La morte precoce del regista Carlo Mazzacurati mi fa sentire in colpa. Il ritratto postumo che ne fa Michele Serra su “la Repubblica” corrisponde esattamente all’identikit delle persone che suscitano, di solito, la mia ammirazione incondizionata. E chiedo a me stesso: «Pasquale, come hai fatto a trascurare uno così? Proprio tu, che ami il cinema al punto di accontentarti, in mancanza di meglio, anche di prodotti appena discreti?»
Il fatto è che i film di Mazzacurati (un paio li ho visti, purtroppo senza entusiasmo) uscivano nel periodo – più o meno vent’anni – di un mio generalizzato disinteresse per il cinema italiano. Ero stato abituato ai periodi di splendore del nostro cinema – il dopoguerra, gli anni del boom – e mi ero formato sui maestri d’una volta: talenti il cui elenco riempirebbe una colonna intera di pagine Seat. E non penso solo ai Rossellini e ai De Sica, ai Fellini e ai Visconti, agli Antonioni e ai Pasolini, ai Petri e ai Germi, ai Rosi e ai Risi, ai Comencini e ai Monicelli, ai Pontecorvo e agli Scola; ma anche a tanti bravissimi narratori d’un cinema nient’affatto secondario, sempre animato da una vibrante vena civile – Nanni Loy (Le quattro giornate di Napoli), il Bellocchio prima maniera (I pugni in tasca, Marcia trionfale), Giuliano Montaldo (Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno), Ugo Gregoretti, Mauro Bolognini, Damiano Damiani (Il giorno della civetta), Francesco Maselli, Franco Brusati; e sono solo i primi nomi che mi vengono in mente.
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Carlo Mazzacurati fotografato da Roberto Baldassarre per L’Uomo Vogue. |
Il “dopo” mi ha deluso. Mi ha dato l’impressione d’un cinema impoverito, tirato via – anche sul piano della cura artigianale. Con qualche eccezione, certo; su Gianni Amelio non discuto, per esempio. E Bertolucci, Tornatore, Salvatores meriterebbero un discorso a parte. Ma – e qui c’è la radice del mio senso di colpa – so bene di aver esagerato col mio snobismo; al punto di rimpiangere onesti cineasti d’altri tempi come Alessandro Blasetti e Raffaello Matarazzo, che considero tecnicamente più bravi di tanti loro nipoti.
Non parlerei di senso di colpa se non mi fossi avveduto – grazie all’articolo di Michele Serra – che il mio metro di giudizio è ambiguo. Adoro Benigni, Moretti, Verdone e altri, ma i loro film mi annoiano; a volte mi irritano. Come si spiega questa contraddizione? Beh, non si spiega affatto. Se non in modo elementare: condivido le loro idee, ma la mia idea di cinema mi separa da loro. I loro film non mi esaltano, non mi commuovono, non mi sorprendono, anche se spesso sono carichi di idee che sommamente apprezzo. E allora capisco di essere uno spettatore malato, uno che guarda e continua a borbottare: «Io questa scena non l’avrei messa; quest’altra l’avrei girata così; io se fossi Verdone avrei assunto un regista vero invece di fare il lavoro da solo; io avrei licenziato in tronco il direttore della fotografia; io se un attore recitasse così lo prenderei a schiaffi...»
Sto guarendo, per fortuna. Il merito non è mio ma di Matteo Garrone (Gomorra, Reality), Sorrentino (anche se il suo film con Sean Penn è terribile) e altri under 50. La mia italianità sta riaffiorando, finalmente, nonostante i brutti momenti che questo paese sta attraversando a causa di catastrofi economiche, ambientali, morali, politiche. E mi dico: stringiamoci intorno ai nostri artisti, ai portatori di idee sane, e facciamolo con meno puzza sotto il naso.
La cultura è l’ultimo antivirus che ci rimane.
P.B.