Quantcast
Channel: Dixit Café
Viewing all articles
Browse latest Browse all 909

Gli ultimi padri. V

$
0
0

V.

«Il vecchio indirizzo di Ethan corrisponde a un palazzo in demo­li­zione; i pro­prietari non ricordano nessuno con quel nome», aveva detto August van der Voort. Il cantiere era avvolto nella nebbia, davanti a me, e io gli andavo incontro muovendo passi faticosi su un piazzale ster­rato, fra zolle di fango e di tristezza. L’inverno delle periferie metropolitane è più crudele che altrove. Implacabili, le benne dei bulldozer rovistavano fra cu­muli di rovine. Quando fui abbastanza vicino da poter leggere il ta­bellone dei lavori in corso, trascrissi nella mia agenda la ragione sociale e il numero te­lefonico dell’impresa immobiliare.

Un’ora dopo, nella stanzuccia bisunta ma calda del Karajan, lessi con calma i messaggi che avevo prelevato in portineria. Uno era della polizia di Zurigo: diceva di mettersi in contatto con l’agente Werner per comunica­zioni che riguardavano la mia denuncia. Poi c’era Francesca: da richiamare a un certo numero di Amsterdam. Aura Marti: richiamare Genesis Milano. Infine — del tutto inattesa — una chiamata da In­grid Schumacher. Non c’era nessun numero. Soltanto una croce nel riquadro corrispon­dente alla voce «Richiamerà». Lessi e rilessi il nome di Ingrid sul foglietto, rigirando­melo fra le dita come un idiota. Come aveva fatto a rintracciarmi? Telefo­nai al centra­lino dell’albergo sperando che sapessero dirmi da dove fosse ar­ri­vata la telefonata della signora Schumacher. Non seppero rispondermi.

Chiamai l’agente Werner.

Avevano ritrovato la Vanta, o quel che ne restava, in fondo a una scar­pata nel­l’alta valle del Toggenburg, non lontano da Wildhaus e dalle sue pi­ste da sci, a poco più di 80 km da Zurigo. Era ridotta a un rot­tame irrecupe­rabile; per fortuna non c’e­rano state vittime. La polizia rite­neva che fosse stata spinta a bella posta nel precipi­zio. Werner mi passava queste belle no­tizie con un’ombra di afflizione nella voce, come accade quando si porgono le condoglianze a chi è stato colpito da un lutto.

«Considerate le circostanze», aggiunse, «abbiamo dovuto aprire una piccola in­chiesta. Le anticipo qualche domanda al telefono, ma sarà necessa­ria una sua visita presso i nostri uffici per formalizzare la cosa.»

Mi chiese se avevo nemici a Zurigo; se ero stato contattato da elementi sospetti durante la mia permanenza in città; se avevo motivo di temere qualche ritorsione. Ne­gai su tutta la linea. Senza abbandonare quel tono mesto e garbato, l’ufficiale mi invitò a tornare a Zurigo entro la set­timana successiva «per ulteriori accertamenti».

Riattaccò. Pensai ai due figuri che mi avevano tenuto d’occhio al Fu­tura Light. Erano loro gli autori del servizio? La distruzione della Vanta era un avvertimento? Da chi prendevano ordini? Da Schmidt? Mi tornava con­tinuamente in mente l’espressione di Schmidt, quando aveva interrotto sul nascere la mia conversazione col pianista. Mi aveva davvero preso per un emissario dell’Overblue, e non gli era andata a genio la mia manovra con­correnziale? Voleva spaventarmi e togliermi dalla testa l’idea di sot­trargli i musicanti per una scrittura a New York? O erano state le mie domande su In­grid a metterlo di cattivo umore? Tutto era possibile. Il guaio è che non potevo farci niente. La macchina era perduta. Con la polizia ero costretto a tenere la bocca chiusa: mi fosse sfuggito un solo soffio, ci sarebbe andata di mezzo la Genesis e ci sarei an­dato di mezzo io, con conseguenze disastrose. Rischiavo di essere coinvolto nel caso Stoltz: avevo disseminato tracce del mio interessamento ovunque. Sapevo su Stoltz più cose di quante ne avesse scoperte la polizia. Ero già nella merda due volte: con la polizia di Zurigo e con qualcuno a cui avevo pestato i piedi.

Ma ero in ballo e dovevo ballare. Andare avanti senza fermarmi.

Chiamai il Berliner Studium, l’impresa che aveva demolito la vecchia casa di Ethan per costruire qualcosa di nuovo. Mi spacciai per agente di una compagnia di assicurazione e chiesi di poter ottenere la lista degli ex inquilini del palazzo, in modo da poterli con­tattare e proporre loro una po­lizza antifurto e antincendio molto conve­niente. Una voce femminile obiettò che non avevano tempo da perdere, e che comun­que non era certa di essere autorizzata a rilasciare segnalazioni di quel tipo. Infine si arrese alla mia educata insistenza, infor­mandomi che solo otto appartamenti della vecchia e fatiscente casa popolare risultavano ancora abitati prima dell’eva­cuazione. Gli inquilini erano stati prov­visoriamente alloggiati in una scuola in disuso. Promise di spe­dirmi un fax al Karajan con i nomi degli af­fit­tuari e l’indirizzo della scuola, a con­di­zione che non le rompessi più le sca­tole.

***

Francesca era preoccupata. Voleva sapere se ero ancora arrabbiato con lei. Un po’ lo ero; ma per tagliar corto la tranquillizzai. Disse che sarebbe ve­nuta a Berlino uno dei prossimi giorni, per ricevere di persona mie notizie e riferire a van der Voort. «È meglio che usare il telefono», concluse, come se si rendesse perfettamente conto che non me la stavo passando troppo li­scia. E che, una volta preso servizio alla Genesis di Berlino, le cose sarebbero andate anche peggio.

L’ultima chiamata fu per Aura Marti, la mia protettrice apprensiva.

«Tutto bene, Egon? Non ti sei cacciato in qualche ginepraio?»

«Mi hanno rubato la macchina», annunciai con una voce da fune­rale. Aura sa­peva quanto ci tenessi alla mia Vanta.

Sospirò. «Cose che capitano. Negli ultimi anni me ne hanno rubate tre e non ne ho ritrovata nessuna. Sono cavoli dell’assicurazione. Compratene una nuova e non pensarci più.»

«Hai ragione, farò come dici.»

«Senti, Egon, la nostra centralinista ha fatto una stronzata. Fortuna che se n’è accorta, anche se troppo tardi, e mi ha avvertita.»

«Che è successo?»

«Ha mollato il numero del Karajan a una tizia che cercava di te. Dal nome ho capito che era quella cantante di cabaret che ti ha fatto perdere la testa. Egon, per l’a­mor del cielo, sta’ attento: questa storia non mi piace. Cambia albergo e gira al largo da quella donna.»

«Perché pensi che Ingrid sia pericolosa?»

«Arp ha detto a Hernández che quel posto in cui canta è un covo di spaccia­tori.»

«Ti ringrazio di cuore, Aura, ma sta’ tranquilla. So badare a me stesso.»

«Non è vero: ti hanno messo in mezzo a un problema più grande di te. Sono in­furiata con Hernández. Gliene ho dette di tutti i colori.»

«Non voglio che litighi con Hernández, zietta. Voglio che te ne stai buona e che non litighi con nessuno.»

«Non fidarti di quella donna, Egon. Guardati da tutti. Guardati allo specchio e fidati solo della faccia che vedi. Fatti vivo appena puoi. Cambia albergo subito.»


***


«Mi hanno detto meraviglie di lei. Non solo del suo comportamento modello, ma anche del suo carattere, delle sue ambizioni e della sua eccel­lente preparazione cultu­rale. Congratulazioni.»

Le prime cose che notavi di Mario Stern erano i capelli neri e lisci, tutti pettinati all’indietro, e il registro grave e musicale della voce.

«Se c’è una cosa che mi affligge, nella quasi totalità dei nostri agenti, è la roz­zezza. Privilegiati dalla sorte, che gli ha concesso il dono inestima­bile della fecondità, molti di loro non sentono il bisogno di affi­narsi, di elevarsi sul piano intellettivo. Per questo, a trentacinque anni, sono spesso uo­mini finiti. Lei è una lodevole eccezione: non avevo mai sentito Hernández par­lare così bene di qualcuno.»

«Il dottor Hernández è troppo buono. Spero di non deludere le sue aspettative.»

«Se è buono Hernández, allora Hitler era un angelo.» Sorrise, compia­ciuto della propria battuta. «Si tenga libero per pranzo: oggi è mio ospite.»

Volle presentarmi personalmente Trudi Albrecht e gli altri dirigenti: il dottor Ru­ben, capo dei servizi sanitari; la signora Schinkel, responsabile dello Psychoteam; Willi Höder, servizi amministrativi; Mira Uhlmann, re­lazioni pubbliche; Rupert Drewitz, marketing e comunicazione; Elio Lanza, allenatore del Gymnasium. Trudi era fisica­mente l’opposto di Aura Marti: di almeno dieci centimetri più alta, di almeno quindici chili più magra. In comune avevano l’età — entrambe sulla cinquantina — e l’aria of­fesa e ma­linconica delle donne che hanno avuto dalla vita solo il 10% di quanto si aspettavano.

Mathias Weidemann era al videocontrol da meno di due anni. Ve­niva da un la­boratorio di post-produzione cinematografica che aveva licen­ziato metà del personale per risanare i bilanci. Non aveva perduto solo il lavoro che gli piaceva, ma anche le il­lusioni: era indurito e taciturno, e par­lava solo se interrogato.

«Che lavoro facevi?»

«Effetti speciali.»

«Puoi sempre guardarti in giro. Non è detto che devi restare incollato qui tutta la vita.»

«Forse.»

«C’è qualcosa che posso fare?», domandai. Mi guardò con aria interro­gativa. «Per l’archivio, intendo», precisai.

«Ci penso io all’archivio. Tu dai un’occhiata alla camera 8: fra poco c’è una ses­sione.»

«Che devo fare?»

Premette il tasto 8 sulla centralina. «Ecco, così sei sintonizzato sulla te­lecamera giusta. Lo vedi il letto?»

«Lo vedo sì. Sono mica cieco.»

«Ecco, tieniti pronto per lo show. Se c’è qualcosa che non va, avvi­sami.»

«Cos’è che potrebbe non andare?»

Mi guardò con una punta di ostilità. Era diffidente, e ne aveva tutte le ragioni: stavo giocando a fare il finto tonto.

«Lui deve avere la maschera applicata come si deve. E indossare cor­ret­tamente la tuta, aprendosi solo la patta. Non devono perdere troppo tempo. Niente conversa­zione: se qualcuno apre bocca, avver­timi.»

«E se parlano, tu che ci puoi fare?»

«Premo questo pulsante e gli arriva nelle orecchie una scarica di decibel più forte della sirena di un’ambulanza.»

«La donna sarà mascherata anche lei?»

«Alcune chiedono la maschera, altre no. Questa qui non l’ha chiesta.»

«Il babybaby è uno dei nostri?»

«Come sarebbe a dire, uno dei nostri?»

«Di Berlino, o in trasferta da qualche consociata?»

«Berlino.»

«E si chiama?»

Consultò un foglio su cui aveva preso degli appunti. «Rolf. Di’, non avrai mica intenzione di farmi domande stupide tutto il giorno?»

«Scusami. Mi cucio le labbra. Non ti darò più fastidio.»

Si mise ad armeggiare con una pila di CD. Dopo un po’ riattaccai.

«Questi appunti sono da conservare in archivio dopo l’uso?»

«Nossignore, si gettano nel tritarifiuti. Là.»

«Rolf è il nome vero o il nome della settimana?»

«Per me è Rolf e basta. I nomi della settimana sono giochini per defi­cienti.»

«Qual è oggi il suo nome da deficiente?»

«Egon.»

Era la sua prima concessione all’umorismo. Ne risi in modo talmente sguaiato da costringerlo a smollarsi un po’. «Mi sa che mi stai prendendo per il culo», borbottò.

«Solo se ti fa piacere», replicai per farlo rilassare del tutto. Era una delle mi­gliori battute del mio repertorio, e aveva quasi sempre successo.

Sul monitor cominciò lo spettacolo. La signora indossava un baby doll e non era una gran bellezza.

«Ha le gambe storte o mi sbaglio?», chiesi per non perdere il contatto con Mathias.

«Affari suoi.»

«Non vuoi dare un’occhiata?»

«Ne ho fin sopra i capelli di quella roba.»

«Sta entrando in campo Rolf, cioè Egon.»

«Buon per lui.»

«Si sta slacciando in basso.»

«Maiale.»

«Le sta saltando addosso.»

«È pagato per farlo.»

«Non ti sono simpatici i babymaker, vero?»

«Mi stanno sulle palle.»

«Te l’hanno detto che facevo il babymaker anch’io?»

«Me l’hanno detto.»

«Adesso capisco perché ti sto sulle palle.»

«Bravo. Sei un genio.»

«Non ti va di fare amicizia? Conviene, sai. Dovendo passare le ore in­sieme, ci si potrebbe sopportare meglio.»

«Non ho bisogno di amici.»

«Guarda che sono stato io a voler smettere. Non ne potevo più di fare sesso a comando.»

«La tua biografia non mi riguarda.»

«Sei sposato?»

«Sì.»

«Bambini?»

«Sono sterile.»

«Rolf e la signora si stanno dando da fare. Mi sembra che l’operazione stia pro­cedendo nel verso giusto.»

«Meglio così.»

«Di questo video rimane una registrazione?»

«Non dire scemenze. Sai benissimo che di queste cose non deve restare traccia.»

«Salvo il bambino che nascerà.»

«Se nascerà.»

«Niente video, allora. Solo cartaccia.»

«Cartaccia.»

«Il giorno X la signora Z ha scopato con Y.»

«Dove l’unica cosa certa è il giorno X.»

«In che senso?»

«Perché Z può essere Z ma anche W, mentre Y non è Y.»

«Cioè Rolf non è Rolf?»

«Cioè Arthur non è Arthur ma Rolf.»

«Beh, allora il mistero non esiste. Y uguale Rolf.»

«Finché c’è qualcuno che se ne ricorda.»

«Tu hai buona memoria?»

«No. Per questo mi hanno assunto.» Ridemmo tutti e due: si stava sbloccando.

«Hanno già finito. Più veloci di due lepri.»

«Controlla che lei esca per prima e che lui se ne stia lì finché non gli diamo il se­gnale.»

«Che segnale?»

«Quando ci avvertono che la signora ha lasciato gli uffici, premi il pul­sante rosso.»

«Dicevi della cartaccia.»

«Quale cartaccia?»

«Gli elenchi delle date e degli incontri. Dove vanno a finire? In cassa­forte?»

«Nei kardex della signora Albrecht.»

«È una bella responsabilità. Non vorrei mai trovarmi nella condi­zione di dover custodire segreti di quella portata.»

«La signora Albrecht nasconde la chiave.»

«E tu come lo sai?»

«Ho visto dove la nasconde.»

«Dove?»

«Nelle mutande.» Era chiaramente uno scherzo. Mathias sghignazzò come un bambino.

Un robottone tarchiato, del tutto simile a Morphero, zampettò barcollando verso di noi con la fascia frontale luminosa come un catarifrangente. Sul visualizzatore a cri­stalli liquidi lampeggiava in verde il messaggio «Via libera per Arthur», accompagnato dalla solita musichetta sintetica e irritante.

«Messaggio ricevuto, Algo. Va’ a farti fottere», disse Mathias. «Tu schiac­cia il pulsante rosso.»

«Schiacciato. Rolf si è alzato dal letto e si sta spogliando nudo.»

«Il solito esibizionista.»

«Non è poi così dotato. Che mi dici di Algo?»

«Stronzo di un robot. Un giorno o l’altro lo sbatto giù dalla finestra.»

«Non ti piacciono i robot?»

«Non mi piacciono né i computer ambulanti né i babymaker.»

«In fondo si somigliano.»

«Appunto.»

«Io ti sembro un robot?»

«Peggio di Algo.»

«Perché?»

«Algo almeno sta zitto quando gli dico di piantarla.»

***

Non credo che Mathias fosse mai stato invitato a colazione da Stern. Né io avevo mai avuto il privilegio di sedermi alla stessa tavola di Hernán­dez, prima che questo succedesse ad Amsterdam. Mi chiedevo cosa potesse spingere Mario Stern a ri­servarmi l’onore del suo tempo e del suo ristorante favorito. La sorpresa crebbe quando entrai nell’atrio del Lutetia, il risto­rante francese più raffinato di Berlino.

Lo accolsero con servile deferenza — buongiorno Herr Stern di qua, benvenuto Herr Stern di là — e lui sembrava compiacersene, contraccam­biando i salamelecchi con sussiego cardinalizio. Ostentava i modi del per­fetto gentiluomo d’altri tempi, del vi­veur fedele alle abitudini e ai pic­coli riti quotidiani. Chiese sottovoce «il solito posto, per favore». Il solito posto era un tavolo d’angolo aristocraticamente distanziato dagli altri: l’ideale per conversazioni confidenziali.

Prima di accingersi alla consultazione del menu estrasse un paio di oc­chiali da una custodia d’argento; i gesti erano lenti e solenni, e lentissima fu la lettura e l’analisi della carta. Nel corso di quell’esame scosse più volte il capo, ma impercettibilmente, come per esternare un lieve e rassegnato disa­gio. Poi interrogò a lungo il cameriere, esi­gendo ragguagli sulla composi­zione di talune pietanze e sulla provenienza degli ingre­dienti; infine chiese tutt’al­tro — delle semplici verdure al vapore, «ma niente cavolfiori e niente salsine, per carità» — con l’a­ria di predisporsi non a un pasto, ma al disbrigo di una fastidiosa incom­benza. A me raccomandò invece «unasoupe à l’oi­gnon che non ha nulla da in­vidiare alla miglior zuppa di Parigi», e altret­tanto determi­nato fu nella scelta del vino, un Bordeaux di non so più quale anno e quale produzione.

«L’accuratezza è tutto», commentò al termine della laboriosa ordina­zione, quando il cameriere si fu allontanato. «Questo è uno degli ultimi ri­storanti di Berlino ancora degni di un po’ di fiducia. La città sta crollando letteralmente a pezzi, dal punto di vista dell’efficienza e della qualità gene­rale. Non si lasci ingannare dall’appa­rente decoro urbanistico; i viali, i par­chi, le strade, le facciate conservano tuttora un certo fascino, ma il paesaggio umano è irrimediabilmente deteriorato, come se non ci fosse più spazio per l’immaginazione e la profondità. Scienze, arti, letteratura — tutto si è gra­da­tamente incancrenito; nel mondo degli affari dominano la slealtà, il com­pro­messo, il colpo basso; il senso morale si è come atrofizzato. E tutto que­sto, badi bene, non è il risultato di un grande progetto negativo (cosa che troverei, paradossalmente, ancora rispettabile), ma di stupida e pura incom­petenza. La negligenza dilaga. Non c’è nulla di satanico nel declino dei va­lori; solo incapacità e pressappochismo. La sterilità si fa strada, e non è una sterilità solo genitale: è infertilità mentale, eclisse di intelli­genza, rachitismo del pensiero. Ma anche in questo è Berlino a tracciare la strada; come ai suoi tempi d’oro, Berlino ci mostra in anteprima i disastri prossimi venturi del­l’intera Federazione, se non del pianeta. Lei cosa ne pensa dell’e­poca in cui viviamo? Ci terrei a conoscere il suo punto di vista.»

«Sono tempi che appartengono alla mia generazione: non ne ho cono­sciuti altri per poter azzardare un raffronto», balbettai confuso per la ponde­rosità del tema e l’evidente autorevolezza del mio interlocutore. «Sono istin­tivamente portato al­l’ottimi­smo, per l’inesperienza che mi deriva dal­l’età. Forse è la natura stessa a dotare i gio­vani di acritiche spe­ranze, per metterli in grado di procedere nella vita con la ne­cessa­ria deter­minazione.»

Sembrò colpito dalla mia saggezza, se vogliamo chia­marla così. «Non solo con­divido la sua supposizione, ma ammiro la consa­pevolezza che lei così precocemente dimostra. Alla sua età pensavo le stesse cose, ma non sa­pevo esprimerle con altret­tanta lucidità. Come lei, ero ottimista più per de­cisione che per vocazione; ma forse fra decisione e voca­zione il confine è indistinto, fino a una certa età. Più tardi subentra un certo disincanto, e ciò che era opaco risulta più chiaro. La vita, in un certo senso, si spoglia lenta­mente sotto i nostri occhi; e quando è caduto l’ultimo velo ci delude con grinze, asimmetrie, smagliature che non ci aspettavamo di scoprire.»

«È una visione amara. Spero di diventare così miope da non vedere ciò che non vorrei.»

«Mi dispiace per lei, amico mio: lei è destinato a vedere il peggio, come capita a chi non possiede il dono della mediocrità. Dico di più: nonostante le sue dichiarazioni di ottimismo, lei già percepisce tutta la preca­rietà dello scena­rio. Sostiene infatti che la speranza è una dotazione standard dell’ine­spe­rienza; implicitamente ammette che, da un certo punto della strada in poi, i lampioni perderanno a poco a poco il loro splen­dore fino a spegnersi del tutto.»

Usava un linguaggio forbito e indulgeva in metafore sinistre: la zuppa di cipolle, già indigesta di per sé, avrebbe aggiunto pesantezza a pesantezza. Ero pentito di non avere imitato il suo stile alimentare: le sue verdure lesse erano decisa­mente più innocue del futuro che mi andava prospettando. Dovette accor­gersi del mio vago turbamento, perché all’improvviso spostò la conversazione su un tema apparentemente meno in­quietante.

«Cosa ne pensa della transnominazione?»

«Quando c’è stato il decreto che la consentiva avevo solo due anni. L’ho sempre vissuta come una cosa normale.»

«La sua famiglia ha usufruito della facoltà di cambiar nome?»

«No. Mio padre è sempre stato fortemente contrario.»

«Capisco suo padre. A distanza di tanti anni sono d’accordo con lui, ma allora non avevo saputo prevedere quali e quanti guasti avrebbe provocato quella novità. La transnominazione era stata introdotta e incoraggiata per favorire nella Federazione la crescita di un sentimento posteuropeo: i nomi veri erano legati alle piccole patrie prece­denti, agli stati sovrani, ai vecchi campanilismi. La rivoluzione didattica nelle scuole, il plurilinguismo e il progressivo ab­ban­dono delle identità culturali locali furono accolti con entusiasmo dalla nuova intellighenzia: una Posteuropa, una nazione. La guerra ci ha privati di buona parte dell’Italia e dei Balcani, nonché della Grecia: ma ha anche permesso agli stati superstiti quell’unificazione che prima nessuno aveva mai voluto seriamente. Il progetto è riuscito: noi adesso stiamo chiacchierando in tedesco senza particolari inflessioni, sebbene né lei né io siamo tedeschi.»

«Credevo che lei lo fosse.»

«Sono nato a Parigi da una famiglia francese al cento per cento e, prima di chia­marmi Mario Stern, ero Jacques Lecosse. Il suo direttore Julio Her­nández ha un nome spagnolo ma è olandese. Mira Uhlmann ha un nome tedesco ma è italiana. E, che io sappia, ha cambiato nome almeno due volte: da Rinaldi a Lefèbvre, da Lefèbvre a Uhlmann. Sa dove ci ha portato tutto questo?»

Non lo sapevo, né intuivo dove volesse arrivare. Fu lui stesso a darsi la risposta.

«Ci ha portato allo smarrimento del senso di apparte­nenza, alla cata­strofe se­mantica, alla confusione delle regole di comportamento, all’impos­sibilità di riconoscere alcunché. L’individuo è stato legittimato all’uso delle maschere, a impersonare ruoli in­tercambiabili, a fingere come un attore in scena, senza più assumersi il peso di respon­sabilità profonde nei confronti della società e di sé stesso.»

«Forse è per questo che la facoltà di transnominazione è stata poi abo­lita.»

«Troppo tardi. Cambiar nome è diventato una droga: si conti­nua al ritmo di prima, solo che adesso lo si fa illegalmente. La produzione di docu­menti falsi è il reato più comune nell’intera Federazione. Abbiamo fra noi milioni di extrafederali clande­stini, provvisti di passaporto posteuropeo e di un’identità acquisita di contrabbando. Qualunque criminale può procurarsi nuovi documenti in meno di qua­rantott’ore. Ma cambiar nome non è solo uno sport per clandestini e devianti: chiunque desideri dare un taglio netto al passato — sposare un’altra persona senza aspettare il divorzio, o sempli­cemente dimenticare un’esi­stenza insoddisfacente per ricominciare altrove e da zero — non deve far al­tro che rivolgersi a una delle tante copisterie, ti­pografie, legato­rie o riven­dite di cancelleria che di notte, cessata l’attività uf­ficiale, si trasformano in altrettante fabbriche di passaporti.»

«Non dovrebbe essere poi tanto difficile, per la polizia, stroncare questi traf­fici.»

«Crede? Arrestato un falsario, ne arrivano due nuovi. La mafia dei do­cumenti è ben più efficiente e rapida della polizia: direi che è ormai l’unica organizzazione real­mente efficiente rimasta in tutta la Posteuropa, tanto per riprendere l’argomento da cui siamo partiti.»

Il cameriere arrivò con le verdure e la zuppa fumante, e Mario Stern approfittò di quel momento per lanciarmi, con nonchalance, la sua stilet­tata.

«So che ha telefonato più volte per chiedere del signor Adhémar, un professioni­sta per il quale nutro una stima illimitata. È suo amico?»

«Ci siamo conosciuti per caso qualche tempo fa», risposi senza solle­vare gli oc­chi dalla zuppa. Il cucchiaio aveva tranciato un pezzetto del cro­stone acquattato sul fondo della ciotola; ma aveva agganciato, insieme al pane abbrustolito, un pertinace strato di gruviera fusa. Intendevo isolare un boccone da quella massa elastica, ma il cucchiaio trasci­nava con sé una stri­scia filamentosa senza fine, che re­stava ostinata­mente ancorata da qualche parte sotto il brodo.

«Conosco bene Claude Adhémar», disse senza alterare minimamente il tono di voce. «È un ispettore dei servizi centrali di Amsterdam, una per­sona che sa quello che fa. È in giro a cercare un latitante, un certo Ethan che è transitato per qualche tempo da noi prima di eclissarsi. Non deve meravi­gliarsi se Claude ha lasciato credere a tutti di essere venuto a Berlino: quando si fa il suo mestiere è opportuno, talvolta persino doveroso, dire qualche bugia.»

«L’ho immaginato anch’io.»

«Cercava Adhémar per una ragione precisa?»

«Oh, niente di importante.» Cipolle e formaggio bollente mi stavano andando di traverso. Tossii.

«Ero convinto che lei fosse venuto a Berlino per sapere che fine avesse fatto Claude, e chi fosse in realtà Étienne Ethan.»

«Non capisco perché possa aver pensato una cosa del genere», farfu­gliai.

«La confusione, amico mio: la confusione che ci circonda autorizza ogni compor­tamento, ogni mistero, ogni pensiero. Lei dice di non essere venuto per indagini, e io le credo; ma se — per assurdo — lei fosse venuto per indagini, l’indagine sarebbe già fi­nita. Perché io non ho segreti.»

«A quali segreti, veri o presunti, si riferisce?»

«È scoppiato un caso Ethan, ma le assicuro che è un affaire dav­vero mo­desto. Prima dell’arrivo di Mathias, avevamo al videocontrol un impie­gato in età di pen­sione: negli ultimi tempi si distraeva facilmente, era vec­chio e stanco, e così ha com­messo un piccolo stupido errore. Ha confuso i dati di Ethan con le immagini di un agente ameri­cano scom­parso in un in­cidente aereo. Non so come la cosa sia potuta ac­cadere; di so­lito gli agenti non più in servizio vengono eliminati dal videocatalogo. Non solo Ethan, ma anche quell’altro, un certo Ray mi pare, doveva essere tagliato via dalla documen­tazione in rete. Invece è rimasto. Il mio control­ler l’ho licenziato seduta stante, ma forse c’era anche qualcun altro, a Chi­cago o San Francisco o non so dove, che do­veva essere punito.»

«Non mi sembra che la questione sia tanto grave da giustificare ulte­riori ricer­che.»

«Credo che ne fosse convinto anche Claude. Al punto che mi son detto: magari usa il caso Ethan come copertura, essendo invece interessato a tut­t’altra indagine.»

«Immagino che questo Ethan, o comunque si chiami, sia stato ritro­vato.»

«Per quanto ne so, nessuno ha più interesse a cercarlo. Ha smesso di lavorare per noi un paio di anni fa, se non ricordo male. Non era nell’orga­nico, era un agente free­lance — che peraltro abbiamo usato pochissimo — e i compensi venivano pagati a una certa Ruth Jarry.»

«Perché non direttamente a lui?»

«Aveva voluto così. Era ospite di questa sua parente, non aveva ancora una re­sidenza stabile a Berlino e aveva deciso di usare la Jarry come presta­nome. Tutte in­formazioni che ho passato immediatamente a Claude: la sua indagine da noi durò esattamente quattro minuti.»

«Lei ha pensato che io fossi stato inviato qui in cerca di Claude Adhé­mar. Vuole dire che si sono persi i contatti con lui? Non si fa vivo da setti­mane?»

«Ufficialmente è così.»

«Lo dice come se non ne fosse convinto.»

«Infatti. Credo invece che Adhémar, per ordini superiori, sia attual­mente impe­gnato in un’indagine più seria; talmente seria da ren­dere indi­spensabile il silenzio sui suoi spostamenti.»

«Chi può averlo incaricato di una missione così segreta?»

«Forse lo stesso signor van der Voort, che è il suo superiore ad Amster­dam. O, più probabilmente, il quartier generale di New York.»

«In tal caso il signor van der Voort sarebbe all’oscuro di tutto?»

«In tal caso.»

«Il che farebbe pensare che New York non si fidi di lui.»

«Non abbastanza. Del resto New York non si fida di nessuno.»

«Ma se l’assenza di Adhémar si protraesse fino a interessare la polizia, cosa ac­cadrebbe?»

«Forse la Genesis di New York e l’Interpol stanno già collaborando in­sieme. Chissà.»

«Ritiene che la Genesis sia coinvolta in questioni così delicate da susci­tare addi­rittura l’intervento dell’Interpol?»

«Tutto è possibile, ragazzo mio. Tutto.» Mi sorrise con un solo angolo delle lab­bra, e sollevò un solo sopracciglio. «Vede? Lei pone poche do­mande, ma precise e pertinenti. È un inquisitore nato. Avevo ragione di considerarla un potenziale detec­tive.»

«Sono solo un po’ curioso, e non le ho posto alcuna domanda prima che lei sti­molasse la mia curiosità.»

«Bravo. Prometto che troveremo presto per lei un’attività più adeguata alla sua preparazione e alle sue doti. Non merita di perdere troppo tempo davanti a quel mise­rabile monitor.»

«Grazie.»

«Mi tolga anche lei una curiosità: cosa le ha detto Adhémar della sua carriera? Sa cosa faceva prima di diventare ispettore alla Genesis di Amster­dam?»

«Ha detto che faceva il babymaker.»

Stern rise di gusto. «Era una delle sue bugie preferite. Claude è sempre stato sterile; deve averne sofferto molto, tutta la vita.»

«Mai stato un genitore professionista?»

«Certo che no. Ha sempre fatto il detective: prima l’investigatore pri­vato, poi l’investigatore a stipendio fisso per la Genesis.»

«Da dove veniva? Da Parigi?»

Rise di nuovo. «È un berlinese puro. Lo conosco da quando aveva tre­dici anni: fu uno dei primi habitué della gelateria che mia madre aprì in questa città, quando ci trasferimmo dalla Francia. Il suo vero nome è Klaus Adal­bert von Weimar. Ammesso che nei nomi possa mai esserci qualcosa di vero.»

***

La sera, al Karajan, cercai di raccogliere le idee. Ero frastornato; la mia povera testa girava in una vertigine di nomi, nomi, nomi. Nessun nome corrispondeva con chiarezza a qualcuno. Io ero davvero Egon? O qualcuno che si spacciava per Egon? Chi era chi? E come se non bastassero i mille nomi che mi danzavano nel cervello, era lì ad attendermi un fax del Ber­li­ner Studium con una lista di nomi, nomi, nomi. Nomi che non mi dice­vano niente, tranne uno: Ruth Jarry.

Non ne avevo una gran voglia, ma dovevo farlo. Così formai il nu­mero e chiesi di lei.

«Sono un amico di Étienne. È in casa?»

Gelo.

«Vorrei parlare con Étienne, per favore. Può passarmelo?», incalzai con il tono di voce più naturale del mondo.

Mi sembrò di percepire il suo respiro.

«Chi devo dire?»

Già: che nome dovevo fare? Ci pensai due secondi e dissi: «Egon.» Un nome vale l’altro, dopotutto.

«Étienne non è qui in questo momento», mormorò con una voce in­crinata dall’af­fanno. «Riprovi fra mezz’ora.» E chiuse il telefono di scatto.

Riprovare fra mezz’ora. Avrei parlato con Étienne Ethan? Era davvero così fa­cile e banale? Nessuno aveva pensato prima di me a cercarlo nel luogo più ovvio di tutti — casa sua?

Forse ha ragione Stern, pensai. Non c’era, né mai era esistito, un caso Ethan. Il vero affaireera un altro. Era il caso Stoltz a far perdere il sonno ai dirigenti della Ge­nesis.

Dopo lunga e pigrissima doccia, richiamai Ethan. Fu ancora la donna a rispon­dere. Ruth Jarry, presumibilmente.

«Étienne non è ancora tornato, ma sono riuscita a rintracciarlo e av­vertirlo della sua telefonata. Si tratta di una questione urgente?»

«Sì. Avrei bisogno di incontrarlo al più presto possibile. Stasera stessa, magari. Non gli ruberei troppo tempo.»

«Conosce il Tempelhofpark?»

«No, ma posso arrivarci.»

«È il parco delle scienze e della tecnologia, una delle principali attra­zioni della città. Occupa l’area di un antico aeroporto. Étienne ha un impe­gno da quelle parti e non si libera prima delle un­dici. Dice che potreste in­contrarvi in Billgatesplatz alle un­dici in punto.»

«Billgatesplatz?»

«Sì, il grande piazzale d’ingresso. Étienne si farà tro­vare sotto il mo­numento cen­trale. Alle undici.» Riattaccò senza aggiungere nean­che un buonasera.

Avevo detto che ero un amico di Étienne e che mi chiamavo Egon. Senza batter ciglio Étienne mi aveva fissato un appuntamento! Aprii la mappa di Berlino e studiai il percorso da fare. Avevo preso a noleggio una Luxford. Mancavano quattro ore all’in­contro e potevo prendermela co­moda: cenare, vedere un film. Trattarmi bene, tanto per rilassarmi.

***

In Billgatesplatz c’era un’aria di mesto abbandono. Il Tempelhofpark doveva es­sere molto animato di giorno, ma a quell’ora era un pianeta morto. Intorno a me c’era tutto il vuoto del mondo: uno spazio dominato solo dal monumento centrale e dalla danza dei venti più gelidi del nord. Mi avvicinai con la Luxford in prossi­mità del mo­numento — tre costoloni in cemento armato alti non meno di venti metri — e mi siste­mai in una posi­zione da cui potevo controllare l’ar­rivo di Ethan senza uscire dalla mac­china. C’era un freddo artico e non mi andava l’idea di congelarmi all’aria aperta, nel caso che l’amico arrivasse in ritardo.

Altre due auto erano in sosta davanti all’ingresso del parco, a di­stanza di una ventina di metri l’una dall’altra. In giro non si scorgeva anima viva. Chi poteva aver parcheggiato in quel deserto? Erano macchine rubate?

Guardai l’ora. Le undici e dieci e non era successo niente. Riaccesi il motore e, lentamente, guidai fino a costeggiare una delle due auto. Ral­lentai fin quasi a fermarmi. Con un certo imbarazzo, intravidi qualcuno nell’abita­colo. Due figure abbracciate si stavano baciando. Una coppia sorpresa sul più bello dal voyeur di turno! Accelerai per togliermi di mezzo. Quando fui ar­rivato all’altezza dell’altra vettura, una vecchia Klasse Zet nera, il suo finestrino di sinistra si abbassò. Un piccolo bagliore rossastro lam­peggiò nel buco nero della notte. Prima di potermi rendere conto del fragore che ne se­guì mi ero già portato avanti quel tanto che bastava per salvare la testa. Spinsi il pe­dale dell’ac­celeratore fino in fondo, investito da una bufera di frammenti di ve­tro. La Zet partì dietro di me con un rombo furioso. Il si­len­zio astrale fu per­fo­rato da altri colpi sibilanti; quando uno dei proiettili raggiunse la mia Luxford in un punto impreci­sato della carroz­ze­ria, il metallo risuonò amplificato alle stelle. Ero per­duto. Guidai scompo­stamente chinando il capo fino a sfiorare il volante con la fronte; prima di in­for­care una delle uscite dalla piazza vidi nello specchietto retrovisore che an­che l’altra auto, quella degli innamorati, era partita a razzo. Partì un altro colpo. Uno solo. La Zet sbandò e fece un mezzo giro su sé stessa prima di andare a sbattere contro un palo. In­seguimenti e colpi d’arma da fuoco cessarono all’im­provviso. Stavo per svi­gnarmela da quel piazzale inospitale quando il clacson della terza auto, che si era fermata a sua volta, squillò sec­camente. Col cuore in gola mano­vrai per tornare indie­tro a passo d’uomo, frenando a distanza di si­cu­rezza dalle due auto e tenendomi pronto a scat­tare in caso di ulteriori sor­prese.

La coppia che avevo visto baciarsi uscì dalla propria auto, una Compu­tech blu, guardandosi intorno con circospe­zione. Erano due uomini. Uno mosse pochi passi verso la Zet impugnando un revolver. L’altro venne verso di me abbagliandomi con una torcia elettrica. Quando fu abba­stanza vicino, mi mise sotto il naso una tessera.

«Posteuro Security Bureau. Documenti, prego.»

Gli mostrai il passaporto. Mentre lo esaminava illuminandolo con la torcia, l’altro uomo ci raggiunse. Da non crederci: Fox Arp in persona.

«Lascia perdere», disse Fox al tizio con la torcia. «È uno che conosco. L’hai scampata bella, piccolo Egon. La signora voleva toglierti di mezzo. Pur­troppo ci ha rimesso le penne, e così non potrà raccontarci i motivi della sua antipatia nei tuoi con­fronti.»

«Morta?», domandai trasecolato.

«Talmente morta che prima sparisci e meglio è. Benjamin, fammi un pia­cere. Va’ col ra­gazzo. Porta la sua macchina da Horst e poi accompagnalo in albergo con un taxi. Fagli un paio di domande e dagli un po’ di istruzioni. Con la polizia me la vedo io.»

Docile come non ero mai stato, lasciai decidere tutto a loro. Benjamin si mise al volante della Luxford, tirò giù i frammenti di vetro dall’altro se­dile per farmi posto e, vedendomi in trance a tremare di freddo e di rinco­glionimento, alzò la voce. «Bellezza, vuoi muoverti o no? Fra poco arriva la polizia di stato e, se ti mette le mani addosso, puoi star sicuro che non ti molla più. Sbrigati.»

Con un po’ di riluttanza montai a bordo. Benjamin partì sgommando. Attra­versò il Mehringdamm e infilò di corsa la Dudenstraße, sfrecciando a tutta birra lon­tano dalla Zet, dalla Computech, da Arp e dal cadavere di Ruth Jarry. Già che c’era­vamo, cominciò subito a tormentarmi con la sua curiosità.

«Che ci facevi intorno a quella donna?»

«Doveva essere un appuntamento galante.»

«Non fare il buffone. La conoscevi?»

«No. Le avevo soltanto chiesto informazioni su un tale.»

«Étienne Ethan?»

«Sì.»

«Perché cerchi Ethan? Che cosa vuoi da lui?»

«Lo cercano in molti. Lavorava alla Genesis e non si fa vivo da un pezzo. Fox sa quello che dico. Fox è un mio collega di Amsterdam.»

«So benissimo chi è Fox.»

«Io invece non sapevo che era un agente dei servizi segreti.»

«Bene. Adesso che lo sai, mettiti in bocca un bel silenziatore. Sta’ zitto e non fare più niente. Non cercare né Ethan né nessun altro.»

«Dove stiamo andando?»

«In un’officina di fiducia. Non vorrai farti vedere in giro con la mac­china in que­sto stato.»

«L’ho presa a noleggio. La mia me l’hanno rubata a Zurigo.»

«Entro domani sera riavrai questa bomboniera rimessa a posto e nes­suno si ac­corgerà di niente. Non fare parola di quanto è successo.»

«E se arriva la polizia?»

«Non arriverà. Ma se malauguratamente arrivasse, non fare nessuna dichiara­zione. Digli soltanto di mettersi in contatto con il tenente Fox Arp del Security Bureau: punto e basta. Intesi?»

«Intesi. Ma se insistono?»

«Ripeti la formuletta come un vecchio disco rotto: non sai niente, si rivolgano al tenente Arp del Bureau.»

«Che ci fa Arp alla Genesis di Amsterdam?»

«Non sono cazzi tuoi. Niente domande. Non ficcare più il naso in cose più grosse di te. Non ti muovere da Berlino e tieniti a disposizione. Arp o io ci faremo vivi per sapere dove sei stato e cosa hai fatto negli ultimi giorni. Sta’ lontano da gente che non conosci.»

«Ho ricevuto ordini dai miei superiori.»

«Bravo. Li hai eseguiti. Il compitino finisce qui. Non hai più obblighi con nessuno, salvo il Bureau. Ai tuoi capi non dire niente di stasera. È una faccenda che compete al Bureau: neanche alla polizia di stato. Figurarsi se compete ai quattro fessi del tuo bordello.»

Come evocata dalle sue parole, la polizia si materializzò nella notte. Un agente in motocicletta ci sorpassò e ci costrinse a fermarci. Non solo era­vamo in palese ec­cesso di velocità, ma le condizioni della Luxford erano tali da insospettire anche un carciofo lesso. Senza scomporsi, Benja­min esibì le sue credenziali, lo avvertì che c’era scappato un morto in Billga­tesplatz, chiamò il tenente Arp con il cellulare e lo mise in comunicazione col poli­ziotto. Dopo lunga e animata discussione al telefono, il po­li­ziotto pre­tese i miei documenti. Benjamin si oppose. Fece la voce grossa, in­sistendo sul carattere top secret del caso. «Faccia il suo verbale, si tolga di torno e vada in Billga­tesplatz. È un affare che riguarda il Bureau.»

Ripartimmo, lasciando l’agente con un palmo di naso a doman­darsi se inse­guire noi o volare al Tempelhofpark.

Strada facendo, Benjamin telefonò a un certo Horst. Gli impose senza tanti pre­amboli di aprire l’officina per un servizio urgente. Tempo quindici minuti e saremmo arrivati.

Ne è passato di tempo, ma a ripensarci provo ancora un brivido. Qual­cuno aveva tentato di farmi fuori. La pelle era salva, ma avevo perso la pace. Tutto si era svolto in modo così rapido — l’attentato, l’inseguimento, l’imprevisto salvataggio — da rimbambire la mia povera mente. La fer­mezza di Arp aveva deciso per me. Gli avevo obbedito senza pensarci due volte, e mi sen­tivo talmente colpe­vole e vile da non desiderare altro che la fuga, il rifugio, il silenzio. Acquat­tato sotto le lenzuola provavo insieme il gusto dolce dello scampato peri­colo e il sapore acido di ciò che sarebbe ve­nuto dopo. «Mi di­spiace per lei, amico mio: lei è destinato a vedere il peg­gio», aveva profetiz­zato Mario Stern. Lugubre iettatore impomatato! Il male annunciato si era precipitato su di me a tempo di record: ci aveva messo meno di dieci ore per passare dalle sue labbra alla mia coscienza. Chi era Ruth Jarry? Come killer non era certo un granché: mi aveva scaricato ad­dosso l’iradiddio — il primo colpo a distanza ravvici­nata — senza scalfire né il sottoscritto né le gomme della Luxford. Solo i vetri laterali e un angolo della lamiera po­steriore, in alto a sinistra. Del resto, come poteva presumere di guidare con una mano e, contemporaneamente, sparare con l’altra attraverso il finestrino aperto? Bisogna essere non solo dilettanti, ma anche fuori di testa per osare un tale numero da circo. Quanto a Fox, doveva aver tirato un colpo solo, neanche da una posizione facile, e zang!, aveva cen­trato l’o­biettivo. È proprio vero che le apparenze ti fregano sempre: non avrei scom­messo ne­anche un cen­tesimo sulle sue virtù di uomo d’azione. E che ci fa­ce­vano, lui e Benjamin, nel posto giusto e al momento giusto? Chi sta­vano sorvegliando: Ethan o me? E perché Fox an­dava in giro per Berlino con una pistola? Non riu­scivo a rispondere a niente: come de­tective ero una schiappa. Dovevano sa­perlo anche loro: van der Voort, Hernández, France­sca, Arp, lo stesso ma­le­detto Claude o Klaus Adhémar o von Weimar che fosse. Chiaro, chiaris­simo: sapevano che ero un due di coppe, un piccolo sbruffone incompe­tente, e mi avevano scelto proprio per la mia scemenza, come bersaglio mo­bile per sni­dare chissà chi. La Genesis non era altro che un covo di attività illecite o ambigue, un regno di violenze mi­steriose, una polveriera zeppa di dina­mite nascosta; rimuginavo e rimugi­navo senza ve­nire a capo di nulla. La mia immaginazione, che avevo sem­pre creduto ef­fervescente, aveva ali atrofizzate; chiunque po­teva darmela a bere, persino Sanguisuga Fox dal­l’a­ria così impiegatizia e inoffensiva. Ero alla mercé di tutti, e qual­cuno — o più di uno — mi voleva morto.

Mi volevano morto. Ma allora qualcosa valevo. Poco, ma valevo. Do­vevo aver puntato il dito sul bottone giusto. Nessuno vuole morto un fesso al cento per cento. Ero prossimo a una meta e non me ne rendevo conto. Già dovevo aver disturbato qual­cuno al Futura Light di Zurigo; se l’e­rano presa con la mia macchina per man­darmi un segnale. Come dire: «Gira al largo, deficiente.» E qui a Ber­lino? Che cosa aveva indotto il sommo dottor Stern a preoccuparsi di me? Le sue erano semplici profezie o minacce ve­late? Infine, Ethan o quella Ruth Jarry. Mi fissano un appunta­mento nel luogo più appartato della me­tropoli al solo scopo di liquidarmi. Quale filo legava tra loro tutte quelle vite? Che re­lazione c’era fra Ethan, Vernon Ray, Max Stoltz e Adhémar; e per­ché spari­vano tutti nel buio? Cosa aveva da na­scondere Mario Stern? Che c’entrava il Security Bureau?

E qual era la parte di Ingrid in tutta l’oscura faccenda?

© Pasquale Barbella

(5 – Continua)





Viewing all articles
Browse latest Browse all 909