per la redenzione, la promozione sociale e l’evoluzione del tango: non solo perché nasce il mito popolare di Gardel, ma anche per la presentazione a Montevideo, a cura di Roberto Firpo e della sua orchestra, di quello che diventerà il tango più popolare di tutti i tempi: La cumparsita, di Gerardo Hernán Matos Rodríguez.
Il 20 aprile 1918, Mi noche tristeè interpretata dall’attrice Manolita Poli, accompagnata dall’orchestra di Firpo, durante la rappresentazione della commedia teatrale Los dientes del perro di José González Castillo e .;Alberto T. Weisbach.
Percanta que me amuraste
En lo mejor de mi vida
Dejándome el alma herida
Y espinas en el corazón,
Sabiendo que te quería,
Que vos eras mi alegría
Y mi sueño abrasador;
Para mí ya no hay consuelo
Y por eso me encurdelo
Pa’ olvidarme de tu amor.
Cuando voy a mi cotorro
Y lo veo desarreglado,
Todo triste, abandonado,
Me dan ganas de llorar;
Me detengo largo rato
Campaneando tu retrato
Pa’ poderme consolar.
De noche, cuando me acuesto,
No puedo cerrar la puerta,
Porque dejándola abierta
Me hago ilusión que volvés.
Siempre traigo bizcochitos
Pa’ tomar con matecito
Cómo cuando estabas vos.
Y si vieras la catrera
Cómo se pone cabrera
Cuando no nos ve a los dos…
Pupa che mi abbandonasti
sul più bello della vita
con quest’anima ferita
e le spine dentro il cuore,
sapendo quanto ti adoravo,
che eri tu la mia allegria
e il mio sogno fiammeggiante,
io conforto non ho più
e pertanto mi ubriaco
per scordarmi del tuo amore.
Quando entro in quella stanza
e la vedo sottosopra,
tutta triste e abbandonata,
mi viene da piangere;
me ne sto un’eternità
a osservare il tuo ritratto
per potermi consolare.
La notte, quando vado a letto,
non mi va di chiudere la porta,
perché lasciandola aperta
m’illudo che ritornerai.
Ho sempre quei biscotti
da prendere col mate
come quando c’eri tu.
E vedessi il letto
com’è pazzo di rabbia
quando non ci vede in due...
Il termine percanta, tipico del gergo della mala, e quel lasciare la porta aperta di notte nell’illusione (o nell’attesa) del ritorno di lei, ha accreditato l’ipotesi che l’abbandonato sia un ruffiano e la donna una prostituta. Vero o falso che sia, sta di fatto che il tema lacrimevole della separazione, dopo il successo di Mi noche triste, diventa il perno di un numero infinito di canzoni-tango. Scrive Horacio Salas: «Il testo del tango, che fino ad allora era solo una canzonetta o un insieme di versi vivaci, acquisì una trama precisa. Cadde nell’esagerazione, si impantanò in temi d’abbandono, portò alla ribalta alcuni soggetti kitsch ma, una volta sedimentato il cumulo di bruttezze ed errori, potè lasciare nel setaccio opere poetiche notevoli, oltre a una variegata cronaca della vita cittadina che la poesia “da libro” era stata incapace di plasmare. Borges — nonostante il cattivo umore che gli provocavano i tanghi cantati — arrivò a ipotizzare (verso il 1930) che quei testi rappresentassero “una vasta e sconnessa comédie humaine della vita di Buenos Aires”.»
Al tango e alle sue origini notturne e canagliesche Borges dedica una visionaria poesia, intitolata giustappunto El tango. Si chiede dove siano andati a finire i leggendari malviventi di una volta, coloro che fondarono la secta del cuchillo y del coraje, «la setta del coltello e del coraggio», e senza odiarsi, senza fini di lucro, senza passione si assalirono a colpi di pugnale; e conclude che, sebbene spenti dalla daga avversaria o dalla lama del tempo,
Hoy, más allá del tiempo y de la aciaga
Muerte, esos muertos viven en el tango.
Oggi, di là dal tempo e dall’infausta
morte, quei morti vivono nel tango.
Mano a mano
{Pari e patta}, parole di Celedonio Esteban Flores, musica di Carlos Gardel e José Razzano, 1920, Argentina/Uruguay. Lanciata da Carlos Gardel, con Razzano alla chitarra.
L’estetica del dolore, che accomuna milioni di canzoni sentimentali d’ogni tempo e paese, acquista nel tango argentino e nel linguaggio dei suoi lirici migliori un timbro da pittura metafisica, espresso tuttavia con le parole di tutti i giorni. Nessuna concessione al sublime, schivata ogni facile caduta nel kitsch: Siempre traigo bizcochitos / pa’ tomar con matecito / como cuando estabas vos («Prendo sempre i biscottini / da inzuppare nel mate / come quando c’eri tu», Mi noche triste, testo di Pascual Contursi); Corrientes, tres cuatro ocho, / segundo piso, ascensor. / No hay porteros ni vecinos; / adentro, cocktail y amor («Corrientes 348, / secondo piano, ascensore. / Non ci sono né custodi né vicini; / dentro, cocktail e amore», A media luz, testo di Carlos César Lenzi); Pasó una sombra, sonó un balazo, / cayó la paica, y una ambulancia / tranquilamente, se la llevó («Passò un’ombra, si udí uno sparo, / la ragazza cadde, e un’ambulanza / tranquillamente se la portò», Araca corazón, testo di Alberto Vacarezza); Llovía, y te ofrecí el último café («Pioveva, e ti ho offerto l’ultimo caffè», El último café, testo di Cátulo Castillo). Dietro i tormenti degli abbandonati s’indovina la metropoli, con il suo moderno contesto urbano e sociale; non c’è il culto del paesaggio da cartolina illustrata, onnipresente nelle canzoni classiche napoletane, dove il sole e la luna, il mare e il Vesuvio, Santa Lucia e Posillipo sono costantemente partecipi della tortura privata, del sogno solitario. I drammi del tango argentino si consumano senza la benedizione di golfi e lampare, senza l’incantesimo di sfolgoranti scenari. A Buenos Aires un appartamento è un appartamento, un bordello è un bordello, una milonga è una milonga; se le canzoni di Napoli sono a colori, quelle del tango sono ombrose e abbrunite, quasi in bianco e nero.
In Mano a mano, massimo tra i tangos dell’epoca sua, Celedonio Flores usa il lessico del disincanto per tracciare il bilancio d’una instabile relazione di coppia. Il protagonista della vicenda, miserabile per autodefinizione, ha avuto in dono dalla sorte l’amore disinteressato d’una donna bella e gentile; salvo poi scoprire che, per sbarcare il lunario, la buena mujer si è venduta a ruffiani e gaudenti in una casa de pensión. E dalle prestazioni occasionali è poi passata al rango di gransignora, accettando di farsi mantenere dal riccastro di turno. Così la partita a due si è chiusa in pareggio: memore dell’amore di cui è stato forse immeritatamente gratificato, lui sa ora di non avere il diritto di rinfacciarle alcunché:
Nada debo agradecerte,
mano a mano hemos quedado,
no me importa lo que has hecho,
lo que hacés ni lo que haràs;
los favores recibidos
creo habértelos pagado
y si alguna deuda chica
sin querer se me ha olvidado
en la cuenta del otario
que tenés se la cargás.
Di nulla devo dirti grazie,
alla pari abbiamo chiuso;
non m’importa quel che hai fatto,
quel che fai o che farai.
I favori ricevuti
credo averli ripagati;
e se qualche debituccio
senza volere mi è sfuggito,
mettilo pure sul conto
di quel ganzo con cui stai.
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Carlos Gardel nel 1933. |
All’orgoglio ferito, alla disillusione, non subentrano né rancore né desiderio di vendetta:
Y mañana, cuando seas
descolado mueble viejo
y no tengas esperanzas
en el pobre corazón,
si precisàs una ayuda,
si te hace falta un consejo,
acordate de este amigo
que ha de jugarse el pellejo
pa’ ayudarte en lo que pueda
cuando llegue la ocasión.
E un domani, quando sarai
un vecchio mobile sfasciato
e non avrai più speranze
nel tuo povero cuore,
se avrai bisogno di un aiuto,
se ti mancherà un consiglio,
ricordati di questo amico
pronto a giocarsi la pelle
per aiutarti come può
alla prima occorrenza.
Gran numero fra i tanti del mitico Gardel. Sebbene indulgente, per epoca e bollore latino, a quello che negli ambienti del cinema e del teatro chiamano overacting(eccesso di interpretazione), il suo canto da “fine dicitore” tabarinesco non cessa di stupire per la rapidità quasi jazzistica con cui le frasi anticipano il ritmo, tendono sgambetti al progetto del chitarrista, scardinano la quadratura geometrica e la regolarità del passo musicale. La voce di Gardel rotola e danza con le sillabe, il pathos e gli strumenti, creando tensioni e vortici inaspettati nel disegno d’insieme. Gli scatti teatrali, ardenti di emozione; i testi trattati alla stregua di torrenziali monologhi; gli improvvisi cambiamenti di registro vocale ed espressivo: come un’auto in corsa, guidata da un pilota abilissimo e nervoso, ogni verso delle sue canzoni tende a fermarsi un attimo prima di arrivare al traguardo. Nessuno meglio di Gardel, almeno negli anni in cui fu vivo, ha saputo rivelare la natura instabile e tortuosa, tumultuosa e tagliente del tango.
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Marino Santa Maria, Carlos Gardel – Mural in Abasto, Buenos Aires. Foto: Buenos Aires Street Art. |
{A mezza luce}, parole di Carlos César Lenzi, musica di Edgardo Donato, 1924, Uruguay/Argentina. Lanciata nel 1925 al teatro Cataluña di Montevideo dalla vedette cilena Lucy Clory nello show Su majestad la revista. Incisa da Carlos Gardel nel 1926, Rosita Quiroga e Iris Marga nel 1927. Il compositore Edgardo Donato (Buenos Aires, 1897-1963) militava come violinista nell’orchestra di Enrique Delfino prima di fondare un proprio complesso. L’autore del testo, Lenzi (Montevideo, 1895 – Buenos Aires, 1963), era un funzionario dell’ambasciata uruguayana a Parigi; le sue frequentazioni internazionali gli consentirono di far circolare A media luz in Europa e in Giappone.
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Guy Arnoux, Ballerini di tango, incisione, Parigi 1920. |
L’ambiente raffinato e decadente descritto nella canzone ha contribuito ad alimentare il mito della casa d’appuntamenti quale covo tangofilo per eccellenza nella Buenos Aires e nella Montevideo di quegli anni; non è d’accordo però Meri Lao, che con un libro appassionato e ricco di informazioni e curiosità cerca di smantellare il clichédelle origini postribolari del tango.A ogni buon conto, la stanza nella penombra di Lenzi e Donato evoca atmosfere alla Belle de jour. Attacca con un indirizzo da agendina molto privata e un sintetico ma promettente programma:
Corrientes, tres cuatro ocho,
Segundo piso, ascensor.
No hay porteros ni vecinos;
Adentro, cocktail y amor.
Corrientes 348,
secondo piano, ascensore.
Né custodi né vicini;
dentro, cocktail e amore.
L’appartamento, arredato con gusto, ha il suo bravo pianoforte, mobili comprati da Maple (la casa per cui collaborano i designer più quotati del momento), stuoie e abat-jour che assicurano il necessario comfort e la luce più discreta. Un grammofono suona vecchi dischi di tango. Talvolta il telefono squilla. C’è anche un gatto, ma per fortuna è di porcellana, per evitare molesti miagolii d’amore. Tè di giorno, canzoni di sera, quattro salti la domenica pomeriggio, desolazione il lunedì; basta telefonare. Velluti, sofà, cuscini e tappeti provvedono a filtrare i rumori del quartiere. Non manca niente in questo approdo ovattato: nemmeno
Cómo en botica, cocó,
«Come in farmacia, cocaina». La discografia di A media luzè sterminata, com’è giusto che sia per un brano così resistente agli affronti del tempo. L’esecuzione del Sexteto Mayor, brillante formazione strumentale a metà strada fra la tradizione e la corrente evoluzionista del tango, rende giustizia alle sfumature più segrete della composizione.
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Ambulante con un vecchio organito nelle strade di Buenos Aires. |
Organito de la tarde
{Organetto della sera}, parole di José González Castillo, musica di suo figlio Cátulo Castillo, 1925, Argentina. Tango lanciato da Azucena Maizani con l’orchestra di Francisco Canaro (78 giri Nacional-Odeon). Ripreso da Carlos Gardel, Pilar Arcos, le orquestas típicas di Roberto Firpo, Carlos Di Sarli, Alberto Marino, Rodolfo Biagi, etc.
Probabilmente il tango più famoso fra i tanti ispirati dall’organetto, presenza sonora familiare nelle strade delle città argentine (ma anche europee). Quasi certa l’origine italiana di questo strumento: a Buenos Aires presero a circolare nell’ultimo quarto dell’Ottocento, e le marche più rinomate portavano nomi italiani come La Salvia e Rinaldi-Roncallo. Si azionavano a manovella, e i suoni erano registrati su un cilindro di legno o di cartone; occorreva una certa competenza musicale per farli funzionare, se non altro per mantenere inalterato il ritmo dei brani (dagli otto agli undici) impressi sul cilindro. Gli organitos, suonati nei quartieri popolari da ambulanti spesso provvisti di pappagallo in spalla e oroscopi prestampati su foglietti policromi, contribuirono non poco alla diffusione del tango, specialmente in epoca pre-radiofonica; ed ebbero anche il merito di portare quelle melodie all’aria aperta, in libera uscita dagli ambienti, spesso di malaffare, in cui erano coltivate e recluse.
Caminito (Canción porteña)
{Vicoletto (Canzone di Buenos Aires)}, parole di Gabino Coria Peñaloza, musica di Juan de Dios Filiberto, 1926, Argentina. Canzone-tango lanciata al Concurso de canciones nativas del Corso Oficial de Buenos Aires durante il carnevale, da un quartetto vocale di cui si è perso il nome e un’orchestra costituita da un harmonium e dieci violini. Forse troppo malinconica per un carnevale, l’introversa composizione fu salutata da applausi mosci e qualche fischio. Se la cavò assai meglio in una performance successiva, quando a presentarla in teatro fu Ignacio Corsini.
Dei molti tanghi dedicati ai luoghi di Buenos Aires, alle sue calli, ai suoi barrios, ai cafetín, agli arrabales, questo è il più soave, il più mesto e ferito. Nonché il più celebre: la stradina immortalata, nel quartiere (abitato prevalentemente da italo-argentini) de La Boca, è perenne calamita di turisti sciabordanti, come di rado accade agli angoli modesti, seppur esaltati dalle canzoni. Ciò che i turisti non sanno è che il caminito di Filiberto non è lo stesso caminitodi Pestaloza. E che il vicolo affrescato in questo tango è il pittoresco risultato di una sovrapposizione di memorie – geografiche e sentimentali – distanti ed estranee tra loro.
Peñaloza aveva scritto i suoi versi molti anni prima, nel 1903, nel rimpianto d’un flirt giovanile nato e sfumato intorno a una viuzza di Olta, villaggio nella provincia di La Rioja, sul versante orientale della Sierra de Velasco. Filiberto compose la melodia senza parole esattamente vent’anni dopo, nel 1923, pensando invece a un vicolo della capitale, nella Boca: è suo il caminito che, grazie alla fama mondiale acquisita dalla canzone, è diventato una delle più ricercate attrazioni di Buenos Aires. I due non si conoscevano nemmeno; entrarono in contatto solo nel 1926, anno in cui decisero di far combaciare i due caminitos– il poetico e il musicale – per partecipare al festival, previo qualche aggiustamento alla melodia per adeguarla alla metrica dei versi. Dalla somma di due nostalgie nasceva quel minidramma di ipnotica semplicità che tutti conosciamo:
Caminito que el tiempo ha borrado,
Que juntos un día
nos viste pasar,
He venido por última vez,
He venido a contarte mi mal.
Caminito que entonces estabas
Bordado de trébol
y juncos en flor,
Una sombra ya pronto serás,
Una sombra lo mismo que yo.
Desde que se fue
Triste vivo yo;
Caminito amigo,
Yo también me voy.
Desde que se fue
Nunca más volvió,
Seguiré sus pasos,
Caminito, adiós.
Caminito que todas las tardes
Feliz recorría
cantando mi amor,
No le digas si vuelve a pasar
Que mi llanto tu suelo regó.
Caminito cubierto de cardos,
La mano del tiempo
tu huella borró.
Yo a tu lado quisiera caer
Y que el tiempo nos mate a los dos.
Vicoletto che il tempo ha cancellato,
che insieme un giorno
ci hai visti passare,
son venuto per l’ultima volta,
son venuto a confidarti la mia pena.
Vicoletto che un tempo eri
bordato di trifoglio
e giunchiglie in fiore,
un’ombra ben presto sarai,
un’ombra come ombra son io.
Da quando se ne andò
triste io vivo;
vicoletto amico,
vado via anch’io.
Da quando se ne andò
non è tornata mai.
Seguirò i suoi passi,
vicoletto, addio.
Vicoletto che tutte le sere
felice traversavo
cantando il mio amore,
non le dire, se tornasse qui,
che il mio pianto il tuo suolo rigò.
Vicoletto invaso dai cardi,
la mano del tempo
la tua traccia ha confuso;
vorrei abbandonarmi sul tuo ciglio,
farmi annientare dal tempo con te.
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Tango all’aperto nel Caminito de La Boca, a Buenos Aires. La strada è diventata un’attrazione turistica. |
Juan de Dios Filiberto (1885-1964), ascendenti indios e genovesi, autore di altri brani leggendari come Quejas de bandoneón, El pañuelito e Malevaje, è considerato il fondatore della canción porteña– una fusione di tango e cadenze folk extraurbane come la tonada, l’estilo, la huella, il triunfo e la vidala. Gabino Coria Peñaloza (1881-1975) non scrisse solo versi per il tango, ma anche libri di poesie.
Siciliano di nascita, migrato in Argentina all’età di quattro anni, Ignacio Corsini (1891-1967), mitizzato come El Caballero Cantor, era già un idolo del cinema e della canzone popolare quando, il 5 maggio 1927, emozionò la platea del Teatro Cómico di Buenos Aires con la sua interpretazione di Caminito.
Viejo ciego
{Vecchio cieco}, parole di Homero Manzi, musica di Cátulo Castillo e Sebastián Piana, 1926, Argentina. Lanciata da Roberto Fugazot nell’opera di Ivo Pelay Patadas y serenatas en el barrio de las latas (Calci e serenate nel quartiere delle latte).
Struggente testo di Manzi su un vecchio violinista cieco che si aggira di notte nei vicoli e nei caffè del barrio:
Con un lazarillo llegás por las noches
Trayendo las quejas del viejo violín,
Y en medio del humo
Parece un fantoche
Tu rara silueta
De flaco rocín.
Puntual parroquiano
tan viejo y tan ciego
Al ir destrenzando
tu eterna canción,
Ponés en las almas
Recuerdos añejos
Y un poco de pena
mezclás al alcohol…
Con uno che ti guida arrivi di notte
portando i lamenti del vecchio violino,
e in mezzo al fumo
sembra un fantoccio
la tua strana silhouette
da fiacco ronzino.
Puntuale avventore
così vecchio e così cieco
che vai strimpellando
la tua eterna canzone,
nelle anime metti
annosi ricordi
e un poco di pena
mescoli all’alcool…
Il violinista dalla triste figura sembra un verso del loco Carriego: un verso di Evaristo Carriego, scopritore del barrio come tema poetico (Misas herejes, La canción del barrio).
Di testi intrisi di spleen, dedicati alle periferie di Buenos Aires, è ricco il canzoniere di Homero Manzi (1905 –1951), personalità di spicco nella storia del tango e della cultura argentina. Si definiva un radicale e un rivoluzionario e, sebbene il suo pensiero non fosse poi così distante da quello di Juan Domingo Perón, appariva così scomodo al potere che fu presto espulso dal partito. Di lui Horacio Salas scrive: «Il Manzi militante si opponeva al poeta elegiaco. Come risultato, la poesia approdò al tango e vi si adattò senza difficoltà. Il suo merito consiste nell’avere tracciato il cammino mediante opere durature che da tempo, con orrore dei puristi, sono annoverate tra i migliori testi della poesia argentina.»Influenzato da Lorca e più tardi da Borges, scrisse – oltre a Viejo ciego– piccoli capolavori come Milonga sentimental (1931), Milonga triste (1937), Barrio de tango (1942), Malena (1942), Mañana zarpa un barco (1942), Tal vez será su voz(1943), Fuimos (1945), Ché bandoneón (1947), Sur (1948), con la collaborazione di musicisti ispirati come Cátulo Castillo, Sebastián Piana, Aníbal Troilo, Lucio Demare, José Dames. Proprio due artisti della cerchia, Castillo e Troilo, gli dedicano alla sua morte un omaggio crepuscolare e dolente: un tango intitolato A Homero.
Castillo, ex pugile, figlio di un anarchico che aveva provato invano a registrarlo all’anagrafe col nome imbarazzante di Descanso Dominical (Riposo Domenicale), fu a sua volta autore molto vicino alla poetica di Manzi: i suoi versi traboccano di altrettanta nostalgia e rievocano costantemente il passato, il tempo perduto. A Homero non fa eccezione:
Furono anni di siepi e glicini
di vita fuori gioco e momenti di follia.
La tua fronte triste di pensare la vita
scaricava aurore dagli occhi,
e c’era il terrapieno e il cielo intero,
a curva del fossato, la casa blu.
Tutto è andato via, arrampicandosi al mistero
per le salite del tuo quartiere sud…
Curiosamente il Manzi morente, nella clinica degli ultimi suoi giorni, aveva dedicato un proprio omaggio a un altro grande della poesia del tango, Enrique Santos Discépolo: il suo ultimo tango è infatti Discepolín, anche questo musicato da Aníbal Troilo.
{Addio ragazzi}, parole di César Felipe Vedani, musica di Julio César Sanders, 1927, Argentina. Canzone-tango tra le più famose e struggenti d’ogni tempo, lanciata dal tenore Agustín Magaldi, incisa dalle orquestas típicas di Osvaldo Fresedo e Roberto Firpo, ripresa nel 1928 da Pilar Arcos e resa immortale dall’immancabile Carlos Gardel. È del 1936 una versione francese, su testo di Jean Boyer, ribattezzata alquanto abusivamente Adieu Paris e lanciata in Francia da Berthe Sylva. Tony Martin varò invece una sconsiderata versione americana, nel 1951, con un testo di Dorcas Cochran, intitolata (When I dance with you) I get ideas [(Quando ballo con te) Mi vengono delle idee] e ripresa, chissà perché, da artisti del calibro di Louis Armstrong e Peggy Lee. Molto più recente, e altrettanto estranea al senso originale, una versione italiana di Eugenio Rondinella intitolata addirittura L’incensurata, scritta su misura per Milva.
La vera Adiós, muchachosè lo straziante addio agli amici di un uomo giunto alla fine del suo ciclo vitale:
Adiós, muchachos, compañeros de mi vida,
barra querida de aquellos tiempos.
..
Morte le sue donne più care – la madre, la sposa – per volere di un «Dio geloso dei suoi tesori», non gli resta che arrendersi al destino e ritirarsi in solitudine: il tempo delle compagnie e delle feste è finito. La melodia è tra le più soavi e malinconiche che la distilleria del tango abbia ispirato ai suoi addetti: così dolce e accattivante da alleggerire la potenziale carica di tritolo retorico in agguato nel testo. Gardel non ha rivali nell’arte di conciliare l’inconciliabile: il massimo sconforto e il massimo autocontrollo. La sua amarezza non scade mai nel vittimismo, l’adesione emotiva al testo è intensissima ma permeata di nobile orgoglio. Pathos alle stelle, com’è giusto che sia; ma tenendosi sempre a debita distanza dalla soglia dell’istrionismo e del piagnisteo. Difficile trovare un’interpretazione, vocale e psicologica, all’altezza della sua. Eccellenti, invece, alcune versioni strumentali, tra cui quella – magistrale per classe e intimismo – dell’insolito duo chitarristico formato da Charlie Byrd e Laurindo Almeida.
Esta noche me emborracho
{Stanotte mi ubriaco}, parole e musica di Enrique Santos Discépolo, 1927, Argentina. Canzone-tango lanciata in una rivista da Azucena Maizani; ripresa nel 1928 da Ignacio Corsini e da Carlos Gardel.
Tango dei più feroci scaturiti dalla vena nerastra di Discépolo, alla faccia di chiunque osi sostenere l’indole consolatoria della musica “leggera”. Qui non c’è nemmeno il romanticismo malavitoso del pugnale e del bordello: solo il ritratto più impietoso che sia mai stato fatto di una donna, almeno in forma di poesia. Alle prime luci dell’alba, un nottambulo vede uscire da un locale l’ex amata ridottasi a un catorcio, e decide di ubriacarsi per togliersi di testa quell’immagine. In un impeto di grandiosa misoginia, Discépolo dà fondo a barili di veleno nella descrizione di una deriva fisica e morale senza speranza:
Sola, fané, descangayada,
la vi esta madrugada
salir de un cabaret.
Flaca, dos cuartos de cogote,
una percha en el escote,
bajo la nuez.
Chueca, vestida de pebeta,
teñida y coqueteando
su desnudez...
Parecía un gallo desplumao
mostrando al compadrear
el cuero picoteao...
Sola, fané, squinternata
l’ho vista all’alba
uscire da un cabaret.
Magra, due quarti di pelle,
una stecca nella scollatura,
sotto l’osso del collo.
Storta, vestita da pupa,
tinta e sculettante
con quelle nudità...
Sembrava un gallo spennacchiato
che mostra alla combriccola
la scorza butterata...
E se lei è un relitto, lui non se la passa meglio: da quando la donna, allora bellissima, lo ha tradito e abbandonato, la sua vita è stata tutta un rotolare. Nella seconda strofa, il protagonista fa un ritratto di sé stesso che mette in pareggio la partita:
Rimbambito dalla sua bellezza
ho tolto il pane alla mia vecchia,
mi son fatto vigliacco e mendicante.
Per lei sono senza un amico,
ho vissuto di malafede,
per lei che mi ha messo in ginocchio,
che mi ha tolto ogni dignità,
quando se n’è andata...
Sebbene le vicende degli amanti abbandonati siano da sempre il pane della cronaca popolare, della stampa rosa e della canzone, il piglio di Esta noche me emborracho e di analoghi tanghi dell’epoca d’oro impressiona tuttora per il naturalismo estremo dei testi, per il livore sincero e antiretorico che li anima, per l’evidenza fotografica dei personaggi e delle situazioni che dipingono. Discépolo, poi, fa storia a sé: un implacabile maestro del rancore, un grande cantore della spazzatura sociale, sia nelle ulceranti canzoni d’amore che nelle invettive esplicitamente politiche (v. Cambalache). L’interpretazione di Gardel è, come al solito, impagabile.
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George Barbier, Les Fureurs du Tango, 1919. |
Plegaria
{Supplica}, parole e musica di Eduardo Bianco, 1927 circa, Argentina. Tango lanciato, con la voce di Juan Raggi, dall’orchestra Bianco-Bachicha, diretta dall’autore, il violinista Bianco, e dal bandoneonista Juan Bautista Deambrogio detto “Bachicha”. Ai tempi della composizione Bianco e l’orchestra operavano stabilmente a Parigi.
Murió la bella penitente,
murió, y su alma arrepentida
voló muy lejos de esta vida...
Melodrammatico oltre misura, il testo è la preghiera di una moribonda (o, se si vuole, per una moribonda). Parla di lenti rintocchi di campana, di organo risonante nella cappella, di pentimento. La musica, dolente e quasi soprannaturale specie se suonata dagli archi, combina il pathos del tango con quello delle marce funebri.
In una poesia di Paul Celan,ebreo rumeno sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, l’ufficiale dagli occhi azzurri ordina a un’orchestrina di prigionieri di suonare mentre gli altri scavano tombe. Altri riferiscono di pratiche simili a questa in vari campi di concentramento. Persino di musicanti costretti a suonare durante il percorso verso le camere a gas. Un biografo di Celan, John Felstiner, ha individuato nel tango argentino Plegaria la melodia che il poeta prigioniero aveva dovuto ascoltare tante volte là dove si scavava e si moriva. Circolava da sempre la voce che fosse Plegaria il «tango della morte» suonato in questo o quel lager. Era uno dei tanghi più amati e più diffusi in Europa: da Parigi, dove Bianco lo aveva composto, alla Polonia, alla Germania, all’Italia. Si dice che l’orchestra di Bianco e Bachicha, rinomata ambasciatrice del tango, avesse suonato Plegaria per statisti e sovrani, e anche alla presenza compiaciuta di Hitler e Goebbels, inclini a considerare la musica tipica dell’Argentina, in voga ovunque tra le due guerre, più consona alla buona educazione ariana di tante altre esoticherie, a cominciare dal jazz, massima degenerazione negro-giudaica.
Plegariaè triste, oscura e bellissima: dal punto di vista melodico è forse il più bel tango che sia mai stato scritto. Chi l’ha udito una volta non lo dimentica più. Ma, dei grandi tanghi del suo rango, è oggi il meno celebrato ed eseguito. Pesa su Plegaria il suo indecente passato?
Malevaje
{Malavita}, in origine nota anche come Suburbio, parole di Enrique Santos Discépolo, musica di Juan de Dios Filiberto, 1928, Argentina. Lanciata da Azucena Maizani il 21 settembre 1928 durante la rassegna Fiesta del tango al Teatro Astral di Buenos Aires; incisa poi da Carlos Gardel e Ignacio Corsini.
Un malevo, fino a ieri guappo dal coltello facile e degno di rispetto nel proprio ambiente turbolento, s’infatua perdutamente di una donna e smarrisce identità e autostima, insieme a ogni carica di aggressività. Bel ritratto, ironico e vivacemente stilizzato in lunfardo – il gergo italo-ispanico dei quartieri bassi di Buenos Aires, in primo luogo il barrio della Boca – d’un macho dal cuore infrollito, che sorprende i compagni e sé stesso scoprendosi a un tratto vulnerabile:
Dimmi, per Dio, che m’hai fatto,
che son così cambiato
e non so più chi sono?
La mala, stupefatta,
mi guarda e non capisce,
vede che ho perso la faccia
del guappo che ieri
faceva scintille.
Guarda come mi sono rimbambito,
vinto e rammollito
dentro il tuo cuore.
Ti ho vista passare tangando altera
a un ritmo così intenso e sensuale
che è stato un attimo vederti e perdere
fede, coraggio, spinta e guapperia.
Neanche la cicca all’orecchio m’hai lasciato
di quel passato feroce e malandrino.
Mi manca solo, per completamento,
di andare a messa e pregare inginocchiato...
Ieri, per paura di ammazzare,
invece di darmi da fare
me la sono squagliata.
Mi sono visto in cella o fatto secco,
ho pensato di non vederti più e ho tremato.
Proprio io che non ho mai mollato,
di notte angustiato
mi chiudo e piango...
Più che una credibile redenzione di lui, Malevaje suona come una rivendicazione femminile: non a caso scritta per la Maizani, figura leggendaria del tango passionale, detta la Ñata Gaucha.
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Rudolf Nureyev (nel ruolo di Rodolfo Valentino) e Anthony Dowell (nel ruolo di Vaclav Nižinskij, star dei Ballets Russes) danzano El choclonel film Valentino di Ken Russell, 1977. |
Yira, yira
{Gira, gira}, parole e musica di Enrique Santos Discépolo, 1929, Argentina. Lanciata dall’attrice e cantante Sofía Bozán; poi in un film, Yira, yira, di Enrique Valle con Discépolo e Carlos Gardel (1930), che ne diventa l’interprete più acclamato e rappresentativo. Fonti non sufficientemente indagate retrocedono al 1926 la composizione del brano e attribuiscono la paternità della melodia a José Berón.
Amarissimo tango di un autore, Discépolo (Buenos Aires, 1901 – 1951), che nella vita e nella società non vide altro colore che il nero. Come Cambalache e altre sue canzoni, anche questa è una umorale invettiva contro tutto e contro tutti: la sua visione della realtà gronda di pessimismo e sfiducia, la politica è tradimento, il destino dell’uomo è tutto in discesa. Discépolo sublima come nessun altro, nella tormentata poesia del tango, la visione biliosa e fatalista di chi ha visto crollare i propri ideali. Ma sarebbe un errore relegarlo nella generica categoria degli scettici o dei qualunquisti: i suoi sfoghi risultano più comprensibili se contestualizzati nella storia del suo paese e del suo tempo. Le sue sparate più brucianti sono spesso connesse, sia pure in modo allusivo, alle vicende politiche, sociali ed economiche dell’Argentina: si spiegano anche così il largo consenso popolare incontrato dai suoi testi e, sul versante opposto, le reazioni del potere, che spesso li oscurò con interventi di censura.
In Yira, yira, come in Cambalache, la parola di Discépolo è vox populi, articolata in un fuoco pirotecnico di termini gergali, modi di dire, espressioni in lunfardo, idioma residuale dell’immigrazione italiana lungo il Río de la Plata. Esemplare, in tal senso, è già il titolo: quel «gira e rigira» che non fa parte del vocabolario spagnolo, ma riprende l’intercalare italiano dei rassegnati. Gira e rigira, il mondo va così e non puoi farci nulla. La sorte è grela: più “zozzeria” che “sudiciume”. Che ti ridurrà sul lastrico (en la vía), con le scarpe logore (tamangos, da una voce portoghese) ridotte ormai allo sfascio per il troppo camminare mendicando un mango (baiocco: mango è l’antica banconota argentina da un peso) per morfar (per “magnare”). Allo scenario iettatorio e apocalittico prospettato nelle strofe, segue uno dei refrain più famosi di tutta la storia del tango:
Verás que todo es mentira,
Verás que nada es amor,
Que al mundo nada le importa.
¡Yira! ¡Yira!
Aunque te quiebre la vida,
Aunque te muerda un dolor,
No esperés nunca una ayuda,
Ni una mano, ni un favor…
Vedrai che tutto è menzogna,
che non esiste l’amore,
che il mondo se ne frega di te.
Gira e rigira,
che ti spezzi la vita,
che ti morda un dolore,
non aspettarti un aiuto,
né una mano, o un favore...
A un così radicale pessimismo corrisponde il pathos di una melodia di oggettivo e inestinguibile fascino, resistente alla polvere e alla ruggine. L’interpretazione di Gardel, tutto un susseguirsi – magistralmente controllato – di accensioni e avvilimenti, è tuttora insuperata.
Nel suo bellissimo saggio sul tango, il poeta Horacio Salas racconta: «Quando nel 1929 Discépolo finí il testo del tango Yira, yira, aveva già pronosticato i tempi che si avvicinavano, quel segmento della storia argentina che José Luis Torres chiamò “Il Decennio Infame”. Il periodo, incominciato nel settembre del 1930 con il colpo di stato del generale Uriburu, continuò nei governi nati dai brogli elettorali. Prima quello del generale Agustín P. Justo, .;tra il 1932 e il 1938, e poi quello di Roberto M. Ortiz, .;avvocato delle ferrovie inglesi e radicale di tendenze “antipersonaliste”. La sua candidatura venne proclamata alla Camera di commercio britannica e l’elezione fu chiaramente truccata. [...] Yira, yira assunse il carattere di simbolo. Il suo protagonista è il riflesso della mancanza di speranza e dello scetticismo che, come nuvole oscure, si erano posati sul paese. Si può anche supporre che le migliaia d’impiegati pubblici, che a causa delle loro simpatie “yrigoyeniste” (riferite all’ex leader carismatico Hipólito Yrigoyen, deposto dal golpe del gen. Uriburu e morto nel 1933, ndr) erano rimaste senza lavoro e deambulavano inutilmente per le strade della città in cerca di qualche lavoretto, si fossero identificate con la sventura del personaggio di questo tango.»
Melodía de arrabal
{Melodia di periferia}, parole di Mario Battistella e Alfredo Le Pera, musica di Carlos Gardel, 1930, Argentina. Lanciata da Carlos Gardel.
Giornalista, critico teatrale, commediografo e sceneggiatore di film musicali, Alfredo Le Pera (nato a São Paulo, in Brasile, nel 1900) condivise gran parte della propria carriera musicale e cinematografica con Carlos Gardel. Con lui o per lui scrisse testi per tanghi diventati leggendari, tra cui Mi Buenos Aires querido, Cuesta abajo, Volver, El día que me quieras, Por una cabeza; e spesso usò gli stessi titoli per battezzare i film realizzati per Gardel. Il destino volle bruciarlo con l’inseparabile partner, il 24 giugno 1935, su una pista dell’aeroporto di Medellín in Colombia, quando il loro F31, a decollo appena iniziato, si schiantò sul trimotore Manizales in attesa del proprio turno di partenza.
Madreselva
{Caprifoglio}, parole di Luis César Amadori, musica di Francisco Canaro, 1931, Uruguay/Argentina. Lanciata a Buenos Aires in uno spettacolo teatrale della cantante spagnola Tania (Anita Luciano Davis), moglie del poeta, musicista e “filosofo del tango” Enrique Santos Discépolo. La melodia era stata composta già nel 1918, con il titolo La polla, da Francisco Canaro detto “el Pirincho”, uruguayano di origine italiana, e incisa con la sua orchestra. Rimasto senza parole fino al 1931, il brano – un tango milonga – acquisisce la nuova e definitiva identità di Madreselva allorché Amadori chiede a Canaro di musicare un suo testo per Tania, e il compositore decide di riutilizzare, con qualche modifica, la melodia preesistente. Lo stesso anno, dopo l’incisione di Tania, escono quelle di Carlos Gardel, di Charlo (Carlos Pérez de la Riestra) e di Ada Falcón, tutti e tre accompagnati da formazioni dirette da Francisco Canaro.
Lamento d’amore, delusione e frustrazione: tale è la solitudine della o del protagonista, e tanta la sua sfiducia nel genere umano, che unico confidente è rimasto un muro ombreggiato dal caprifoglio, eterno rifugio di una vita difficile:
Vecchio muro di borgata,
la tua ombra mi teneva compagnia.
Della mia infanzia senza splendore
fu amica la tua madreselva.
Quando tremando il primo amore
con speranze mi addolciva l’anima,
accanto a te pura e felice
cantavo così la mia prima confessione.
Madreselva in fiore
che mi hai visto nascere,
e presso il vecchio muro
hai sorpreso il mio amore,
la tua umile carezza
è come il sentimento
primo e caro
che provo per lui.
Madreselva in fiore
che ti vai arrampicando
è stretto il tuo abbraccio
e dolce come il suo;
se ogni anno
i tuoi fiori rinascono,
fa’ che non muoia
il mio primo amore…
Son passati gli anni e i miei disinganni
vengo a raccontarti, mio vecchio muro.
Ho dovuto imparare che bisogna fare buon viso
per tirare avanti alla bell’e meglio;
che amore e fiducia sono menzogne
e il tuo dolore non importa a nessuno…
Oggi che la vita mi ha castigato
e mi ha insegnato il suo credo amaro,
vecchio muro, con emozione
mi riavvicino a te
e ti parlo come allora…
Il paroliere Amadori è poi regista di un film, nel 1938, intitolato come la canzone e interpretato da due cantanti-attori, la popolarissima Libertad Lamarque e Hugo del Carril, erede spirituale del superdivo Gardel prematuramente scomparso in un incidente aereo. Lamarque incide Madreselva con l’orchestra di Alfredo Malerba; sull’onda del rinnovato successo, Canaro provvede a un’ennesima registrazione, questa volta con la voce di Roberto Maida.
Personalità di spicco tra i tanghisti della guardia vieja, l’onnipresente violinista Francisco Canaro (1888-1964) capeggiò, anche attraverso i fratelli che si attenevano alle sue direttive, complessi e orchestre di varia dimensione: con la famiglia e altri collaboratori mise in piedi una vera e propria industria del tango. Proveniente da un’infanzia di stenti ma armato di implacabile ambizione, si costruì da solo, ancora adolescente, il primo rudimentale violino, col quale si esibì in bordelli di provincia prima di entrare nel giro professionale e di sfondare non solo a Buenos Aires, ma anche a Parigi. L’appellativo di Pirincho, affibbiatogli fin dalla nascita da sua madre perché i molti capelli e il ciuffo del bebé le ricordavano la cresta d’un uccello noto con quel nome nelle regioni del Río de la Plata, gli restò appiccicato tutta la vita. Durante la lunga carriera firmò dozzine di successi, da Sentimiento gaucho a Adiós, pampa mía; ma c’è chi dubita che fosse tutta farina del suo sacco. È comunque innegabile che Canaro ha contribuito come pochi alla diffusione del tango di qualità.
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Francisco Camplá, Cambalache 3, acrilico, inchiostro, matita e vernici. |
Cambalache
{Guazzabuglio. Letteralmente: spaccio da quattro soldi; bazar; bottega}, parole e musica di Enrique Santos Discépolo, 1934, Argentina. Lanciata a Buenos Aires, in una rivista musicale al teatro Maipo, da Sofía Bozán, attrice del teatro e del cinema argentino nonché cantante di tango. Lo stesso anno è interpretata da Ernesto Famá nel film El alma del bandoneón. Le prime incisioni sono di Roberto Maida accompagnato dall’orchestra di Francisco Canaro (1935) e di Tania, moglie di Discépolo, con l’orchestra del marito (1936). Tra le infinite registrazioni posteriori meritano di essere ricordate quelle di Tita Merello, di Edmundo Rivero con l’orchestra di Héctor Stamponi, di Julio Sosa con l’orchestra di Leopoldo Federico, di Roberto Goyeneche con il quintetto di Astor Piazzolla.
Nel 1976, anno in cui esce in disco la versione di Susana Rinaldi, la giunta militare argentina che ha appena deposto con un colpo di stato la presidentessa Isabelita Perón «raccomanda» alle stazioni radiotelevisive di non trasmettere il brano. Non è una novità. Cambalache ha tutte le carte in regola per inciampare nella censura dei governi che si susseguono in Argentina, golpe dopo golpe, fra gli anni quaranta e i settanta. Quel tango non piace né a José Félix Uriburu né a Agustín Justo, né a Roberto Ortiz né a Ramón Castillo, specialisti chi del pugno di ferro, chi del broglio elettorale. Si mostra tollerante il solo colonnello Perón, asceso al potere nel 1946, in nome di quel “giustizialismo” a sfondo sociale che gli vale l’adesione di una larga base popolare e persino quella di Discépolo, nonostante la diffidenza, il pessimismo, l’avversione di quest’ultimo verso qualsiasi forma di regime.
Nel 1942, Cambalacheincorre nelle sanzioni del tribunale supremo per vilipendio ai pubblici funzionari. Come e più di altre invettive discepoliane in forma di tango (v. Yira, yira), infastidisce la famigerata Secretaría de prensa y radiodifusión e chiunque sia provvisto di sufficiente coda di paglia da riconoscersi nei ceffi sbeffeggiati dalla canzone. Quando i Goebbels argentini non osano prendere di petto il contenuto dei tanghi di denuncia, aggirano il problema attaccando – in nome della purezza della lingua nazionale – il lunfardo, vale a dire il gergo popolare italo-spagnolo della Boca, con l’effetto di estendere la censura a quasi tutta la produzione tanguera: che di quella lingua palpita e si nutre. Infierisce contro il tango, e Cambalache in particolare, la commissione presidiata da “monsignor” Gustavo Franceschi e composta da gerarchi, falsi intellettuali e lacché di ogni risma. E certo i versi di Discépolo non risparmiano nulla e nessuno: il suo Cambalacheè la fotografia spietata di un paese corrotto e senza regole, una tana di lupi dove non c’è posto per gli agnelli:
Que el mundo fue y será una porquería,
ya lo sé...
¡En el quinientos seis
y en el dos mil también!
Que siempre ha habido chorros,
maquiavelos y estafaos,
contentos y amargaos,
varones y dublé...
Pero que el siglo veinte
es un despliegue
de maldad insolente
ya no hay quien lo niegue…
Che il mondo fu e sarà una porcheria
lo so già,
Cinquecentosei
o Duemila, che differenza fa?
Ladri ora come allora,
imbroglioni e imbrogliati,
contenti e mazziati,
uomini d’onore e quacquaraquà.
Ma che il secolo presente
una grande fiera sia
di insolente fetenzía,
chi negare lo potrebbe?
Si vive in un bailamme calpestati
e nella stessa melma
siamo belli che impastati.
Tanto oggi fa lo stesso
far l’onesto o il traditore.
Ignorante, saggio, ladro,
generoso o truffatore:
tutto uguale! Non esiste il migliore!
Quanto vale il ciuccio,
tanto vale il professore!
Non ci sono né bocciati né primi in graduatoria,
chi fa il furbo adesso è uguale a noi.
Se uno vive d’impostura
e uno ruba per passione,
poco importa che sia prete,
materassaio, re di bastoni,
faccia di bronzo o povero straccione.
Che mancanza di rispetto,
che sopruso alla ragione!
Chiunque è un signore,
chiunque un ladrone!
Va Don Bosco con Stavisky e la Mignon,
Napoleone con Don Ciccio
e Carnera con San Martín.
Come nelle vetrine spudorate
degli spacci di quart’ordine
si è scomposta la vita;
e ferita da una spada senza filo
vedi gemere la Bibbia
fianco a fianco con lo scaldabagno.
Secolo ventesimo, bottegaccia
problematica e febbrile!
Chi non lacrima non mangia,
chi non gratta fesso è.
Dacci dentro! Evvai!
Ché nel forno dell’inferno
torneremo ad incontrarci!
Non mangiarti il cervello,
fatti gli affaracci tuoi.
Ché non frega a nessuno
se ci tieni all’onore.
È lo stesso per chi smazza
notte e giorno come un bue
e chi fa il parassita,
chi la gente ammazza o cura,
chi di legge non si cura.
Lo Stavisky citato è Aleksandr Stavinskij, finanziere ebreo di origine russa e truffatore d’alto bordo in Francia, morto suicida in carcere nel 1934; lo impersona Jean-Paul Belmondo in un film di Alain Resnais (Stavisky) del 1973. Mignon è il nomignolo che la plebe parigina affibbiò per scherno ai giovani favoriti di Enrico III re di Francia (1574-1589), e qui sta per “mantenuta” o “cortigiana” in generale. Don Ciccio, o meglio Don Chicho, è il boss della mafia argentina Juan Galiffi, arrestato e processato nel 1932. Primo Carnera è il famoso pugile italiano, campione mondiale dei pesi massimi nel 1933. Il generale rivoluzionario José de San Martín (el Libertador) è l’eroe dell’indipendenza dell’Argentina (1816), del Cile (1818) e del Perú (1821) dal dominio spagnolo.
Volver
{Tornare}, parole di Alfredo Le Pera, musica di Carlos Gardel, 1934, Argentina. Una delle ultime canzoni di Gardel, che la interpreta nel film El día que me quieras di John Reinhardt; il 19 marzo 1935 la incide per la Odeon accompagnato da Terig Tucci e la sua orchestra; il 24 giugno perde la vita in un incidente aereo insieme al suo poeta, Alfredo Le Pera; il 16 luglio dell’anno successivo il film comincia il suo ciclo di proiezioni al Cine Teatro Broadway di Buenos Aires.
Melodia struggente, e bel testo di Le Pera sull’amarezza di un ritorno senza speranza nei luoghi di un amore estinto:
Sotto lo sguardo beffardo delle stelle
che oggi indifferenti mi vedono tornare.
Tornare
con la fronte appassita;
le nevi del tempo
mi hanno argentato le tempie...
Ma il viandante in fuga
prima o poi trattiene il passo…
Lamento di un perdente, come nella miglior tradizione tanguera; il che nulla toglie al profondo sentimento di sé stessi che i maschi argentini coltivano nella loro musica.
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Francobollo commemorativo di Carlos Gardel, USA 2011. |
El día que me quieras
{Il giorno che mi amerai}, parole di Alfredo Le Pera, musica di Carlos Gardel, 1935, Argentina. Lanciata da Gardel e Rosita Moreno, protagonisti del film diretto da John Reinhardt che porta il titolo della canzone; sceneggiatura di Le Pera, orchestra della NBC diretta da Terig Tucci. Incisa da Gardel e ripresa, dopo la sua morte, da Hugo del Carril.
Le Pera riprende il titolo e il senso di una lirica del poeta messicano Amado Nervo (Tepíc, 1870 – Montevideo, 1919), il “bardo azteco”: gli stessi versi che avevano già ispirato una melodia al pianista Raul Brujis. Anche la poesia si intitola El día que me quieras, e fa parte di una raccolta pubblicata nel 1915, El arquero divino. In una specie di allucinazione estetica (ed estatica), Nervo fa coincidere con la resa dell’amata l’esplosione pánica di tutti gli elementi della natura: al trionfo partecipano fonti cristalline e arpeggi risonanti fin nelle selve più oscure, monti e praterie invasi all’improvviso dalle margherite, trifogli trasformati in quadrifogli, stagni già malsani aggraziati dalle mistiche corolle del fior di loto. La prima stanza già trabocca di effetti speciali:
Il dì che m’amerai più luce avrà di giugno;
la notte che m’amerai sarà di plenilunio,
con note di Beethoven vibranti in ogni raggio
ineffabili cose,
e ci saran più rose
che nell’intero maggio...
Il testo di Le Pera è a torto considerato una mera parafrasi della poesia di Nervo. In realtà si limita a coglierne lo spunto e a citare solo la frasi El día que me quieras e La noche que me quieras. Il resto è più sobrio e misurato:
El día que me quieras
la rosa que engalana
se vestirá de fiesta
con su mejor color.
Al viento las campanas
dirán que ya eres mìa,
y locas las fontanas
se contarán tu amor.
La noche que me quieras
desde el azul del cielo
las estrellas celosas
nos mirarán pasar.
Y un rayo misterioso
hará nido en tu pelo,
luciernaga curiosa
que verá que eres mi consuelo.
Il giorno che mi amerai
la rosa che ti adorna
si vestirà a festa
col suo più bel colore.
Al vento le campane
diranno che sei mia,
e allegre le fontane
si racconteranno il tuo amore.
La notte che mi amerai
dall’azzurro del cielo
le stelle gelose
ci vedranno passare.
E un raggio misterioso
si anniderà nei tuoi capelli,
come lucciola curiosa
vedrà che sei la mia consolazione.
Estremamente romantica, la composizione – una delle ultime di Gardel e Le Pera, morti proprio quell’anno in un incidente aereo – si discosta lievemente dal linguaggio tipico del tango, introducendo nella struttura melodica oblique aperture al bolero messicano (erano in gran voga a metà degli anni trenta le canzoni di Agustín Lara e di María Grever). L’interpretazione di Gardel è difficilmente superabile, né si possono quantificare le lacrime versate dagli adoratori suoi e di questa canzone-feticcio.
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Gonzalo Perdomo Martínez, Por una cabeza. |
Por una cabeza
{Per un’incollatura}, parole di Alfredo Le Pera, musica di Carlos Gardel, 1935, Argentina. Lanciata da Gardel nel film Tango bar di John Reinhardt.
Il testo si basa su una curiosa quanto poetica metafora ippica: perdere in amore è facile come perdere alle corse, quando punti su un cavallo sicuro e il favorito si fa superare proprio sulla linea d’arrivo, per un’incollatura, per una lunghezza, per un distacco che è beffarda inezia (per inciso: donne e corse di cavalli erano le passioni più viscerali di Gardel):
Por una cabeza de un noble potrillo
Que justo en la raya afloja al llegar,
Y que al regresar parece decir:
No olvides, hermano,
Vos sabes, no hay que jugar.
Por una cabeza, metejón de un día
De aquella coqueta y risueña mujer,
Que al jurar sonriendo
El amor que está mintiendo,
Quema en una hoguera todo mi querer…
Per una lunghezza di nobile puledro
che molla giusto a un pelo dal traguardo
e sembra che ti dica al suo ritorno:
fratello, impara la lezione,
sai bene che a scommettere si perde.
Per una lunghezza ho già perduto un giorno
la bella che di me si prende gioco,
lei che sorride e giura
un amore bugiardo
bruciando in un falò la mia passione.
{Addio, pampa mia!}, parole di Ivo Pelay, musica di Mariano Mores e Francisco Canaro, 1945, Argentina/Uruguay. Tango campero– ibrido di folklore della pampa e tango rioplatense – composto per il remake di uno show teatrale del 1913, El tango en París di Enrique García Velloso, con un nuovo libretto di Pelay e musiche originali di Mores e Canaro. Sul palcoscenico del Teatro Presidente Alvear di Buenos Aires questo accorato addio alla pampa, che diventerà uno dei grandi classici del tango, è affidato alla voce d’un giovane esordiente, Tomás Guida, che assume lo pseudonimo di Alberto Arenas dal nome di uno dei personaggi della commedia. Arenas incide Adiós, pampa mía! con l’orchestra di Canaro. Lo stesso anno, 1945, escono la prima delle versioni discografiche di Libertad Lamarque e quella di Alberto Marino e Floreal Ruiz con l’orchestra di Aníbal Troilo. Nel 1946, la canzone dà titolo e spunto a un film popolare di Manuel Romero, con Alberto Castillo in veste di protagonista e cantante; e in Messico entra nella colonna sonora di un melò musicale di Luis Buñuel, Gran Casino, cantata dall’idolo nazionale Jorge Negrete (protagonista femminile del film è Libertad Lamarque).
Enrique Delfino, famoso pianista, direttore d’orchestra e compositore di tango, sosteneva che Adiós, pampa mía! fosse il plagio occulto di una propria composizione, Araca la cana, incisa da Carlos Gardel nel 1933. «Prova a scrivere le note del mio tango raddoppiandone i valori e vedrai che salta fuori Adiós, pampa mía!», disse a un critico musicale, Pompeyo Camps. Forse aveva ragione. Il problema è che l’addio alla pampa, originale o copiato che fosse, è diventato un punto di riferimento universale della storia del tango, mentre sono in pochi a ricordarsi ancora di Araca la cana. Ma oltre alle contestazioni di terzi, il copyright del brano suscitò diatribe e dissapori anche in famiglia, fra i due artisti accreditati come autori della musica. Il pianista e arrangiatore Mores, che ai tempi militava nell’orchestra del violinista uruguayano Canaro, sosteneva che fosse solo farina del proprio sacco. Quel tango l’aveva già composto con un testo di Homero Manzi ed era sul punto di depositarlo legalmente quando Canaro lo frenò: meglio lavorarci su ancora un poco, perché con adeguati ritocchi sarebbe stato perfetto in una scena dello spettacolo che stava producendo. Di fatto, secondo Mores, fu cambiato solo il testo; ma il boss impose la sua firma sul risultato finale e Mores lasciò correre, inconsapevole di aver partorito una bomba.
Un gaucho abbandona in lacrime la sua terra:
Adiós, caminos que he recorrido,
Ríos, montes, y cañadas,
Tapera donde he nacido.
…
Adiós, llanuras que he galopado,
Sendas, lomas y quebradas,
Lugares donde he soñado…
Addio, strade che ho percorso,
fiumi, monti e piste,
topaia dove son nato.
…
Addio, pianure in cui ho galoppato,
sentieri, gole e colline,
luoghi dove ho sognato…
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Libertad Lamarque (1908-2000), diva argentina del teatro, del cinema e della canzone, perseguitata dalla potente rivale Evita Perón. |
Il testo non spiega i motivi per cui l’uomo della pampa è costretto ad andarsene in terra straniera. L’economia della pampa – basata fondamentalmente sull’allevamento del bestiame e la produzione della carne – reggeva. Molto senso deve aver acquistato, invece, il testo di Adiós, pampa mía! nell’esperienza personale di Libertad Lamarque (Rosario, Argentina, 1908 – Città del Messico, 2000), diva nazionale del teatro, del cinema e del tango. Proprio all’inizio del 1946 questa signora amatissima dalle folle, e dal nome emblematico, dovette intraprendere una tournée all’estero che si trasformò in esilio, a causa di una tempestosa rivalità con un’altra attrice, Eva Duarte, sposa del colonnello Perón in rapida ascesa politica. Una volta al potere, Evita fece terra bruciata intorno a Libertad. Un tentativo di ritorno in patria, nel 1948, si risolse in fallimento: per lei erano state chiuse a doppia mandata le porte del cinema, della radio, del teatro. Lamarque (che per lo schermo aveva esordito nel 1929 in un film intitolato Adiós, Argentina, e che aveva dovuto interrompere la sua carriera a Buenos Aires cantando Adiós, pampa mía!) si rassegnò ad abbandonare definitivamente il paese e a stabilirsi in Messico, dove rimase per 36 anni.
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Café Tortoni, Buenos Aires. |
Cafetín de Buenos Aires
{Piccolo café di Buenos Aires}, parole di Enrique Santos Discépolo, musica di Mariano Mores, 1947, Argentina. Ultimo tango di Discépolo (1901-1951), uno dei più grandi poeti della canzone e non solo di quella argentina. Scritto per il film Corrientes… calle de ensueños! di Román Viñoly Barreto, con il musicista Mariano Mores tra i protagonisti; ma l’uscita del film fu preceduta da diverse incisioni del brano: Osvaldo Fresedo e la sua orchestra con la voce di Osvaldo Cordó (1947); Alberto Fontán Luna con l’orchestra di Astor Piazzolla (1947); Tania, moglie di Discépolo, con l’orchestra di Héctor Stamponi (1948); Edmundo Rivero con l’orchestra di Aníbal Troilo (1948). Piazzolla tenne per tutta la vita Cafetín de Buenos Aires nel proprio repertorio, avvalendosi di cantanti come Héctor De Rosas, Roberto Yanés, Alberto Cortés.
Nostalgico tributo al café porteño: non solo tappa di ristoro ma scuola di formazione, snodo di aspirazioni, luogo di confronto e fucina di idee. Nei café e nelle confiterías di Buenos Aires transitano da due secoli, talvolta mescolandosi, le varie anime della città: e non c’è fazione politica, bohème letteraria, hobby popolare o passione intellettuale che non abbia avuto o non abbia il “suo” bar. Come in tante città della vecchia Europa, la storia e la cultura di Buenos Aires hanno disseminato tracce tra banconi di ottone e sale da biliardo, angolini felpati e sedie Thonet, sontuosi saloni da belle époque per habitué cosmopoliti e affumicati buchi per marinai. Il giro dei viejos cafés porteños– cui la rivista virtuale Sitio al Margen ha dedicato un illuminante servizio firmato da Karina Donángelo – è anche, ovviamente, un viaggio tra le memorie onnipresenti del tango: qui ha suonato per la prima volta Osvaldo Pugliese; qui Celedonio Flores ha scritto alcuni dei suoi testi in lunfardo; qui nel 1924 si esibí la Paquita, la prima bandoneonista argentina; qui suonarono per la prima volta La cumparsita; qui c’era un bar che chiamavano “la Catedral del Tango”...
Aveva un nome il cafetín di Discépolo? Sì, dicono gli esperti: si chiamava Oberdam e stava a Balvanera, barrio popolarmente detto “el Once”. Ma che importa? Quello della canzone rappresenta tutti i luoghi di Buenos Aires in cui si chiacchiera, si gioca a carte e si beve in compagnia: rifugi in cui si accende e si consuma il ciclo mentale del maschio porteño, dagli stupori delle prime scoperte alla fatica di diventare adulti, dalla conquista della consapevolezza alle inevitabili disillusioni della maturità. Il suo omaggio al bar suona come un addio alla vita:
¿Cómo olvidarte en esta queja,
Cafetín de Buenos Aires?
Si sos lo único en la vida
Que se pareció a mi vieja.
En tu mezcla milagrosa
De sabiondos y suicidas
Yo aprendí filosofía... dados... timba…
Y la poesìa cruel
De no pensar más en mi...
Come scordarti in questo lamento,
cafetín di Buenos Aires?
Sei stata l’unica cosa della vita
che somigliasse a mia madre.
Nella tua strana mescolanza
di saccenti e di suicidi
imparai filosofia... dadi... azzardo...
e la poesia crudele
di non pensare mai a me stesso...
Il caffè con la sua varia umanità diventa, nel ricordo e nel rimpianto, il centro di un’autobiografia scandita a ritmo di tango: l’ingresso nella società degli adulti, il primo fumo, i primi progetti, le prime confidenze sulle donne e sull’amore, e poi le amicizie di una vita intera, il tempo che fila, quelli che non ci sono più, la stanchezza, il dolore.
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Astor Piazzolla. |
(Addio Nonino}, rapsodia in forma di tango composta da Astor Piazzolla (Mar del Plata 1921 - Buenos Aires 1992) per la morte del padre Vicente detto Nonino, 1959, Argentina; un testo è stato aggiunto successivamente dalla poetessa, compositrice e cantante di tango Eladia Blázquez, ma il brano è decisamente più noto nella versione strumentale.
Sull’onda dell’emozione per la scomparsa del padre, Piazzolla sviluppa e arricchisce una sua precedente idea del 1954, Nonino, tango di cui esiste una registrazione di José Basso e della sua orchestra tipica risalente al 1962. La prima incisione piazzolliana di Adiós Noninoè del 1960, per l’etichetta Antar-Telefunken. L’autore, al bandoneón, capeggia un quintetto costituito da Jaime Gosis al piano, Quicho Díaz al contrabbasso, Horacio Malvicino alla chitarra elettrica e uno straordinario Simón Bajour al violino.
Adiós Noninoè una delle pietre miliari del nuevo tangoe della geniale immaginazione di Piazzolla. Il tango cambia pagina e si impreziosisce di vibrazioni inaudite, di raffinate tensioni jazzistiche. Nel brano due temi melodici – uno di ampio respiro romantico, l’altro più tormentato e decisamente percussivo sul ritmo del tango – si alternano e contrappongono continuamente, dando sfogo a molteplici variazioni e improvvisazioni. Piazzolla ha eseguito il brano infinite volte, insieme a formazioni strumentali diverse per dimensione e stile; e si può dire che abbia reinventato la struttura e l’arrangiamento di Adiós Nonino ogni volta, facendo dialogare il suo bandoneón con gruppi e solisti di vario temperamento e traendo sempre, da questa che è una delle sue creazioni più ispirate, un’anima nuova e sorprendente. Tra echi di Rachmaninov e ardite deviazioni, strazianti sospensioni e improvvise convulsioni ritmiche, Piazzolla sviluppa un requiem appassionato e struggente. Dalla convergenza di linguaggi fra loro estranei (la grande tradizione europea, il tango, il jazz) nasce una musica meticcia, ricca di idee, sempre emozionalmente tesissima.
Oltre alle incisioni dell’autore, tutte eccellenti, si raccomandano quella del Sexteto Mayor (1991) e la versione di Daniel Barenboim al piano con Rodolfo Mederos al bandoneón e Héctor Console al contrabbasso (1996). Bellissima anche l’esecuzione pianistica di Arminda Canteros (1989).
Verano porteño
{Estate a Buenos Aires}, composizione strumentale di Astor Piazzolla, 1964, Argentina. Musica di scena per la commedia Melenita de oro di Alberto Rodríguez Muñoz, probabile adattamento teatrale di un film muto del 1923 diretto da José A. Ferreyra; prima rappresentazione al Teatro San Martín di Buenos Aires, 1965. Prima parte del ciclo Las cuatro estacionesporteñas, che comprende anche Otoño porteño (1969), Invierno porteño (1970) e Primavera porteña (1970); i quattro brani vengono spesso eseguiti a mo’ di suite, da solisti (bandoneón, pianoforte, chitarra) e organici vari (orchestre da camera, conjuntosdi due o più strumentisti, etc.) La prima incisione di Piazzolla, del 1965, vede impegnati – oltre all’autore al bandoneón – il pianista Jaime Gosis, il violinista Antonio Agri, il contrabbassista Quicho Díaz e il chitarrista Oscar López Ruiz.
Il tango come chiave d’accesso all’anima segreta di Buenos Aires e ai suoi umori nostalgici. Dolcezze, veleni, introspezione. Un’intera megalopoli sublimata e inabissata fra le pieghe e gli strazi del bandoneón. L’estate in città: il movimento, l’attesa, la solitudine. Il ritmo fa sentire le sue pulsazioni, rallenta, si decomprime, si adagia e sembra smarrirsi in rivoli di inquietudine che sfiorano ora il grido, ora il silenzio.
Piazzolla sta a Buenos Aires come Gershwin sta a New York: entrambi di origine remota, l’uno di famiglia italiana e l’altro di famiglia russa, catturano – ciascuno a modo suo – lo spirito metropolitano per tradurlo in linguaggio originale. Il compositore argentino trasfigura Buenos Aires, città “portuense” per antonomasia, in una sorprendente sintesi di impulsi coloristici e sentimentali; le ossessioni e le nevrosi della città si frantumano in pause di insostenibile dolcezza; analizzato nelle sue fibre più profonde e sfuggenti, il tango si stempera e dissolve docilmente come prestandosi a un’autopsia, per poi risorgere impetuoso e guizzante dagli affondi del bisturi.
Musica senza parole ma ricca di sottile eloquenza, che esige esecutori non banali. Eccellente, oltre alle versioni dell’autore, quella di Daniel Barenboim in trio con il bandoneonista Rodolfo Mederos e il contrabbassista Héctor Console; fervida ed emozionante la lettura pianistica di Arminda Canteros. Ma tutta la musica di Piazzolla — sostenuta da altri interpreti di prestigio quali il violinista Gidon Kremer, il violoncellista Yo-Yo Ma, il Kronos Quartet — sembra fatta apposta per conciliare con naturalezza due anime della musica contemporanea, la popolare e la “classica” o “colta” che dir si voglia, fregandosene dei rigidi steccati che il mercato, il pregiudizio e la pigrizia hanno edificato e codificato nel corso del tempo.
Balada para un loco
{Ballata per un pazzo}, parole di Horacio Ferrer, musica di Astor Piazzolla, 1969, Argentina/Uruguay. Presentata al Festival de la canción de Buenos Aires nella appassionata interpretazione di Amelita Baltar. Ripresa da Roberto Goyeneche, una delle voci più amate del tango contemporaneo, accompagnato dal Quinteto di Piazzolla. Nel 1970, disco RCA Victor con Horacio Ferrer che recita i versi e Piazzolla al bandoneón. Nel 1985 successo parigino di Milva e Piazzolla insieme nel recital El Tango.
Secondo Piazzolla la Balada non vinse, come avrebbe dovuto, il festival di Buenos Aires a causa dell’ostracismo delle sinistre: «Gli zurditos di sempre mi fecero pagare cara la mia vecchia militanza anticomunista; riempirono il Luna Park con i loro adepti ed ottennero che una porcheria che nessuno ricorda e che non è stata mai più cantata vincesse il primo premio. Ma la giustizia arriva sempre: il giorno dopo Hugo Guerrero Marthineitz, il peruviano, cominciò a trasmettere la Balada nel suo programma radiofonico parecchie volte al giorno.»
Ferrer – il poeta di Montevideo autore del testo – dice di essersi ispirato a un film di Philippe de Broca, Tutti pazzi meno io (1966), con Michel Serrault, Alan Bates, Micheline Presle, Jean-Claude Brialy. In una cittadina del nord della Francia, invasa dai tedeschi durante la prima guerra mondiale, gli ospiti di un manicomio si ritrovano in libertà perché non c’è più nessuno a sorvegliarli. Ma quando cominciano a capire come vanno le cose fuori da quelle mura protettive, decidono di rientrarvi. Il tema della follia e della sua ambiguità (chi è pazzo? chi non lo è?) era già presente in María de Buenos Aires, opera di Ferrer e Piazzolla varata nel 1968 con Héctor de Rosas e la stessa Amelita Baltar.
Nella Balada, per le strade centrali di Buenos Aires affollate all’ora del passeggio, compare questo barbone squinternato «con mezzo melone in testa / la camicia a righe dipinta sulla pelle / due mezze suole incarnate nei piedi / e una bandierina da taxi libero alzata in ogni mano», e abborda i passanti. Dei quali lui vede l’invisibile – la solitudine porteña, la stoltezza del tran-tran quotidiano; e li minaccia di irrompere ogni notte nei loro sogni, di non farli più dormire, di scuoterli dal torpore esistenziale «con una poesia e un trombone», di mettergli finalmente a nudo il cuore e i sentimenti. Piazzolla serve al testo – enfatico e debordante – del poeta una musica di commento, molto trattenuta e quasi intimidita, rispettosa della voce (tra il recitante e il cantato) dell’interprete vocale di turno. Se si compie lo sforzo mentale di deconcentrarsi dalla logorrea iperteatrale di un Trelles o di un (pur altrove bravissimo) Goyeneche – le donne, Baltar e Milva, indulgono un pochino meno a “fare le pazze”, interpretando il ruolo delle malcapitate passanti – si coglie meglio la tessitura complessa della parte musicale, vagamente impressionistica, con inserti di tango e di vals nel refrain.
Amor porteño
{Amore di Buenos Aires}, parole di Eduardo Makaroff, musica di Philippe Cohen Solal, Eduardo Makaroff e Christoph H. Müller, 2006, Francia/Argentina/Svizzera. Dall’album Lunático degli autori, noti come Gotan Project, trio euro-argentino con base a Parigi. La voce femminile è della cantante argentina Cristina Vilallonga, il bandoneón di Nini Flores, il pianoforte e la direzione musicale sono di Gustavo Beytelmann; ospiti anche il chitarrista Joey Burns e il bassista John Convertino del gruppo tex-mex Calexico di Tucson, Arizona.
Il tango si spinge qualche miglio più in là di Astor Piazzolla, e non solo perché amoreggia con l’elettronica, il downtempo, il jazz e le notti in discoteca. Diventa esoterico e global, marziale e insidioso come lo sguardo fatale del primo verso:
Una inquietante mirada de amor porteño,
Cálida y cruel…
No, no puedo creer que pasó,
Que el misterio sensual de tu risa canyengue
Se apagó…
Un’inquietante espressione d’amor porteño,
calda e crudele…
No, non posso credere che sia finita,
che il mistero sensuale del tuo riso canyengue
si sia spento…
Armata di pugnale, la donna che canta ricorda altri angeli vendicatori, come la Colomba di Mérimée e la sposa in nero di William Irish e François Truffaut. Canyengue è, in gergo lunfardo, il passo strisciato del tango, la promenade esitante a ogni sussulto del ritmo. L’eros e la morte tendono agguati in veletta nera. La femme fatale impersonata da Cristina Vilallonga medita vendetta con ammirevole autocontrollo; promette il peggio senza sconfinare nell’enfasi; oppone alla brace ritmica accesa dall’arrangiamento la misura di un felpato intimismo. Anche in questo la canzone si distanzia dal tango d’una volta, quello dei cantori appassionati, devastati dalla gelosia, dal dolore, dal rancore. Il raccordo con le origini sta piuttosto nella seduzione melodica, che non sfigura nel paragone con i classici di Troilo, di Discépolo, di Gardel; dal cavallo da corsa di quest’ultimo, Lunático, prende nome l’intero album dei Gotan Project, come a voler negoziare con i padri del tango un contratto, tra il sincero e l’ironico, di continuità.
© Pasquale Barbella