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Il Gatsby di Luhrmann

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Baz Luhrmann mi accese di entusiasmo con Romeo + Giulietta, nel 1996, e con Moulin Rouge!, nel 2001. Non male neanche Australia (2008), sebbene assai meno memorabile dei precedenti. Ma Il grande Gatsbyè una delusione assoluta: di certo meno interessante della versione di Jack Clayton (1974), quella con Robert Redford. Ce n’è una ancora più vecchia, di Elliott Nugent, con Alan Ladd; risale al 1949 e non me la ricordo; non era comunque un granché.
Quattro Gatsby. Da sinistra a destra: Alan Ladd (1949), Robert Redford (1974), Toby Stephens (2000, in un film TV) e Leonardo DiCaprio (2013).

Il Gatsby di Luhrmann è carente sul piano narrativo e visivamente irritante: l’ambizione di trasformare una storia intimista in un kolossal straripante e barocco scade nel trash di lusso, anche perché la fotografia propende a un abuso di saturazione e i colori sberluccicano come nei più avventati esperimenti amatoriali dell’era digitale. Ma su questo si potrebbe anche chiudere un occhio se la sceneggiatura fosse più robusta, la recitazione più intensa, la scelta delle musiche più accurata, la scenografia meno disneyana (il castello di Gatsby è più cartoon di quello di Biancaneve).

A Luhrmann piacciono i pastiche e piacciono anche a me, ma con Gatsby il gioco non funziona. Romeo + Giulietta era geniale perché i dialoghi, dopotutto, erano di Shakespeare; e dato che tra i grandi meriti di Shakespeare ci sono l’universalità e l’atemporalità, la tragedia riveduta dal regista australiano sprigionava nuovo pathos e nuove faville grazie all’ambientazione contemporanea, ai giovani Capuleti e Montecchi tradotti in teppisti dei nostri tempi, alle stazioni di benzina in fiamme, all’overdose di dinamismo musicale e visivo, alle eccellenti interpretazioni degli attori. Ugualmente visionario e trascinante Moulin Rouge!, pensato come un musical, dove gli anacronismi musicali sono divertenti e fanno parte del gioco; sono le canzoni, insomma, a fare da sceneggiatura.

Ma qui lo screenplay è latitante, e Luhrmann crede di cavarsela ricorrendo continuamente alle pagine di Fitzgerald, sotto forma di riflessioni fuori campo lette dall’io narrante (il giovane vicino di casa e ammiratore di Gatsby, impersonato da Tobey Maguire). Il risultato è che Maguire e Leonardo DiCaprio (nel ruolo di Gatsby) hanno ben poco da dire o da dirsi in scena, il che rende alquanto statica e melensa la loro partecipazione. Carey Mulligan, anche lei come DiCaprio e Maguire bravissima in altri film, è una Daisy talmente insignificante da non giustificare tutta l’adorazione di cui è fatta oggetto. Credibile solo Joel Edgerton, che fa il marito di Daisy: la faccia da stronzo gli riesce alla perfezione, mentre la faccia da buono rende poco interessanti i due principali ruoli maschili. (DiCaprio giganteggia invece in Django Unchained di Tarantino. Una vera rivelazione come “cattivo”).

Poco incisiva anche la colonna musicale affidata a Craig Armstrong, vincitore di molti premi con Moulin Rouge! Ma se lì i pezzi forti dei Police ed Elton John, di Marc Bolan e David Bowie, dei Beatles e degli U2, nonché altri grandi standard americani ed europei d’ogni tempo, erano ricucinati brillantemente a misura dello show, qui non c’è nulla di impressionante o di suggestivo da ricordare. La pur abbondante miscela di citazioni, da Gershwin e Cole Porter a Jay-Z, non suscita emozioni e non lascia tracce, annegata com’è in un delirio iperbolico senza necessità e senza respiro.

Luhrmann poteva anche qui, forse, azzardare la via del musical, trasformando gli attori in cantanti come aveva fatto col mulino rosso e mettendoci dentro pepe e ironia. Ha invece partorito un topolone sentimentale, costoso e sterile.

P.B.


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