Quantcast
Channel: Dixit Café
Viewing all articles
Browse latest Browse all 910

Benetton Story, 3

$
0
0

Promenade fra speranze e veleni, idealismi e miserie, marketing e calamità, lupi e agnelli, disastri e terapie, idolatrie e furori. Un bilancio di “United Colors of Benetton” dalle origini al post-Toscani. Da BILL magazine n. 2, parte III.

Magliette insanguinate e cuori di maiale


Forse un po’ colpiti dalla durezza delle reazioni alla campagna-reportage, Toscani e il suo committente ritornano alle immagini autoprodotte e abbassano un po’ i toni e l’estensione della denuncia. Fra il 1993 e il 1995 si concentrano soprattutto sull’Aids, con annunci educational (anche questi, comunque, molto avversati) che mostrano parti del corpo umano marchiate con la scritta H.I.V. POSITIVE. Il 1° dicembre 1993, giornata mondiale Aids, Benetton e il gruppo Act Up Paris infilano un profilattico gigantesco, alto 22 metri, sull’obelisco di Place de la Concorde a Parigi. E giacché si è in tema di corpo umano, Toscani pensa bene di riempire due pagine di United Colors con gli organi genitali di 56 persone – donne, uomini, vecchi e bambini. Usa lo stesso campionario in Olanda per tappezzare i muri del salone centrale del Bonnefantenmuseum di Maastricht. Le stesse immagini si vedranno anche alla Biennale di Venezia. Il n. 7 di Colors (giugno 1994) è interamente dedicato alla malattia.
Annuncio di sensibilizzazione sull'Aids, 1993.

Nel 1994, a Treviso, Benetton inaugura Fabrica, il centro di ricerche sulla comunicazione ospitato nel magnifico complesso architettonico restaurato e ampliato da Tadao Ando. Né scuola, né agenzia né università, come si legge nel sito della sede, ma laboratorio di creatività applicata, culla di talenti aperta a giovani artisti di ogni disciplina e di ogni parte del mondo. Ma lo stesso anno Toscani spara un altro colpo di cannone, i cui effetti mettono davvero in cattiva luce la reputazione della ditta. Si tratta della T-shirt e dei pantaloni insanguinati del giovane miliziano croato Marinko Gagro, ucciso durante la guerra in Bosnia. Il padre del ragazzo protesta in un’intervista rilasciata a Die Woche, settimanale liberal di Amburgo. Dice che gli indumenti gli sono stati estorti con l’inganno e che credeva sarebbero serviti per una campagna non profit contro la guerra. In più, sostiene che la vistosa macchia di sangue sulla T-shirt è falsa. Gli accusati negano l’uno e l’altro addebito. Non manca, però, chi approva incondizionatamente l’idea: Amnesty International, per esempio. Un quotidiano di Sarajevo si attiva per far tappezzare la città con il manifesto incriminato.
Gli indumenti insanguinati di Marinko Gagro ucciso nella guerra in Bosnia, 1994.

Nel 1995 esce nella serie “United Colors” il nudo di Roberto Maurizio Coatti, più noto come Eva Robin’s, caso raro di intersessualità (donna dalla testa ai piedi, timbro vocale compreso, ma dotata di genitali maschili). Alla fine dell’anno Tibor Kalman lascia la redazione di Colors, che esce con un numero speciale senza parole. Gli succederà Alex Marashian.

Nel 1996 uno dei manifesti più belli della serie: il cavallo nero che monta una giumenta bianca. Sfondo limbo, animali scontornati, solo una striscia di sabbia bianca sotto gli zoccoli: impatto impressionante. Poi è la volta di tre cuori allineati sul solito sfondo bianco, sormontati dalle scritte WHITE BLACK YELLOW: un simbolo potente dell’umana uguaglianza, anche se per la foto sono stati utilizzati cuori di maiale. Uscito il 1° marzo 1996 per la giornata mondiale dell’antirazzismo, il manifesto suscita vivaci proteste e viene bollato come “il più razzista” degli annunci Benetton. La legge del contrappasso colpisce ancora: è un destino al quale la campagna non riesce, nemmeno con le migliori intenzioni, a sottrarsi. Per il World Food Summit che si tiene a Roma nel novembre 1996, Benetton opta per un manifesto in collaborazione con la FAO; l’immagine di Toscani, semplice e molto simbolica, è quella di un lungo cucchiaio di legno.
Per il World’s Anti-Racism Day, 1° marzo 1996.

Il 1998 è dedicato prevalentemente a una campagna sui diritti umani, in occasione del 50° anniversario della Dichiarazione universale firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 e promossa dalle Nazioni Unite perché avesse applicazione in tutti gli stati membri. Nessuna provocazione. United Colors con tante facce e citazioni testuali dal nobile documento. Gli assetati di polemiche e di scoop sono in pausa più o meno da un biennio. Non è improbabile che sia già incominciato il braccio di ferro tra Benetton, incline alla prudenza dopo le troppe bastonate subìte, e il suo dark side incarnato nella figura di Toscani. Ma l’imprenditore non sa che il peggio deve ancora venire. Il guaio scoppierà nel gennaio del 2000, con l’operazione “We on death row” (noi del braccio della morte).

Toscani sentenced to death


Dopo due anni di ricerche e gestazione, Toscani e Benetton varano un imponente progetto internazionale di sensibilizzazione contro la pena di morte. I veicoli di diffusione sono un supplemento editoriale di 96 pagine, un video, il website aziendale e una serie di manifesti e annunci-stampa targati “United Colors of Benetton”. Il servizio consiste in ritratti e interviste a ventisei detenuti nelle prigioni di sei stati americani, tutti condannati a morte in attesa di esecuzione. Il boato suscitato dalla campagna è aggravato da sospetti e fughe di notizie in merito a un banale obiettivo di marketing: incrementare la notorietà della marca negli USA. John Morganelli, procuratore distrettuale della contea di Northampton, Pennsylvania, propone il boicottaggio dei prodotti Benetton e minaccia di presentare non solo al parlamento del suo stato, ma anche al congresso federale, una risoluzione di condanna della campagna; nell’ambito di queste iniziative  attribuisce a Carlo Tunioli, vicepresidente della Benetton USA, un’ammissione pericolosa: «Non c’è alcuna correlazione fra questi tizi (i condannati, ndr) e i nostri pullover. In termini di strategia pubblicitaria, ciò che stiamo realmente facendo è costruire brand awareness.» Mark Major, portavoce di Benetton USA, precisa alla stampa che Tunioli non ha mai rilasciato la dichiarazione incriminata (The Morning Call, 16/02/2000).
Contro la pena capitale, 2000. L’America si arrabbia, il Missouri trascina l’azienda in tribunale e Sears boicotta i prodotti. Benetton liquida Toscani.

I familiari delle vittime (sono almeno 45 gli omicidi addebitati ai killer in questione) protestano per il tentativo di “umanizzare i carnefici”. Lo stato del Missouri si costituisce parte civile contro la Benetton, gli autori della campagna e il loro garante, il giurista Speedy Thomas H. Rice, per aver fornito ai responsabili del Potosi Correctional Center motivazioni fraudolente allo scopo di ottenere il permesso di contattare i detenuti (un progetto contro la pena di morte sottoscritto da Benetton, ma senza alcun accenno all’uso pubblicitario che ne sarebbe stato fatto). La società si difende rivendicando il diritto di sostenere una causa sociale, ma si scusa con i parenti delle vittime ed elargisce, a mo’ di indennizzo, una donazione di 50.000 dollari al Missouri Crime Victims Compensation Fund. La Sears, Roebuck and Co., una delle maggiori catene americane di grandi magazzini, rescinde il contratto di distribuzione stipulato con Benetton, punizione che all’azienda italiana costa la perdita di 400 preziosi punti vendita. Anche Dianne Clements, presidente di Justice for All – un gruppo di Houston che si batte per i diritti delle vittime di reati – promuove iniziative di boicottaggio: «Ciascuno ha il diritto di esprimere la propria opinione», dichiara, «ma una campagna pubblicitaria non è un dibattito sociale. Se lo fosse, ci sarebbe equilibrio tra le posizioni. In questo caso non c’entra la pena di morte, c’entrano i prodotti Benetton.»

Questa volta il danno è più tangibile e consistente di quelli che l’azienda ha subìto in passato a causa delle controversie scatenate dai suoi annunci. Talmente insopportabile che, ai ventisei “sentenced to death” immortalati – si fa per dire – da quelle foto e da quelle interviste, se ne aggiunge, metaforicamente, un ventisettesimo: Oliviero Toscani in persona. Condannato ad abbandonare per sempre l’azienda di Ponzano Veneto, il laboratorio Fabrica, la redazione di Colors (l’ultimo numero da lui diretto, il 38-39 di settembre 2000, è uno speciale su moda e antropologia; contiene, fra le altre, anche la foto di sette reclusi in pigiama a strisce nella prigione di Estrella, Phoenix, Arizona). Alla gestione di Colors si alternano, negli anni post-Toscani, creativi e artisti di Fabrica tra cui Renzo di Renzo, Richard Christiansen, Oliver Chanarin, Fernando Gutiérrez, Adam Broomberg, Stefan Ruiz, Kurt Andersen, Emily Oberman, Bonnie Siegler, Grégoire Basdevant, Lorenzo De Rita, Peng Yangjun, Chen Jiaojiao, Cosimo Bizzarri, Patrick Waterhouse, Scott Heinrich, Rose George, Erik Ravelo.


Un’epoca si chiude: quasi definitivamente. Nella pubblicità del rettangolo verde ritorna prepotentemente la moda, che Toscani e Kalman avevano estromesso dal proprio orizzonte; una moda colorata, elegante e futile, affidata a bravi fotografi e modelle glam, amplificata da pagine di social network in cui non si vedono mai né reietti né discariche né condom. Non che l’impegno sociale sparisca del tutto; la rivista Colors mantiene più o meno intatta la sua identità. Ma le nuove iniziative di pubblicità engagé procedono per conto loro, a prudente distanza dalla mainstream campaign e preferibilmente gestite in compartecipazione con organismi e istituzioni al di sopra di ogni dissenso. Gli argomenti e lo stile indulgono a buoni propositi universalmente accettabili: l’Anno internazionale del Volontariato (2001), il World Food Programme dell’ONU declinato in tutte le sue ramificazioni: diritto alla salute, all’istruzione, alla libertà, al lavoro, alla pace e alla speranza di futuro (2003); l’animalismo evocato da primi piani di scimmie in una serie fotografica di James Mollison (2004); il progetto di microcredito in Senegal di Birima, la società di credito cooperativo fondata dal cantante senegalese Youssou N’Dour, alla quale il Gruppo Benetton destina anche un solido sostegno economico (2008).
Una foto di James Mollison per la campagna Food for Life, 2003.

Non manca del tutto, comunque, la voglia di rinverdire (è il caso di dirlo) lo spirito di Oliviero Toscani e del suo istinto per le immagini forti. In uno degli annunci del World Food Programme campeggia il torso nudo di un africano fotografato da James Mollison; al posto della mano destra, evidentemente amputata, ha una protesi metallica che, dopo uno snodo, culmina in un cucchiaio. In una doppia pagina del 2008 si fronteggiano su sfondo bianco un monaco tibetano e un soldato cinese, raccolti in comune preghiera per le 70.000 vittime del terremoto che il 12 maggio ha devastato la provincia di Sichuan (credits: Erik Ravelo e Piero Martinello). Pubblicato sui quotidiani italiani e su Le Monde, a debita distanza di sicurezza dalla Repubblica Popolare Cinese, l’annuncio esce in concomitanza con le Olimpiadi di Pechino.

Nel periodo post-Toscani si registra anche qualche iniziativa pubblicitaria locale come Ants, un lavoro (2007) della Ogilvy & Mather di New Delhi, che coglie nel closeup di una cucitura su jeans l’allusione a una fila di formiche operose: la campagna esorta gli indiani a darsi da fare per contribuire allo sviluppo dell’economia nazionale. È un fake, invece, la campagna United Colors contro la violenza domestica, ascritta alla McCann-Erickson di Mumbai e circolante dal 2007 sul web, che espone ritratti di donne dallo sguardo triste, con ferite ed ematomi sul volto, in layout su sfondo bianco che riecheggiano lo stile a noi noto. I falsari sono Denzil Machado, art director, e Jatin Kampani, fotografo.
Nel 2011 si riaccendono le polemiche con la campagna “Unhate”. Suscitano incidenti diplomatici i baci proibiti della serie, come questo tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti d’America.

Ma torniamo a Treviso. Chi s’illudeva che, rimosso Toscani, sarebbero finiti i casini, deve ricredersi nel novembre 2011, quando – a dodici anni da “Sentenced to death” – scoppia la bomba “Unhate”. Che le campagne pacifiste facciano più scandalo delle guerre è un paradosso risaputo, specialmente se a promuoverle è ancora una volta Benetton e se si tirano in ballo, in un imbarazzante campionario di fotomontaggi osé, i leader del pianeta, ovviamente senza aver preventivamente interpellato i rispettivi uffici stampa. “Unhate”, gioco di parole polisemico che sta per non-odio, riecheggia la pronuncia di Unitede, con le due lettere iniziali in font diverso dalle altre, strizza l’occhio alle Nazioni Unite, è una galleria di baci sulla bocca tra coppie di antagonisti illustri: papa Benedetto XVI e Ahmed el Tayyeb, grande imam di Al Azhar, la più importante istituzione del mondo sunnita; Barack Obama e il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Hu Jintao; Angela Merkel e Nicolas Sarkozy; i capi di stato delle due Coree, Kim Jong-il (Nord) e Lee Myung-bak (Sud); Mahmud Abbas, presidente della Palestina, e Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano; ancora Obama e Hugo Chávez, presidente del Venezuela. Accreditata a Carlo Cavallone ed Erik Ravelo (direzione creativa), Robert Nakata e Paulo Martins (designer), la campagna di Fabrica serve al lancio della Unhate Foundation, nuova istituzione con cui il gruppo Benetton si propone di contrastare la cultura dell’odio attraverso una serie di ricerche e progetti concreti. L’intenzione sarà pure benemerita ma le immagini provocano, tra le altre, la protesta ufficiale del Vaticano e della Casa Bianca. Mentre ciò accade, la rete è pervasa da un mormorio più sommesso: la creative communitysi interroga, preoccupata o semplicemente morbosa, su un inquietante dilemma: la campagna è originale o copiata? Rispunta nei blog e nei social network il bacio del 1979, quello tra Leonid Brežnev, allora segretario generale del Pcus, ed Erich Honecker, presidente del consiglio di stato dell’ex Germania Est, nella celebre versione dell’artista russo Dmitrij Vrubel affrescata sul muro di Berlino. «Signore, aiutami a sopravvivere a questo amore letale», c’era scritto sul bacio dei due leader comunisti. Questione di lana caprina: non solo perché è la stessa Benetton a confermare l’icona di Vrubel come fonte ispiratrice, ma anche perché i problemi sollevati da Unhate, nel bene e nel male, sono di ben altra portata. (Ai cacciatori di analogie e fedeli lettori di Archive non sarà sfuggito un altro bacione, questa volta tra Churchill e Stalin, inventato da un’agenzia lituana per un annuncio intitolato «Capitalist quality meets communist price.»).

Maldestri tentativi di conclusione


28 anni di colori Benetton, centinaia di annunci sotto il naso per non contare i progetti d’azione, il magazine, la fondazione, l’attività sul web. Si può dare un giudizio complessivo su tutto questo? L’evidenza ci dice che esiste una solida unità concettuale a collegare le tessere del puzzle, anche se una parte di esse si distingue dalle altre per un “estremismo creativo” catalizzatore di polemiche. Ma se indubbiamente esagerate – e variamente criticabili – sono certe strade intraprese dalla missione “colori uniti”, non si può negare che il contrattacco degli oppositori sia stato e continui ad essere animato da una ferocia non sempre giustificata. L’accusa più iniqua sta nel fare di tutt’erba un fascio; sono in molti a condannare in blocco una case history che, per quanto mi riguarda, ritengo degna di analisi più attente e, lasciatemelo dire, più razionali (per fortuna non ne mancano di lucide, a cura di osservatori e accademici di vari paesi). L’acrimonia contro Benetton ha contagiato persino leggende dell’advertising come Jerry Della Femina, che al Wall Street Journal avrebbe dichiarato, forzando un po’ la consueta ironia: «Se la sentenza di morte fosse applicata a chi si rende colpevole di produrre pubblicità atrocemente volgare e inefficace, e di infliggerla alle masse, Oliviero Toscani, il sedicente genio della pubblicità Benetton, apparirebbe nei suoi stessi annunci pensati contro la pena capitale... Nella cella accanto, anche lui condannato a subire una iniezione letale di inchiostro rosso, ci sarebbe il suo complice, Luciano Benetton.» Della Femina sembra aver dimenticato l’headline che, da giovane, sperava di piazzare in una campagna di prodotti giapponesi importati negli States: «From those wonderful folks who gave you Pearl Harbor» (da quei fantastici tipetti che vi hanno dato Pearl Harbor), poi diventato il titolo di un suo libro molto divertente. Difficile immaginare uno schiaffo più bruciante del suo ai sentimenti del popolo americano; al confronto, i pungiglioni di Benetton fanno il solletico.

Abbiamo tenuto per ultimo il criterio di indagine più corposo e significativo, per lasciarlo alla libertà di ricerca e d’interpretazione di chi legge: stabilire, cioè, se il comportamento etico e sociale dell’azienda sia coerente o in contraddizione con le cause in cui tanto impegno ha profuso con la sua comunicazione. Se fosse irreprensibile, la Benetton andrebbe assolta con formula piena da tutte le scivolate morali che le sono state addebitate e condannata soltanto per le infrazioni alle leggi e al buonsenso (quelle, insomma, che a volte l’hanno trascinata in tribunale). Ma anche sul versante dei comportamenti fioccano accuse a catena, gran parte delle quali riferite a uno dei tarli più spietati della globalizzazione: l’outsourcing, con il suo portato di sfruttamento e cinismo. Stampa Alternativa ha pubblicato nel 2008 un pamphlet di Pericle Camuffo intitolato United Business of Benetton. Sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia. Il libro circola sul web con questa sinossi: «Se per “sviluppo sostenibile” si intende un percorso di crescita economica attento e rispettoso delle culture originarie, dell’ambiente in cui si attiva e in generale del tessuto politico, sociale e culturale preesistente, quello proposto dalla Benetton non lo è. Nella sua propagazione dal Veneto all’estremo sud del mondo, lo sviluppo Benetton si è dimostrato quasi sempre “insostenibile”. Ciò che emerge è la vera filosofia su cui è costruito tutto il suo impianto pubblicitario e mediatico. Dietro alla tenda dipinta con i colori dell’arcobaleno ci sono, infatti, storie di sfruttamento, violazione dei diritti umani, minacce e ricatti, povertà e corruzione, situazioni alla cui attenuazione l’azienda di Ponzano dice continuamente di voler contribuire, smentendosi poi con il clamore mediatico dei microcrediti africani, in realtà vere e proprie mance a fronte delle vendite planetarie di qualche altro milione di magliette.» Quella di Camuffo non è una denuncia isolata; la rete trabocca di accuse simili alla sua. E dura da vent’anni lo spinoso conflitto che oppone, nella Patagonia argentina, gli indigeni Mapuche al Gruppo Benetton, proprietario di 900.000 ettari acquisiti nel 1991 e colpevole, secondo le accuse, di sfollarli dalle terre sulle quali hanno sempre vissuto. Va anche detto, per dovere di cronaca, che Benetton ha vinto una causa contro il giornalista Riccardo Orizio per aver pubblicato, sul Corriere della Sera, un servizio sulla presenza di lavoro minorile alla Bermuda e alla Gorkem Spor Giyim, due fabbriche turche che producevano abbigliamento a marchi Benetton.

Non ho la veste né le conoscenze né le competenze per distribuire torti e ragioni. Sono semplicemente convinto che l’outsourcing è la piaga del nostro tempo e che il colonialismo è la piaga di sempre. Il mio pensiero e la mia indignazione coincidono con quelli che hanno guidato la penna di Naomi Klein quando ha scritto No logo. Ma un dubbio continua a rodermi: se le multinazionali sono ciniche e unicamente devote ai propri interessi, devono per forza fare – per coerenza – pubblicità inutile e idiota? Se c’è qualcosa di buono nella comunicazione Benetton è proprio il fatto che essa stessa fornisce, alle persone dotate di sensibilità, le chiavi per criticare i suoi eventuali soprusi. Non sono molte le global corporation di cui si possa dire altrettanto.

P.B.

(3. Fine)



Viewing all articles
Browse latest Browse all 910

Trending Articles