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Ministri dell’inferno

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Molti politici italiani non meritano neanche di essere nominati, ma ce n’è uno più innominabile di tutti, l’Innominabile per antonomasia. Quello che pensa, quello che dice è talmente osceno da provocare, per reazione, un’ondata di tifo a suo favore: più fa lo smargiasso, più vasta e fanatica è l’adesione che ottiene, persino da parte di vecchiettine di parrocchia che si professano devote a Gesù, alla Madonna e a Papa Francesco. Già tre anni fa, preoccupato dagli incomprensibili consensi fioriti intorno al suo grottesco neorazzismo, dedicavo all’Innominabile un ritrattino inquieto; ma ancora non sapevo quanto fosse destinato a crescere il successo di quest’orco. Adesso è addirittura ministro dell’interno, o – per dirla con più precisione – dell’inferno. Lo è diventato cavalcando uno schiavetto a cinque stelle, il sorridente e grillesco Di Maio, e portando al guinzaglio un surreale presidente del consiglio ripetitore di slogan preconfezionati dai suoi vice. Grazie a gente come questa siamo riprecipitati in pieno nazifascismo, e siamo solo all’inizio di un’epoca che si preannuncia fetidissima.

Si dirà: questi sono stati votati dagli italiani, caro lei; la democrazia è fatta così. Capisco. Ma, avendo praticato per trentasei anni il mestiere di pubblicitario, so che le elezioni non si vincono più soltanto con le idee, ma anche e soprattutto con l’abuso del marketing e della propaganda più scurrile. Chi strilla di più ottiene di più, chi insulta di più ottiene di più. Il peggio va vincendo dappertutto, dagli Stati Uniti all’Ungheria, dall’Austria all’Italia. 

Una delle parole chiave della campagna elettorale dell’Innominabile è stata e continua a essere «sicurezza». Non è un concetto sbagliato: è sbagliato l’oggetto delle paure evocate. Io non ho paura dei migranti, ho una paura fottuta del fascismo e di questi governanti. Io non ho paura dei rom, ho paura dei leghisti e dei loro nuovi lacché, fabbricati in serie dalla premiata ditta Grillo & Casaleggio. Io non ho paura delle ong, ho paura di chi fa la guerra alle organizzazioni umanitarie: di chi spara – come si suol dire – sulla Croce Rossa. Qualcuno, cazzo, dia anche a me un po’ di sicurezza; ne ho diritto. E ovviamente ne hanno tantissimo, di diritto, i primi a far da bersaglio alla criminale arroganza dei nuovi potenti – i deboli, i derelitti, i vessati in fuga.

L’Innominabile n. 1, e gli altri membri della nascente casta post-quattromarzo, dovrebbero trovare sul loro cammino più resistenza di quanta ne abbiano incontrata finora. Sono stati favoriti, anzi favoritissimi, dalla morbosità scissionista della sinistra; da certi autogol renziani; dalla smisurata voluttà di autocastrazione da parte di sinceri democratici (molti nel gruppo dei miei amici più stimati) che hanno creduto di migliorare la sinistra uccidendola nell’urna. 

Grande responsabilità ascrivo anche ai giornalisti e anchormen della Rai e di Sky. Molti che ammiravo continuano a intervistare leghisti e fascisti dichiarati senza mostrare un’ombra di sgomento. Come se fosse naturale mettere tutte le opinioni, e tutti i fatti (veri o presunti tali), sullo stesso piano. Come se l’Innominabile e i poveracci nei barconi rappresentassero due modelli etici ugualmente dignitosi e ugualmente legittimi. La par condicio, questo tipo di par condicio, favorisce i violenti; quelli che davanti alle telecamere ripetono slogan fino allo sfinimento invece di farci sentire qualche argomentazione convincente. Lo slogan più idiota, e dunque più vittorioso di tutti, è stato «il contratto per il governo di cambiamento». Come se bastassero i contratti tra forze di estrema destra, e i cambiamenti in peggio, a migliorare l’odore del nostro futuro.

P.B.






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