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L’ultima biglia

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Nicola aveva trovato un impiego provvisorio a Potenza, città fatta di scale e di vento. Vi aveva già trascorso l’inverno più gelido della sua vita. Approfittò delle feste pasquali per andare a dare l’ultimo addio alla casa in cui aveva vissuto, nelle Murge. Era vuota: i suoi si erano trasferiti al nord. Ma qualcosa di suo era rimasto – libri, scartoffie, una branda e poco altro – e bisognava darci un’occhiata per decidere cosa salvare e cosa lasciare, prima di restituire le chiavi al proprietario.

Molti dei suoi amici si erano dileguati altrove, dopo il diploma. Leonardo, però, c’era ancora. La sera del venerdì santo andarono insieme al Pidocchio. Era un vecchio cinema fallito. Nessuno ne ricorda più il nome vero; era Pidocchio e basta, per via della sporcizia e della rovina. Verso la fine dei cinquanta qualcuno aveva comprato il locale, chiuso da anni, e gli aveva dato una ripulita. Nella platea sventrata erano stati piazzati dei tavoli da biliardo, nuovi di zecca. C’era anche un piano superiore con ufficio, bagno e stufa affacciati su un ballatoio da saloon.

Nicola e Leonardo avevano frequentato di tanto in tanto, nelle sere di noia, quella sala giochi, sul tardi. Con le stecche erano due schiappe, ma con le boccette avevano imparato a cavarsela. Non che fossero proprio devoti alle biglie e al velluto verde; solo che a una cert’ora non sapevano che altro fare. Leonardo era sempre sul depresso, forse era nato con un’impronta congenita di tristezza. Rideva spesso, ed era anche un gran parlatore, ma la sua era un’euforia sarcastica, da teenager colto e infelice. Al Pidocchio sembrava rianimarsi un po’.

Trovare un tavolo libero non era facile. Il locale era sempre pieno, la sera. Bisognava mettersi in coda e aspettare che altri si togliessero di torno. Alcuni si installavano lì come se fosse l’ultimo rifugio del mondo, e dal pomeriggio a mezzanotte non c’era verso di schiodarli. Altri avevano l’aria di teppisti ed era prudente tenersi a distanza, attenti a non cedere alle provocazioni. Non era esattamente il posto più adatto ai ragazzi di buona famiglia. Giravano maschere truci e, nell’aria satura di fumo, volavano parole grosse. Per fortuna non si servivano alcolici. Pagavi e giocavi – nient’altro. Se qualcuno faceva lo smargiasso doveva vedersela con Barabba, il padrone del regno. Che ovviamente non si chiamava Barabba, ma chissà come. Del resto, a chi potevano importare i suoi dati anagrafici? O la sua biografia? Barabba era Barabba e basta, con bicipiti tatuati a dovere e un’autorevolezza che nessuno avrebbe osato mettere in discussione.

Succedeva spesso che entravi e in cinque minuti facevi dietro-front, perché vedevi tutti i tavoli occupati e, dalla mobilità espressiva dei giocatori, capivi che erano troppo eccitati per rinunciare alla postazione. Quella sera, come per miracolo, Nicola e il suo amico trovarono un tavolo già sgombro invece di fare la solita coda. Leonardo era più in forma che mai. Era confortante vederlo così preciso nei tiri e persino un po’ strafottente. Al diavolo i malumori. Quel gioco, e il fatto di vincere due volte su tre, lo metteva su di giri. Una specie di terapia, per quel che poteva durare.

Tumpf, tumpf, tumpf. La sala era tutta un concerto di biglie scontrate, di sponde colpite, di buche violate. A Nicola piaceva quella musica. Gli piacevano i colori delle palle, così vividi sotto la luce del neon. Stava giusto calcolando un tiro assassino quando, al lato lungo del tavolo, comparve quel trio di canaglie. Il più basso, che aveva una faccia di tufo, domandò a bruciapelo: «Avete finito?»

Lo informai che avevamo appena incominciato. E quello: «Beh, adesso avete finito. Stop.»

Continuai a trastullarmi con le biglie senza dargli retta. Sbagliai vistosamente il tiro e mi sentii avvampare di vergogna. I tre risero sguaiatamente. Faccia di tufo incalzò: «Non è gioco per bambine. Fuori dai coglioni, tocca a noi.»

Azzardai un vaffanculo. Dalla parte opposta del rettangolo, Leonardo ci mise del suo: «Questo è un posto pubblico. Quando avremo finito, giocherete voi.»

«Hai sentito?», disse il bassetto a uno dei suoi servi, che aveva il viso coperto di pustole. «Questo è un posto pubblico, ha detto. Però si comporta come se il posto fosse suo.»

Nicola e Leonardo continuarono a tirare boccette, ad abbattere birilli, a elaborare geometrie complicate e a misurare con le mani le distanze fra le biglie e il pallino, ignorando gli scocciatori. Come per incanto, quelli si tolsero dai piedi. Nicola bolliva di rabbia. Anche perché non poteva credere che si arrendessero così facilmente.

Dopo tre minuti, infatti, successe qualcosa. Sul bel mezzo del tavolo si abbatté, come un colpo di cannone, un ciocco di legno. Un ceppo della stufa, lanciato dal ballatoio. I due levarono lo sguardo e li videro lassù tutti e tre, che sghignazzavano come iene.

Uno del trio minacciava di tirar giù un secondo proiettile. Fu allora che Nicola andò a cercare Barabba. Gli disse come stavano le cose. «Ci penso io», disse il gigante senza un’ombra di emozione. Giocarono fino a dopo mezzanotte, senza pensare più all’incidente. I tre erano scomparsi da un pezzo. Usciti all’aria aperta, i due amici si salutarono, avviandosi in direzioni opposte.

Nicola s’incamminò per il suo chilometro di strada. Attraversò il centro deserto, chiedendosi che senso avesse quel suo ritorno e a cosa mai gli giovasse la nostalgia. Aveva lo stomaco vuoto e la testa piena di niente. Pensò alle due arance che lo aspettavano a casa, alla valigia lasciata semiaperta sul pavimento, a tutta quell’assenza di suono e di rumore. Stava costeggiando la cancellata della Villa comunale, il punto meno abitato del percorso, quando percepì lo scalpiccio alle sue spalle. Qualcuno gli impose una mano sulla spalla sinistra. Dovette fermarsi e subire quel risolino inconcludente. Faccia di tufo gli parlava come si parla a un fratello minore.

«Che bella faccetta che hai», disse. «Però non sei stato gentile. Devi ammetterlo.»

«Vieni al dunque».

«E come faccio a venire al dunque? Hai l’aria di uno che corre subito dai carabinieri, se ti guasto il faccino. Tu che ne dici?»

«Io non ho niente da dirti.»

«Sicuro?»

«Vado di fretta.»

«Adesso non hai niente da dirmi. Ma lì mi hai detto vaffanculo. O sbaglio?»

«Vaffanculo di nuovo.»

Non l’avesse mai detto. In un baleno, i suoi lacchè lo afferrarono per le braccia, uno da destra e uno da sinistra. Il nano lo sgambettò facendolo crollare sull’asfalto, e gli assestò uno, due, tre pugni sul naso e sulle labbra, come a volerlo sfigurare. Cadendo, Nicola gli si era aggrappato con la sinistra allo scollo del pullover, e lo tirò giù con tutte le forze per avere la faccia di tufo a portata di pugno. Da quella posizione scomoda tirò dei colpi alla cieca con la mano libera. Non era fatto per la guerra, era nato col Nobel stampato in fronte. Lo avrebbero ridotto a pezzi se non si fosse materializzato, alla luce dei lampioni, un angelo in bicicletta.

Il ciclista puntò diritto verso quel groviglio di corpi nel buio, scampanellando a ripetizione. I picchiatori se la svignarono all’istante. L’uomo scese dalla bici e aiutò la vittima a rimettersi in piedi. Si riconobbero a vicenda, con stupore. Era proprio lui, il Sarto. Il suo padrino di cresima. «Fammi vedere», disse prendendogli il mento tra le dita. «Stai sanguinando. Vieni, andiamo in bottega. Ce la fai a camminare?»

«Sì che ce la faccio. Non è niente, non mi fa male.»

Quella che chiamava bottega era il suo laboratorio, in verità modestissimo, di taglio e cucito. Attraversarono la strada e, dopo un centinaio di passi, l’uomo si chinò con la chiave e tirò su la serranda. «Attento a dove metti i piedi», disse prima di accendere la luce. Lo fece sedere. «Apri la bocca.» Un filo di sangue gli era sceso lungo il mento e il collo, macchiandogli anche il maglione. Cercò dell’ovatta e delle garze, gli ripulì le macchie, tamponò a colpetti qua e là. «Hai un labbro gonfio, ma i denti sembrano a posto. Chi erano quelli?»

Nicola gli raccontò la storia.

«L’ho visto, il tuo nano», disse. «Non è uno di qui, ma so chi è. Ha un banco di formaggi al mercato. Quando non è in galera.»

«In galera?»

«Stagli alla larga. Deve avere una fedina da schifo. Non è il nemico che fa per te. Ma tu che ci fai qui? Ti credevo a Bari. O a Potenza. Perché non mi hai avvisato che eri qui? Come mai non sei venuto a trovarci? Hai già cenato?»

Il ragazzo rispondeva all’interrogatorio con qualche verità e qualche bugia. «Domani, comunque, ti voglio assolutamente a pranzo da noi», concluse il Sarto. «Poi, per sicurezza, ti converrà sparire per qualche tempo.»

La mattina del sabato, Nicola raccontò l’avventura ai primi ex compagni di liceo incontrati per strada. Quando descrisse Faccia di tufo, e accennò al banco dei formaggi, Nunzio esclamò: «O cazzo! Proprio stamattina l’ho visto al mercato. Aveva un cerotto enorme tra il naso e un orecchio.»

Nicola se lo fece ripetere, gongolando segretamente di gioia.

«L’hai sistemato, ma ho paura che non te la fa passare liscia. Se vuoi un consiglio da amico, fai la valigia e squagliati.»

Ma non poteva andarsene all’improvviso. Era tornato con un programma ben definito – impegni burocratici, gente da salutare, oggetti da recuperare. Ma era in allarme. Talmente in allarme che, senza ricordare né come né dove, si procurò un coltello di quelli pieghevoli, a serramanico. «Non si sa mai», andava dicendo a sé stesso.

Fece la posta a un tizio della Pubblica sicurezza. Lo conosceva, era fidanzato con un’amica di famiglia. Voleva consigliarsi con lui, in via del tutto ufficiosa. Gli domandò se conoscesse un tizio, alto all’incirca un metro e sessanta, che vendeva formaggi al mercato.

«Se lo conosco! Entra ed esce di cella.»

Gli disse che aveva pestato e minacciato un amico, riportandone una ferita sul volto. «Che succede se il mio amico lo denuncia?»

«Succede che lo prendiamo, lo fermiamo per una notte e domani è di nuovo a piede libero.»

«Anche se è già schedato?»

«Anche se è già schedato. Lo so che dovrei essere l’ultima persona al mondo a parlarti così. Ma non mi va di vederti vittima di qualche vendetta. Quello è un delinquente coi fiocchi.» Aveva capito al volo che l’antagonista del formaggiaio era Nicola. Ci tenne a fargli sapere che il nano, se denunciato, sarebbe stato assai più pericoloso di come già era.

Per quei pochi, ultimi giorni in paese, Nicola evitò – specialmente la sera – di passare da solo in zone deserte. Si fece accompagnare da frotte di coetanei, stava sempre in gruppo anche se non si trattava degli amici più cari. E, senza dirlo a nessuno, accarezzava il manico del coltellino ripiegato in tasca. Pensava a come lo avrebbe usato, in caso di bisogno. Non era esperto in materia. Doveva colpire alla pancia? Al torace? Alla gola? No, alla gola no, avrebbe dovuto alzare un po’ il braccio, anche se l’avversario era basso. Addestrato com’era, il nano avrebbe avuto tempo e modo di bloccarlo. Senza contare che aveva due guardie del corpo. Ma quelli, si diceva Nicola per farsi coraggio, erano dei gregari, delle nullità, e al primo fiotto di sangue sarebbero scappati via. Il ventre gli sembrava più abbordabile, più facile da trafiggere, perché lì la carne è molle e non oppone resistenza. Si perdeva in questi pensieri, fantasticando su mille varianti di attacco e difesa.

Di notte faticava a prender sonno. Si sforzava di immaginare non solo la scena cruciale, ma anche le sue conseguenze. Fra un brivido e l’altro, inseriva qualche speranza. L’avrebbe scampata, se fosse riuscito a sopravvivere fino al lunedì dell’Angelo, giorno fissato per la partenza. Dopotutto non era ancora successo niente di tragico, ed erano già passati due giorni dalla prima imboscata. Gli dispiacque di aver evitato la compagnia di Leonardo, dopo l’ultimo incontro. Ma non voleva metterne a repentaglio la sicurezza. Lui era prossimo a partire ma Leonardo sarebbe rimasto lì, in balia dei predatori.

Cominciava ad aver paura anche del suo coltello. Sapeva bene di non esserne all’altezza. Qualunque arma, nelle sue mani, si sarebbe ritorta – in un modo o nell’altro – contro di lui. Ma non si decideva a disfarsene.

Il giorno di Pasqua ripassò a salutare il Sarto e la sua famiglia. Quanto gli doveva! Non solo per il salvataggio e il pranzo, ma per tutto il sostegno che gli avevano dato dopo la morte di suo padre. Non aveva soldi per un regalo. Allora regalò al Sarto una confessione, perché il poveruomo si stava mostrando troppo apprensivo sul destino di quel figlioccio.

«Se mi tocca di nuovo», dichiarò Nicola con una certa vaghezza, «glie ne faccio passare la voglia.»

«Stagli lontano e basta. Non puoi farcela contro uno di quella specie.»

«Ne sei certo?»

Con un mezzo sorriso, si sfilò di tasca il coltello a serramanico e lo fece scattare con un bel clac.

Quanto si arrabbiò, il Sarto! Tante glie ne disse e tanto alzò la voce che riuscì a farsi consegnare il coltello. Probabilmente era ciò che Nicola voleva fin dal principio, anche se non capiva perché mai l’avesse presa tanto alla larga. Avrebbe potuto semplicemente lasciare quell’oggetto nella casa vuota, o gettarlo nella fognatura. Ma si sentiva un po’ eroe, per aver avuto l’idea di attrezzarsi allo scontro. Adesso era di nuovo disarmato, ma per decreto di una forza superiore. Il fatalismo ebbe il sopravvento sull’angoscia. Vado inerme al macello, si diceva, e ne esco bene anche da morto: tre contro uno, se tutto va male. Uno contro tutti, se per miracolo la scampo.



Venne il lunedì della partenza. Definitiva. Aveva salutato le persone più care, sapendo che molte non le avrebbe più riviste. Il vecchio autobus della Sila partiva di prima mattina e il viaggio era lungo. Era sano, salvo, allegro e triste. Temprato, anche. Il luogo in cui era cresciuto lo stava scaricando per sempre, lasciandogli per ultimo ricordo uno schizzo di sangue.

Sì, era al sicuro – almeno dagli aggressori. Poteva finalmente concentrarsi su altre insicurezze. Ma per quelle c’era più tempo. Poteva permettersi il lusso di soffrire un po’ alla volta, in caso di necessità. Se hai dieci problemi che ti assillano, pensò, preoccupati solo del primo. Gli altri nove contano meno di zero.

Con quella bella scoperta si lasciò cullare dalla corriera, che intanto si era messa in movimento. In pochi minuti, l’abitato scomparve alle sue spalle. Amici e nemici impallidivano, a poco a poco, nei vapori della memoria. Era un altro. Si sentiva rotolare nel futuro come una biglia in moto perpetuo, rimasta sola e senza tiratore su una pianura di velluto verde disseminata di buche.

A Potenza, una domenica sera, un tale gli venne incontro in mezzo alla folla del corso, con un largo sorriso stampato sul volto. Per un po’ Nicola finse di non vederlo. Accennò anche a un cambio di rotta, nell’estremo quanto patetico tentativo di evitare quella seccatura.

Faccia di tufo era al settimo cielo. «Che combinazione!», andava ripetendo, incredulo. Gli si attaccò al braccio, come si fa con un fratello ritrovato dopo anni di prigionia. Lo sospinse nel bar più vicino e gli offrì da bere.

© Pasquale Barbella













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