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Le scoperte dell’America

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John Caples, «They Laughed When I Sat Down At the Piano», 1927.



Oggi si chiama storytelling: fa figo. Ne parlano con entusiasmo da neofiti i tecnici del marketing, come se l’arte di raccontar storie l’avessero inventata alla Bocconi un paio di anni fa. Come se Omero, Cervantes, Manzoni, Liala e Guccini non fossero mai esistiti. Come se nonna Antonietta, riferendomi i casi di Pollicino e di Hänsel e Gretel nella scarsa luce d’un basso foggiano affumicato dal carbone della cucina, mentre col ventaglio di penne di pollo cercava di tenere in vita l’incerta brace, non stesse facendo anche lei dell’abile storytelling, senza aver mai sentito parlare di Perrault, dei fratelli Grimm o di Dario Argento. 

I pubblicitari statunitensi scrivevano storie: torrenti di parole quando in Europa ci deliziavamo con i cartellonisti. Noi avevamo solo i muri, loro anche i giornali. Noi gli artisti come Chéret, Cappiello e Dudovich, loro anche i giornalisti e – ricchezza rara – i lettori. La pubblicità dei loro pionieri privilegiava la penna, da noi dominava l’illustrazione. Finita la seconda guerra mondiale importammo dall’America le moderne tecniche di comunicazione, e anche nuove figure professionali prima inesistenti: il copywriter, l’art director, l’account executive. La narrazione e il racconto (storytelling) furono e sono una delle modalità di comunicazione di cui la pubblicità, come ogni altra forma di informazione, di propaganda o di intrattenimento, si serve per coinvolgere il prossimo.

P.B.

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