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Mosche in do minore

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Mosche: schizzi di pensiero
anarchico nell’aria, fleurs du mal minimali,
frammenti di refrain senza
capo né coda, luttuose incarnazioni
del giro di do — spettri
di un’entomologia del pathos e del caos.

Persecutrici romantiche di epidermidi sudate
le canzoni si attaccano alla mente con ventose
invisibili — specie nei momenti
sbagliati. Lo scalpiccio dei rimpianti
molestano ai cortei
funebri, materializzandosi
alla superficie del dolore.

Zigzaganti ma tenaci impor­tunano
la coscienza degli insonni, l’umiliato
orgoglio degli offesi, il pu­dore degli inabili
alla lotta. Talvolta (ma sempre più di rado)
il loro insolente ronzio
ci distrae dalla premeditazione
di rigorosi disegni criminosi.

Le terzine dei Platters correvano al miele
della nostra ipocondria di adolescenti,
s’impigliavano nella voluptas dolendi
e ci pendevano dalle labbra come sigarette
francesi, stabilmente ancorate all’angolo
sinistro delle labbra. I sentimenti
erano schegge di vetro trasparenti,
mosche incendiarie
pronte a tentare come kamikaze
tutta la benzina del cuore.

C’erano canzoni per ballare e per morire,
mosche per funerali veri e inventati,
scommesse su chi sarebbe sopravvissuto
agli ultimi incendi d’estate.

Qualcuno se n’è andato
con un buco nella T-shirt
e non si è mai saputo
con quale canzone nel fucile.

Forse le mosche dei cimiteri
non sono che compagne abbandonate,
piccole vedove irrequiete e senza dimora,
virgole di incompiute biografie.

© Pasquale Barbella.



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