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Il movente

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Illustrazione di Jos van Uytregt, dal volume European Contact Photographers and Illustrators,
Elfande Art Publishing, Reigate (UK), 1988.


Continuavo a salire, tornante dopo tornante. Oltre la diga, oltre la cascata, oltre i vapori che avvolgevano a quell’ora le cime. Mi ero lasciato alle spalle, da un pezzo, il centro abitato, col suo campanile d’un grigio bagnato e severo. Doveva essere quella, pensavo, la parrocchia che aveva offerto a Ileana D. l’ultima chance. La Casa della gioventù, sormontata da un’insegna consunta con l’immagine stilizzata d’un capriolo, stava nella frazione più alta e isolata. Ne avevo visto una foto su internet. Era una vecchia costruzione in legno, che appariva depressa e incupita dal gelo e dal vento. Nei mesi estivi, approfittando della tiepida e incostante clemenza del sole, accoglieva adolescenti in vacanza, affidati alla guida di sacerdoti o volontari da oratorio. Per poco prezzo offriva dormitori e camerette comuni, pensione completa e, su richiesta, colazioni al sacco. Proprio della mensa si occupava, con altri, la donna che ero andato a cercare.

C’era stato un breve scambio di corrispondenza: botta e risposta, in quattro tempi. Le avevo spiegato il motivo della visita, assicurandole che non scrivevo per i giornali ma che mi stavo documentando per un libro ispirato al suo caso. Lasciavo a lei la decisione di usare nomi veri o posticci. Avrei scritto il libro anche senza il suo consenso, precisavo; ma in tal caso sarei inevitabilmente scivolato in un vortice di congetture e banalità, con risultati che ci avrebbero scontentati entrambi. La sua reazione non mi era parsa né promettente né ostile. Aveva preso tempo e manifestato il proposito di consultarsi con don Anselmo, l’unico confidente di cui ormai disponesse. Temevo che il sacerdote troncasse sul nascere le mie aspettative, imponendole un virtuoso silenzio. Invece non solo approvò l’idea, ma quasi la incoraggiò ad aprirsi con me, come se ciò potesse aiutarla a mettere ordine nella sua coscienza. Questo, almeno, è quanto ho creduto di poter desumere dalla sua lettera d’assenso, non meno formale e laconica della prima.

Mi domandavo se l’avrei riconosciuta. Poteva essere molto cambiata dall’epoca dei fatti. In vent’anni si passa dai cinquanta ai settanta – un salto che lascia il suo segno, specialmente se in partenza dimostri molti anni di meno. Le foto stampate sui giornali del tempo la mostravano magra e decisamente più giovane della sua età. Con i capelli neri, cortissimi, su un volto pallido, spigoloso e confuso. Così era stata sorpresa dai flash dopo il ritrovamento su quella spiaggia della Riviera ligure, dopo tre giorni di sparizione. Con la sua utilitaria era uscita dal box sotto casa alle otto di un lunedì mattina, come faceva tutti i giorni feriali alla stessa ora per recarsi al lavoro. Svolgeva mansioni contabili in una piccola fabbrica di infissi e serramenti a nord di Milano, non troppo lontano dalla villetta unifamiliare dove conduceva col marito un’esistenza priva di sbalzi. I colleghi l’hanno sempre dipinta come persona schiva, dedita al lavoro con serietà, poco incline al cameratismo ma non per questo asociale. I vicini di casa serbavano di lei un ricordo altrettanto benevolo, sebbene tendessero a preferirle Francesco, il marito, per l’innata giovialità che alcuni di loro definivano “calore umano”. La coppia era nota nel quartiere per irreprensibilità e gentilezza. Nella bella stagione, capitava due o tre volte di essere invitati da Francesco a una grigliata domenicale in giardino. Sapeva ridere e far ridere, in tenuta da cuoco, mentre si dava da fare con la carbonella e il ventaglio. Ileana provvedeva ad allestire una tavolata alla buona, sotto il pergolato col glicine, e badava a tener lontano il gatto dalle costate e dalle salsicce. Quel lunedì, in azienda non la videro arrivare. La sua assenza non destò allarme: si pensò a una banale influenza. Qualcuno ricordava di averla sentita tossire, prima del weekend. Fu solo il giorno dopo, martedì, verso le undici del mattino secondo i colleghi, che l’assenza di Ileana diventò un caso da prendere sul serio.

Comparve finalmente, alla mia destra, un pannello di legno scritto a mano, con una vistosa freccia ad indicare la mia destinazione. Non era tardi, ma il buio era calato precoce e improvviso. Dall’asfalto si passò a un sentiero disseminato di sassi, largo quel tanto che basta per farci passare a malapena un camion. Poco più in alto il viottolo si apriva in uno spiazzo, anch’esso sterrato, davanti al rifugio. Vi erano parcheggiati un minipullman e un paio di vetture. Due lampioni illuminavano svogliatamente la scena.

La hall, se si può chiamare così, era un ampio e sciatto salone dai molti usi. C’era un desco per la reception, e il resto dello spazio era occupato da una tavola lunga da refettorio, tavolini per quattro, sedie di plastica, un paio di divani a buon mercato, un tavolo da ping pong e un calcio balilla con uno dei centravanti decapitato. Al momento del mio arrivo la sala era inondata da odori di cucina e non si scorgeva anima viva. Attesi pazientemente qualche segno di vita. Un uomo di mezza età, in maniche corte nonostante il freddo pungente della sera a quell’altitudine, irruppe nella sala con un carico di legna fra le braccia, affrettandosi verso il camino. Deposto il peso, si asciugò con un gomito la fronte sudata e mi prestò attenzione. Aveva stazza da pugile e sguardo mansueto. Volle a tutti i costi portarmi il bagaglio, su per le scale, e scusarsi per gli scarsi conforti della stanzetta a me destinata, provvista di un letto a castello e un armadietto sbilenco. Mi indicò il bagno comune, sul corridoio. Gli chiesi dove fossero finiti i ragazzi del pullman. Disse che erano in gita fin dal mattino, e che sarebbero tornati da un momento all’altro. Avrebbero fatto baccano come al solito, si premurò di avvisarmi. Mi guardava come si guarda, nei luoghi d’avventura, un malcapitato appena giunto dalla città, incapace di affrontare i rischi e i disagi a cui va incontro. Gli domandai se e quando avrei potuto incontrare la signora D. Mi fece capire che con i ragazzi in giro sarebbe stata troppo impegnata, e che bisognava aver pazienza almeno fino alle nove, l’ora in cui quelli – piegati dagli strapazzi della giornata – sarebbero crollati nel sonno. Ordinai una grappa, ma non servivano alcool. Ripiegai su un caffè e mi ritirai in camera.

Mi ero quasi appisolato quando il silenzio fu rotto dagli schiamazzi. Sorrisi. Ero stato, come loro, un baraondista di prim’ordine. Quel trambusto di minorenni era il miglior contrappunto alle ansie che mi avevano preso. Che ci ero andato a fare, lassù? Perché mi interessavo a una vicenda così estranea, remota, dimenticata? Che cosa avevo sperato di scoprire e imparare io, ultimo arrivato in una storia voltata e rivoltata – come il risotto in pentola – da inquirenti, avvocati, giornalisti, medici e luminari d’ogni branca delle scienze umane? Non sapevo già a memoria tutto quanto c’era da sapere al riguardo? Non avevo compulsato giornali, dossier, libri che avevano già sviscerato il caso oltre ogni limite? E avevo davvero la stoffa per fronteggiare quella donna e strapparle dichiarazioni inedite? Chi credevo di essere? Pensavo forse che intervistare Ileana D. fosse una passeggiata, come l’aver scambiato quattro chiacchiere con le mezze calzette che avevano avuto a che fare con lei?

La collega, la vicina di casa, i negozianti che avevo braccato in Brianza non potevano che raccontare, sul suo conto, inezie risapute e prevedibili: sciocchezze espresse con dovizia di dettagli insignificanti, come s’addice a chi si sente sotto i riflettori per aver respirato nell’aria il gas dell’eccezione alla regola. Sentite, sentite la vuotaggine di tali testimonianze: ne cavo una a caso dalle registrazioni che ho fatto, sbobinato e corretto: «...Due poliziotti chiesero di parlare col titolare e si trattennero a porte chiuse una buona mezz’ora, nel suo ufficio. Il padrone, poi, si affacciò sulla soglia e ordinò alla segretaria di convocare immediatamente la signora Zurbini. Sembrava nervoso. La signora Zurbini condivideva con Ileana la stessa stanza, quella che fungeva da ufficio amministrativo, che noi chiamavamo “il buco” per quanto era piccola e brutta. Anche Zurbini ebbe un lungo colloquio con gli uomini in uniforme, al riparo da orecchie indiscrete...» Avessi almeno potuto parlare con Zurbini in persona, o con l’imprenditore; ma il tempo fa il suo mestiere e, per farmi un dispetto, erano morti tutti e due. Molte delle persone più vicine alla Ileana di allora non c’erano più, decimate dall’età, dalle malattie, dai trasferimenti. Solo i suoi coetanei, del resto, erano in grado di dire qualcosa di lei: per i più giovani non era mai esistita. Le figlie, poi. Entrambe si erano rifiutate, con indignazione, di ricevermi. Era noto che avevano tagliato i ponti con la madre e che non volevano più saperne. Anche quello era stato un tormentone implacabile, sulle riviste di gossip.

Vidi Ileana D. all’ora di cena, quando – disceso in mezzo alla bolgia dei vocianti – mi feci servire, dal solito factotum, un piattino di taleggio e insalata e un bicchiere di latte. Lei uscì dalla cucina asciugandosi le mani nel grembiule e puntò a occhi bassi verso di me. Aveva capelli sfilacciati d’un grigio spento, occhi chiari e sfuggenti, braccia robuste, ed era in sovrappeso. A mo’ di benvenuto mi tese una mano molliccia che strinsi solo io; subito dopo, svelta com’era venuta, corse a rintanarsi di nuovo in cucina.

Era stata ritrovata quasi per caso nel pomeriggio di mercoledì, sulla spiaggia di Rapallo. C’era cattivo tempo. Camminava lentamente lungo la battigia, incurante dei tuoni e del mare agitato. Indossava un paio di jeans e un giaccotto della stessa tela, che teneva serrato con entrambe le mani all’altezza del collo per proteggersi dal vento umido e freddo. Quando la pattuglia le si avvicinò volle sapere come avessero fatto a trovarla. I giornali e la televisione riportarono frammenti d’intervista al gestore d’un baretto situato a meno di cento metri dal luogo della cattura. Manifestando un certo orgoglio, l’uomo aveva dichiarato di aver riconosciuto subito, nella cliente che gli aveva ordinato un doppio espresso, la donna ritratta nelle prime pagine. Nonostante il diverso taglio dei capelli e l’espressione un po’ meno smarrita.

All’epoca dell’arresto Ileana D. aveva cinquant’anni appena compiuti, due figlie già sposate e, in prospettiva, un avvenire senza problemi economici, sentimentali o di salute. Questo, almeno, è quanto si evince dalle cronache. Su esplicita richiesta dei difensori, l’imputata fu sottoposta a più d’una visita psichiatrica, per accertare se fosse perfettamente in grado d’intendere e volere. La sua confessione fu immediata e spontanea, immune – a quanto pare – dalle reticenze e dai sotterfugi tipici di chi si trova sotto interrogatorio o sotto choc.

Stralci dai verbali degli interrogatori, letti e riletti in aula durante il processo, sono stati trascritti e pubblicati alla lettera infinite volte. Più che interrogatori, sembrano conversazioni. Lineari. Freddamente descrittive, anche quando si scende nella “dinamica dei fatti”, come i giornalisti amano definire l’ingegneria del crimine.

«Mi hanno sempre trattata con rispetto», disse Ileana quando le chiesi se le avessero estorto la confessione. Passeggiavamo nel bosco dietro la Casa della gioventù, quando i ragazzi erano via per le solite escursioni. Tutte le nostre conversazioni si svolsero lì. Era stata lei a deciderlo. Immaginai che non potesse sopportare l’idea d’un tête-à-tête, seduti l’uno di fronte all’altra. Camminare, meglio ancora se su un terreno scosceso, le evitava di guardarmi negli occhi e di sottostare all’autorità che forse mi attribuiva. All’inizio si mostrò un po’ delusa dalla mia età. «Mi aspettavo una persona meno giovane», disse. Le chiesi perché. Non rispose.

Prima di quegli incontri mi ero baloccato con diverse ipotesi sul modo migliore di entrare nel vivo dell’argomento. Scelsi di partire dal presente: da come fosse arrivata tra quelle montagne, come si svolgesse il suo nuovo lavoro, come vivesse fuori stagione – quando la Casa della gioventù rimaneva vuota. Da quei preamboli speravo che nascesse un appiglio casuale, un pretesto per entrare in mare aperto. Non succedeva. Rispondeva spesso a monosillabi, e persino i «sì» e i «no» sembravano costarle fatica. Forse la mia età accentuava la sua soggezione. Era come se la posterità le fosse piombata addosso per prolungare sine die la sua sofferenza, rendere più resistenti e inamovibili i ricordi anziché seppellirli.

I ricordi, il ricordo. Ileana D. si alza dal letto al canto del gallo, si chiude in bagno per urinare, si lava accuratamente le mani col sapone liquido, le asciuga, va in cucina, accende la luce, apre un cassetto, sceglie il coltello più affilato, lascia la luce accesa, ritorna nel corridoio puntando verso la camera da letto, si accerta che la luce proveniente dalla cucina sia sufficiente, prima di entrare in camera si sfila le pantofole per far sì che non si sentano strisciare, si accosta al letto dove Francesco continua a dormire, aiutata dalla tenue illuminazione calcola bene il punto di affondo: appena a destra del pomo d’Adamo, immerge di scatto la punta e, con agilità superiore a quella espressa dal convulso soprassalto della vittima, recide più gola che può. Ritorna in bagno, si spoglia, getta nel bidet la camicia da notte insozzata da schizzi di sangue, si trattiene sotto la doccia più del necessario. Torna in camera, accende la luce, distoglie lo sguardo dal macello, apre l’armadio, preleva prima la valigia e poi alcuni indumenti – non troppi, l’occorrente per una latitanza di 48/72 ore al massimo, – indossa jeans e una camicia, eccetera. Il suo racconto era stato assai più minuzioso di questo, ma è stato ripetuto tante di quelle volte che non ha senso rivangarlo.

E ora, protetti da larici e abeti e attenti a sporgere il passo, sembriamo la caricatura del cronista e dell’interlocutrice disperata dei più infami servizi televisivi, quando l’uno chiede all’altra «Come si sente, signora, dopo quanto è accaduto?». Mi toccava girare intorno alle spine, come se alle conifere del paesaggio esteriore corrispondesse, nel segreto dell’anima, un roveto letale.

«Suo marito la tradiva?», le domandai a metà della seconda passeggiata, a bruciapelo e vergognandomi per l’imbarazzo.

«No, che io sappia», rispose senza trasalire.

«Ritiene di poter escludere del tutto questa eventualità?»

«Non si può mai escludere niente, signore.»

«Era quel che si dice un uomo attraente. Ne era gelosa?»

«So di alcune donne che gli stavano alle calcagna. Ma no, dei due era lui il geloso.»

«La sua gelosia la irritava?»

«No, signore.»

«Se ne sentiva lusingata?»

«Non capisco la domanda.»

Provai a cambiare il filo del discorso.

«Avete mai avuto problemi di salute?»

«Sono stata visitata più volte prima e durante il processo. Anche dopo, in carcere. Non hanno mai trovato niente di serio.»

«Intendevo la salute di Francesco.» Avevo elaborato alcune ipotesi sull’eutanasia precoce, sulla soppressione pietosa di malati terminali. Andavo a braccio. Il movente di quel delitto era la mia ossessione. Nessuno era mai riuscito a venirne a capo. Era tutto chiaro: il quando, il dove, il chi e il come. Ma era sempre mancato il perché.

«Stava bene. Soffriva solo di malesseri marginali.»

«Per esempio?»

Il sentiero, adesso, si inerpicava bruscamente per un tratto. Le porsi istintivamente la mano per aiutarla nel passaggio più critico. Ritrasse di colpo la sua, come se trovasse offensiva la mia premura.

«Disturbi respiratori.»

«Apnee notturne?»

«No. Una leggera roncopatia. Cronica.»

«Mi perdoni: cos’è una roncopatia?»

«Russava», tagliò corto.

«Dev’essere fastidioso dividere il letto con qualcuno che russa», azzardai.

«Cosa sta cercando di farmi dire?»

«Oh, niente, assolutamente niente d’importante.»

«Sono stanca, vorrei tornare in albergo.»

Scendemmo per il declivio in silenzio. Era più svelta, meno impacciata di me. Varcata la soglia della Casa, sparì rapidamente dal mio orizzonte. Dove dormiva, se riusciva a dormire? Per tutto il resto del giorno non si fece più vedere da me.

Il mattino successivo, appena sveglio, notai un foglietto ripiegato sul pavimento, passato attraverso l’interstizio sotto la porta d’ingresso. Non appena lo ebbi fra le mani riconobbi la sua grafia. «Signore, le chiedo scusa per il mio nervosismo di ieri. Non c’era nessuna ragione che lo giustificasse. Oggi sono disponibile dalle 11 a mezzogiorno e dalle 13,30 alle 15.»

Così. Espresso in quel modo, era un appuntamento di lavoro. Forse prendeva nota dei suoi impegni in un’agenda da tavolo, come se avesse conservato il suo ruolo nella ditta di serramenti di tanto tempo prima. Sindrome burocratica: e se fosse anche questa, una patologia? Un veleno per menti deboli e gregarie? Sei scemo, dissi a me stesso mentre mi radevo. Concentrati piuttosto su quelle scuse non richieste.

«Lo sa che russo anch’io?», buttai lì a casaccio, con un cattivo gusto degno di miglior causa.

«Mi dispiace, signore.»

«Perché continua a chiamarmi signore? Non sono né Dio né il suo sergente. La prego, sono un semplice Daniele. Un Daniele da niente. Mi chiami così.»

«Sì, signore.»

«D’accordo, faccia come vuole. La mette a suo agio chiamarmi signore

«Non lo so. Non ha importanza.»

«Che cosa è importante, per lei?»

«Le domande che non riesce a fare sono importanti.»

«Vediamo se è vero. Il suo gesto era premeditato?»

«Non è una domanda nuova. Mi è stata rivolta centinaia di volte.»

«E lei cosa ha risposto? Mi perdoni, non c’ero.»

«Che la premeditazione è un concetto difficile.»

«Suvvia, non è difficile affatto. Lei sa cosa vuol dire, e io anche.»

«Se adesso le venisse in mente di arrampicarsi su quel masso, ma prima di decidersi a farlo lasciasse passare cinque minuti, si potrebbe parlare di un gesto premeditato?»

«No, ma non si potrebbe nemmeno parlare di impulso improvviso, di raptus.»

«Ecco, lo vede che si è risposto da solo.»

«Né raptus né premeditazione. Capisco. Ma cinque minuti sono sempre cinque minuti. Un tempo sufficiente per desiderare, rinunciare, desiderare, rinunciare. Lei non ha...»

«Non ho rinunciato, lo so. Ma le assicuro che ero già pentita prima di farlo.»

«Non esiste il pentimento preventivo.»

«Quand’è per questo, non è mai esistito ciò che lei chiama desiderio, signore. Non ho mai desiderato la morte dell’uomo che amavo.»

«Lo amava, dunque.»

«Cosa le fa credere che non lo amassi? Se non lo avessi amato, mi creda, lo avrei lasciato e sarei andata a vivere per conto mio. Francesco ne avrebbe sofferto, ma senza muovere un dito per fermarmi. Lo conoscevo bene.»

Mi ero cacciato in un vicolo cieco. Perdevo tempo prezioso, in un luogo che non mi piaceva e con una donna che mi piaceva ancor meno. Una donna che riusciva a mentire senza sprecare nemmeno una bugia.

Anche il cielo si innervosì per quello scambio di frasi senza sapore. Preannunciata da tuoni e saette, nel giro di pochi minuti – gli stessi che separano l’intenzione dall’azione – la pioggia cominciò a schiaffeggiare il fogliame e chi c’era sotto. Ci affrettammo. Mi sfilai la giacca a vento e tentai di fargliela indossare. Rifiutò sdegnosamente. Era in giro con una maglia a mezze maniche, grigiastra e funerea come i suoi capelli. Possibile che non avesse mai freddo?

Approfittai del maltempo per starmene a poltrire nel letto. Non avevo voglia né di rivederla, né di scendere in paese a ubriacarmi di grappa, sebbene questa fosse l’unica cosa ragionevole da fare in un posto come quello. A un certo punto mi alzai di scatto, scesi nella sala e cercai del factotum – quello che provvedeva alla reception, al camino, al servizio in tavola e a chissà quanti e quali altri accidenti del cazzo.

«La chiave», dissi con un accento perentorio che non mi è congeniale. «La chiave della camera. Nella serratura non c’è.»

Grande e grosso com’era, arrossì. «Non usiamo chiavi, signore», disse. «Per sicurezza.»

«Per sicurezza? Sicurezza di chi?»

«Dei ragazzi. Vede, se uno di loro si sentisse male di notte...»

«Sì?»

«Se succedesse qualcosa...»

«Beh?»

«...le porte chiuse sarebbero di impedimento...»

«Mi faccia il piacere: non sono un bambino. Ho bisogno di privacy. Per favore: la chiave.»

Si avvicinò al bancone a testa bassa, aprì un cassetto e mi porse una chiave enorme, con annesso un portachiavi altrettanto ingombrante. Un rettangolo di metallo, illustrato col capriolo della Casa e il numero 108.

Tornai in camera e chiusi la porta a doppia mandata. Mi gettai di nuovo sulla branda inferiore di quello stupido letto a castello, dopo aver spalancato la finestra sui larici. Respiravo aria piovana e me ne inebriavo, nonostante la fastidiosa sensazione di far da prosciutto tra due fette di pancarré. L’ozio porta consiglio. Presi non una, ma due decisioni apprezzabili, abbandonato all’ascolto di quella pioggia rilassante. La prima: ridimensionare il progetto. Invece del libro avrei scritto soltanto una novelletta da blog: quella che stai cortesemente leggendo, gentile lettrice o lettore. La seconda: invece di perdermi in chiacchiere con Lady Knife sarei andato a trovare quel prete, don Anselmo, per farmi raccontare le sue impressioni sull’ex detenuta.

Detto, fatto. Il giorno dopo, senza avvertire né Ileana D. né il factotum, mi assentai fino al tramonto, come i tredicenni della Casa. Me la presi comoda. Comprai dei giornali (lassù non ce n’era l’ombra), mi attardai in un bar, bevvi un paio di grappini, lessi qualcosa qua e là, osservai il movimento meccanico dei turisti sulla piazzetta. Dal barista mi feci indicare il miglior ristorante della zona: ero stufo di bistecche fibrose, formaggi alpini e polenta. Gli chiesi anche dove avrei potuto trovare il reverendo, dato che la chiesa e la canonica erano chiuse. Mi suggerì di dare un’occhiata al giardino adiacente: «Non sempre indossa la veste talare. Se vede uno spilungone coi capelli bianchi e un gran naso, tutto preso dal giardinaggio, quello è il suo uomo.»

Il mio uomo non aveva nulla di pretesco. Sembrava, piuttosto, un uomo d’azione, più incline alla vanga che al breviario. Anche lui provvide a incrementare il mio tasso alcolico, offrendomi un liquore d’erbe fortissimo nell’ombra d’un alloggio spartano. Faceva più domande di quante avessi in mente di porgli. Voleva sapere se fossi contento di quel soggiorno e del trattamento, se avessi tratto qualcosa di utile da quei colloqui, e come stesse Ileana, che non si era fatta vedere alla messa di domenica.

«Non sapevo che fosse praticante».

«È molto devota a nostro Signore», rispose. «Ha commesso un errore gravissimo, ma la sua indole non è violenta.»

«È stata messa in libertà molto prima di scontare l’intera pena», ammisi, «per buona condotta.»

«Buona condotta. Prima e dopo il gesto insensato, la sua condotta – stando a tutte le testimonianze che conosciamo, e anche alla mia – è sempre stata buona.»

«Come si spiega, lei, quell’unica eccezione?»

«Non me la spiego. Ne prendo atto e basta, non spetta a noi giudicare. Del resto l’omicidio è sempre un’eccezione, quando non è determinato da consuetudini malavitose.»

«Sì, ma bisogna essere anche concreti. Come possiamo fidarci di una che, di notte, colta dal brivido dell’eccezione, può entrare e uscire a piacimento dalle camerate dove dormono dei ragazzini?»

«Lei adora quei ragazzi», disse con fermezza.

«Non ne dubito. Adorava anche suo marito.»

«Lei è sicuro di non essere prevenuto?»

«Prevenuto in che senso?»

«Se fosse stato lui a uccidere lei, troverebbe la cosa più normale

«Certo che no», dissi con un accento che rendeva evidente il mio sdegno. Come si permetteva di sminuirmi in quel modo?

Si accorse del mio risentimento e addolcì la domanda.

«Intendevo statisticamente normale.»

«Beh, se la mettiamo così. In ogni caso, la statistica è senza cuore.»

«Il cuore. Il cuore è fallibile, mio caro. Il cuore commette più errori della mente.»

Detto da un prete, suonava strano. Al limite dell’eresia. Ma su quel punto eravamo d’accordo. Allora gli domandai che senso avesse il perdono. Lo pregai, spudoratamente, di non citare i Vangeli, ma di darmi una risposta tutta sua, umana, spontanea. Non ero in vena di subir prediche.

«Il perdono è il più grande dei misteri», disse dopo aver cercato a lungo le parole. Per me non era una risposta soddisfacente. Lo sapeva. Allora aggiunse: «Ileana non si è mai perdonata.»

Stavo per dire «chi se ne frega». Ma lui continuò: «Ci sono criminali che si pentono, dopo. Pentirsi è un po’ come perdonarsi. Ileana non conosce né il pentimento né il perdono. Ha fatto qualcosa che non voleva fare, da sonnambula, in trance.»

«A maggior ragione le chiedo: sono al sicuro, quei ragazzi?»

«Io credo di sì», rispose. «Ma dirò a Giulio di distribuire le chiavi.»

«Almeno fin quando non sarà chiaro il movente.»

«Il movente? Quale movente?»

«C’è sempre un movente.»

Di nuovo si mise a piovere. Odio la montagna per questo.

«Domani riparto», dissi a don Anselmo. «Qui non ho imparato niente. È stato il viaggio più inutile della mia vita.»

«Peccato», disse con un sorriso obliquo. «Speravo che il mio liquore d’erbe non le fosse dispiaciuto.»

© Pasquale Barbella


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