1. Ballata selvaggia.
Al centro del paese, proprio sul Corso dove la sera metà della popolazione tirava tardi trascinando i piedi dal municipio alla cattedrale e viceversa, c’era un negozio di elettrodomestici chiamato l’Emporio di Saturno. L’insegna faceva pensare a cose sbagliate: non era né un bazar né un magazzino di merce all’ingrosso, e Saturno non c’entrava col pianeta o con l’alchimia ma era semplicemente il cognome del proprietario. Per me, comunque, era un luogo familiare: avevo cominciato a frequentarlo da piccolo, nel periodo in cui mio padre ebbe in uso una stanza dell’emporio per tenervi il suo ufficio privato. Per accedervi si attraversava il salone carico di meraviglie: apparecchi radio, fonografi e ogni genere di modernità, tra cui gli aspirapolvere e le lavatrici. I televisori non c’erano ancora, sarebbero arrivati nel 1954.
Anche quando mio padre liberò la stanza per trasferirsi altrove continuai a sentirmi di casa al Saturno. Il titolare mi adorava perché mi considerava, bontà sua, un enfant prodige. Mi aveva visto scrivere a macchina all’età della terza elementare e quella visione doveva aver prodotto su di lui una specie di effetto Fatima-Lourdes. Verso gli undici o dodici anni diventai amico del commesso, un giovane di poche parole al quale gli altri si rivolgevano solo in caso di necessità. Andavo a trovarlo preferibilmente nelle ore scarse di movimento, nel primo pomeriggio, quando sia il padrone che i clienti facevano la siesta e in negozio c’era solo lui. Si chiamava Lino e, se non era di malumore, mi permetteva di ascoltare qualcuno dei dischi appena arrivati. Mi sarebbe piaciuto ascoltare musica a sbafo fino a tardi, dal momento che a casa non potevamo permetterci neanche la radio; ma non si poteva esagerare. Lino era inflessibile:
«Due canzoni e basta. Il principale oggi viene presto, ha un appuntamento nel negozio. Non si gioca col materiale. Non vuole assolutamente.»
«E dai! Fammi sentire Ballata selvaggia. Poi me ne vado.»
Alla fine la spuntavo, ma lui si tormentava le mani per tutto il tempo, sorvegliando con ansia la porta d’ingresso.
Era il piú strano dei miei amici. Aveva un naso a proboscide, la voce nasale, un occhio di vetro e un’età difficile da indovinare: tra i 18 e i 35. Un’anima di bambino in un corpo di adulto. Un adulto magro e un po’ curvo, come schiacciato da un pensiero molesto. Il minimo disordine poteva mandarlo in crisi. Per esempio quando certi miei coetanei fin troppo casinisti irrompevano nel negozio con l’unico scopo di fare odiosi scherzi anonimi a danno di qualcuno, usando il telefono della ditta. Lui provava a impedirlo, cercando di salvare il telefono nero dalle loro grinfie, ma non poteva farcela. Era uno solo contro tre o quattro scalmanati. In paese c’erano ancora pochi telefoni, poche automobili e poco futuro. Le cose che scarseggiano sono sempre le piú attraenti. Lino si arrabbiava moltissimo per quelle prepotenze. Perdeva la pazienza e doveva minacciare gli intrusi agitando la ramazza per cacciarli via. Passava rapidamente dalla serenità alla tristezza e mi toccava tirarlo su di morale come si fa con un fratello minore.
«Come stai a figurine? Hai qualche doppione da scambiare?»
«Ho cinque William Bendix.»
«Non me ne parlare, sono pieno di Bendix anch’io. Non vale niente. Ce l’hai una Rhonda Fleming?»
«Magari. È difficile da trovare.»
«Lo so. Io ce l’avevo, me la sono giocata e l’ho persa.»
Le figurine degli attori – le piú diffuse, a colori, erano stampate in formato 4 x 5 cm – avevano un valore instabile, legato alla capacità di resistenza dei collezionisti. Si cominciava a raccoglierle con una certa euforia, ma prima che si riuscisse a completare la serie finivano, come per una maledizione, nel micidiale rito del colpo-di-vento, quando te le giocavi mettendole in piedi con la faccia contro il muro e soffiandoci sopra. Si poteva giocare in due o piú di due. Ad ogni giro i giocatori formavano un mazzetto mettendo in palio uno stesso numero di figurine, e a turno soffiavano contro i condannati. Ciascuno ritirava le figurine che era riuscito a capovolgere, finché con la faccia a terra non rimaneva nessuno. I tornei si svolgevano di solito raso terra, sui marciapiedi, e duravano pochi minuti. Piú di una volta persi in un istante tutti i tesori accumulati con fatica, sentendomi poi vittima della mia stessa dabbenaggine. Ma il richiamo del rischio era troppo forte; la mia resistenza cedeva alla brama di vincere, alla vana speranza di recuperare il perduto.
Lino era un avversario temibile. Con lui si perdeva sempre. Possedeva piú figurine di tutti i collezionisti del nostro giro. Con me si rifiutava ormai di giocare, perché mi aveva preso in simpatia e non voleva svuotarmi le tasche. Gli chiesi come facesse a vincere.
«Ci vuole una tecnica particolare», disse.
«Hai piú fiato di me.»
«Il fiato non c’entra. Devi controllare l’angolazione, oltre alla potenza. Devi soffiare leggermente di sbieco, in modo che l’aria passi in mezzo ai cartoncini spingendone una parte a faccia in su.»
Oggi direi che giocava da ingegnere mentre io giocavo da ludopatico. Avevo preso da mio padre. Era sempre al verde a causa dei debiti di gioco, anche se faceva un mestiere da privilegiato. Esperto di tributi e ricerche catastali, consulente di latifondisti e notai, ma sempre senza soldi. E con famiglia numerosa a carico.
Lino conosceva a memoria i nomi degli attori americani anche se non andava mai al cinema. Io invece ci andavo, eccome. Ero un maniaco dei film, piú ancora dei miei genitori e dei miei fratelli. Veneravo anche i film che non capivo, per esempio Il mistero del falco e Casablanca. Neanche la trama di Ballata selvaggia mi risultava chiara e comprensibile: Messico, petrolio, nitroglicerina, banditi, passioni, tradimenti. Roba da grandi. Ma a me piacevano Gary Cooper, Barbara Stanwyck e – soprattutto – la canzone cantata da Frankie Laine: Blowing Wild.
Un giorno l’unica copia di quel 78 giri presente sullo scaffale dischi dell’emporio prese il volo.
«Lino, che fine ha fatto Tonsille?»
Tonsille d’Acciaio era il nomignolo con cui Frankie Laine era diventato famoso, grazie alla potenza delle corde vocali.
«È stato venduto al dottor F.»
Non conoscevo il dottor F., ma conoscevo i suoi tre figli. Uno di loro, Mario, era il mio compagno di banco. Aveva i capelli ricci ed era l’allievo piú beneducato di tutta la scuola media. Inutile dire che faceva parte del Clan degli Italiani, cioè dei pochi che parlavano in italiano anziché in dialetto. In quanto membri di una simile élite avevamo dei gusti in comune, per esempio le canzoni straniere. Un parente di Lino, Gabriele, spingeva i suoi gusti ancora piú in là: era malato di swing e di jazz. Sapeva vita, morte e miracoli di gente come Benny Goodman, Teddy Wilson, Lionel Hampton, Gene Krupa. Già pensavo a come farmi invitare da Mario F. per familiarizzare con i giacimenti musicali di famiglia. Quando ci riuscii, ebbi accesso anche a La vie en rose di Edith Piaf e White Christmas di Bing Crosby.
Lino volle sapere perché mi piacesse tanto Blowing Wild.
«Perché sembra una marcia funebre. Sa di metallo, di petrolio e di morte.»
«E che ci trovi di bello nelle marce funebri?»
«Mi fa impressione la banda comunale del Venerdí santo, quando suona lo Stabat Mater dietro la Madonna vestita di nero.»
«Sei andato quest’anno al giro delle sette chiese?»
«Sí. E tu?»
«Io non ho tempo per le cose normali, devo fare la guardia al negozio.» Seguí con lo sguardo le evoluzioni di una mosca e, al momento giusto, fece scattare la mano destra e l’acchiappò. «Lo sai che fra 25 anni una spedizione di scienziati andrà sulla Luna con una flotta di due o tre astronavi?»
«Sulla Luna? E quanto tempo ci vorrà per arrivare lassú?»
«Cinque giorni. Ce l’hai la figurina di Gary Cooper?»
«No.»
Nella sua immensa generosità, mi regalò non solo Gary Cooper ma anche Barbara Stanwyck, Ruth Roman e Anthony Quinn. In cambio non volle niente. La mosca stordita finí schiacciata sul pavimento di linoleum sotto il tallone del suo nemico.
2. I Believe.
In meno di un anno accaddero un sacco di cose. Mio padre portò a casa un fornello a gas a tre fuochi, della Triplex, e poi una radio a valvole Magnadyne. Saturno gli aveva concesso condizioni di favore in cambio della supervisione sui registri contabili dell’Emporio. La Triplex e la Magnadyne ci cambiarono la vita: a casa smettemmo di affumicarci con la vecchia cucina a carbone in muratura, e io cominciai a intrattenermi un po’ piú a lungo tra le mura domestiche per non perdermi l’orchestra Angelini, Ballate con noi e Il Motivo in maschera. Altri avvenimenti di rilievo: l’avvento del rock and roll, la conquista italiana del K2 e il caso di Wilma Montesi trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica.
L’Emporio di Saturno era aperto anche nei giorni festivi. Un pomeriggio domenicale di prima estate scostai la tenda e mi affacciai, in vena di confidare qualcosa a qualcuno. Lino non era il mio confidente abituale; la nostra era un’amicizia senza pretese di profondità, le questioni condivise si mantenevano a un livello superficiale. Ma quella volta lo scelsi deliberatamente come complice, per un bisogno dettato dall’istinto. Volevo dirgli che quella mattina ero andato a messa per l’ultima volta. Avevo deciso di tagliare definitivamente i ponti con la fede cattolica, dalle cui imposizioni dogmatiche mi separavano dubbi abissali. Era una risoluzione importante per un tredicenne e meritava di essere valorizzata in modo adeguato: con un addio rituale e una specie di confessione, ma laica. L’addio liturgico l’avevo già dato la mattina, scegliendo la messa solenne nella Basilica anziché quella piú breve nella parrocchia di quartiere. Mi ero seduto in prossimità della navata destra, tra il fonte battesimale e la tavola del Buonvino, per aspirare il profumo dei gigli laddove si percepiva in modo piú intenso e morboso. Il ricordo della chiesa che volevo portare con me era di natura olfattiva. Avevo scelto Lino per non rimanere tutto solo col mio segreto, ma appena lo vidi rinunciai allo sciocco proposito di caricargli addosso il peso delle mie tortuosità. Aveva l’occhio sano gonfio di pianto e continuava a soffiarsi l’enorme naso con un fazzolettone piú triste di lui. Nel volto illividito dal dolore risplendeva, senza alcun senso, l’occhio di vetro, trafitto da un raggio di luce importuna.
«Che ti è successo? Hai pianto?»
Per tutta risposta si mise a singhiozzare in modo impetuoso. Cercava di dirmi qualcosa, ma le parole gli morivano in gola, annegate sul nascere da una tempesta di lacrime. Soffriva da adulto e piangeva da bambino. In preda all’affanno riuscí a farmi capire di aver subíto una lavata di capo dal titolare. Mi sforzai in tutti i modi di calmarlo e di farlo parlare in modo piú disteso e comprensibile. Saturno lo aveva offeso a morte, dandogli dello «scemo». Di piú: gli aveva rinfacciato di tenerlo in negozio solo per compassione e solidarietà di parentela, mentre in paese e nelle campagne c’erano migliaia di disoccupati piú meritevoli di lui. Lo ascoltavo con l’animo in tumulto, pensando che Lino era, in quel momento e senza rendersene conto, il simbolo universale dell’infelicità prodotta da ingiustizie. Non capivo come ci si potesse accanire contro una persona fragile come quella che mi stava di fronte, tanto piú che in molte occasioni Saturno aveva dimostrato di essere tutt’altro che uno stronzo. Ma nella confusione di tanti pensieri in libera uscita ero imbarazzato anche dall’idea che nell’emporio entrasse qualcuno e cogliesse quella scena cosí teatrale: un uomo in lacrime al cospetto di un ragazzino turbato. Dimenticai l’argomento che mi aveva condotto là dentro e provai a distrarre Lino dalla sua angoscia.
«Allora sono arrivati i Platters o no?», domandai con una certa enfasi. Non vedevo l’ora che all’Emporio di Saturno arrivasse l’ondata del rock e delle canzoni a terzine modello doo-wop. Ma Lino non era in vena di terzine.
«La cosa piú brutta», disse riprendendo il lamento interrotto, «è che aveva ragione lui. L’ho fatta grossa.»
«Cosa puoi aver fatto di tanto grave?»
Lino aveva una serie limitata di mansioni di cui occuparsi: non era un commesso “standard”. Non doveva vendere elettrodomestici ma solo piccole cose: lampadine, dischi, accessori elettrici. Per gli affari di un certo spessore doveva solo scusarsi per la temporanea assenza del titolare e chiedere agli interessati di ripassare a una certa ora (sapeva sempre dove e quando il capo sarebbe ricomparso). C’era molto traffico di bombole di gas, e in quei casi era sufficiente prendere nota del richiedente: le uscite per le consegne a domicilio rispettavano sempre gli stessi orari, concordati con Tommy l’apista – cosí detto per l’Ape Piaggio di sua proprietà. Di grave c’era che Lino, preso in mezzo tra un cliente a caccia di informazioni sui frigoriferi Ignis e un altro che aveva urgente bisogno della bombola di ricambio, si era concentrato sul primo e aveva omesso di prender nota del secondo. Costui si era lamentato in modo aggressivo con Saturno e le saette piú fulminanti erano infine piombate sulla testa del piú indifeso.
«Non ci pensare, Lino. Tutto passerà. Fammi sentire Only You.»
Disse che quel disco era stato ordinato da tempo ma tardava ad arrivare. Faceva parte di uno stock di novità legate alla rivoluzione della musica da ballo: l’altro hit internazionale era Rock Around the Clock nella versione di Bill Haley and His Comets, la piú famosa. Il rock di quegli anni era un’espressi0ne di pura gioia di vivere, tutto il contrario di quanto suggerisse una domenica cosí severa.
Lino smise di piangere e se ne uscí con una delle sue dichiarazioni fuori contesto: «Nel cielo del Madagascar si è vista volare una palla di luce verde fosforescente. I cani hanno abbaiato da mezzogiorno a mezzanotte per lo spavento.»
Cambiava umore e argomento senza preavviso. E quindi, come se il suo occhio di vetro cogliesse magicamente il rovello che avevo dentro: «Ho un disco nuovo del tuo Frankie Laine. Canta una preghiera.»
Mise sul piatto un Columbia a 45 giri etichetta rossa e azionò il braccio dell’apparecchio con cautela. Dopo il breve fruscío iniziale partí la musica di I Believe: «Credo». L’ugola di Frankie vibrava come se fosse entrata in contatto diretto con la potenza del Padreterno. Non capivo l’inglese perché studiavo latino e francese, ma bastavano i suoni e la voce a farmi entrare nel pathos di una cripta.
«Questa preghiera», commentò Lino prima di riporre Frankie nella sua busta, «parla di Ufo trasparenti. Ti andrebbe una pastarella alla crema? Offro io. Se mi aspetti qui faccio un salto da Caporale e torno con due paste alla crema col candito sulla cima.»
Caporale era il bar di fronte e il profumo dei dolci era cosí forte da penetrare persino nell’Emporio di Saturno. Chiusi gli occhi pregustando il dono imminente e pensai: io non credo né in Dio né nei dischi volanti. Ma decisi di tenere queste cose per me, senza intromettermi nella coscienza di Lino.
Divorammo le paste: fu per entrambi un’esperienza quasi religiosa. Il mio interlocutore, pulendosi le labbra, annunciò in tono solenne: «A ottobre comincio i lavori.»
«Che lavori?»
«Il presepio. Ogni anno faccio il presepio piú grande e piú bello della città.»
Non aveva mai accennato a una tale specialità, prima di allora.
«E a Natale verrai a casa mia per vederlo.»
Mi chiedevo se l’opera di cui si sentiva esperto fosse dettata da un movente spirituale o da un interesse per la scenografia. Ma erano domande oziose, e ne ero vagamente consapevole.
3. Harlem Nocturne.
Lo scaffale dischi dell’emporio non era gran cosa. Non si vendevano molti dischi, in paese. Il fabbisogno di musica leggera si limitava, piú che altro, alle feste da ballo in casa, e per quello bastavano i soliti tanghi e i soliti valzer, le solite polke e le solite mazurke. Rare le concessioni al moderno. Nel 1954 al Saturno si vendettero – oltre alle immortali Cumparsita e Caminito – diverse copie di Te voglio bene (tanto tanto) del comico Renato Rascel, Vaya con Dios del duo Les Paul & Mary Ford e Aveva un bavero del Quartetto Cetra. Il rock, come lo swing e il jazz, in Italia era roba da élite. Gabriele – il parente di Saturno e di Lino – cercava, entro certi limiti, di influenzare gli approvvigionamenti. Spingeva per il jazz e riusciva a far entrare in negozio qualcosa di Benny Goodman, il suo idolo, e delle orchestre swing tipo Glenn Miller e Artie Shaw. Persi la testa al primo ascolto per Harlem Nocturne nella versione di Ray Anthony e la sua orchestra.
Gabriele si vedeva di rado al Saturno. Era benestante e disponeva di una collezione di dischi rispettabile, secondo le voci. Lo incontravo a volte in marcia sul Corso con i suoi amici: erano tutti habitué del Circolo universitario. Gabriele era stato adottato da quella compagnia per le sue doti di animatore e la passione per il jazz. Non per gli studi, che gli erano preclusi a causa di non so quale neuropatia congenita. Ascoltammo Ray Anthony in tre: Gabriele, Lino ed io, reagendo alla musica ciascuno a modo suo. Il primo ballava con tutti i muscoli del corpo, pur stando fermo sulle gambe. Teneva lento il ritmo, ma allungava le braccia e il collo in tutte le direzioni, come serpenti che si snodano da un groviglio. Lino se ne stava immobile e pensoso, in piedi dietro il bancone, con una matita in bilico dietro un orecchio. Io mi sentivo trascinato in un film nero, di notte, in una città straniera dall’asfalto bagnato, fra taxi smollati che sbattono la coda ad ogni cunetta, fari rotanti sulle auto della polizia, ubriachi sbattuti a calci sui marciapiedi all’uscita di un nightclub.
«Che stai scrivendo?», domandai a Lino.
«Prendo nota del movimento.»
«Che movimento?»
«Della cometa. Dovrebbe muoversi da ottobre all’Epifania, tenerla ferma per due mesi è sbagliato.»
Gabriele suonò Harlem Nocturne per la quarta volta di seguito, ma senza smettere di ballare si avvicinò al bancone incuriosito. Volle dire la sua sul progetto del presepio di Lino.
«Dovresti farla muovere a tempo di blues.»
«La cometa non balla», protestò Lino.
«Ma i pastori sí, specialmente di notte.»
Lino non sopportava quel genere di umorismo. Prendeva le battute di Gabriele come un insulto personale.
«Adesso basta con la musica», ordinò con voce ferma e piú nasale che mai, sforzandosi di non perdere completamente le staffe. Cercò di fermare il disco, Gabriele tentò istintivamente di impedirglielo. Il braccio dell’apparecchio strisciò sibilando fino all’etichetta viola, la puntina di zaffiro graffiò malamente la facciata di gommalacca, Lino si mise le mani sul volto con un guaito animalesco. Si sentí perduto. Una volta, per strada, avevo assistito alla crisi epilettica di un passante, rimanendone sconvolto: temetti di riprovare quello choc. «State calmi, state calmi, vi prego!», implorai, notando che anche Gabriele stava perdendo la bussola. Non sapendo come fare per riportare quei due alla normalità, cacciai il naso fuori dal negozio e chiesi aiuto al primo sconosciuto a portata di mano. Quello entrò e cercò di afferrare la situazione, ma i due interessati si zittirono appena percepirono la presenza estranea e sembrò che l’unico agitato fossi io.
Gabriele pagò il prezzo del disco rovinato, ma Lino decise ugualmente di bloccare l’uso del fonografo come passatempo. Stabilí di toccare dischi e giradischi solo in presenza e per ordine di Saturno in persona. Cercai invano di fargli capire che l’incidente non era avvenuto per colpa mia. Oltre a negarmi il piacere della musica, prese a trattarmi in modo meno amichevole di come aveva sempre fatto: o almeno cosí mi parve.
Gli mostrai un nuovo tipo di figurine. Erano in bianco e nero e fotografiche, stampate su cartoncino liscio. Odoravano di chewing gum perché venivano distribuite insieme alle gomme da masticare.
«Il profumo di gomma», dissi a Lino, «dura per sempre. O quasi.»
Si degnò di dare un’occhiata, ma di traverso. Era bravo a simulare disinteresse.
«Non mi piacciono», dichiarò con fermezza. «Preferisco quelle a colori.»
«Anch’io, ma sono belle anche queste». Gli feci scorrere sotto l’occhio buono Joan Fontaine, Sterling Hayden, Gene Tierney, ma cominciò a sbadigliare e provai a cambiare tattica.
«Hai trovato una soluzione per il movimento della cometa?»
Finse di non udire la domanda e si impegnò a spostare alcune bombole per migliorarne l’allineamento. Le faceva rotolare fra le mani spingendole abilmente verso la destinazione che aveva deciso. Poi si strofinò le mani, una palma contro l’altra, come se avesse toccato qualcosa di polveroso, e disse: «Quest’anno deve passare una cometa famosa. Si chiama Pons-Brooks.»
«Perché è famosa?»
«Perché è puntuale. Ha un periodo orbitale di 70 anni, e può sbagliare di poco.»
«Che intendi per “periodo orbitale”?»
«Sei ancora troppo giovane per capire. Adesso scusami, ma ho parecchio da fare.»
Prese da dietro il banco uno straccio a quadrettoni bianchi e rossi e si mise a spolverare le bombole di Liquigas, mentre il crepuscolo entrava nell’Emporio di Saturno e lo avvolgeva nella penombra. Gli chiesi il permesso di accendere la luce. Annuí.
La luce al neon, sfacciata come un lampo d’altri mondi, sbiancò la scena e appiattí i due personaggi contro uno schermo immaginario.
4. Blue Christmas.
Molti anni dopo, tornato in Italia dagli Stati Uniti per una breve vacanza, passai dal paese con mia moglie Dorothy e i nostri ragazzi. Urania, la maggiore dei tre, mi chiese di visitare l’Emporio di Saturno, del quale avevo spesso parlato in casa. Al suo posto c’era un ristorante sushi e sul marciapede di fronte, dove una volta si affacciava il caffè Caporale, si vedevano le vetrine tappezzate di fotografie di un’agenzia immobiliare. Nessuno dei miei miti di gioventú era sopravvissuto e la cittadina era quasi del tutto irriconoscibile. Visitammo i siti archeologici d’epoca romana, nuovi anche per me (avevo lasciato quei luoghi prima che cominciassero gli scavi). All’ingresso dell’autostrada era stata costruita una chiesa nello stesso stile dell’adiacente autogrill. Le guide turistiche raccomandavano la visita del Presepe Permanente, «installazione visionaria» del cittadino Michele T.
L’ultimo capolavoro di Lino, incompiuto, era stato preservato dalla famiglia e in seguito donato alla diocesi. Smontato e fedelmente ricostruito nella cripta del nuovo tempio, occupava uno spazio imponente: una cinquantina di metri quadri invasi da una specie di Matera in miniatura. Le grotte si arrampicavano addossandosi alle pareti circostanti, e un solco serpentino tagliava il paesaggio a mo’ di canyon per consentire ai visitatori di attraversare lo scenario da parte a parte. Le grotte erano abitate da pastori e animali di cartapesta; le loro dimensioni variavano secondo la distanza dai punti di osservazione per creare un’illusione prospettica. Gli altoparlanti diffondevano la voce di Elvis senza trascurare nulla del suo repertorio natalizio: da Silent Night a White Christmas, da Blue Christmas ad I Believe, ma un adeguato sound design combinava la musica con il suono delle acque (il ruscello, la cascata), i richiami di voci umane, i belati, i muggiti, un aereo lontano. Un nastro trasportatore nascosto provvedeva al moto perpetuo di re magi, cammelli e pellegrini. Era la piú efficace contaminazione fra Vangelo e Disneyland che avessi mai visto.
Lino, come tanti sulla Terra, non possedeva né la cognizione né la malizia del kitsch. Ne era immune, a dispetto delle apparenze. Nel creare il suo mondo non aspirava al sublime, ma alla realizzazione – materica, meccanica, concreta – di una prodezza artigianale. Rimasta purtroppo incompiuta: era morto prima di risolvere il problema della cometa.
© Pasquale Barbella, 2025.
Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.
Didascalie e credits.
Radiocorriere, settimanale della radio e della televisione pubblicato dalla Rai. Dall’alto in basso:
1. Copertina del n. 13/1954: la cantante peruviana Yma Sumac.
2. Annuncio promozionale per i concerti Martini sul Programma Nazionale della radio.
3. La pubblicità del Punt e mes rievoca un’eroica impresa della guida alpinistica Jean Pellissier.
4. Copertina del n. 48/1953: Ingrid Bergman, voce recitante di Giovanna d’Arco al rogo di Paul Claudel e Arthur Honegger. In diretta radiofonica dal San Carlo di Napoli.
5. Copertina del n. 26/1953: l’attrice Anna Maria Pierangeli.
6. Avviso pubblicitario Diadermina.
7. Avviso pubblicitario per il balsamo Sloan.
8. Copertina del n. 10/1954: Gina Lollobrigida.
9. Classe unica fu una leggendaria rubrica radiofonica di divulgazione culturale.
10. La Rai annuncia un ciclo di trasmissioni radio sui viaggi culturali in Italia.
11. Copertina del n. 1/1954: Pronti? Via! Comincia l’era della TV.