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Shakespeare in spot

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Nel 2000 partecipai a «Shakespeare nel Novecento», seminario organizzato da Anna Anzi all’Università degli Studi di Milano nell’ambito del suo corso di storia del teatro inglese. Il tema era la presenza di Shakespeare nei molteplici spazi in cui si esprime la cultura pop contemporanea – cinema, televisione, fumetto, musica, ecc. Riprendo a distanza di anni il testo della mia relazione, confluito nel volume Shakespeare Graffiti. Il Cigno di Avon nella cultura di massa a cura di Mariacristina Cavecchi e Sara Soncini (Milano: Cuem, 2002). Lo spot di cui si parla, andato in onda nel settembre 1999, era stato scritto dal copywriter Roberto Greco (agenzia: BGS D’Arcy), diretto dal regista francese Olivier Venturini e prodotto dalla Filmmaster di Milano, con la mia supervisione creativa. Tecnici di produzione: Alessio Gramazio per Filmmaster, Massimo Lionello per BGS D’Arcy.


 

Shakespeare in spot

 

Dopo il cinema, il musical e il fumetto, anche la pubblicità si lascia ispirare da Shakespeare. Alla fine del 1999 le reti televisive mandano in onda uno spot per i telefoni cellulari Telit realizzato dall’agenzia BGS D’Arcy. Un Otello dei nostri tempi vi compare come leader di un gruppo jazz: nella band suonano anche Iago e Cassio, mentre le parti vocali sono affidate a Desdemona. I quattro musicisti replicano il plot shakespeariano, modificato a sorpresa nel finale: Otello crede a Desdemona e, invece di strangolarla, caccia Iago dalla band. Alle scene che riguardano i protagonisti si alternano, in modo parallelo, gli interventi di nuovi personaggi, che commentano le vicende di Otello e Desdemona nel loro svolgersi. Lo fanno con intensa partecipazione, scambiandosi reazioni al telefono. L’unica frase pubblicitaria arriva nell’ultima inquadratura: «Telit. The Mobile Generation.»

 

Perché Othello? Il fatto che il cinema si occupi di Shakespeare con tanta frequenza ha certamente influenzato anche i pubblicitari. E poi c’è una specie di epidemico effetto Gioconda: le trame piú note di Shakespeare stanno alla storia del teatro e della letteratura come la Gioconda alla storia delle arti figurative. Il ritratto leonardesco continua a generare una proliferazione di citazioni e parodie, che spaziano dal kitsch turistico alla provocazione colta; qualcosa di simile avviene per Romeo e Giulietta, Amleto e Otello.

 

Ma l’effetto a catena, dovuto a una popolarità che si autoalimenta nel tempo, spiega solo in parte i motivi della scelta. Come si incrociano, a un livello piú profondo, mondi cosí distanti come quello shakespeariano e quello della comunicazione commerciale? Cosa ha indotto la pubblicità, per natura e vocazione cosí sintetica e facile, a uscire dal seminato e a concedersi una digressione tanto eccentrica e spiazzante rispetto ai propri percorsi abituali? Con l’imprevista incursione nella trama di Othello, anche la pubblicità prende atto della sostanziale attualità, o atemporalità, di Shakespeare. C’è una frase pronunciata da Iago, «I am not what I am», che basta da sola a documentare la sconvolgente modernità di Shakespeare. In sei parole, Iago anticipa la rivoluzione culturale del ventesimo secolo: la scoperta dell’ambiguità del reale e la ricerca della verità (o delle verità) dietro le quinte dell’apparenza. Shakespeare risulta persino piú attuale di uno dei suoi traduttori piú prestigiosi, Salvatore Quasimodo, che rende la battuta di Iago con «Non sono quello che sembro.» Il testo originale va piú in là: «Non sono quello che sono». Un paradosso che anticipa Freud, Proust e Pirandello in modo stupefacente. Tutto ciò che prima era stato cosí chiaro, nel Novecento viene posto in dubbio. E l’opera di Shakespeare, maestro di ambivalence, sembra corrispondere perfettamente ai modelli di indagine psicologica propri di un’epoca non sua: 

 

«Shakespeare can [...] be seen as having invented the emotive and cognitive irony of ambivalence that governs Freud. It shocks me increasingly to observe the vanishing of Freud’s originalities in the presence of Shakespeare [...]» (Harold Bloom, The Western Canon, 1994).

 

E ancora: 

 

«For many years I have taught that Freud is essentially prosified Shakespeare: Freud’s vision of human psychology is derived, not altogether unconsciously, from his reading of the plays. The founder of psychoanalysis read Shakespeare in English throughout his life and recognized that Shakespeare was the greatest of writers.» (H. Bloom, ibid.)

 

Se Shakespeare è sempre piú moderno di com’è, la trama di Othello è attuale in modo specifico. Tanto per cominciare è un noir ante litteram. Iago si muove come un agente della Cia o del Kgb, secondo meccanismi narrativi codificati quattrocento anni piú tardi. Ma, soprattutto, Othello si può leggere come una esemplare tragedia della comunicazione. Con la sua «fabbrica del consenso», Iago assume il ruolo di arbitro politico degli altrui destini. Deus ex machina di una rete di informazioni interessate, abilmente elaborate e smistate, il nostro eroe negativo anticipa problematiche relative al potere, alla centralità e all’etica dell’informazione nell’universo sociale contemporaneo. Poco importa che Iago non conosca il telefono, la stampa, la televisione o la posta elettronica; Shakespeare sopperisce all’indisponibilità di tali strumenti relativizzando la misura del tempo e dello spazio reale, e consente ai suoi personaggi di interagire con i trucchi e le bugie di Iago tagliando i tempi morti e infischiandosene delle distanze. La compressione spaziotemporale operata in Othello— da Venezia a Cipro in un batter d’occhio, e l’intera vicenda misurata sul flusso delle comunicazioni interpersonali a prescindere dal realismo logistico e cronologico — è piú vicina al montaggio cinematografico che a quello teatrale (le famose unità di spazio, di tempo e di azione!). Di piú: Shakespeare ipotizza una fitta trama di informazioni e interazioni che, per il suo sottrarsi alle costrizioni dello spazio e del tempo, presenta qualche curiosa analogia con quanto oggi avviene nell’internet time — una misura cronometrica che equalizza gli orari in ogni parte del mondo, superando il limite dei fusi. In Othello, insomma, la comunicazione acquista il peso di una vera e propria dimensione; come tale, essa prende il sopravvento sulle dimensioni del tempo e dello spazio. Gli autori dello spot Telit, affascinati da questi indizi di realtà virtuale, mettono in scena una comunicazione (pubblicitaria) sulla comunicazione (telefonica), raccontata attraverso un esemplare dramma (teatrale) sulla comunicazione.

 

La pubblicità è una spugna universale. Eclettica, citazionista e postmoderna per vocazione, assorbe tutto ciò che le ruota intorno. È un frullatore dove tutto converge per essere elaborato e restituito sotto altra forma: marketing, scienze umane, vita quotidiana, fiction. È uno shaker culturale nel quale si agitano stimoli di ogni provenienza: arti figurative, cinema, musica, reportage, linguaggi mediatici, psicologia, sociologia, antropologia, stili di vita, tecniche narrative, evoluzioni tecnologiche nel trattamento dell’immagine, internet, ecc. Oltre a lasciarsi ispirare da tutto, la pubblicità è diventata essa stessa, per la sua onnipresenza e gli stilemi che adotta, una fonte d’ispirazione: lo è stata per la pop art, lo è per il giornalismo (si pensi all’evoluzione stilistica dei titoli nella stampa d’informazione, alla frequenza con cui si susseguono le invenzioni di neologismi e metafore). La pubblicità contemporanea ha contribuito persino all’accelerazione della percezione, visiva e mentale. Costretta a condensare i suoi messaggi in tempi sempre piú brevi, ha abituato gli spettatori piú giovani ad adeguare i propri tempi di reazione. La pubblicità comprime, brucia, schiaccia il tempo come una macchina di Formula Uno: perché il tempo è denaro, e lo spazio sui media non costa poco. Ancor prima dei videoclip e dei giochi elettronici, la pubblicità — con i suoi montaggi forsennati, le sue cento inquadrature in trenta secondi — ha allenato l’occhio e la mente ad acrobazie spericolate. Ed è proprio agli spettatori piú veloci che lo spot Telit si rivolge: con un’intera tragedia compressa in due edizioni fulminanti, una di soli 60 secondi, l’altra addirittura di 30.

 

Veloce è il messaggio suggerito: si chiede allo spettatore di collaborare con l’intuizione, di colmare con liberi nessi mentali la distanza che separa la vicenda di Otello dalla marca di telefonini pubblicizzata. Lo slogan è poco piú che un indizio: «The Mobile Generation» allude alla mobilità del lifestyle contemporaneo, ma anche ai mobile telephones. Lo spot è ambizioso perché si propone diversi, e non facili, obiettivi. Deve promuovere rapidamente la conoscenza di una marca sconosciuta (un’operazione che, in gergo professionale, si definisce «campagna di brand awareness»). Deve comunicare la comunicazione, perché si occupa di un prodotto — il telefonino — che ha esattamente quella funzione. Deve suggerire una visione di marca, un mondo valoriale esclusivo di quella marca e non di altre: nel nostro caso un mondo attuale, giovane, colto, anticonformista, proiettato verso l’Europa. In piú, coerentemente con le tendenze piú recenti dell’advertising internazionale, lo spot si propone di collocare la visione di marca in una piú ampia visione del mondo, con l’allusione a una serie di valori etico-sociali. 

 

Da un ciclo di ricerche condotte dal gruppo D’Arcy, emergono quattro tipologie di visione di marca, convenzionalmente definite PowerIdentityIcon ed Explorer. Le Power brandstendono a esaltare le proprie prestazioni funzionali. Sono i prodotti che dichiarano di fare, meglio di altri, il proprio mestiere: «Dash lava cosí bianco che piú bianco non si può.» Le Identity brands sono interessate a stabilire una relazione di complicità con il pubblico, rappresentandone il mondo reale e cercando di promuovere un processo di identificazione: «Star è sempre con me.» Le Icon brands rappresentano mondi simbolici in cui proiettarsi; sono le marche del sogno, dell’aspirazione. A questa categoria appartengono campagne per profumi, griffe della moda, beni di lusso. Le Explorer brands propongono «un mondo da scoprire». La marca invita a esplorare nuove possibilità che dipendono unicamente dai desideri, dalle attese e dalle capacità individuali, senza imporre niente di predefinito ma fornendo i supporti necessari per intraprendere un viaggio esistenziale: «Where do you want to go today?» (Microsoft); «Just do it» (Nike); «Time is what you make of it» (Swatch).

 

La comunicazione delle grandi marche tende sempre di piú a configurare un sistema di segni e significati che va oltre la funzione specifica del prodotto, le motivazioni tradizionali di consumo e la simbologia convenzionale. La campagna Telit si iscrive in questo scenario, ed è un esperimento di costruzione di una Explorer brand. Non fornisce esplicite descrizioni di prodotto. È un messaggio aperto alla libera interpretazione. Ed è un pentolone ribollente di citazioni, linguaggi, generi e sottogeneri narrativi. Allude al teatro, con Shakespeare e il coro della tragedia greca: i personaggi che si scambiano telefonate hanno la funzione di coro. È teatro, «teatro nel teatro» e parodia al tempo stesso. È cinema e televisione, perché la parte che riguarda i personaggi shakespeariani è realizzata su pellicola, mentre quella del coro telefonico è girata in digital video. Del cinema adotta il taglio drammatico delle inquadrature, l’intensità sanguigna della fotografia, il nervosismo del montaggio e persino un sottogenere, il trailer. Della televisione richiama diversi sottogeneri: la candid camera (alcuni personaggi sono ripresi con immagini rubate, quasi a loro insaputa), il circuito chiuso (i personaggi ai grandi magazzini o in metrò sembrano spiati da telecamere e ripresi su monitor); il videoclip (la velocità del montaggio associato con il commento musicale). Tutti questi materiali sono assortiti come in uno zapping: il montaggio rapidissimo è disturbato da interferenze, e fa pensare a un palinsesto individuale reso ancor piú isterico da anomalie di trasmissione. 

 

La narrazione procede su tre piani paralleli. Il piano di Shakespeare, con la trasposizione della vicenda di Otello e dei suoi comprimari. Il piano del coro, con la galleria di commentatori telefonici. Il piano del messaggio pubblicitario, con la definizione di una nuova comunità ideale («The Mobile Generation»). Lo spot è strutturalmente caotico, una specie di zapping programmato. Si rifiuta di essere chiaro, preciso e didascalico come di norma è la pubblicità. Il suo fascino sta nelle zone d’ombra. Del resto Shakespeare stesso, come abbiamo ricordato, contravveniva con disinvoltura alle regole strutturali del teatro, a cominciare dalle canoniche unità di tempo, di luogo e d’azione: 

 

«Whether Shakespeare knew the unities, and rejected them by design, or deviated from them by happy ignorance, it is, I think, impossible to decide, and useless to inquire. [..] Nor [...] should I very vehemently reproach him that his first act passed at Venice, and his next in Cyprus.» (Samuel Johnson, The Plays of William Shakespeare, 1765).

 

La sceneggiatura comprende frammenti di Othello (aggiornati, come si è detto, al mondo contemporaneo) con quattro battute originali di Shakespeare: «Io odio il Moro» (Iago), «In nome di Dio, voi m’insultate a torto» (Desdemona), «Guardatevi dalla gelosia. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre» (Iago nella tragedia, ma nello spot la battuta è pronunciata al telefono da un operaio che emerge da un tombino stradale), «Io ti ucciderò, e poi ti amerò ancora» (Otello). Tutte le altre battute sono state scritte ad hoc e sono pronunciate da personaggi estranei all’opera di Shakespeare. 

 

Nel progetto originale, i personaggi al telefono (la «Mobile Generation») dovevano essere ripresi ciascuno in una diversa capitale europea, per suggerire l’idea di una community legata da affinità indipendenti dalla nazionalità individuale. Si è scelta invece un’unica location, a sua volta emblematica anche se poco riconoscibile nell’edizione definitiva: Berlino, simbolo di un’Europa come cantiere e di un’Europa come teatro.

 

Aldo Grasso, invitato a commentare lo spot durante una conferenza stampa, ha enunciato un’ipotesi di lettura interessante. I ragazzi del «coro telefonico» sembrano avvolgere Otello e Desdemona in una virtuale rete di protezione, di fatto riuscendo a impedire il peggio. L’happy end, in altri termini, sarebbe merito loro; è come se usando la comunicazione diventassero a loro volta «autori» della storia, con la capacità di modificare in senso positivo il corso della sorte.

 

© Pasquale Barbella



 

 


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