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Il libro perpetuo - I

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Il libro perpetuo è un libro che contiene tutti gli altri e che non ha mai fine. Continua, per cosí dire, ad alimentarsi e a crescere come un oceano moltiplicato da un cielo di specchi. È piú grande delle biblioteche che dovrebbero ospitarlo, perché le contiene tutte; comprende anche la Biblioteca di Babele di Borges, cosí come il resto dell’opera di Borges, ma non ha niente di enigmatico o di astratto. La sua natura, per quanto sconfinata e sconcertante possa sembrare, non è surreale o metafisica; le sue infinite valenze svariano dalla saggezza alla follia, dalla commedia alla tragedia, dalla banalità all’illuminazione, ma si tratta soltanto di un catalogo di idee umane, smisurato quanto può esserlo la somma di tutte le enciclopedie passate, presenti e in cantiere. Va però precisato che il libro perpetuo (tale perché la sua costruzione non s’interrompe mai) non è un’enciclopedia, ma piuttosto un romanzo, anzi il romanzo dei romanzi, un’opera collettiva che assorbe tutte le narrazioni concepite dagli esseri umani e rese disponibili alla fruizione di altri esseri umani. Il termine romanzo va qui inteso non nelle accezioni limitate che siamo soliti attribuirgli (opera in prosa, narrativa di finzione): perpetuo e onnivoro, il nostro libro aggancia e trattiene anche saggi, manuali, studi di storia, geografia, matematica, antropologia, astrofisica, psicanalisi, economia, medicina etc. Una enorme quantità di output dell’immaginazione, indipendentemente dallo spessore qualitativo dei singoli pezzi, concorre all’allestimento di una dimensione parallela, nella quale un po’ ci riconosciamo e un po’ ci perdiamo. 

Ciò che distingue il libro perpetuo dalle enciclopedie è la sua vocazione alla ricerca di correlazioni fra una voce e l’altra, la sua ossessione per il montaggio e per un incessante ping pong giocato tra palline eterogenee, con racchette eterogenee, su tavoli eterogenei. Mentre i repertori sistematici (enciclopedie, dizionari, elenchi telefonici etc.) si sforzano di immobilizzare e irreggimentare, sotto la pressione dell’ordine alfabetico e del mito dell’oggettività, il libero scalpitare delle nozioni e delle idee e la loro inclinazione all’incontro, allo scontro, all’attrazione o repulsione reciproca, il libro perpetuo è un organismo ermafrodita, provvisto di una miriade di tentacoli che si cercano e si attorcigliano in milioni di modi fra loro. Il libro perpetuo si potrebbe definire come una catena potenzialmente infinita di sinossi editoriali organizzate in sequenze variabili ad alto tasso di casualità. La sua esistenza, caratterizzata dalla pluralità e varietà degli ingredienti (contenuti, visioni, stereotipi…) e da un incessante sviluppo, concede status autoriale e diritto di regia anche ad agenti esterni quali il Lettore e, tema di massima attualità, il traffico algoritmico globale. Il Lettore – umano o simulato che sia – può permettersi una libertà di manipolazione pari o superiore alla libertà dei singoli Autori: può creare tutte le sequenze che vuole, in concorrenza creativa con tutti gli autori del mondo; abilitare modalità normative e legittimare percorsi narrativi di suo gusto; influenzare l’evoluzione del pensiero senza la necessità di coniare idee originali al 100%; stabilire, alla lunga, il primato del database sull’arbitrio di pochi. Detto in modo piú semplice, con la schietta descrizione della normativa che ho scelto per me: il libro perpetuo è la somma di tutti i testi riportati, di solito, nei risvolti di copertina e/o nei siti degli editori e in quelli del commercio elettronico; gli anelli della sequenza sono parole-chiave che ciascuna sinossi deve condividere con la precedente o la successiva. Cosí composta, una sequenza di sinossi tende ad acquisire e rafforzare un proprio senso man mano che la catena si prolunga. Fino a diventare, all’infinito, il debordante «romanzo di romanzi» che abbiamo ipotizzato all’inizio. Naturalmente si tratta di un teorema indimostrato; io ci ho provato, ma solo empiricamente e impiegando, per la concatenazione che qui propongo, un numero limitato di anelli. I cinquanta testi che seguono, di autori vari, sono pescati da alcuni database e interconnessi tramite altrettante parole-chiave: 

Il gioco, che presenta qualche analogia con il «Bersaglio» della Settimana Enigmistica ma con molte meno regole da rispettare, sembra voler rivelare, con crescente insistenza, qualcosa di me.  



Romanzo di romanzi. Segmento narrativo composto da 50 parole-chiave e 50 testi autonomi di autori vari, per un totale di 10.723 parole e 69.072 caratteri (spazi inclusi). Prima parte: dal Miracolo alla Musica.




Bandito dalla comunità ebraica per eresia all’età di ventitré anni, Baruch Spinoza decide di dedicare la sua vita alla filosofia. Il suo obiettivo? Scoprire un vero bene che gli «procurerebbe il godimento di una gioia suprema e continua per l’eternità». Nei vent’anni successivi, Spinoza costruirà un’opera straordinaria. Tanto che viene da chiedersi: come ha fatto quest’uomo, in pieno diciassettesimo secolo, a essere il precursore dell’Illuminismo e delle nostre democrazie moderne? Il pioniere di una lettura storica e critica della Bibbia? Il fondatore della psicologia della profondità? Il promotore della filologia, della sociologia e dell’etologia? E, soprattutto, come ha fatto a inventare una filosofia fondata sul desiderio e sulla gioia, capace di sconvolgere la tradizionale concezione di Dio, della morale e della felicità? Appare chiaro, insomma, che Spinoza è per molti aspetti non solo molto in anticipo sul suo tempo, ma anche sul nostro. È quello che Frédéric Lenoir chiama il «miracolo Spinoza». L’autore racconta la vita edificante di quello che Goethe, Nietzsche, Freud e Einstein consideravano il piú grande dei filosofi. Rende accessibile il suo pensiero e ci consegna un trattato filosofico di emancipazione che avvince come un thriller, tanto vien voglia di conoscere la tappa successiva e raggiungere la gioia suprema.



L’arte della gioia è un libro postumo: giaceva da vent’anni abbandonato in una cassapanca e, dopo essere stato rifiutato da molti editori, venne stampato in pochi esemplari da Stampa Alternativa nel 1998. Ma soltanto quando uscí in Francia ricevette il giusto riconoscimento. Nel romanzo tutto ruota intorno alla figura di Modesta: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Una donna siciliana in cui si fondono carnalità e intelletto. Modesta nasce in una casa povera ma fin dall’inizio è consapevole di essere destinata a una vita che va oltre i confini del suo villaggio. Ancora ragazzina è mandata in un convento e successivamente in una casa di nobili dove, grazie al suo talento e alla sua intelligenza, riesce a convertirsi in aristocratica attraverso un matrimonio di convenienza. Tutto ciò senza smettere di sedurre uomini e donne di ogni tipo. Amica generosa, madre affettuosa, amante sensuale: Modesta è una donna capace di scombinare ogni regola del gioco pur di godere del vero piacere, sfidando la cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva in cui vive. L’arte della gioia è l’opera scandalo di una scrittrice. È un’autobiografia immaginaria. È un romanzo d’avventura. È un romanzo di formazione. Ed è anche un romanzo erotico, e politico, e psicologico. Insomma, è un romanzo indefinibile, che conquista e sconvolge.



Considerato un capolavoro del neorealismo italiano, Il compagno è uno dei romanzi piú intensi di Pavese, una storia di formazione con un protagonista giovane, senza istruzione e nullafacente. Gli amici lo chiamano Pablo, perché suona la chitarra. Vive a Torino, dov’è nato, ma soffre il disagio esistenziale di un’epoca, tra la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale, in cui il consenso entusiasta del popolo per il regime fascista inizia a creparsi. Abbandonata Torino dopo una delusione amorosa, il «compagno» Pablo arriva a Roma, dove entra attivamente a far parte del movimento antifascista e inizia a frequentare Gina, che lo seguirà a Torino quando deciderà di rientrare nella sua città natale. Tra le opere meno celebrate ma che senz’altro piú hanno contribuito a fondare il mito di Pavese, Il compagno racconta la cospirazione politica e il mondo operaio senza retorica e incanto, consegnandoci un testo denso di tutte le aspettative del dopoguerra e una narrazione positiva della relazione tra uomo e donna che non troverà piú spazio nelle altre opere dell’autore.



«Amiamo la tua pace, non la tua maschera. | Non è bello il tuo volto di guerriero. | Sei bella e immensa, o Nord America! | Vieni da umile culla, come una lavandaia, lungo i tuoi fiumi, bianca. | Radicata, incompresa, | la dolcezza è la tua pace di favo. | Amiamo i tuoi uomini dalle mani | rosse del fango dell’Oregon, | il tuo bambino negro | che ti portò la sua musica, nata | nel paese dell’avorio.» (Pablo Neruda)



Nell’ottobre del 1973, per esprimere il suo dissenso nei confronti di Perón appena tornato al potere, Borges abbandona l’incarico di direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires; contemporaneamente le condizioni di salute di sua madre, Leonor, cominciano a declinare in maniera inesorabile: morirà nel 1975, dopo una lunga agonia. A questo arco temporale (1972-1975, tranne uno risalente al 1970) appartengono i trentasei testi poetici radunati in La rosa profonda, sui quali, non a caso, il senso della fatalità e di un destino «di brevi gioie e lunghe sofferenze» – strumento di un Altro imperscrutabile – sembra gettare un’ombra lunga: «Le pedine d’avorio sono estranee / all’astratta scacchiera, come la mano / che le muove». I sogni appaiono ormai incubi giunti da «un passato di mito e di caligine», gli specchi sono malefici che osano accrescere la somma delle cose che siamo – né offre scampo la cecità –, e l’oblio minaccia di trasformare il passato in una soffitta stipata di arnesi inutili. L’unica possibile memoria, memoria ubiqua, è la poesia, capace di restituire alle parole comuni la «magia che ebbero / quando Thor era nume e strepito, / tuono e preghiera», di serbare intatte le antiche battaglie di Gram, Durendal, Joyeuse, Excalibur, di creare la realtà, di dire meglio di noi stessi ciò che siamo. Durano nel tempo, del resto, «solo le cose / che non furono del tempo».



Tra i grandi della filosofia del Novecento Heidegger è stato probabilmente colui che con maggiore insistenza ci ha invitato a riflettere sul tempo, questa entità ovvia ed enigmatica insieme. Nel breve, denso testo qui presentato, che risale al 1924 ma che apparve postumo nel 1989, egli analizza il fenomeno del tempo riconducendolo all’esistenza umana, nella sua finitudine e nel carattere transeunte che per essenza la costituisce. Ha qui origine la problematica di Essere e tempo, il libro del 1927 che rese celebre il suo giovane autore. E noi abbiamo la possibilità di osservare il formarsi dell’originale terminologia heideggeriana e lo svilupparsi dell’intuizione che condurrà all’«ermeneutica della fatticità» o «analitica dell’esistenza», la cui tesi fondamentale è questa: la temporalità è l’essenza stessa della vita umana. Meglio che attraverso prolissi svolgimenti concettuali, tale intuizione può essere illustrata con una nota immagine di Borges: «Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco».



Primo romanzo di una mai realizzata trilogia del Melagrano, Il fuoco fu pubblicato con grande successo nel 1900. Il mito del Superuomo vi trova finalmente la sua piú compiuta espressione: Stelio Effrena, il Superuomo-artista, cosciente dei suoi diritti di individuo eccezionale, si vede riconosciuto come tale anche dagli uomini comuni, a lui subordinati per procurargli piacere e permettergli di creare un’opera d’arte superiore. A questo tema dell’ardore creativo e della potenza distruttrice si intrecciano poi i motivi voluttuosi e malinconici di Venezia e della Foscarina, personaggio che adombra la Duse, in un contrasto che accentua il fascino di un’opera che Henry James acutamente definí «splendida accumulazione di materiali».



Una Venezia decadente e soffocante al volgere del secolo, un cupo palazzo nobiliare in rovina, due donne che vi abitano quasi segregate, un plico di lettere dal valore inestimabile, un critico disposto a tutto pur di averle. Il carteggio Aspern è l’inquietante capolavoro in cui Henry James esprime al massimo la maestria di autore del non detto e del mistero psicologico: imprigiona il lettore, senza che questi se ne accorga, nel circolo vizioso del narratore unico, il cui punto di vista sulla vicenda narrata – ossessioni, paure e desideri compresi – diventa il solo possibile.



Franz Kafka e Max Brod si conobbero, non ancora ventenni, nel 1902. Da quel primo incontro nacque un’amicizia che durò fino alla morte di Kafka nel 1924. Fu un rapporto asimmetrico: da un lato un intellettuale – Brod – che andava riscuotendo un crescente successo fino ad apparire agli occhi dei suoi contemporanei una figura di prima grandezza nella cultura praghese di lingua tedesca, dall’altro uno scrittore che viveva con un misto di vergogna e orgogliosa consapevolezza il proprio straordinario talento («Io sono incomprensibile a Max» ha scritto Kafka, «e lí dove gli risulto comprensibile, si sbaglia»). Fu, malgrado questo, un rapporto decisivo per la vita e l’esistenza postuma di entrambi. Senza Kafka, il nome di Brod sarebbe oggi noto solo a pochi specialisti. Senza Brod, l’opera di Kafka ci sarebbe giunta dimezzata: fu infatti lui a tradire, con provvida infedeltà, le volontà testamentarie dell’amico, che gli aveva chiesto di distruggere tutte le sue carte. Le lettere qui raccolte insieme per la prima volta non soltanto documentano con insolita vivezza questa amicizia, ma forniscono anche una chiave preziosa per l’opera e per la biografia di uno dei massimi scrittori del XX secolo. La vita di Kafka non ci appare qui, secondo uno stereotipo che lo stesso Brod ha contribuito a diffondere, come quella di un santo, ma sotto il segno dell’ironia e della leggerezza. In un fitto intreccio di confidenze, aneddoti, riflessioni, Kafka condivide con Brod ogni aspetto della sua esistenza, dalla composizione dei romanzi fino alle sue tormentate storie d’amore. Nelle reciproche incomprensioni, nelle differenze del modo di guardare alla vita e alla scrittura, la disparità fra i due autori affiora di continuo, tanto che davvero potrebbe sembrare, come osservò una volta Walter Benjamin, che Kafka abbia voluto porre con questa amicizia un punto di domanda accanto alla sua vita.



Testimonianza di una grande amicizia, «la piú grande amicizia del secolo», Mio sodalizio con De Pisis è un libro di memorie, scritto con il tono e il ritmo disordinato della tenerezza. Comisso racconta la vita di un artista e amico, getta lo sguardo ai ricordi degli incontri quando insieme, «divini ragazzi», attraversavano Roma e Parigi alla ricerca di nuove ebbrezze e piaceri; e sempre con lo stupore del primo incontro di fronte alla spregiudicatezza ingenua di De Pisis nell’inventarsi e godere «di quella selvaggia e satanica libertà». Il racconto inizia con gli anni degli incontri a Roma, quando De Pisis comincia a dipingere per giustificare come studio l’alcova dove invita i ragazzi; e attraversa gli anni di Parigi, «le inaudite meraviglie» gustate insieme con il successo artistico e mondano: «Tutta la città sembrava creata per lui, per la sua libertà e il suo gusto di pittore… La sua mano si era fatta libera e audace alla pari con la sua vita». Sono gli anni migliori per De Pisis e per la loro amicizia. Con la sua incantevole scioltezza verbale, Comisso compone un racconto che ha lo stile della pittura di De Pisis, leggero, distratto e goloso, come ha scritto Parise, senza la minima tensione o forzatura, nello stesso italiano dolce e luminoso di Delfini, Penna e dello stesso Parise. E questa stessa dolcezza, che è poi tenerezza per la vita, lo assiste anche nel racconto degli ultimi tragici anni dell’amico, segnati dalla malattia e dalla reclusione in clinica: «nel corridoio i nostri passi andavano concordi come quando si andava prepotenti e felici per le strade di Parigi e Cortina»; e giunge ad accoglierci tutti nel pensiero finale: «noi siamo soltanto magnifiche onde in attesa sempre di disfarci nel crollo».



La Sorbona, Les Deux Magots, il Café de Flore, l’Hôtel La Louisiane: sono luoghi avvolti da un alone leggendario, come tutta l’area di Parigi in cui sorgono, la mitica Rive gauche. Qui, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, artisti e intellettuali straordinari hanno creato, combattuto, amato, vissuto; hanno assistito agli orrori della guerra e partecipato con entusiasmo alla rinascita della città. Dall’esistenzialismo al teatro dell’assurdo, dal jazz alle chansons, fino alla ricerca di una terza via in politica e al femminismo militante: gustoso e arguto, come lo ha definito Julian Barnes, Rive gauche è un viaggio letterario al cuore di un’epoca eccezionale attraverso le vite di chi l’ha resa indimenticabile.



Aut-Aut, testo chiave dell’esistenzialismo, pubblicato per la prima volta nel 1843, è anche l’opera in cui il pensiero di Søren Kierkegaard raggiunge il suo apice. La contrapposizione fra vita estetica e vita etica, il passaggio dall’una all’altra attraverso l’esperienza della disperazione e dell’angoscia, la scelta come fardello esistenziale, il compito della realizzazione di sé in quanto individui: sono questi i temi principali, proposti da Kierkegaard con un vigore e una lucidità che ancora oggi colpiscono il lettore per la loro forza e urgente attualità.



Dopo questo libro, e dopo il film che ne ricavò John Huston, l’immagine «giungla d’asfalto» è entrata nel linguaggio di tutti i giorni: il misto di ansia e disperazione prodotto dell’homo homini lupus delle metropoli convulse. E ansia e disperazione dominano questo noir classico. Riescono a filtrare, pur dal modo antisentimentale con cui il racconto intende presentare un caso di vita autentica criminale, pur dalla cupa obiettività che fanno di Giungla d’asfalto il prototipo di diritto dei romanzi criminali a base sociologica, per i quali il delitto è il risultato inevitabile di condizioni di vita miserabili o disgregate.



Torno presto presenta (presenta, cercando nella scrittura di investire, al modo di una pellicola, piú l’occhio, la vista) la stessa storia di un omicidio bieco per motivi sessuali, vissuta e narrata dai punti di vista differenti dei tre soggetti coinvolti nella vicenda: la vittima, il criminale, la polizia. Una tecnica di narrazione seguita anche dal regista Kurosawa negli stessi anni Cinquanta, ma in un clima di riflessione sulla purezza offesa, sul delitto e sulla attesa di giustizia. E si può credere che nel romanzo di Barlow questa triplicità di piani intenda non tanto inscenare l’intreccio di sogno e veglia della realtà (com’era nel film di Kurosawa, e in tante simili scelte narrative), quanto l’intrecciarsi e il complicarsi di differenti universi morali: il bene, il male, l’indifferenza. La giovane Olwen, sana e bella ragazza della provincia gallese, racconta la delicatezza dei primi falsi amori, un amore vero spezzato dagli eventi, il lavoro in città, la vita che progressivamente la prende, sino all’incontro con l’impostura, l’illusione, il delitto; sullo sfondo la guerra mondiale come palestra di buoni sentimenti, di onore e dedizione. L’assassino piú che raccontare introduce alla sua piccola ideologia superomistica e sprezzante, a un dongiovannismo che non ha niente di vitale ed è intriso d’odio per la diversità, per la donna, che è sete di dominio e annullamento dell’altro. E infine il racconto dell’inchiesta di polizia, occhio del mondo che cerca, nelle ragioni e nelle circostanze del delitto, come possano incontrarsi e confondersi vie umane tanto divergenti.



Il 15 novembre 1959, nella cittadina di Holcomb, in Kansas, un proprietario terriero, sua moglie e i loro due figli vengono trovati brutalmente assassinati: sangue ovunque, cavi telefonici tagliati e solo pochi dollari rubati. A capo dell’inchiesta c’è l’agente Alvin Dewey, ma tutto ciò che ha sono due impronte, quattro corpi e molte domande. Truman Capote si reca sul luogo dell’omicidio con la sua amica d’infanzia, la scrittrice Harper Lee, e, mentre ricostruisce l’accaduto, le indagini che portano alla cattura, il processo e infine l’esecuzione dei colpevoli Perry Smith e Dick Hickock, esplora le circostanze di questo terribile crimine e l’effetto che ha avuto sulle persone coinvolte, scavando nella natura piú profonda della violenza americana. Non appena il reportage viene pubblicato, prima a puntate sul New Yorker nel 1965 e in volume l’anno successivo, Truman Capote diventa una vera celebrità e le vendite si impennano, cosí come gli inviti ai party piú esclusivi e ai salotti televisivi. Ancora oggi, A sangue freddo viene considerato da molti il libro che ha dato origine a un nuovo genere letterario, un’opera rivoluzionaria e affascinante, una combinazione unica di abilità giornalistica e potere immaginativo.



«L’uomo non è diventato meno crudele col passare di quella cosa illusoria che si chiama tempo, anche se in quasi tutte le parti del mondo è diventato piú ipocrita di quello che era»: cosí leggiamo in margine a questo pamphlet di pura vena swiftiana, del quale si può dire con tutta tranquillità che è agghiacciante. Fa parte essenziale dell’ipocrisia moderna spostare il dibattito sulla pena di morte verso alte questioni di principio, senza prima accertare che cosa di fatto sia un’esecuzione capitale. E proprio questo deplora Duff, col suo magistrale sarcasmo. Se, come argomentano i suoi difensori, la pena di morte ha una funzione dissuasiva, perché rendere quasi clandestine le esecuzioni capitali e non farne invece «il piú grande spettacolo del mondo»? All’alto valore pedagogico si aggiungerebbe quel tocco sanguinario che ha sempre attratto il grande pubblico. Oggi invece l’impiccagione – anche per il suo aspetto di art pour l’art, che tende a renderla una manifestazione elitaria – continua a essere apprezzata soltanto da sceriffi, guardie carcerarie e rappresentanti del clero. A questo malcostume Duff vuole ovviare divulgando i fatti della cerimonia – a cominciare dalle atroci modalità della lenta morte per strangolamento che in genere sopravviene in questi casi, invece della piú celere e «pulita» morte per slogamento dell’osso del collo, che è la massima aspirazione nell’arte del boia. Duff è minuzioso e implacabile nei particolari: egli vuole davvero che un piú largo pubblico possa partecipare degli orrori finora riservati a pochi. Alla fine egli ci condurrà a constatare che il patibolo è «l’unico edificio politico che non può essere spazzato via nemmeno dalla piú illuminata rivoluzione». Scrisse Norman Douglas: «Se ne avessi il potere, vorrei che su ogni tavolino di Londra, per la prima colazione, ci fosse una copia di questo libro.»



Inghilterra, 1905. C’è molto di scandaloso, nella relazione tra il diciannovenne Sebastian, duca di Chevron, e Lady Sylvia, che di anni ne ha quaranta ed è la moglie del potente Lord Roehampton. Ma, nell’universo dorato dell’aristocrazia inglese, tutto è ammesso, basta che non sia di dominio pubblico, basta che rimanga dietro il muro di seta e piume, di ville e castelli, di ricevimenti e dinner party. Sempre piú consapevole di vivere in una gabbia dorata, Sebastian è inquieto e l’incontro con Leonard Anquetil, audace esploratore del Polo Nord e «spirito libero», gli fa improvvisamente immaginare una vita diversa, libera dall’ipocrisia e dalle soffocanti convenzioni della società cui appartiene. Una vita che attira anche la sorella di Sebastian, Viola, «moderna» e spregiudicata, almeno nell’animo. Ma allora, alla fine, chi è la vera signora scostumata? La bellissima Sylvia, leggera, egocentrica, capricciosa, «creatura d’impudente vanità», che però rinnega il suo amore? Oppure è Viola, che almeno prova a rifiutare il suo passato e la sua famiglia, per costruire una vita interamente sua?



Nel 1517 Ariosto decide di non seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este – cui aveva dedicato l’Orlando furioso – ed elenca i motivi del rifiuto componendo la prima Satira. Nel corso di otto anni ne scrive altre sei. Si tratta di sfoghi autobiografici in rima, salaci, in cui sono concessi la volgarità e lo scherzo. Ariosto critica le vanità della società di corte, si interroga su questioni pratiche, come l’opportunità di prender moglie o l’educazione dei figli, e ci regala squarci comici di ineguagliabile densità poetica. Nell’introduzione a questa nuova edizione delle Satire, Ermanno Cavazzoni ci restituisce la loro forza autentica; le sveste di accademismi, filologismi e formalismi, liberando il testo nudo e crudo, la sua comicità schietta, la vitalità spontanea, l’ironia pepata. Ci racconta un Rinascimento diverso: un carnevale dei sensi, in cui papi e cardinali si dedicano alla crapula anziché agli uffici della religione e altezzosi umanisti si rivelano degli sporcaccioni. Si capisce dunque perché furono pubblicate solo dopo la morte del poeta. Oggi, dopo cinquecento anni, resta immutato il piacere della lettura. 



«Lo stordimento, la freschezza, il dolore, la pietà, la forza, lo stupore, la follia, la comicità, l’incanto, l’esagerazione, la tristezza, il desiderio, la vergogna, la sfrontatezza, l’amore, la paura, l’ossessione e la devozione della sua scrittura: ormoni, una straordinaria carica ormonale. Ecco il segreto della sua eterna giovinezza di romanziere; della giovinezza Fante che è riuscito ad individuare il fungo magico, metabolizzandolo nella scrittura, ha saputo pilotare gli ormoni nelle parole. Ha disegnato un’America trasfigurata dalla causa della giovinezza, non dai suoi effetti: che cosa grandiosa.» (Dall’introduzione di Sandro Veronesi)



Alla fine degli anni Cinquanta, un giovane italiano di buone letture e nessun pregiudizio passa una stagione a Harvard e un’altra a Broadway. Dunque, corsi e lezioni e incontri importanti nella prestigiosa università: H. Kissinger, A. Schlesinger, J.K. Galbraith, D. Riesman, J. Burnham... Poco dopo, nella capitale dello spettacolo, sensazionali musicals e commedie con leggendari mostri sacri tuttora in scena: Ethel Merman, Mary Martin, Charles Boyer, Claudette Colbert, Lotte Lenya, Paul Newman, Geraldine Page, Lauren Bacall, Elizabeth Taylor, fra Tennessee Williams, Jerome Robbins, Gene Kelly, Woody Allen, GypsyRedheadWest Side Story... Intanto, letture e conversazioni coi protagonisti della letteratura: da Edmund Wilson e Saul Bellow e Mary McCarthy a Saul Steinberg e Truman Capote e Jack Kerouac... Incubi e tormentoni metropolitani. Nuovi perbenismi nei suburbia. Gli scapestrati «sabati del Village». Negli anni Sessanta, su e giú per la California, lungo la mitica Highway 101. Soggiorni e scoperte fra San Francisco e Los Angeles, Stanford e Berkeley e Hollywood. Da Alfred Kazin a George Cukor. Panorami e vedute. I primi movimenti dei «figli dei fiori» e le «contestazioni» poi passate piú violente in Europa. Quindi, «off-off». Affermazioni vigorose ed effimere delle tendenze e strutture alternative, soprattutto nel cinema e nel teatro controcorrente. Mentre lo spettacolo piú convenzionale si abbassa a livelli sempre piú infantili e turistici. Visite cool a vari luoghi leggendari, frattanto: New Orleans, New Mexico, Taos, Key West, Cape Cod, Fire Island, Arizona, Disneyland, Honolulu.



Pubblicato in occasione della mostra Saul Steinberg Milano New York (Triennale Milano, 15 ottobre 2021 – 13 marzo 2022), Steinberg A-Z si presenta come una raccolta enciclopedica contemporanea che analizza l’opera di Saul Steinberg nei suoi molteplici aspetti, dall’architettura al disegno, dal rapporto con Milano a quello con New York, alle mappe, all’epistolario con Aldo Buzzi, agli artisti che gli furono amici e compagni come Costantino Nivola e Alexander Calder, ma anche Alberto Giacometti e Le Corbusier. Il volume restituisce uno spaccato dell’universo di Steinberg, ricostruito attraverso un racconto plurale che coinvolge 31 autori coordinati da Marco Belpoliti. Gli scritti sono raccolti in una struttura composta da 22 voci – che spaziano da «Architettura» a «Cartoons», da «Ghirigori» a «Labirinto», da «Milano» a «Romania» – suddivise in sottovoci per un totale di 139 lemmi. Il desiderio è quello di restituire una visione sfaccettata ed inedita della personalità artistica e poliedrica di Saul Steinberg, il quale ha coltivato una molteplicità di dimensioni espressive, talvolta non ancora indagate, sempre caratterizzate da una capacità comunicativa davvero straordinaria. Saul Steinberg nasce in Romania nel 1914 e studia per un anno filosofia presso l’università di Bucarest. Negli anni trenta pubblica i suoi disegni satirici nella rivista milanese Bertoldo e, poco dopo, i suoi lavori appaiono sulle riviste internazionali come Life e Harper’s Bazaar. Le leggi razziali italiane contro gli ebrei lo costringono a emigrare negli Stati Uniti e, dal 1941, comincia a pubblicare su The New Yorker, avviando una collaborazione destinata a durare sessant’anni e firmando novanta copertine. Fin da subito il suo lavoro grafico è riconosciuto come vera e propria forma d’arte, protagonista di mostre in importanti musei accanto ad artisti del calibro di Arshile Gorky, Isamu Noguchi e Robert Motherwell. Questo periodo costituisce l’inizio di un intenso susseguirsi di esposizioni in gallerie e nei musei piú prestigiosi, mostre americane ed internazionali. La straordinaria immaginazione di Steinberg gli permette di esplorare i sistemi sociali e politici, le debolezze umane, la geografia, l’architettura, la lingua e, naturalmente, l’arte stessa. Saul Steinberg si spegne nel 1999 a New York.



Renzo Piano ha raggiunto la fama internazionale partecipando alla progettazione del Centre Pompidou di Parigi, descritto dal New York Times come l’edificio che ha «rivoluzionato l’architettura». Da allora ha continuato a progettare spazi culturali iconici, come l’ala moderna dell’Art Institute di Chicago e, piú recentemente, il Whitney Museum of American Art, una struttura asimmetrica di nove piani nel Meatpacking District di Manhattan dotata di gallerie interne ed esterne. A Londra, Piano ha dato il suo tocco personale trasformando lo skyline cittadino con lo Shard, il piú alto edificio dell’Unione Europea. All’età di 84 anni, oltre a conservare tutto il suo entusiasmo e la sua gentilezza, il maestro italiano continua a dedicarsi alla progettazione di edifici piú imponenti che mai. Come ha confidato all’autore: «Penso che a una certa età ci si renda conto di ciò che i francesi chiamano fil rouge, una sorta di filo rosso che collega un edificio all’altro nel tempo. Nel mio caso, credo si tratti della leggerezza e dell’arte di costruire». Dai musei appena terminati ad Atene e Santander ai lavori in corso a Lisbona, Londra, Toronto e Ginevra, passando per progetti umanitari come il Centro di chirurgia pediatrica di Emergency a Entebbe, in Uganda, e l’Ospedale pediatrico a Bologna, la carriera di Piano è un viaggio elettrizzante nella bellezza e nell’essenza profonda dell’architettura. Questa edizione ampiamente aggiornata, basata sulla monografia in formato gigante, presenta la retrospettiva completa della carriera dell’architetto in un formato piú accessibile ed è corredata di fotografie, bozzetti e progetti.



Protetto da un titolo enigmatico, che si imprime nella memoria come una frase musicale, questo romanzo obbedisce fedelmente al precetto di Hermann Broch: «Scoprire ciò che solo un romanzo permette di scoprire». Questa scoperta romanzesca non si limita all’evocazione di alcuni personaggi e delle loro complicate storie d’amore, anche se qui Tomáš, Teresa, Sabina, Franz esistono per noi subito, dopo pochi tocchi, con una concretezza irriducibile e quasi dolorosa. Dare vita a un personaggio significa per Kundera «andare sino in fondo a certe situazioni, a certi motivi, magari a certe parole, che sono la materia stessa di cui è fatto». Entra allora in scena un ulteriore personaggio: l’autore. Il suo volto è in ombra, al centro del quadrilatero amoroso formato dai protagonisti del romanzo: e quei quattro vertici cambiano continuamente le loro posizioni intorno a lui, allontanati e riuniti dal caso e dalle persecuzioni della storia, oscillanti fra un libertinismo freddo e quella specie di compassione che è «la capacità massima di immaginazione affettiva, l’arte della telepatia, delle emozioni». All’interno di quel quadrilatero si intreccia una molteplicità di fili: un filo è un dettaglio fisiologico, un altro è una questione metafisica, un filo è un atroce aneddoto storico, un filo è un’immagine. Tutto è variazione, incessante esplorazione del possibile. Con diderotiana leggerezza, Kundera riesce a schiudere, dietro i singoli fatti, altrettante domande penetranti e le compone poi come voci polifoniche, fino a darci una vertigine che ci riconduce alla nostra esperienza costante e muta. Ritroviamo cosí certe cose che hanno invaso la nostra vita e tendono a passare innominate dalla letteratura, schiacciata dal loro peso: la trasformazione del mondo intero in una immensa «trappola», la cancellazione dell’esistenza come in quelle fotografie ritoccate dove i sovietici fanno sparire le facce dei personaggi caduti in disgrazia. Esercitato da lungo tempo a percepire nella «Grande Marcia» verso l’avvenire la piú beffarda delle illusioni, Kundera ha saputo mantenere intatto il pathos di ciò che, intessuto di innumerevoli ritorni come ogni amore torturante, è pronto però ad apparire un’unica volta e a sparire, quasi non fosse mai esistito.



Dmitrij Šostaković ha già riscosso successi in patria e in mezzo mondo quando il compagno Stalin in persona emette l’inappellabile condanna: la sua non è musica, è solo caos. Da quel momento la vita del «nemico del popolo» Šostaković non è che una foglia al vento, e la sua anima assediata dalla paura, il campo di battaglia fra codardia ed eroismo. Nella speranza che la sua arte sappia resistere al rumore del tempo. La mattina del 29 gennaio 1936 la terza pagina della Pravda commentava la recente esecuzione al Bol’šoj di Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostaković titolando Caos anziché musica e accusando l’opera di accarezzare «il gusto morboso del pubblico borghese con una musica inquieta e nevrastenica». Non si trattava solo della recensione negativa capace di rovinare la giornata di un artista. Neppure della stroncatura in grado di distruggergli la carriera. Nell’Età del terrore del compagno Stalin un editoriale del genere, e il conseguente stigma di nemico del popolo, poteva interrompere la vita stessa. E dunque puntuale, per il celebre Šostaković, giunge il primo di una serie di colloqui con il Potere. È una trappola senza vie d’uscita, quella che gli si tende – piegarsi alla delazione o soccombere –, e Šostaković si dispone all’attesa dell’ineluttabile. Al calar della notte, per dieci notti consecutive, esce dall’appartamento che divide con la moglie Nita e la figlioletta Galja e si sistema accanto all’ascensore che presumibilmente porterà i suoi aguzzini, meditando fino all’alba sul suo destino e quello del suo tempo. Ma le vie dei regimi sono imperscrutabili, l’interrogatore può facilmente trasformarsi in interrogato e il reprobo salvarsi, addirittura essere «perdonato». E dunque la musica di Šostaković può tornare a circolare e il suo nome a rappresentare quello del suo paese nel mondo. Un abisso di paura e umiliazione parrebbe scampato, ma è proprio allora che il Potere alza la posta e impone una nuova resa. Una volta e un’altra ancora. Šostaković è ormai vecchio e nauseato di compromessi quando apprende la sua ultima verità: che «essere un vigliacco non è facile. Molto piú facile essere un eroe. A un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante: quando estrae la pistola, quando lancia la bomba, attiva il detonatore, fa fuori il tiranno e poi sé stesso. Essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura una vita. Richiede costanza, fermezza, impegno a non cambiare, il che si risolve in una certa qual forma di coraggio». Un coraggio minore e vergognoso, certo, al cospetto dei «facili» martiri di contemporanei come Osip Mandel’stam. Uno per sentire, uno per ricordare, uno per bere, recita un proverbio tradizionale. A Šostaković tocca sentire, ogni suono una nota, e sperare che il rumore del tempo, ogni suo spaventoso bercio e untuoso bisbiglio, finisca per dissolversi consegnando ai posteri solo la musica di Dmitrij DmitrievičŠostaković. La sua musica e nient’altro.



La Filosofia della musica moderna di Theodor W. Adorno può a buon diritto essere annoverata tra gli esiti piú alti della riflessione musicologica e filosofica del secondo Novecento. Nell’interpretazione di Adorno le linee di fondo del Novecento musicale sono rappresentate da due figure contrapposte, Schönberg e Stravinskij, la cui opera, profondamente immersa nella dialettica storica, riflette le ansie, i timori, le contraddizioni e la violenza del tempo. I due compositori, attraverso la musica, rivelano in vario modo la crisi del soggetto, minacciato da forme di dominio che avversano o spengono ogni aspirazione alla libertà.

– Fine del cap. I. Continua.









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