«Lou Reed era un uomo fascinoso, musicista inimitabile, inventore di immagini sonore con un gruppo di quattro amici e con loro aveva fatto una piccola band, creando un suono travolgente non definibile dalla terminologia usuale. Un giorno il titolo di un libro giallo trovato nella spazzatura ha imprigionato e ispirato Lou Reed per i prossimi anni futuri. Con questo titolo, Velvet Underground, e con questa musica che mai si era ascoltata prima è andato da Andy Warhol che stava cercando qualcuno alla Factory per musicare un suo film.» (Fernanda Pivano sul “Corriere della Sera”, 18 dicembre 2004).
The Velvet Underground & Nico
Album capolavoro del rock e dei suoi derivati, pubblicato dalla Verve e dalla mgmnel 1967 con la banana in copertina disegnata da Andy Warhol (accreditato, insieme a Tom Wilson, come produttore del disco; in realtà ne fu il patrocinatore e il promotore culturale).
Che quell’album strepitoso passasse nel 1967 quasi inosservato la dice lunga sulla carica innovativa di cui era portatore, sulla sua estraneità a qualsiasi compromesso mercantile, sulla qualità culturale del progetto. Il gruppo, formatosi a New York nel 1964, era composto da Lou Reed, cantante, chitarrista e compositore; il gallese John Cale, cesellatore di basso, organo e viola elettrica, con esperienze d’avanguardia al seguito di John Cage e LaMonte Young; il chitarrista Sterling Morrison e il batterista Maureen Tucker.
Verso la fine del ’65 l’eccentrico quartetto, che si esibisce nel circuito dei club alternativi senza nulla concedere al gusto corrente, attira l’attenzione di Warhol. L’artista prende i Velvet sotto la sua protezione e combina il loro lancio discografico; è lui a imporre, al gruppo riluttante, la presenza di Nico, sulfurea dark lady tedesca (vero nome Christa Paffgen), ex modella, voce dal registro gravissimo e inquietante; e realizza anche la copertina dell’LP con la famosa banana. Nico e la banana contribuiscono non poco a fare del disco l’opera di culto che è; ma già le canzoni di Reed e l’apporto di Cale bastano e avanzano per farne un evento intellettuale, tale da giustificare appieno la contiguità dei Velvet con il panorama della pop art e della scena underground di quegli anni.
Comincia anche su disco una delle più stravaganti, radicali e abrasive avventure del rock e della cultura underground, dominata in quegli anni dal talento ironico, visionario e multimediale di Warhol. L’album uscì in ritardo, nel 1967, non solo rispetto agli show dei Velvet nei club e nei teatri, ma anche alla sua stessa produzione (1966). Era troppo avanti per garantire sicurezza commerciale alla titubante casa discografica, e quando uscì mantenne le sue promesse: fu un fiasco quasi totale, come spesso avviene quando gli artisti in campo non concedono alcunché alla pigrizia delle masse. Il “quasi” è d’obbligo: perché se è vero che né questo, né i successivi pochi album del gruppo incontrarono i gusti del largo pubblico, l’influenza dei Velvet Underground sul rock e sui suoi movimenti avvenire (dark, punk…) è stata ed è tuttora incommensurabile.
L’incontro – all’inizio degli anni Sessanta – fra Lou Reed, aspirante poeta e rock singer di Long Island, e John Cale, violista del Galles volato negli usaper studiare musica seria con John Cage e LaMonte Young, fu la scintilla che avrebbe bruciato le radici popolari del rock per estrarne umori inediti, borghesi, decadenti, acidi, alienati. Fu casuale, e al tempo stesso naturale, che la poetica e provocatoria avanguardia propugnata dai Velvet si incrociasse con l’onnivora curiosità di Andy Warhol, il suo gusto per il paradosso, la sua voglia di trasferire tutti i segni, gli oggetti e le icone della cultura popolare e della cronaca in un unico, vasto, galvanizzante laboratorio di riciclaggio estetico. I Velvet Underground sarebbero stati ciò che furono anche senza di lui; Warhol vide in loro un ready made perfetto, la prova già pronta che anche il rock si potesse decontestualizzare, sradicare dai suoi ambienti e rituali tradizionali per diventare materia di happening, sfida intellettuale, teatro alternativo.
L’artista conosce i ragazzi attraverso un’amica comune, Barbara Rubin, e li incorpora – con la stessa vorace semplicità con cui si inghiotte un’ostrica – nella Factory e nel suo programma di show multimediali, l’Exploding Plastic Inevitable: esibizioni di musica dal vivo, danza, monologhi teatrali sullo sfondo di uno schermo sul quale vengono proiettati film underground dello stesso Warhol. Nel 1966 affitta per tutto il mese di aprile il Polsky Dom Narodny, ex centro comunitario polacco in St. Mark’s Place, e lo trasforma in una discoteca per allestirvi i suoi spettacoli.
Jonas Mekas, uno dei fondatori della FilmMakers’ Co-operative, scrive su “The Village Voice”: «Le performance d’aprile dei Velvet Underground al Dom hanno fornito la più violenta, clamorosa e dinamica piattaforma esplorativa per gli sviluppi dell’arte multimediale. La generazione contemporanea trova in loro la sua espressione più drammatica.»
Sunday Morning
Il primo album dei Velvet si apre con Sunday Morning, prodotta con profonda sensibilità da Tom Wilson: niente di scioccante come in I’m Waiting for the Man o Heroin, solo una penetrante, paranoica amarezza esistenziale dopo gli eccessi del sabato sera (la domenica è il giorno della settimana che ispira le canzoni più funeree, da Gloomy Sunday[1] a Je hais les dimanches[2] e a Sunday, Bloody Sunday[3]). E si dice infatti che Reed e Cale composero il motivo al pianoforte alle sei del mattino, nel loft di un amico, dopo essere stati in giro tutta la notte. In apertura, poche note acuminate che sembrano provenire da un carillon perduto. E poi la voce di Reed, giocata sul registro androgino, che si astrae in un’eco lontana, scivolando alla deriva sulla viola di Cale e gli altri suoni, sporchi, sommessi, compressi:
Sunday morning, praise the dawning,
It’s just a restless feeling by my side.
Early dawning, Sunday morning,
It’s just the wasted years so close behind.
Watch out, the world’s behind you,
There’s always someone around you who will call.
It’s nothing at all.
Sunday morning and I’m falling.
I’ve got a feeling I don’t want to know.
Early dawning, Sunday morning,
It’s all the streets you crossed, not so long ago…
«Domenica mattina, che l’alba sia lodata, / è solo un’inquietudine al mio fianco. / Primo albeggiare, domenica mattina, / solo gli anni sprecati che mi porto dietro. / Sta’ attento, il mondo è alle tue spalle, / c’è sempre qualcuno che ti può chiamare. / Non è niente. / Domenica mattina e io sto cadendo. / Ho una sensazione ma preferisco non sapere. / Primo albeggiare, domenica mattina, / sono tutte le strade che hai attraversato, non tanto tempo fa…»
All Tomorrow’s Parties
{Tutti i party di domani}, parole e musica di Lou Reed, 1965[4], usa. Una delle tre magnifiche canzoni interpretate da Nico con i Velvet Underground.
All Tomorrow’s Partiessembra essere il rovescio della favola di Cenerentola e del suo riscatto, mito che costituisce una delle spinte fondamentali della cultura statunitense. La protagonista, un ricalco di certi personaggi minori che formavano il variopinto codazzo mondano di Warhol, si trascina da un ricevimento all’altro indossando vecchi abiti rimediati non si sa dove; ma cosa farà e dove andrà a mezzanotte?
La scivolosa morbilità melodica e la stilizzazione lugubre e introversa di Nico e dei suoi accompagnatori evocano uno straziante senso di smarrimento. Come una vestale in trance, la bionda intrusa parla di stracci e di lacrime; le feste che annuncia non hanno alcunché di festoso, sono liquide e stralunate come sedute spiritiche. Quanto alla melodia, procede sul doppio binario della marcia militare scozzese (ti aspetti da un momento all’altro di sentir spuntare le cornamuse) e della marcia funebre. Ne risulta un mood tra l’epico e il viziato, aggravato dai suoni volutamente sporchi e metallici della registrazione.
Ciascuna nella sua tagliente singolarità, le canzoni dell’album sembrano influenzarsi e contagiarsi a vicenda, scambiandosi sintomi di una malattia notturna oscillanti tra delirio e disincanto. Così Heroin e I’m Waiting for the Man proiettano l’ombra dello spaccio sui misteriosi parties di domani, Venus in Furs fornisce un adeguato contrappunto di perversione, The Black Angel’s Death avvolge il tutto in un velo di tenebra.
Ai Velvet Underground, catalizzatori di molte evoluzioni del rock, si ispira un festival britannico intitolato “All Tomorrow’s Parties”. Alle prime edizioni hanno partecipato artisti alternativi come i Sonic Youth, i Tortoise, Eddie Vedder, la Jon Spencer Blues Explosion, Lydia Lunch, Aphex Twin, Stereolab, Television e Unwound. La canzone dà anche il titolo a un romanzo (1999) dello scrittore di fantascienza William Gibson, “profeta nero” del cyberpunk; è il terzo testo di una trilogia iniziata con Virtual Light ed è stato pubblicato in Italia da Mondadori col titolo American Acropolis.
I’m Waiting for the Man
{Sto aspettando l’uomo}, parole e musica di Lou Reed, 1965, usa. Rock e fiori del male in una Manhattan notturna, perversa e dolorosamente autentica. Lou Reed, già ambiguo e vicious come potevano esserlo gli angeli azzurri alla Marlene Dietrich, e in anticipo sui trasformisti alla David Bowie, è il white boy in cerca del pusher portoricano che spaccia eroina uptown, all’angolo della Centoventicinquesima con Lexington Avenue, ossia nel cuore più oscuro di East Harlem. Il ragazzo bianco, verosimilmente di buona famiglia, stringe già in mano i soldi contati, ventisei dollari, per la dose che lo farà sentire bene, feeling good, fino a domani, but that’s just some other time: domani è un altro giorno.
Il bozzetto di Reed è vividamente tracciato. Un linguaggio scarno e quotidiano, che rende con immediatezza giornalistica la scena ma anche i suoi risvolti psicologici: «Eccolo che arriva, vestito di nero da capo a piedi, / scarpette portoricane e cappello di paglia; / mai che si faccia trovare prima, sempre in ritardo: / la prima cosa che impari è che ti toccherà sempre aspettare.» La melodia è tipica del rock, non molto diversa da tante dei Rolling Stones; ma la macchina ritmica fornisce suoni asprigni, aguzzi, elementari, sporchi, come si conviene alla normalità, alla povertà dell’episodio – narrato senza falsi moralismi, ma anche senza indulgenze né compiacimenti che lo rendano più grande, illusorio o drammatico di quello che è.
I Velvet Underground introdussero nell’estetica del rock un gelido disincanto, una raffinata miscela di veleni intellettuali, un tipo di trasgressione molto lucido; nelle “cronache” e nelle sensazioni di Reed si riflette un mondo stilizzato ma riconoscibile, poetico ma vero, talvolta dolce in superficie (come in Sunday Morning) ma ferito nel profondo. I’m Waiting for the Man, cosí come l’intera anche se breve esperienza dei Velvet, anticipa larga parte del rock successivo, delle sue sonorità, della sua iconografia e dei suoi temi ricorrenti. Da Bowie ai Clash, dai Cure ai Sonic Youth, saranno in molti a ereditare qualcosa da quella lezione.
Perfect Day
{Giorno perfetto}, parole e musica di Lou Reed, 1972, usa. Dall’album Transformer di Lou Reed, prodotto da David Bowie e Mick Ronson. Reed si accompagna al piano, l’arrangiamento orchestrale è di Ronson.
Occhio a Lou Reed quando, messa da parte la maschera del ragazzaccio e con l’aria più inoffensiva del mondo, canta dolci domeniche di sole e giorni perfetti: è proprio allora che sta versando acido muriatico nell’aranciata. Questa, per esempio, sembra il concentrato delle più tenere ballate romantiche, a giudicare dai versi. Una bella giornata insieme alla ragazza del cuore: due passi nel parco, sangria per aperitivo, un sorriso agli animali dello zoo, un film, poi a casa. Ma a incrinare il primaverile quadretto da San Valentino newyorkese ecco il fiato grave di una melodia da requiem, il pianoforte da ultimo appuntamento (come in Last Date di Floyd Cramer, 1960), l’impennarsi di un crescendo che promette un lieto fine più fittizio che consolante, e soprattutto la voce di Reed, ora intimistica e pensosa, ora scolpita come un’eco, in balia di nostalgie che sembrano sanguinare.
I bene informati dicono che si tratta di una canzone d’amore dedicata a Bettye Kronstadt, futura moglie dell’artista; ma si lasciano andare anche a qualche illazione su incertezze sessuali e problemi con l’eroina, perché la serenità di Perfect Day non li convince fino in fondo. Altri, meno sospettosi, trovano il brano di un candore commovente, rintracciando nell’avvolgente melodia e nel sentimentalismo delle liriche la quintessenza dell’amore universale: tanto da inserirlo, nel 1997, nella campagna benefica Children in Need, come si fa con le canzoni edificanti.
Ma il fascino di Perfect Day è genialmente ambiguo. Solare a parole, e desolata, cupa, forse sarcastica nel profondo: più che una canzone d’amore sembra uno struggente contrappunto polemico all’America del sorriso e del benessere, un coltello d’argento affondato nell’oleografia di una civiltà troppo rosea per essere vera. Questo giorno perfetto era stato, due anni prima, il titolo di un romanzo di Ira Levin, non meno inquietante de Il mondo nuovo di Huxley o del 1984 di Orwell. Levin immagina un mondo futuro unificato, rappacificato e governato da un supercomputer. Massicce dosi di tranquillanti garantiscono l’obbedienza di ciascun individuo a rigide regole di comportamento. La minima deviazione, se incontrollata, potrebbe far crollare rovinosamente la complessa architettura di siffatta stabilizzazione sociale.
L’utopia di un mondo senza conflitti e senza squilibri, ma non per questo esente da risvolti raccapriccianti, è stata spesso utilizzata come metafora per criticare le distorsioni del mondo reale e, in particolare, dei sistemi politici, culturali o mediatici, quando l’abuso di potere ne spinge i principii all’estremo. Un tema che le grandi canzoni – come Perfect Day – sfiorano solo di striscio e talvolta inconsapevolmente, ma che permea buona parte della cultura del dissenso, anche nella musica popolare.
Walk on the Wild Side
{Fatti un giro sulla cattiva strada}, parole e musica di Lou Reed, 1972, usa. Lanciata da Reed con l’album Transformer, prodotto da David Bowie e Mick Ronson. Cast: Reed e Ronson (chitarre), Klaus Voorman e Herbie Flowers (bassi elettrici, contrabbasso), John Halzey, Barry DeSouza, Ritchie Dharma (batteria).
Manifesto dei cattivi propositi, con cinque fulminei ritratti di sbandati felici di trasgredire alle regole e “farsi un giro nella parte selvaggia” del proprio temperamento. Così c’è un tale Holly di Miami che attraversa gli Stati Uniti facendo l’autostop; strada facendo si depila le gambe e le sopracciglia e diventa una “lei”. Anche Candy viene da lontano; si stabilisce su un’isola e decide di fare la puttana. C’è pure un Little Joe che rimorchia clienti qua e là, ma almeno si fa pagare come si deve. Storie di ordinaria prostituzione maschile e femminile, nei motel e on the road; talvolta a qualcuno crollano i nervi, «sta proprio flippando», ma c’è sempre qualche amico a portata di mano con una scorta di Valium.
L’America di Reed e l’Europa di Bowie trovano un solido punto d’incontro nel gusto della provocazione e nella celebrazione del polimorfismo sessuale. Sesso, droga e rock’n’roll con la teatralità decadente e un po’ mortuaria del vecchio cabaret berlinese (del resto si intitolerà Berlin l’album successivo di Lou Reed). Come altre creature di Reed, di Bowie e di molti loro seguaci, Walk on the Wild Side emana un fascino discreto e perverso, ombroso come la voce di Lou.
P.B.
[1] Versione angloamericana di Szomorú Vasárnap {Triste domenica}, nota come «la canzone dei suicidi»; parole di László Javór, musica di Rezsö Seress, 1933, Ungheria. Zigeunerromanze (romanza tzigana), talvolta sottotitolata «adagio triste», eseguita abitualmente al piano da Seress, il compositore, al Kispipa Vendéglö di Budapest, ristorante nel quartiere bohémien della città, frequentato anche da artisti stranieri che divulgarono poi il motivo in Europa e nelle Americhe.
[2]{Odio le domeniche}, di Charles Aznavour e Florence Véran, 1950, Francia. Lanciata da Juliette Gréco.
[3]{Domenica, maledetta domenica}, parole e musica degli U2, 1982, Irlanda.
[4]Nel 1995 esce una raccolta di demo dei Velvet; vi è compresa una versione-provino di All Tomorrow’s Parties che precede di due anni l’incisione ufficiale.