Parolieri e liricisti
In italiano dicesi paroliere«chi scrive i versi o le parole per una canzone o per altra composizione di musica leggera; in partic., chi adatta le parole a musica già composta» (Treccani). In inglese, il sostantivo equivalente è lyricist. Ma fra i due termini c’è un gap semantico abissale. Paroliere suona come “tecnico e manutentore della parola”: a seconda dei casi calzolaio della rima, idraulico della lacrima, arredatore del pentagramma, fornitore vocale, pizzicagnolo dell’alfabeto, scalpellatore di accenti, taglialegna del cuor-amor, pasticciere del trallallà. Lyricist, invece, rivendica l’ossequio dovuto ai poeti e agli artisti; denota impegno oraziano e alta sartoria; per creatività intrinseca prevale persino, a voler misurare l’aura dei mestieri dai nomi che indossano, sul composer, il musicista, che si limita a comporre– dunque a combinare, a mettere insieme – le note, senza altra aspirazione che lo accosti al divino.
Il termine paroliereè più onesto di lyricist, ma non si può negare che sia sgraziato e riduttivo. Soprattutto quando i versi portano la firma di un De André, di un Conte, di un Battiato o di altri autori di analoga statura. Vero è, tuttavia, che la storia della canzone in lingua italiana ha in buona parte giustificato, fin troppo a lungo, l’idea del paroliere come falegname di emozioni a buon mercato. La cosiddetta “canzone d’autore” si è evoluta in Italia con enorme ritardo rispetto, per esempio, alla Francia o agli Stati Uniti. Unica notevole eccezione: la canzone in dialetto napoletano, quella sì in netto anticipo, non solo per lo smalto dei testi ma anche per la sapienza produttiva, editoriale, distributiva e spettacolare del “sistema canzone”.
Tra le ragioni del ritardo creativo sull’uso del nostro idioma nazionale nella confezione di canzoni andrebbero annoverati: la retorica melodrammatica cara ai poeti minori dell’Ottocento e ai librettisti d’opera; un diffuso ed elementare sentimentalismo, acquisito come protocollo obbligatorio per la consolazione delle masse; il controllo e la censura di marca prima fascista e poi democristiana, efficaci deterrenti per qualsivoglia tentazione anticonformista; la persistenza di un mercantilismo privo d’immaginazione, che ripete e prolunga a dismisura cliché nazionalpopolari e stilemi autoreferenziali.[1]
A promuovere un diverso modo di concepire e gustare la musica leggera e le sue parole è stata l’esplosione del rock, a metà degli anni cinquanta. Quelli che chiamiamo cantautori(altro neologismo cacofonico e deprezzante) sono emersi a partire da quel momento e hanno modificato profondamente la scena: alcuni (da Modugno a Guccini a De André) ispirandosi al revival del folk e alle sue rivisitazioni regionali o internazionali; altri forzando e superando, con una nuova e più libera mobilità della parte musicale, un ostacolo oggettivo della nostra lingua: la scarsità di parole tronche e l’abbondanza di polisillabi.
Fra i cantautori italiani, Paolo Conte è tra i pochi a fregarsene del sublime. Non ha messaggi messianici da diffondere, lacrime amare da cospargere sull’amore delle coppie o sulla sorte dei popoli; meno ancora gli interessano le mode musicali e non: al rock e al folk preferisce il fox-trot e la rumba, quanto di più sorpassato possa sembrare alle orecchie di oggi. Eppure piace a tanti. La sua torre d’avorio – fatta di riservatezza personale e singolarità stilistica – non ha nulla di infelice.
I giochi d’azzardo di Paolo Conte
Di cosa scrive, come scrive Paolo Conte? Quali spezie rendono così singolari, talvolta enigmatici ma sempre attraenti i suoi testi? A quale atipica geografia rimandano i luoghi che fanno da sfondo alle sue canzoni? Perché piacciono anche quando sfugge il senso della sua poesia?
Conte ha estimatori anche all’estero, tra persone che di italiano conoscono solo parole come pizzae spaghetti. Una volta ho regalato un suo album a un amico americano che non solo era a digiuno della nostra lingua, ma anche della nostra musica. Adorava Pavarotti, forse aveva apprezzato Caruso e qualche aria d’opera. Da New York mi mandò una e-mail traboccante di gratitudine per il souvenir che gli avevo donato. Dichiarò di aver ascoltato e riascoltato quel disco a ripetizione, con crescente entusiasmo.
La prima risposta possibile alle domande di prima è dunque questa: Conte piace indipendentemente dai testi, perché è un musicista formidabile e le sue composizioni – così come il modo personalissimo di cantarle e la qualità degli arrangiamenti – fanno presa anche su un ascoltatore straniero. Basta che sia un po’ sensibile alle jazz ballads e ai ritmi sudamericani. Dopotutto la musica di Paolo Conte è universale, un ibrido in cui l’italianità si fonde senza problemi con modelli europei e americani ampiamente diffusi (gli anni trenta, quaranta, cinquanta del XX secolo).
Ma è una risposta insufficiente. Quei testi, a chi apprezza Paolo Conte, piacciono un casino. Perché hanno il tocco dell’intelligenza, le vibrazioni della poesia e il senso dell’umorismo. E, soprattutto, la virtù della pertinenza: c’è una connessione così precisa e brillante fra testi e melodia da creare ogni volta un cortocircuito positivo nella mente di chi ascolta. Sono testi decisamente insoliti, tra l’ironico, l’amaro, il nostalgico, l’esotico, il sensuale e il surreale, ma di un tipo di snobismo che avvicina anziché allontanare il pubblico. Quando Lucio Battisti, all’apice di un enorme successo popolare, si separò da Mogol per sperimentare un idioma difficile, quello del poeta Pasquale Panella, molti dei suoi ammiratori rimasero delusi. Perché non si coglieva alcun nesso, né logico né allusivo né schiettamente musicale, tra il suo linguaggio e lo stile di Battisti.
Il segreto di Paolo Conte ce lo suggerisce lui stesso, ma lo fa in una delle sue canzoni più criptiche, Il quadrato e il cerchio:
Dico del mio silenzio indiano
un dialetto di lontani specchi
e nuvole parlanti, è così
che scrivo io...
Non è facile risolvere questa specie di sciarada, comunque assai accattivante quando si ascolta il brano. Il «silenzio indiano» riprende un tema trasversale della canzone: prima ha parlato di «un lago indiano d’aria» e di «un amico anche lui lontanamente indiano, forse un capo o una comparsa al cine». Il titolo originale della canzone, scritta nel 2005 per Adriano Celentano, era per l’appunto L’indiano; Conte lo cambia in Il quadrato e il cerchio quando, tre anni dopo, la incide in un proprio album, Psiche. Quadrato, cerchio, indiano, silenzio, psiche... La canzone è tra le più indecifrabili di Paolo Conte, ma anche un manifesto della sua arte. I suoi testi sono collage di intuizioni fulminee accostate fra loro in modo imprevisto; ciò che è superfluo o non funzionale all’incisività, alla sonorità e all’immediatezza viene semplicemente eliso, come succede in un montaggio cinematografico. Conte cambia la scena a sorpresa, creando sintesi rapide e felici tra elementi apparentemente incongrui; il suo “silenzio indiano” è la reticenza, il rifiuto di essere troppo lineare e didascalico:
Epoca,
Degli abiti tuoi
Che prezzo mi fai?
Vendili...
Pattini
Sul ghiaccio che ha
La tua civiltà,
Pattini...[2]
«Dialetto di lontani specchi» sembra alludere ai riflessi di un passato vero o immaginario, evocato con un misto di rimpianto e divertimento: gli anni cinquanta e sessanta con l’avanspettacolo, le sale da ballo, il bar, il ciclismo, le donne, il cinema, il jazz... «Nuvole parlanti» possono essere invece i pensieri alla rinfusa, i sedimenti personali a metà strada tra sogno e realtà.
Un po’ meno ermetico è Paolo Conte quando si sbottona in qualche intervista: «La poesia non deve porsi il problema dell’interpretazione. Per noi cantautori il rapporto di peso, spazio e vuoto nella convivenza tra musica e parole è un rapporto molto delicato, va curato con calma: perché i colori e le capacità evocative di una frase musicale e di una frase testuale potrebbero neutralizzarsi se fossero troppo espressivi. Nella valutazione finale, comunque, bisogna tener conto di un senso poetico generale. Anche nella musica deve esserci poesia, così come nel testo, nelle cadenze, nella composizione, nell’orchestrazione, nell’intensità dell’interpretazione. È l’insieme armonico di queste componenti che deve essere poetico.»[3]
Azzurro (1968) • Scritta in collaborazione con Vito Pallavicini e Michele Virano.
Il quarto colore nazionale – dopo i tre della bandiera – ispira l’indimenticabile istantanea di un’estate italiana, vista da un lupo solitario rimasto in città a rimuginare sulle proprie frustrazioni. «Lei è partita per le spiagge», meta obbligata di un popolo che solo da pochi anni può permettersi di migrare in massa sui litorali. Il cielo azzurro sovrasta milioni di costumi da bagno e appartati malesseri individuali. La folla si gode gli ultimi scampoli di ingenuità postbellica e di boom economico, alla soglia di anni bui a base di piombo e dinamite.
Sento fischiare sopra i tetti
un aeroplano che se ne va,
canta l’ultimo abitante della città deserta, l’uomo che perde i treni perché non ha il coraggio di inseguire i propri desideri. Solare e al tempo stesso pungente come un crampo, Azzurro illumina con esemplare minimalismo i segnali d’un paese che cambia. Con affettuosa nostalgia rievoca certe tappe vitali dell’italiano medio, dalle domeniche all’oratorio al mito povero dell’avanspettacolo (la melodia si snoda al ritmo saltellante di una marcetta da passerella al Politeama). Sullo sfondo l’estate mediterranea col suo torrido abbraccio e le fantasie esotiche alimentate dalla lettura di avventure coloniali a fumetti:
Cerco un po’ d’Africa in giardino
tra l’oleandro e il baobab
come facevo da bambino…
Il lato più spinoso, rauco e affumicato di Azzurro salta fuori solo a metà degli anni ottanta, quando Paolo Conte si decide a inserire la canzone nel proprio repertorio. Ma per anni è una delle bandiere di Celentano, rocker spavaldo all’apice del successo. La sua versione, giovane e ruffiana, fa di Azzurro un policromo cocktail da bar balneare. Celentano sta a Conte come agosto a novembre, il jukebox all’aspirina, la faccia tosta all’intimismo. Diverse e complementari, le due sfumature di Azzurro stanno bene insieme nella stessa scatola di cartoline illustrate da custodire gelosamente, tra i souvenir meno sbiaditi d’una stagione che fu.
Mexico e nuvole (1969) • Scritta con Vito Pallavicini e Michele Virano.
L’umorismo stralunato di Jannacci, fra satira e tristezza, si incontra con un complice d’eccezione, Paolo Conte, non ancora lanciato come interprete ma già navigato confezionista di indimenticabili creazioni per conto terzi: Azzurro per Adriano Celentano, Tripoli 69 per Patty Pravo, Una giornata al mare per l’Equipe 84, Bartali per Bruno Lauzi, Insieme a te non ci sto più per Caterina Caselli, etc. Protagonista di Mexico e nuvoleè una coppia che va in Messico per un matrimonio-lampo di incerta validità internazionale. Lui è tuttavia perplesso sulla faccenda e si sente smarrito:
Questo è un amore di contrabbando,
meglio star qui seduto
a guardare il vino
che butto giù.
Il mito esotico è liquidato con una sintetica e biliosa constatazione meteorologica, rivelatrice di patologie sentimentali senza rimedio:
Mexico e nuvole,
il tempo passa sull’America,
il vento suona la sua armonica,
che voglia di piangere ho.
Testo mirabilmente ellittico (in cui persino la x di Mexico suona sarcastica), per una melodia che si concede rapide citazioni mariachi prima di sfociare in una marcetta da passerella d’avanspettacolo. C’è dentro, già per intero, la poetica di Conte, il suo sguardo scettico ma comprensivo su aspirazioni, manie, esaltazioni e debolezze della provincia italiana. Questo Mexico acidulo, così diverso da come appare nei dépliant delle agenzie di viaggio, spogliato proprio del cliché più tenace della sua iconografia turistica: la solarità, diventa per Conte e Jannacci l’astratto luogo in cui si consuma l’assurdità dei sogni e dei progetti di mezza tacca. Ai perdenti non restano che lacrime, vino e risate, ultimi indizi di autenticità in un mondo diventato spaccio di illusioni.
Tripoli 1969 (1968) • Scritta con Vito Pallavicini, Miki Del Prete e Michele Virano per Patty Pravo.
Una donna si strugge perché intuisce che il suo amante ha la mente altrove, in una Tripoli torrida e legionaria,
in cerca di battaglie
perché
perché ogni uomo senza battaglie
non puo’ sentirsi un uomo
un uomo un uomo un uomo un uomo
e quando un uomo va a vivere di più
le donne han solo lacrime...
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La Legione straniera francese durante una cerimonia in Corsica, 1972. Foto di Raymond Depardon, Magnum Photos. |
Anche se sono in tanti a firmarla, l’idea è così eccentrica da far subito pensare a Paolo Conte come massimo contributore. La combinazione di beat e marcia coloniale è un colpo di genio. In più, la canzone sembra fatta apposta per mettere in luce le doti, altrettanto eccentriche, dell’interprete: difficile immaginare unaTripoli 1969 cantata da una voce diversa da quella di Patty Pravo. La Tripoli bel suol d’amore, euforica e tricolore, di Gea della Garisenda, trova 57 anni dopo un sequel di segno problematico e contrario. Qui una torch song stravagante, aromatizzata, che sa di fotoromanzo esotico e sperimentale, espresso in una lingua arditamente stravolta:
…lo vedo ma non è
è andato via da me
sta raggiungendo
Tripoli
ma Tripoli cos’è
è il primo nome che
mi viene in mente te…
Tetralogia del Mocambo (1974-2004)
Bel nome per un bar, Mocambo. La quintessenza dell’esotismo tropicale: Africa, moka, mambo. In portoghese sta per capanna, abitazione precaria e di fortuna; in Brasile, nel periodo coloniale, era un villaggio fondato da schiavi africani fuggitivi, scappati da piantagioni e miniere. C’è stato anche un Mogambo, nel 1953: Africa hollywoodiana di John Ford, safari, cacciatori (Clark Gable) e belle donne (Ava Gardner, Grace Kelly).
Che tipo di bar è il Mocambo di Paolo Conte? Arredi in legno scuro (marron), ventilatore a pale, vagamente modellato sul Rick’s Café Américain di Casablanca– anche quello un crocevia di amori perduti, ritrovati e impossibili mentre il tempo va. La storia in quattro episodi si snoda nell’arco di trent’anni, dal 1974 (Sono qui con te sempre più solo) al 2004 (La nostalgia del Mocambo), passando per La ricostruzione del Mocambo (1975) e Gli impermeabili (1984). Un Rick’s Café da sfigati, che passa da un fallimento all’altro:
Oggi il curatore mi ha offerto un caffè,
era meglio di quello fatto da me,
e lui ha sorriso, mi ha visto che ero un po’ giù
e si è chiuso in sé sempre di più...
Fallimento commerciale ma anche sentimentale, fra una donna troppo avida per avere la classe di Ingrid Bergman e un perdente che credeva di avere il fascino di Humphrey Bogart:
...siccome so già le banalità che ami tu
mi chiudo in me sempre di più.
Io sono quello che aveva il Mocambo,
un piccolo bar; sempre stato ignorante
ma sono un bell’uomo e poi…
so anche trattare, sono sempre elegante,
e tu che hai studiato
disprezzi il mio mondo e anche me
e mi guardi adesso con la fredda ironia
mentre mi sto insegnando e tento una via
e amara sei sempre di più...
Quando il Mocambo viene ricostruito, lui pensa ancora a lei anche se si è rifatto una vita:
Ora convivo con un’austriaca,
abbiamo comprato un tinello marron
ma la sera tra noi non c’è quasi dialogo
io parlo male il tedesco...
Nel terzo episodio entrano in scena la pioggia e i trench, due ingredienti da noir chandleriano:
Mocambo
serrande abbassate
pioggia sulle insegne...
Ma come piove bene
sugl’impermeabili...
E poi la storia si raffredda in un’immagine alla Edward Hopper:
Mentre la sera discende
una luce risplende
in un ambiente marron,
si vede una coppia in silenzio
che beve l’assenzio del tempo ladron...
Assenzio, assenza, attesa senza fine. Passi sull’asfalto, per un istante l’assurda speranza che tornino gli amici di gioventù:
...lo so, c’è nessuno, è uno scherzo
saranno i ragazzi del ’73...
torniamo in tinello e beviamo,
ce lo meritiamo, il nostro caffè...
era la nostalgia del Mocambo...
Domina dappertutto il marron. Ma forse è l’effetto di un viraggio in seppia, il colore ufficiale del tempo che fu.
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Il Giro d’Italia sulla copertina della Domenica del Corriere del 4 giugno 1950. Illustrazione di Walter Molino. |
Bartali (1978)
Formidabile “fotografia” d’altri tempi, con il Giro d’Italia che passa in provincia e la gente assiepata ai bordi delle strade. La paziente attesa di un tifoso di Bartali, una fidanzata scocciante, disinteressata al ciclismo, che lo incalza per andare al cinema, e lui che sbotta «vacci tu». Le bici non si sono ancora viste ma l’eccitazione musicale è al culmine del movimento; e il testo, altrettanto vivace, concorre a renderlo visibile:
Quanta strada nei miei sandali
quanta ne avrà fatta Bartali,
quel naso triste come una salita,
quegli occhi allegri da italiano in gita;
e i francesi ci rispettano
che le balle ancor gli girano...
Tra i francesi che si incazzano
e i giornali che svolazzano
c’è un po’ di vento, abbaia la campagna
e c’è una luna in fondo al blu...
Ci senti dentro l’odore di stampa de La Domenica del Corriere e Il Calcio e il Ciclismo Illustrato, la campagna a due passi dalle case, il cielo non ancora velato dall’inquinamento, lo sport come passione che accomuna e separa (coppisti vs. bartaliani... italiani vs. francesi... fidanzate vs. fidanzati...)
E ruota di bicicletta come turbine di sentimenti, idee, aspirazioni. Conte ci ritorna nel 2008 con Velocità silenziosa, nell’album Psiche:
Una bici la si ama
come l’ultima delle fantasie,
c'è uno scatto che ti chiama
come il fischio che hanno le frenesie...
Alle prese con una verde milonga(1981)
Non il tango ma la milonga, sosteneva Borges, è la vera anima dell’Argentina. Non il tango, musica imbastardita dall’immigrazione italiana e dalle fisarmoniche di Castelfidardo, ma la milonga, lamento spaziale e solenne delle pampas, voce della pacha mama (madreterra nella lingua dei quechua) e di millenarie solitudini. Alla milonga, quasi una religione, e al suo spirituale cantore Atahualpa Yupanqui, poeta delle praterie, Paolo Conte offre questo appassionato tributo: “verde” come la canna da zucchero, il tabacco e la jacaranda di Tucumán, e amaro – ma tonico e nervino – come una tazza di matè.
Alle prese con una verde milonga
Il musicista si diverte e si estenua…
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Album antologico di Atahualpa Yupanqui (1908-1992), considerato il massimo rappresentante della musica folklorica argentina. L’artista è citato nel testo di Alle prese con una verde milonga. |
Su questo assunto Conte snoda una delle sue melodie più stregate e serpentine. La sua milonga è una biscia volubile e sensuale, danza pigramente oppiacea, a metà strada tra la preghiera e l’allucinazione erotica. Con voce da fumatore arrostito, alla tastiera del pianoforte e con la complicità di musicisti altrettanto ispirati, sonda in profondità nel ritmo e tra le pieghe di una complessa famiglia di stimoli musicali, traendo dalle suggestioni esotiche una miracolosa originalità. Lampi di geografia poetica avvampano qua e là il flusso della sua immaginazione:
…la milonga rivelava di sé
molto più di quanto apparisse:
la sua origine d’Africa,
la sua eleganza di zebra,
il suo essere di frontiera,
una verde frontiera
tra il suonare e l’amare…
Le «scarpe lucidate» in incessante ralenti sulla pista da ballo sembrano distaccarsi dal pavimento e prendere il volo «fino ai laghi bianchi del silenzio». Centodieci e lode.
Parigi (1981)
Un uomo e una donna – che si conoscono da poco e superficialmente – decidono di andare a far sesso in una camera d’albergo. Cos’hanno da spartire, oltre alla reciproca attrazione? In comune hanno solo qualcuno che li ha presentati e un’ombra di indefinita complicità. Poi una telefonata, e due taxi che convergono nella stessa piazza.
Io e te, scaraventati dall’amore in una stanza,
mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia e Francia…
Una Parigi più da ultimo tango che da cartolina, senza bouquinistes né bistrots, illividita da un fosco maltempo, fa da fondale allo sfogo dei due improvvisati amanti. E la melodia, strascicatissima e introversa, respira aria viziata e struggimento:
Chissà cosa possiamo dirci in fondo a questa luce…
La famosa “incomunicabilità” di Antonioni, delle sue eclissi, dei suoi deserti rossi e delle sue notti interiori fa capolino, senza intellettualismi, tra i versi della canzone più triste di Conte.
Via con me (1981)
Uno dei bozzetti più mossi e jazzistici di Paolo Conte, con un testo chiaramente al servizio della musica, del ritmo, della velocità: specialmente nell’inserto cantato in inglese, dove ciò che interessa è il suono delle parole più che il loro senso. Pure se secondarie rispetto all’impatto musicale, le parole in italiano – l’invito a una fuga d’amore – schizzano con rapida efficacia la situazione:
Via, via, entra e fatti un bagno caldo,
C’è un accappatoio azzurro,
fuori piove un mondo freddo…
Boogie (1981)
Quello della sala da ballo e delle coppie che vi si agitano con accanimento è uno dei temi ricorrenti nelle canzoni di Paolo Conte (Dancing, Alle prese con una verde milonga…). La ballroom– che si tratti di un tetro stanzone da dopolavoro ferroviario, di una balera post-coloniale sormontata da giganteschi ventilatori o di una scintillante sala d’albergo d’altri tempi – è il teatro simbolico della musica e di altre passioni, il luogo dove si consumano, tra una disillusione e l’altra, fulminee e brucianti accensioni vitali. In Boogie la descrizione dell’ambiente, dell’orchestra e dei ballerini assume toni epici. I personaggi sono stilizzati come in un livido affresco espressionista: il «volto pechinese della cassiera / che fumava al mentolo», il batterista che «nell’ombra guardava con sguardi cattivi», la donna «con gli occhi da lupa» che «masticava caramelle alaskane». Tutto è movimento («i sax spingevano a fondo come ciclisti gregari in fuga», «l’orchestra si dondolava come un palmizio davanti a un mare venerato») e odore: di spezie coloniali, di gomma, di vernice, di cuoio, di mentolo, di tabacco, di caramelle, di sesso. Al centro della scena folleggia una coppia ferina:
Il corpo di lei mandava vampate africane, lui sembrava un coccodrillo…
[…] Quei due sapevano a memoria dove volevano arrivare…
Nella vertigine viola, abbrunita e selvatica, che acuisce tutti e cinque i sensi degli officianti, non manca naturalmente il germe dell’esitazione, del disagio e dell’esclusione; qualcuno, «prima di sternutire», si rifugia nel nulla. E c’è tutto Paolo Conte nell’imprevedibile finale, quando la memoria di un’epoca scomparsa e dei suoi riti gli fa dire:
Era un mondo adulto,
si sbagliava da professionisti.
Originale e personalissima, la poetica di Conte privilegia una forma di nostalgia mediata dai suoni, dalle letture, dagli spettacoli, dal cinema, dalle sensazioni e dalle fantasie dell’infanzia e dell’adolescenza, non necessariamente condizionata da concrete esperienze vissute. Le sue canzoni compongono l’affresco di «un mondo adulto» attraversato dal jazz e dalla letteratura, dall’avanspettacolo e dal fumetto; uno scenario mitico ricostruito su frammenti di realtà e accumuli immaginari, flash del subconscio, viaggi sognati, compressioni temporali fra almeno cinque decenni del Novecento, oggetti di modernariato. Senza concedere nulla ai gusti e ai capricci del momento, al marketing dell’industria musicale, ai generi e agli schemi prefabbricati, Conte è riuscito ad allargare in modo sorprendente il numero dei suoi ammiratori, conquistandone non pochi anche all’estero – anche fra chi, per lingua o per età, non è in grado di cogliere pienamente il senso di ciò che canta. La sua voce borbottante (che affronta Boogie come un recitativo, un rap d’altri tempi, un talking blues), l’eclettismo sofisticatamente rétro dei ritmi, delle melodie e degli arrangiamenti, l’intelligente miscela di indizi e rimandi a stilemi musicali che rischiano l’estinzione, bastano da soli a rendere unico e affascinante il suo lavoro.
Dancing (1982)
Un uomo e una donna si trovano in una sala da ballo e affrontano insieme la pista. Forse si conoscono già e si sono lasciati alle spalle una vecchia storia, o forse si tratta solo di un incontro occasionale: di certo né la musica, né il clima di alienata eccitazione, né il contatto fisico riescono a scalfire la loro solitudine. Intorno a loro le coppie si muovono con una determinazione che ha qualcosa di meccanico:
I ballerini che lo fanno
Un po’ per professione
Un po’ per vera vocazione
Han passo di ossessione
E sanno bene che l’azzardo
È lieve come il leopardo
E san che tutte le figure
Han mille sfumature...
Sull’apparente esaltazione grava un vago senso di disagio, di opprimente amarezza; i gesti, come i sentimenti, sfiorano la goffaggine:
Sì, sono sempre più distratto
E anche più solo e finto
E l’inquietudine e gli inchini
Fan di me un orango
Che si muove con la grazia
Di chi non è convinto
Che la rumba sia soltanto
Un’allegria del tango...
Prova esemplare del mondo poetico di Paolo Conte, fatto di leggerezza e ironia, con precisi rimandi a certe atmosfere degli anni Cinquanta: il jazz e i ritmi latini che appassionavano, allora, elitarie minoranze incomprese dai più; il dancing, che non era propriamente una balera (il cui ambiente era di solito più popolare, e in cui dominava il “liscio” più tradizionale), né un night-club, né una discoteca come la si intende oggi, ma una sala da ballo da sabato sera, attiva dal tramonto a mezzanotte, con orchestrina dal repertorio eclettico e talvolta sofisticato (o, più tardi, un juke-box), frequentata da studenti, impiegati e persone sole di ogni età e condizione, spesso a caccia di compagnia.
Conte è bravo come nessun altro a riportare in vita memorie e suggestioni di un’Italia borghese e un po’ dimenticata: gioca con la polvere e la illumina d’argento, con spruzzi di Nord e Sud America, cinema e teatro di varietà, neon e swing, immagini e ambienti filtrati attraverso la lente d’un arguto gentiluomo della provincia piemontese. Il suo linguaggio poetico e musicale, orgogliosamente al di fuori delle mode, ne fa un autore senza età e di culto europeo; le sue canzoni non si limitano ad alimentare la nostalgia di “chi c’era”, ma brillano di surreale luce propria, come inquadrature di un film in bianco e nero in bilico fra reportage e visionaria invenzione. Paolo Conte riesce a far concordare, nei suoi stralunati scenari, Fats Waller con la provincia italiana, il megafono con gli anni dei “vitelloni”, Ernest Hemingway con Gino Bartali, il pudore savoiardo con l’allusione erotica, in un’opera complessiva che schiva con cura i cliché più insidiosi del pop e anche per questo assume, oltre a quello musicale, un valore letterario. Il tutto narrato con voce nasale, obliqua, indolente, che centrifuga le frasi fino a degradarle in una specie di borbottio, come a volerle spogliare di ogni residuo d’opulenza e ogni sospetto d’importanza.
Come di (1984)
Si pronuncia come comédie– “commedia” in francese – e su questa ambiguità Paolo Conte articola una delle sue fantasie più bizzarre, con un testo frammentario che sembra improvvisato sul suono delle sillabe, sul jazz interiore del vocabolario, sulla sintassi rapsodica che è propria del pensiero, della memoria e del sogno. Si susseguono, al rapido shuffledella base ritmica, inquadrature fulminee e casuali, sconnesse, sincopate; la stessa lingua oscilla liberamente tra l’italiano e il francese. Pure con queste licenze, l’esercizio si tiene insieme con gusto e ironia, risultando meno ermetico e artificioso, ad esempio, dei testi di Pasquale Panella per il Lucio Battisti post-Mogol.
Lo scherzo di Conte attinge allo stesso magazzino poetico da cui provengono abitualmente i suoi patchwork: una fascinosa bottega di modernariato, che assortisce binocoli coloniali ed estrosi souvenir turistici, pellicole sbiadite e dischi in ceralacca, vamp dallo sguardo alla Altan e ritmi rutilanti, residui di adolescenza astigiana e di ballroom internazionale, stralci di comédie humaine e detriti di commedia all’italiana come nel mobilissimo incipit:
Guàrdali, dai treni in corsa si sbilanciano
In canottiera ti sorridono
Come di, come di
Come di orchestra illusa a Napoli
E poi sgridata a Minneapolis
Come di… comédie…
Umorismo, intelligenza, verve jazzistica e assoluta avversione per l’enfasi collocano Paolo Conte e le sue nostalgie in una galassia a parte, uno spazio dove la tristezza ride di sé stessa e il passato non si prende mai sul serio. Ogni sua canzone è un’idea, e contiene almeno una scheggia di vertiginosa poesia. Come diraggiunge il suo climax surreale e musicale nei versi:
Come di, come di orchestra che precipita
In un ventilatore al Grand-Hôtel.
Sotto le stelle del jazz (1984)
Ironica rievocazione di un’epoca, conclusasi alle soglie degli anni sessanta, quando in Italia la passione per il jazz era ancora indizio di un atteggiamento controcorrente, pur se espresso in modo inoffensivo, rispetto alle idee e al gusto dominanti. Con frasi semplici, ma montate in modo apparentemente scoordinato («Certi capivano il jazz, l’argenteria spariva...»), Conte tratteggia con precisione poetica lo stile esistenziale di una minoranza: ragazzi di buona famiglia, probabilmente studenti universitari, non ancora del tutto rassegnati a un futuro già tracciato nello studio notarile o nella farmacia di papà. Il jazz, coltivato fra pochi complici — maschi, americanofili, sognatori — con il suo portato di bonaria trasgressività, era la bandiera segreta di cospiratori per bene, comunque disapprovati sia dagli umili che dai benpensanti: la mamma nascondeva l’argenteria perché non si fidava troppo di quei ragazzi con «le cravatte sbagliate» che bazzicavano per casa ad ascoltare dischi di cui «non si capisce il motivo».
Ladri di stelle e di jazz, così eravamo noi...
Pochi capivano il jazz, troppe cravatte sbagliate,
ragazzi-scimmia del jazz, così eravamo noi...
Nei versi si percepisce nitidamente il vecchio contrasto tra provincia e città, tra aspirazioni giovanili e immobilismo circostante. Tanto più che «gli astigiani sono molto diversi dai savoiardi, dai torinesi e dagli altri piemontesi francofoni», come ha dichiarato il musicista astigiano in un’intervista. «Sono asciutti, rudi e se ne infischiano non poco dei bei modi dei gentiluomini. Per loro il teatro, la poesia sono tutte stramberie, anormalità. In tutta la sua storia Asti non conta un solo poeta. Quelli che hanno preso in mano una penna, l’hanno fatto per scrivere tragedie: Federico Della Valle, Vittorio Alfieri, Angelo Brofferio che vergava sentenze terribili contro tutto e contro tutti.»[4]Altro che jazz.
Sotto le stelle del jazz può anche sparire l’argenteria ma salvarsi, paradossalmente, l’innocenza. Nelle sue canzoni, una più lunare dell’altra, Conte si astiene tuttavia dal lanciare messaggi; il suo stile è felicemente immune da enfasi, luoghi comuni e arroganze. Il suo è un surrealismo visionario e un po’ burbero, imbevuto di Barbera e umorismo.
Come mi vuoi? (1984)
Uno degli scogli più duri che il lyricist italiano incontra sul suo cammino è un lessico avaro di parole tronche e possibilmente brevi, necessarie per coprire a dovere una enorme quantità di aspettative musicali. Per questo le nostre canzoni traboccano di tu, vuoi, puoi, ma, se, sì, no, più, mai, ormai e verbi al futuro: amerò, amerai, tornerò, tornerai, saprai, potrai. Prima dei cantautori, i parolieri se la cavavano troncando le finali di brutto: cuor, amor, fior, dolor, con effetti che adesso fanno ridere ma erano ineleganti anche allora. Come se la cava Paolo Conte con le tronche? In un modo che suona facile e scorrevole, ma che richiede fatica: cercando di dare intensità inaspettata anche ai monosillabi e alle frasi brevi:
Come mi vuoi,
cosa mi dai,
dove mi porti tu?
Quando gli è possibile utilizzare frasi musicali più lunghe e più ariose, la libertà inventiva va a mille:
Dammi un sandwich e un po’ d’indecenza,
e una musica turca anche lei;
metti forte che riempia la stanza
d’incantesimi e spari e petardi...
Ogni singola parola, ogni accostamento inedito (sandwich-indecenza; incantesimi-spari-petardi) basta a evocare una situazione. Par di vedere una coppia da “impero dei sensi”, chiusa in una stanza di lenzuola sfatte e sbrigativi intervalli alimentari; la musica è «turca anche lei» e cerchiamo d’indovinare cos’altro possa esserci di turco nell’ambiente: la donna? l’arredamento? o solo il fumo di troppe sigarette?
Nei testi di Conte colpisce la commistione di pensiero ricercato («dammi un po’ d’indecenza») e lingua parlata («metti forte» per alza il volume). La sua è una lingua agile, sciolta ed eufonica: è musica dentro la musica.
© Pasquale Barbella.
[1]Persino nei periodi meno entusiasmanti del Novecento sono state composte in Italia canzoni decenti e talvolta notevoli, degne di essere accostate ai grandi standard europei e americani per la qualità delle melodie e delle armonie; spesso però sono state deturpate da testi banali o melensi. La musica è più libera delle parole.
[2]Epoca, dall’album Una faccia in prestito, 1995.
[3]Roberto Caselli, Paolo Conte, Roma: Editori Riuniti, 2002.
[4]Da un’intervista rilasciata a Monique Malfatto e ripresa da Roberto Caselli in Paolo Conte, Roma: Editori Riuniti, 2002.