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BGS story/4

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La reticenza è l’anima del casino.

Tutti insieme appassionatamente

La stampa di settore ci marcava a vista. Cosa c’era di vero nelle voci di corridoio che davano per imminente una fusione tra BGS e DMB&B? Anche a bocche cucite, il rumore di fondo cresceva di volume. Quello era il tipo di notizia che ha sempre mandato in estasi i cronisti del trade. Quando il forno fu ben caldo, dal silenzio passammo alle mezze ammissioni. La reticenza è l’anima del casino.

L’accorpamento ebbe luogo a Milano, perché era lì che stava di casa la DMB&B. In via Correggio, zona Fiera. Erano in tanti. C’era anche Gavino Sanna, famosissimo, che stimavo da sempre. Ero fiero di fare un balzo tra le top ten, ma anche un po’ spaesato. Temevo di perdere la dimensione artigianale che mi era propria. Il cambiamento era notevole, ma la cosa per me più alienante fu quella di dover rinunciare all’apertura dell’ufficio alle sette del mattino. Lo facevo tutti i giorni, in via Zebedia, come i negozianti che tirano su la saracinesca. Non perché fossi stakanovista (solo in casi disperati mi sono trattenuto in agenzia oltre le otto di sera, né ho mai preteso di trattenervi i colleghi). Ma perché ho fatto il pendolare tutta la vita, e mettermi al volante all’alba era il modo più sicuro di arrivare in ufficio senza incazzarmi.

Ma queste sono quisquilie personali. Le cose che contano sono altre. Una settimana prima del trasloco in via Correggio, sentii nell’aria odore di bruciato. I nostri nuovi fratelli ricevettero il benservito da uno dei loro clienti più redditizi, non ricordo se Motta o Buitoni. Comunque bisognava stringere i denti e andare avanti. E dar fiato alle trombe.

Il famiglione del 1996.

La nuova agenzia si affacciò al mercato con un investimento sulla stampa piuttosto imponente. Gavino disegnò un format ad hoc. Scrissi un testo informativo cercando di armonizzare gli opposti: piccolo-grande, serio-scanzonato, autorevole-familiare. L’impresa era diventata un enorme contenitore di diversità, anche perché si presentava come gruppo (BGS DMB&B, Gavino Sanna, Azzurra, IMP e Limiteazero, la divisione sperimentale sui new media). Non avevo mai creduto agli assembramenti, ma riuscimmo a trasformare un potenziale svantaggio in un plus. Promettemmo di trattare ogni cliente, piccolo o grande, come «un numero uno assistito da numeri uno». La promessa fu mantenuta.

Nonostante la perdita iniziale, la carrozza andò in salita. Su tutti i fronti: gare, qualità dei servizi, creatività, premi, fatturato. L’offerta era ampia e i clienti potevano scegliersi gli interlocutori preferiti. C’erano molte culture da mettere insieme – Torino, Milano, Roma, l’America, la grande agenzia, lo shop creativo, Swatch, Procter & Gamble, Fiat, Infostrada, l’advertising tradizionale, l’approccio one-to-one e molto altro, – ma provammo a tenerle unite con un filo immateriale: il tocco umano, merce piuttosto insolita nel bazar degli affari. Le campagne per i clienti e i progetti autopromozionali varati fra il 1996 e il 2002 documentano meglio delle parole l’andamento dell’agenzia e del clima che vi si respirava.

BGS DMB&B fa il verso a una sua fortunata campagna per Lacoste progettata da Alessandro Omini e Marcello Porta.

La nostra vetrina era illuminata dai fatti. Vincemmo due volte (per Swatch e Fiat Doblò) i festival televisivi (Mezzominuto d’oro, Gala della pubblicità) allestiti da Mediaset con tanto di televoto finale, che era un po’ come vincere a Sanremo per un cantante. La comunità creativa rappresentata dall’Art Directors Club Italiano ci attribuì due Grand Prix a distanza ravvicinata, per Swatch e Lacoste. A Cannes, invece, non vincemmo mai un granché: a quei tempi gli italiani tornavano a casa dalla Costa Azzurra con un bagaglio colmo di frustrazione, salvo sporadiche eccezioni. Provai un paio di volte a fare dell’autoironia sulla nostra sfiga nazionale, pubblicando sulla stampa di categoria circolante a Cannes annunci beffardi come Dear Jury e La Croisette des Italiens.


Black humour sulla sindrome di Cannes.

L’orologio marciava inesorabile verso la fine del millennio. Non era un countdown all’acqua di rose. Il mondo si era andato caricando di presagi infausti, tra conflitti planetari e disastri ambientali, economie impazzite e malattie sconcertanti come l’Aids. Il peggio non era ancora avvenuto: le torri del World Trade Center stavano ancora in piedi, i Lehman Brothers pure, ma c’erano già elementi bastevoli a giustificare un po’ di pessimismo collettivo. Si diffuse rapidamente, in tutti gli angoli del pianeta, il terrore dell’Y2K – il bug per cui tutti i sistemi informatici del mondo sarebbero andati in tilt alla mezzanotte del 31 dicembre 1999, a causa di un potenziale difetto di programmazione nella scrittura sintetica delle date (00 = 1900 = 2000). Per esorcizzare quell’apocalisse, ordinammo un migliaio di palette ammazzabug e le diffondemmo come auguri di buon anno.

Per rincarare la dose dei buoni auspici e ringraziare i clienti che ci avevano permesso di crescere, comprammo tutti gli spazi pubblicitari di Repubblica del 1° gennaio 2000 e li riempimmo di annunci costruiti ad hoc per ciascuno di loro. Inventammo anche azioni e annunci per gratificare il nostro personale. Lanciammo inviti agli studenti mettendoci a loro disposizione per aiutarli nelle tesi di laurea sull’advertising. Un sondaggio di cui ho perso i dati e la fonte ci individuò come una delle aziende commerciali più stimate d’Italia dai propri dipendenti.

Onore alle centraliniste sul numero speciale di Repubblica, a Capodanno del 2000.

Apertura ai giovani talenti.

Nel frattempo, i ragionieri d’America erano instancabili. I veri “creativi” erano loro. Noi pensavamo a fare gli spot; loro ne inventavano una dopo l’altra per fare i soldi. Tutto il sistema D’Arcy Masius Benton & Bowles – una costellazione di circa duecento unità come la nostra, sparse dappertutto nel mondo – passò da New York a Chicago, nelle mani del gruppo Leo Burnett.

L’età nuda


Il millennium bug era stato solo un film di fantascienza, ma l’11 settembre 2001 fu una cosa vera. Quando l’agenzia decise di approntare un nuovo strumento di comunicazione con i clienti, un dossier periodico di studi e ricerche sui mutamenti in atto nella società dei consumi, lo intitolai The Naked Age. Nella press release che ne accompagnava la prima edizione internazionale, rinunciai per una volta al mio solito humour:
 

«L’11 settembre 2001 il mondo occidentale si è scoperto più vulnerabile, più indifeso, più nudo. Il giorno dopo in molti ci siamo chiesti se non fosse giunto il momento di modificare qualcosa nel nostro modo di pensare e di agire. E, se sì, come.

Nell’agenzia di pubblicità che rappresento, la BGS D’Arcy, la prima reazione è stata quella di interrogarci sul senso del nostro lavoro in un’epoca che si annuncia foriera di eventi e turbamenti non del tutto prevedibili e non facili da affrontare. Epoca che siamo stati subito indotti – per vizio professionale – a definire con uno slogan: The Naked Age, “l’età nuda”.

The Naked Age è diventata anche la testata di un nostro dossier che raccoglie periodicamente opinioni, studi e ricerche sui cambiamenti dell’umore collettivo in relazione alla pubblicità e ai consumi. L’idea, e soprattutto lo spirito – etico e professionale – che la pervade, ha contagiato la rete di cui facciamo parte, D’Arcy. Il risultato – a un anno dall’11 settembre – è una pubblicazione internazionale a più voci sull’impatto del presente e delle sue incertezze sul costume, sulle arti, sulla comunicazione.

I tempi – offuscati non solo dalla minaccia del terrorismo e dall’inasprirsi di vecchi e nuovi malanni come la guerra e la fame, ma anche dal crollo a catena di sicurezze nel sistema economico e finanziario – sembrano richiedere alla comunicazione, pubblicità compresa, un significativo cambio di rotta. Per esempio una maggiore attenzione ai valori meno superficiali, più autocontrollo, maggiore aderenza alla vita reale, più sensibilità… L’esperienza umana, riprodotta nella pubblicità, dovrebbe diventare meno astratta e fittizia, più verosimile. Dovremmo cominciare seriamente a eliminare dal nostro vocabolario la parola “consumatori”, che designa una categoria inesistente; i “consumatori” sono nient’altro che persone – anche quando mangiano, bevono o guidano la macchina.»

Un tributo a Cesare Pavese nel cinquantenario della morte, a cura di BGS Torino.

Com’era diverso il tempo presente dalla futile euforia degli anni ottanta! Invecchiando, diventavo scettico e apprensivo. Ero anche tentato dall’idea di mollare tutto: uscire dalla pubblicità, ritirarmi nell’ombra, chiudere – come si suol dire – “in bellezza”. Avevo da tempo annunciato le mie dimissioni, volevo andarmene più o meno alla scadenza del millennio. Ma non avevo calcolato gli effetti del mio pessimismo. Piaceva! BGS aveva fatto breccia nel cuore del sistema. Era una delle poche agenzie realmente creative del network, e ne vinceva spesso i premi organizzati al suo interno. Negli incontri internazionali esibivo smorfie di disgusto contro la roboante retorica del successo e delle pratiche per conseguirlo. Invece di licenziarmi, sembravano apprezzare la mia bizzarria. Ero io il bug. Mi invitarono a tenere un seminar per i direttori creativi del network, a Miami. Ne approfittai per sconfessare un sacco di stereotipi e diventai il loro guastafeste preferito.

Per indurmi a rinnovare il contratto, gli americani mi offrirono dei ruoli internazionali. Mi cooptarono nel Worldwide board of directors della rete D’Arcy e come trainer delle direzioni creative d’Europa e Nordamerica. Dire che mi convinsero è poco: riaccesero il mio entusiasmo. Fra i miei nuovi compiti c’era anche quello di organizzare e stilare l’agenda dei cosiddetti creative councils, riunioni periodiche con i leader creativi europei per eccitare la febbre creativa e misurarne i risultati. Trascinai i colleghi a Stresa, ad Amsterdam, a Londra. A Venezia legai il nostro council alla Biennale, sostenendo che l’arte forniva più ispirazione di tutto lo scambio di bla-bla che potevamo farci intorno a un tavolo. Invitai Harald Szeemann, il direttore artistico della Biennale, a una conversazione con tutti noi. Deragliare dai binari era uno sport che avevo sempre coltivato: ero un pessimista felice.

Annuncio per ricerca di personale. Il neoassunto fu Vicky Gitto, allora del tutto sconosciuto.

Ebbi carta bianca per inventarmi iniziative di supporto al Creative uprising, un ambizioso programma di rinnovamento e rilancio creativo lanciato dai vertici della holding con una convention a Puerto Rico. Probabilmente era una delle tante manovre preparatorie alla messa in vendita di Bcom3, il calderone nel quale erano confluiti i supergruppi Leo Burnett, MacManus, Dentsu, Starcom MediaVest e altri. Ma questo è senno di poi.

Mi inventai un Creative lab che si occupasse di attività non strettamente pubblicitarie e della visibilità internazionale di D’Arcy, il nostro ramo di appartenenza. Si decisero azioni specifiche da realizzare a Cannes durante il festival dell’advertising. Era il luogo ideale per farsi vedere da un’enorme concentrazione di operatori internazionali – non solo pubblicitari ma anche utenti e media. Pensai che, spulciando fra i seimila collaboratori delle D’Arcy di tutto il mondo, avrei potuto mettere in piedi una redazione di alto livello e pubblicare un magazine autorevole, intitolato Creative Uprising, da distribuire a Cannes. Stilai un sommario dei contenuti, coinvolsi writer di mia fiducia selezionandoli tra i colleghi italiani e stranieri e gestii via e-mail tutto il lavoro. Pietro Gagliardi e la sua équipe torinese si occuparono del design, dell’impaginazione e della produzione dei due numeri unici, usciti a Cannes nel 2001 e nel 2002. Pietro riuscì anche a procurarsi carta riciclata dalle banconote europee sostituite dall’euro, che usammo per scriverci sopra un editoriale sui grandi cambiamenti in corso. Altri provvidero a organizzare un servizio di shuttle gratuito e aperto a tutti sulla Croisette, per il trasporto dagli alberghi al Palais e viceversa. Il bus era vistosamente personalizzato D’Arcy, dentro e fuori. A bordo i passeggeri erano sottoposti alla visione della nostra showreel internazionale e potevano prelevare una copia di Creative Uprising.



Operazione D’Arcy-Cannes: magazine, shuttle e pubblicità.

La rivista conteneva servizi sulla creatività espressa in ogni campo, dalla letteratura alla musica, dal cinema al design. Nel primo numero c’erano un’intervista originale a Joe Pytka, il regista pubblicitario più premiato a Cannes, e articoli su Saul Bass, Giorgetto Giugiaro, il regista indiano Prasoon Pandey, Michelangelo Pistoletto, Mark Rothko, Saul Steinberg, Henryk Tomaszewski. Per il n. 2 affidai alla redazione un tema trasversale, The Naked Age, chiedendo analisi sull’influenza esercitata dai problemi contemporanei sulla società, sul marketing e sulle arti. Incaricai il mio corrispondente da Los Angeles, Terry Balagia, di intervistare Tyler Cassity, presidente di Hollywood Forever, il cimitero più creativo del mondo. Terry prese molto alla lettera il briefing “Naked Age”, tanto che riuscì a convincere Cassity, sé stesso, il fotografo e la sua assistente a togliersi di dosso tutti i vestiti – comprese le mutande – durante l’intervista al camposanto. Titolo: «The Naked Truth About Dying».

Era un servizio premonitore: uscì a giugno, nel 2002, e in capo a soli quattro mesi D’Arcy si estinse. Senza neanche una lapide all’Hollywood Forever. In ottobre sui giornali uscì il notizione che Publicis aveva comprato Bcom3, e che il sistema D’Arcy sarebbe stato eliminato. Cinque grossi clienti multinazionali erano stati informati per tempo, noi no. Lo stesso giorno ricevetti telefonate imbarazzanti da un paio di nostri clienti. Il succo era questo: «Pasquale, che cazzo sta succedendo alla BGS? Fronzoni (il capo della Leo Burnett in Italia, ndr) mi ha contattato per dire: venite subito da noi, la BGS non esiste più.»

Saffirio rimproverò me e Pietro Gagliardi per aver deciso di uscire di scena. Non aveva tutti i torti. Le nostre dimissioni indebolivano irrimediabilmente le difese della BGS, che poteva aspirare – forse – a mantenere qualche forma di indipendenza, o di sopravvivenza, nell’ambito del nuovo gruppone. Ma che senso avrebbe avuto un futuro presidiato da sessantenni? Un’epoca si stava chiudendo, definitivamente. La nostra. Meglio metterci una pietra sopra e non pensarci più.

Il cambio di proprietà fu oggetto di una convention a Parigi. Pioveva a dirotto, c’era un traffico disperato e le sedie della location scricchiolavano in modo penoso. I delegati portavano all’occhiello un badge col logo delle rispettive società: Publicis, Saatchi & Saatchi, Leo Burnett... Noi portavamo il logo dei condannati a morte, D’Arcy. Ci guardavano con occhi rossi di contrizione. Io cercavo di contare, tra me e me, quante volte ero stato comprato e venduto come un bullone o una salsiccia. Sbagliavo e ridevo. Ridevo e sbagliavo.

© Pasquale Barbella

(4 – fine)


Il personale di BGS DMB&B protagonista di gadget natalizi: video augurali, carte da gioco e altro. Persino una serie di francobolli, ideata dal team Gavino Sanna-Dario Mondonico-Silvano Cattaneo.



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