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Sottomissione

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Michel Houellebecq. Foto: Miguel Medina, AFP/Getty Images.



Nuove distopie


Negli ultimi 66 anni, le distanze letterarie tra il presente e l’apocalisse si sono accorciate dell’80%. Tra il 1949, anno di prima pubblicazione, e il 1984 di George Orwell c’era un intervallo di trentacinque anni. Tra il 2015, anno in cui esce Sottomissione, e il 2022 di Michel Houellebecq il salto è di soli sette anni. Siamo diventati più veloci: il futuro ci soffia il suo alito in faccia, e se la ride come se volesse toglierci di mezzo.


Non date retta a chi liquida l’ultimo libro di Houellebecq definendolo pamphlet o accusandolo di cinismo, quando non addirittura di astuzia mercantile. Sono tentativi un po’ patetici di esorcizzare il contenuto (inquietante, non c’è che dire) di un romanzo che sembra scritto da una cupissima Cassandra, nel frattempo laureata alla Sorbona. Sottomissione ha il potere di allarmare come certi classici della letteratura sulla fine delle utopie (Wells, Kubin, Huxley, Orwell, Bradbury, Burgess...), con un s.o.s. in più: la crisi culturale e politica dell’Europa è già in atto da un bel pezzo, è cosa nota e incontestabile, ci siamo dentro fino al naso, ed è per questo che le ipotesi profetiche di Houellebecq ci terrorizzano.

Bompiani, 2015.


Lo scrittore affonda la penna, a mo’ di pugnale, in quella “crisi di valori” diventata ormai uno stereotipo verbale, tanto se ne è diffusa – se non la coscienza – almeno la chiacchiera mediatica e, di conseguenza, da bar Sport e beauty salon. A parlare di crisi valoriale dell’occidente, insomma, siam buoni tutti; ma pensarci con lucidità è difficile e doloroso, per cui tanto vale rifugiarsi nell’attendismo, nel fatalismo, nella rassegnazione. L’altro stereotipo corrente, “morte della politica”, ha saputo generare solo infezioni più letali di quante ne avesse in corpo la defunta: la cosiddetta “antipolitica” e la trionfale rentrée dei peggiori impulsi nazifascisti di una volta. E mentre l’ideale democratico deperisce fino a trasformare le istituzioni in teatro di marionette, convenzioni rituali, ring elettorale e bugie grossolane – oscenità che il marketing mediatico amplifica con il più assordante e ridondante dei servilismi, – non si può non temere che a questo punto tutto sia possibile, persino il fantaislam (se così vogliamo chiamarlo) di Michel Houellebecq.

L’abbazia Saint-Martin di Ligugé, fondata nel 361 e più volte rimaneggiata.


Conversioni a catena


Il nocciolo del romanzo, noto ormai anche a chi non l’ha letto e a chi per partito preso non lo leggerà mai, è presto detto. Approfittando della debolezza dei partiti democratici tradizionali, in Francia si afferma una compagine imprevista, la Fratellanza musulmana, che fa breccia persino tra laici e moderati spaventati dall’avanzata del Fronte nazionale di Marine Le Pen. La new entrypolitico-religiosa riesce a organizzare una coalizione vincente grazie alla paradossale alleanza con un incongruo ventaglio di partiti di opposizione (compresi quelli che fanno capo, tanto per intenderci, a Hollande e Sarkozy), e questa vittoria, irrobustita dai finanziamenti dei paesi del petrolio, prelude a una rapida islamizzazione che si espande a macchia d’olio: in Francia e nel Belgio inizialmente, e in seguito nell’intera Europa occidentale.

 La Vergine nera di Rocamadour.


La forza di Houellebecq sta nel rigore matematico con cui rende verosimile un’ipotesi che oscilla tra il romanzesco e la logica. Più che con la fantapolitica, Sottomissioneavvince e atterrisce con l’antropologia, descrivendo con crudeltà entomologica il processo di adattamento degli sconfitti al nuovo habitat culturale in cui sono precipitati. La conversione collettiva ai principii dell’islam parte, guarda un po’, proprio da quelle élite intellettuali che dovevano essere il baluardo della nostra civiltà. I sauditi fanno shopping e, tra le prime scatolette che buttano nel carrello, c’è il sistema dell’istruzione. Coranizzano la Sorbona in un baleno, per occuparsi subito dopo delle altre scuole. Il protagonista del romanzo, così come la maggior parte dei suoi comprimari, è un accademico (studioso di Huysmans, gran convertito d’altri tempi): in un crescendo di smarrimento e desolazione, perde l’amante ebrea in fuga verso Israele e assiste impotente alla scalata degli opportunisti. I più intraprendenti sono pronti ad autogiustificarsi con elaborate strategie filosofiche di trasformismo, “conversioni” dettate non solo dal bisogno di sopravvivenza ma anche e soprattutto dalla determinazione a proteggere e persino incrementare i propri privilegi.


Un po’ come aveva fatto, in tutt’altro gioco enigmistico, Edwin A. Abbott immaginando in Flatlandiacome sarebbe il nostro mondo se fosse privo della terza dimensione, Houellebecq schizza un’Europa ridotta alla rinuncia di ogni europeità, con tutte le ricadute del fenomeno sui vari aspetti della civiltà che ancora – ma sempre più fiaccamente – condividiamo: dal repertorio delle opinioni a quello dell’alimentazione, dall’industria ai commerci, dai diritti del cittadino alle pratiche sessuali.


Altro che “crepuscolo degli dei”, sembra suggerirci il libro. Gli dei sono più vivi e più vispi che mai. Ateismi, laicismi, autonomie di pensiero e aneliti libertari sono illusioni da soccombenti. Luxury goods per élite votate all’autoesclusione. Mentre le religioni – specialmente le monoteistiche – continuano imperterrite a mobilitare la nostra specie, a disegnarne o ridisegnarne la scena con tutte le armi a disposizione (dalla fede agli esplosivi, dalle relazioni pubbliche all’economia), a prendere il sopravvento l’una sull’altra quando e dove si aprono crepe nei “sistemi” che sembravano inscalfibili.

Joris-Karl Huysmans (Parigi, 1848-1907), poeta e scrittore francese di origine fiamminga per parte di padre, figura di spicco del decadentismo. Dopo aver manifestato morboso interesse per l’occultismo, passa al misticismo e nella maturità non solo si converte al cattolicesimo, ma si ritira nell’abbazia benedettina di Ligugé. Vi rimane fino a quando un decreto della repubblica francese scioglie gran parte delle congregazioni religiose.


«L’opposizione sinistra-destra struttura il gioco politico da così tanto tempo, che ci sembra impossibile superarla»: e invece zac!, nuove categorie e nuovi parametri vanno a occupare all’improvviso gli spazi lasciati liberi dal vecchio dualismo. Risultato? «Bisognava arrendersi all’evidenza: giunta a un livello di decomposizione ripugnante, l’Europa occidentale non era più in grado di salvare sé stessa – non più di quanto lo fosse stata la Roma del V secolo della nostra era.» Sottomissione ha l’afflato delle grandi narrazioni sulla decadenza e la fine degli imperi. In un’intervista a La Stampa del 2010, Houellebecq sembrava, tutto sommato, ancora appeso a un filo di speranza, per quanto esile fosse: «Trovo che sia in atto una rinuncia alla produzione industriale in occidente. Ma la Francia e l’Italia sono i due paesi che se la possono cavare, in Europa. Questi due paesi possono uscirne in una modalità turistica, agricola. È una via per il futuro. Ciò che fa perdere tempo è cercare di salvare tutto il resto dell’economia. Diciamo semplicemente che l’occidente sta vivendo pienamente il suo suicidio. Le condizioni produttive fanno sì che non riesca più a riprodursi, dal punto di vista demografico per esempio. Saremo persi, a breve termine. Se continueremo di questo passo, se continueremo a vivere in queste condizioni di produzione, spariremo tutti.»


Uno che pensa e parla così non può che essere impopolare. Ma sia benvenuta l’impopolarità, se costringe a riflettere. Donne, state in guardia. Ce n’è anche per voi: roba da guastarvi l’8 marzo: «Quella che è stata definita la “liberazione della donna” conveniva di più agli uomini che vi vedevano l’occasione di un moltiplicarsi degli incontri sessuali. Ne è conseguita una dissoluzione della coppia e della famiglia, cioè delle ultime comunità che separavano l’individuo dal mercato. Credo che sia molto generalmente una catastrofe umana; ma che, anche in questo caso, siano le donne a soffrirne maggiormente. Nella situazione tradizionale, l’uomo si muoveva in un mondo più libero e più aperto di quello della donna; cioè anche in un mondo più duro, più competitivo, più egoistico e più violento. Classicamente, i valori femminili erano permeati di altruismo, amore, compassione, fedeltà e dolcezza. Anche se questi valori sono stati messi in ridicolo, bisogna dirlo chiaramente: sono valori superiori di civiltà, la cui scomparsa totale costituirebbe una tragedia.» È un Houellebecq vintage: risale al 1996, in un’intervista a Humanité. Ma è un pensiero che si ritrova, presentissimo, anche nel romanzo. E può passare per misoginia spicciola, ma non è detto che lo sia.

Prima edizione britannica di 1984 di George Orwell. Londra: Secker and Warburg, 1949. Copertina di Michael Kennard.


L’autore non fa mistero della sua collocazione culturale: «Sono un conservatore», va dicendo senza inibizioni a chiunque abbia in animo di sfruculiarlo un po’. Ma da tempo le etichette tradizionali di “conservatorismo” e “progressismo” si sono sfilacciate e frammischiate fino a perdere qualsiasi senso definitorio. Houellebecq è troppo intelligente, e troppo sarcastico, per non saperlo. Sa anche di essere antipatico, forse anche odiato; ma rimane uno dei pochi scrittori, e pensatori, che sarebbe sciocco e colpevole ignorare.


Anche perché il suo libro, per quanto scorbutico e minaccioso sembri e sia, trasuda di amarezza e sconforto, di dolore sincero, di implacabile masochismo. Gli inserti sentimental-sessuali rasentano la disperazione. Ridotti allo slang sbrigativo e insolente tipico della pornografia più cheap, denotano la ferma intenzione di disattivare qualsiasi residuo di quella retorica “ornamentale” con cui abbiamo cercato, nei secoli, di sublimare noi stessi.


© Pasquale Barbella.


 
Huysmans in un disegno di Félix Vallotton, 1898.


Voodoo blues

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Un mojo da 30 dollari distribuito da Witchlab. Il sacchetto portafortuna può essere designato con una varietà di sinonimi di mojo: per esempio gris gris o conjure bag.


I ain’t superstitious


C’è stato un periodo in cui ho seriamente temuto che Berlusconi potesse diventare presidente della repubblica. Toccar ferro o grattarmi i testicoli mi sembrava troppo poco per scongiurare un simile guaio. Decisi di impegnarmi di più e scrissi un sonetto:

Datemi un corno, un ferro di cavallo,
un omamori, un ramo d’agrifoglio,

un’agata, una croce, un quadrifoglio,

un gobbo con la gobba di corallo,


un’ossidiana, un piede di coniglio,

fallo di gallo in palla di cristallo,

un dente di coyote o di sciacallo,

un porcellino in porcellana, un giglio,


l’occhio di Horus, la collana d’aglio,

un seme di papavero reale,

un mojo, un pipistrello per pendaglio,


un trito di lucertole e cicale:

perché non si commetta mai lo sbaglio

d’incoronare Silvio al Quirinale.


In realtà non credo di essere superstizioso, e pertanto non ascrivo ai miei scongiuri rimati il merito di aver salvato il Quirinale da quell’uomo. Anche Willie Dixon, il bluesman e producer della Chess Records, autore di varie voodoo songs per Muddy Waters e altri artisti della scuderia, dichiarò I ain’t superstitious (“non sono superstizioso”) in un canzone scritta per Howin’ Wolf. Ma fra il dichiararsi vergini da superstizioni e subirne l’influsso il confine è piuttosto sfumato. Per fortuna o comodità esiste, in qualche parte del cervello, un quadrante nel quale è possibile far coesistere la credulità con il suo contrario, il razionalismo. Un quadrante che si chiama ironia. Molte canzoni vudù vi fanno ricorso, con risultati umoristici. La stessa I ain’t superstitious fa dell’ironia – e della contraddizione – un uso irresistibile. Il protagonista ripete fino allo sfinimento di non essere superstizioso, salvo preoccuparsi dei gatti neri, dei cani che abbaiano («autentico presagio di morte») e delle scope, che nelle credenze vudù rischiano di spazzar via l’anima del prossimo (ma anche gli spiriti del male, se preventivamente inargentate con polvere magica).
Willie Dixon (1915-1992), contrabbassista, cantante, compositore, arrangiatore e produttore della leggendaria Chess Records. Una delle figure chiave del blues di Chicago.


Ramazze e gatti neri


«Don’t sweep me with no broom / I might get put in jail», implora Howlin’ Wolf nel blues citato; «non spazzarmi via con la scopa / potrei finire in prigione». Il blues, sia folk che d’autore, ha spesso armeggiato con i riti vudù per ricavarne metafore sessuali. Già Robert Johnson, leggenda del Delta e gran rimaneggiatore di temi popolari preesistenti, s’impegnò in doppi sensi su broom, la scopa:

I do believe, I do believe I’ll dust my broom,
And after I dust my broom, anyone may have my room...

«Credo, sì, credo che dovrò mettere polvere magica sulla mia scopa, / e dopo averlo fatto, chiunque potrà prendere il mio posto...» I believe I’ll dust my broom, comunque, ha un testo complicatissimo da decifrare, e non solo per via dello slang: c’è chi ci ha provato con chiavi di lettura erotiche, superstiziose, bibliche e altro, senza venire a capo del suo significato complessivo. Si capisce solo che si tratta di un blues sentimentale e a tratti disperato, che parla di un tizio costretto a partire e abbandonare per sempre la donna amata. Nei blues di Johnson, insomma, c’è poco da ridere. 
Robert Johnson (1911-1938). Malgrado la vita breve e pochissimi dischi, ha influenzato intere generazioni di bluesmen.


Il testo di Cross road blues, altro capolavoro di Robert Johnson, presenta una quantità di enigmi persino superiore. Il protagonista sta a un incrocio stradale nella sconfinata e piattissima campagna tra il Mississippi e lo Yazoo. Che ci fa lì, con la chitarra? L’autostop? Si lamenta di un sacco di cose; probabilmente anche di quanto sia difficile rimediare un passaggio. Tra le varie interpretazioni, suggerite anche dalla forma a croce che assumono le strade quando si intersecano, una è diventata così prevalente da alimentare a dismisura il mito di Johnson: quello è il posto giusto per gli incontri con Satana. E il bluesman stringe col diavolo un patto faustiano: prenditi l’anima e dammi il talento.

Muddy si diverte


In casa Chess, lo spirito vudù folleggia nel rhythm and blues di Willie Dixon, di Howlin’ Wolf, di Muddy Waters, ma con intenzioni meno criptiche e più spavaldamente goliardiche. Sesso ed esorcismi a volontà.
Muddy Waters (1913 - 1983) in concerto, circa 1970. (Val Wilmer / Redferns).


Nel repertorio di Muddy Waters  Got my mojo working, Louisiana blues, My John the Conquer root – le spacconate maschiliste, gli ammiccamenti sessuali, gli amuleti e i talismani si sprecano, in uno slang smargiasso e stregonesco quasi impossibile da tradurre in italiano. A cominciare dal titolo di uno dei pezzi più famosi, I’m your hoochie-coochie man: “sono il tuo stregone”, “sono il tuo danzatore del ventre”, “sono quello del can can”, “sono il tuo Ciccio il mago”... Si può tradurre come si vuole, a patto di conservare l’intenzione sessuale e volgarotta, la profferta spudorata, l’alta opinione delle proprie misure e prestazioni. 


I got a black cat bone

I got a mojo-tooth

I got the John the Conqueror

I’m gonna mess with you

I’m gonna make you girls

Lead me by the hand

Then the world’ll know

The hoochie-coochie man…


«Tengo un osso di gatto nero / tengo un dente che porta buono / tengo un tubero di gialappa, / con voi faccio uno sfracello. / Farò sì che voi ragazze / mi pigliate mano in mano / e poi il mondo lo saprà / che maschione è Ciccio il mago…»

La gialappa o turbitto (Ipomoea purga), rampicante della famiglia delle convolvulacee originaria dell’America Latina. Fiori color porpora, proprietà medicinali. La radice essiccata e tritata, i semi e la resina sono utilizzati per la preparazione di un forte lassativo ad azione irritante. Disegno di Franz Eugen Köhler.


Detto anche gree-gree (parola di origine bantu), mojo hand, conjure bag, conjure hand, toby, jomo, nation sack, e ad Haiti wanga, oanga, wanger, il mojo è un sacchetto di flanella – rossa o verde, secondo il tipo d’incantesimo desiderato – che contiene ingredienti magici: campioni di magnetite, noce moscata, radici essiccate di erbe psichedeliche e purgative, dadi in miniatura, cuori di pipistrello, denti e zampe di tasso o alligatore, il tutto aromatizzato da oli essenziali. Si porta sotto i vestiti, a contatto con la pelle, per realizzare un desiderio ben definito. Il contenuto varia in funzione del tipo di successo agognato: vincere al gioco d’azzardo, combattere il malocchio, acquisire coraggio o maestria, cavarsela a un esame, o – più spesso – conquistare l’amore di qualcuno. In quest’ultimo caso si richiede di aggiungere qualcosa che appartenga intimamente alla persona oggetto del desiderio: capelli, pezzetti di stoffa, persino urine – se si è capaci di procurarsene.


Le radici di certe piante giocano un ruolo primario nella composizione del mojo, e – insieme alle essenze, alle pozioni, agli inchiostri di “sangue di drago”, alle “candele dei sette giorni”, alle pietre, alle polveri, agli incensi, ai cristalli da bagno, ai resti di carogne – alimentano un fiorente sottomercato alchemico dell’occultismo e del satanismo, attivo fin dagli anni trenta e oggi presentissimo in internet.

La galanga (Alpinia galanga) è una pianta erbacea delle zingiberacee (la stessa famiglia dello zenzero e del cardamomo).
 
Il portafortuna più ambìto è il grosso tubero dell’Ipomœa purga, una convolvulacea della stessa famiglia della patata dolce (Ipomœa batatas), originaria del Messico. La pianta è nota anche come Ipomœa jalapa, dal nome di Xalapa, capoluogo dello stato di Veracruz, sul versante est della Sierra Madre orientale (ma si può trovare anche in Louisiana e in Florida). Pare che le virtù di questa radice legnosa, dall’odore aspro e dalla forma di scroto, fossero già apprezzate dalle popolazioni indigene precolombiane, per pratiche rituali finalizzate al potenziamento della virilità e della fertilità.


Forse gli schiavi africani, privati del paesaggio e della flora delle terre d’origine, sostituirono le proprie erbe magiche con quelle dei nativi d’America. Proprio all’epoca dello schiavismo il tubero di gialappa prende, in Louisiana, il nome popolare di John the Conqueror (varianti: John the Conqueroo, John the Conquer root), in onore di un personaggio leggendario. Una credenza popolare venera in John il Conquistatore, fiero principe africano ridotto in schiavitù nelle piantagioni ma mai realmente asservito, il più saggio e più astuto degli sciamani, capace di imbrogliare con le sue arti persino il padrone bianco. E, come il Conquistatore, si chiamano John altre radici portentose. Dixie John, ovvero Southern John, o ancora Low John, è la radice del Trillium grandiflorum, liliacea ideale per risolvere problemi familiari e sentimentali. Mentre il rizoma dell’Alpinia galanga, cugina dello zenzero, è detto Chewing John, o Little John, o Court case root: si mastica e si sputa nelle aule di tribunale per vincere le cause.

Chester Arthur Burnett (1910-1976) detto Howlin’ Wolf (Lupo ululante), cantante, chitarrista e blues singer della Chess di Chicago, fotografato nel 1972 da Doug Fulton.


Ho un mojo che funziona (ma proprio non vuol saperne di funzionare con te)


Got my mojo workin’ (but it just won’t work on you), altro grande successo di Muddy Waters, è diventata un rovente classico del blues elettrico e del rhythm & blues, con il quale si sono cimentate dozzine di glorie della scena di Chicago, aggressivi blues rocker britannici, revivalisti bianchi e neri del blues del Delta, energici pianisti da French Quarter, band psichedeliche, virtuosi dell’harmonica blues e “intrusi” come Elvis Presley e Bobby Darin. Dell’autore, un certo Preston Foster, si sa poco: c’era un attore bianco che si chiamava così, comparve in un centinaio di film – spesso nei panni del cattivo – tra il 1929 e gli anni ’50, fuori dagli schermi ebbe anche a che fare con la musica; ma è improbabile che si tratti della stessa persona. Muddy Waters ritenne di potersi accreditare la composizione solo per averne accelerato il ritmo e aver apportato insignificanti modifiche al testo.


I got my mojo workin’ but it just don’t work on you

I got my mojo workin’ but it just don’t work on you

I wanna love you so bad, child, but I don’t know what to do

I’m going down to Louisiana, gonna get me a mojo hand

Going down to Louisiana, gonna get me a mojo hand.

Gonna have all you women under my command.


«Tengo un mojo che funziona, ma proprio non funziona con te, / tengo un mojo che funziona, ma proprio non funziona con te, / vorrei amarti come si deve, tesoro, ma non so come fare. / Me ne scendo in Louisiana a procurarmi un mojo hand, / me ne scendo in Louisiana a procurarmi un mojo hand, / donne, voglio avervi tutte ai miei piedi.»


Il mojo vudù è quello che sappiamo, ma nello slang afroamericano la parola si presta flessibilmente a designare anche l’organo sessuale maschile. Del resto era a quello che si riferiva Jim Morrison quando si autodefiniva, anagrammando il proprio nome e cognome, Mr. Mojo Risin’, “Sig. Erezione”. Né vanno tanto per il sottile Muddy Waters e i numerosi altri mannish boys del rhythm & blues, maschiacci con quel chiodo fisso in testa.


Solo che la graziosa Ann Cole, prima interprete di Got my mojo workin’ (1956), era tutto fuorché un maschiaccio. Nel senso originale della canzone, l’amuleto di Ann Cole era efficace in tutto fuorché nelle magie d’amore. Dobbiamo dunque pensare che le successive interpretazioni al maschile suonano come parodie e sberleffi sul primario contenuto sentimentale della canzone. (Detto per inciso, nessun mojo evitò alla povera Ann Cole l’incidente stradale che la ridusse sulla sedia a rotelle).


Certo che il sacchetto con l’amuleto dentro si presta con facilità ai doppi sensi, e non è Muddy Waters il primo a scoprirlo. A partire dagli anni venti, il blues acustico rurale favorisce una lunga tradizione di allusioni sessuali – al maschile e al femminile – legate a quella parolina di due sillabe. «La mia ragazza ha un mojo, cerca di non farlo vedere a nessuno / ma Bill della Georgia ha quello che ci vuole per scovarlo», gigioneggia Blind Willie McTell in un disco Okeh del 1931, Scarey day blues. E Take your hands off my mojo, «giù le mani dal mio mojo», duettano in un disco del 1932 i coniugi Leola e Wesley Wilson, noti anche come Coot Grant e Kid Wesley Wilson.


Una certa Ruth Stratchborneo, co-autrice di una canzone intitolata Mojo workout, citò in giudizio Muddy Waters e la sua casa discografica per aver inciso negli anni ’60 Got my mojo workin’, accampando una presunta priorità sull’idea del “mojo che funziona”. Ovviamente perse la causa, non solo per la fragilità dell’assunto ma anche perché la sua composizione era di ben cinque anni successiva a quella di Preston Foster. L’episodio non ha in sé alcuna importanza, ma è interessante la lettura dei verbali. Ecco un breve stralcio dalle considerazioni finali del giudice Brieant: «Per intendere correttamente i termini della controversia è innanzitutto opportuna una definizione di mojo. Mojo è nome collettivo usato per definire uno o più oggetti talismanici che si ritengono dotati di intrinseci poteri, e in grado di conferire poteri, o di tener lontani il male e la sfortuna, a condizione di essere tenuti a contatto del corpo, o di essere semplicemente posseduti, dalla persona cui il mojo appartiene. Esempio facile di mojo: un piede di coniglio. Altri esempi di amuleti mojo, menzionati qua e là negli atti processuali, sono ossi di gatto nero, teste disseccate, frammenti di magnetite, mezzo dollaro di semi, quadrifogli, ceneri, pelle di serpente nero, ciuffi di capelli, collanine di denti. Il mojo è spesso portato al collo dentro un sacchetto di cuoio, o comunque tenuto indosso […]»

Screamin’ Jay Hawkins (1929-2000) al The Edge di Toronto, il 1° aprile 1979.


I put a spell on you


{Ti ho fatto un incantesimo}, parole e mu­sica di Screamin’ Jay Hawkins (al secolo Jalacy Hawkins), 1949. La canzone è a volte accreditata anche a tale Herb Slot­kin, manager di una piccola casa discogra­fica, la Grand Records, cui si deve una prima e dimenticata incisione di Hawkins. La versione storica è quella successiva, del 1956, quando la Columbia scopre questo bizzarro blues singer di Cleveland – ex campione di pesi medi – e lo arruola per la sua seconda etichetta, la Okeh (poi Epic). Già allora Hawkins si faceva notare per ec­cessi e gigionerie, e per la tendenza a teatra­lizzare la propria immagine e la propria esistenza. Sosteneva, per esempio, di essere stato adottato da una tribù di Piedi Neri e di aver appreso le pratiche vudù dalla madre adottiva.


Che fosse un pianista e sassofonista do­tato è invece vero: suonò occasionalmente per gente come Tiny Grimes, Lionel Hamp­ton, James Moody. Dalla band di Fats Do­mino si fece cacciare per essersi presentato in scena in pelle di leopardo, accentrando su di sé l’attenzione del pubblico. La sua canzone-feticcio, I put a spell on you– in ori­gine un’accorata blues balladsentimentale – subisce nel 1956 una trasformazione radi­cale, tingendosi di fosco ed esoterico inchio­stro. Hawkins geme, urla (screams) e grugnisce da ossesso, dipingendo un istrio­nico quanto ironico e surreale capolavoro vudù. Dirà poi che durante la registrazione era sbronzo marcio, così come tutti i musici­sti di supporto e lo stesso producer, Arnold Maxon. Al quale si deve l’idea di forzare, con l’aiuto dell’alcool, lo stralunato parossi­smo dell’esecuzione. Un rapporto detta­gliato precisa il menu del party improvvisato in sala d’incisione: costolette alla brace, pollo arrosto, torta di patate dolci, vino, birra e whisky. La fusione degli ultimi tre ingredienti sarebbe alla base dei rantoli, strepiti e ruggiti – tra il grottesco e il terrifi­cante – che da quel momento rendono in­confondibile lo stile di Hawkins, e che le radio dell’epoca censurano senza pietà per non turbare le anime pie.

Diamanda Galás.

Jay Hawkins sembra la versione musi­cale di Vincent Price negli horror movies di Roger Corman. E come un personaggio go­tico di quei film amava apparire nei suoi show. Il pezzo forte era l’ingresso in scena: si faceva trasportare in una cassa da morto lambita dalle fiamme, e schizzava fuori dal giaciglio preannunciandosi con un urlo tal­mente disumano da «indurre metà degli spettatori ad abbandonare di corsa la sala» (secondo sue esagerate vanterie). Esibiva raccapriccianti costumi e accessori di scena – mantelli, scettri, maschere, teschi. L’associazione nazionale degli esercenti di pompe funebri inviò una circolare a tutti gli iscritti, con la raccomandazione di non for­nire più bare a noleggio a quel guitto carne­valesco. Così Jay dovette comprarsene una e portarsela appresso nei tour. Per evitare di rimanervi rinchiuso e morire asfissiato, usava inserire una scatola di cerini come distan­ziatore fra la cassa e il pesante cofano. Una volta i Drifters di Ben E. King, in pro­gramma per la seconda metà del concerto, lo chiusero nella bara senza frapporre i salvi­fici cerini. Rischiò di soffocare, riuscì con sforzi degni del mago Houdini a liberarsi e scatenò una tale furia vendicatrice sui Drif­ters da costringerli a rinunciare al loro show.


Queste e altre storie, tutte tra demonismo e farsa, conferiscono a Spell un fascino as­solutamente unico. Non solo nell’interpretazione fuori di testa dell’autore (il cui successo commerciale, nonostante o forse proprio a causa di quegli estremismi e stravaganze, fu sempre piutto­sto modesto), ma anche in diverse letture altrui. Serie ma del pari impressionanti, per le profonde suggestioni che evocano, sono la versione “sacerdotale” di Nina Simone e la “infernale” di Diamanda Galás.


© Pasquale Barbella


(Parte prima. Continua.)









Carciofi fritti

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Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta in Penne, antologia di autori vari, editore Lupetti, 1993.

Carciofi fritti


Ci risiamo. Quel fetente di Scorza non è tornato a casa ieri sera. Ed eccomi qua a buttargli la cena nell’immondizia, dopo tutto il puntiglio che ci ho messo a prepararla. Sicuro come la morte che non si farà vedere per tutta la settimana. Di che ti meravigli, mi dico: lo sai che succede una volta all’anno. Spedizione della ditta per andare a rimorchiare un nuovo cliente. Il giornale radio di stamattina l’ho mancato, ma scommetto due mesi di tagliatelle fatte in casa che è come dico io.

Ma tanto chi se ne frega. Piatto più, piatto meno. Spero solo che la Madonna di Pompei mi salvi da un altro morto in piedi come quello dell’ottantacinque. Tutte lui ce l’aveva: l’ulcera, i calcoli, il mal di testa cronico. Che gli vuoi cucinare a uno così? Compresse arrostite? Beh, chiedetemi tutto, ma se vi serve un’infermiera andate a cercarvela da qualche altra parte.

Davanti al da fare non mi sono mai tirata indietro. E poi, cuocere mi distende i nervi. Sempre meglio battere le cipolle che battere il marciapiede, come ai vecchi tempi. Però che gusto c’è a spadellare, se intorno ti ritrovi solo palati mosci e budella arrugginite? Poco m’importa di gente col cervello fino e la muscolatura di ferro, se poi non sa distinguere una lingua salmistrata da una carota lessa. E pazienza se questa sensibilità è anche la mia disgrazia. Prendi Scorza, per esempio. Bello non si poteva dire neanche in gioventù. Intelligente forse, ma a modo suo. Carognissimo no, perché in giro c’è di peggio. Ma quando gli garba di rifilarmi uno sganascione, lo fa senza dire né bi né bo. E allora, che ci trovo in uno così? Il gargarozzo all’erta, sissignori. Scorza è uno che afferra al volo cosa hai messo oggi nel sugo. Uno che sa apprezzare quello che fai, e che quando si siede a tavola si esalta. Se la giornata è buona è capace pure di farti la carità di un complimento, con lo stuzzicadenti in fuori e lo schienale della sedia all’indietro.

Il cliente dell’anno scorso: ecco un altro che con la forchetta ci andava d’accordo. Giovane, poi. Mai visto in vita mia un pisello così tirato alla cucina. Dava soddisfazione, il ragazzo, perché aveva capito il lato buono della trasferta. Per questo non gli è andata tanto storta. Certo qualche mazzata all’inizio ha dovuto pigliarla anche lui, ma giusto lo stretto necessario. Abbastanza presto si è adattato alle circostanze, e si è risparmiato così un sacco di delusioni. Le orecchie e le dita, tanto per dire, ce l’ha ancora attaccate addosso, ed è merito suo. Suo e del suo drittissimo palato. Perché – anche se poi dalla tivvù risulta che si è lamentato di tutto il trattamento – sono convinta che alle mie specialità ci aveva preso gusto. E ai carciofi fritti in modo particolare.

In principio il soggetto pareva inconsistente come una calza di nylon. Almeno così sembrava in fotografia, prima della cura. E anche dopo ha conservato quel fisicuzzo da manico di scopa, benché non gli siano mai mancati il primo, il secondo, il contorno, la frutta e, la domenica, persino il dolce. Eppure si è rivelato più tosto di tanti altri. I primi giorni, è vero, non voleva mangiare. Sta’ a vedere che ci siamo messi con un altro anoressico, pensavo. Invece no, era il solito choc da rapimento. E poi bisogna dire che io entro in azione verso la seconda settimana, sicché per qualche giorno l’ospite va avanti a pane, formaggio e mortadella; senza contare che a questi approvvigionamenti ci pensano Scorza, Malombra e qualche altro garzone della ditta. E i maschi si sa che acchiappano le prime porcherie che trovano in giro, senza andare troppo per il sottile.

Lo rivedo come fosse oggi, il giorno che Scorza tornò dalla campagna un po’ ingrugnito. «Il signorino è un vero bastardo», butta lì. «In cinque minuti si è strafocato i tuoi carciofi. Poi mi guarda fisso e dice: “È una donna, il cuoco dev’essere una donna.”» «Embè?», faccio io, che non riesco a vedere dove sta la bastardata; «tu che gli hai risposto?» «Risposto? Un calcio nel fianco gli ho risposto. Tu però non fare troppo l’artista con lui. Se alla fine della vacanza va in giro a dire che c’è una femmina nella società, ci ritroviamo attorno la solita pattuglia di caraibi a lambiccare domande stronze. A quelli, basta che gli fai vedere un pelo del naso e si sentono subito tenenti Colombo.»

Aveva ragione. Lui è più accorto di me in tante cose. A starlo a sentire c’è sempre da imparare. Ché se la compagnia sta ancora in piedi è perché finora non ci siamo mai rimbambiti né montati la testa. Anche col bere ci vuole occhio: la regola è di tenerla a freno, la bottiglia. Due bicchieri extra, un rutto di troppo e la festa è finita.

A me sta bene così. Più tengo la lingua a riposo e i denti stretti, e meglio mi sento. Quando Malombra per sfottere mi chiama Mascella Quadra, non sa che la mia faccia è diventata quella che è a furia di tenerla sotto controllo.

Comunque è sacrosanto, i carciofi fritti mi vengono un amore. I carciofi sono creature che vanno trattate con rispetto. Purtroppo la maggior parte della gente è buona solo ad annegarli. Prima di friggerli li fanno lessare! Bisogna avere il cervello in brodo per concepire uno scempio del genere. Se li fai squagliare nell’acqua bollente, dove va a finire tutta la croccherìa? Un altro delitto è darsi da fare con queste pastelle del cacchio, tirate ad acqua, uova e farina. Io dico che meno acqua assorbe e più il carciofo fritto è un bigiù. Acqua d’accordo, ma solo per dare una rinfrescata alle fettine dei carciofi appena tagliati; poi asciugare, infarinare, setacciare per mandare a quel paese il dippiù di farina, passare nell’uovo con delicatezza e buttare in olio allegro e abbondante.

Ah, l’olio. Non sono una che si mette a sparagnare sull’olio. Se non è di prima spremitura, bello verde, di quello che ti sfringuella in gola, per me è sciacquatura di piatti. E ci vado con la mano facile, perché i carciofi voglio vederli galleggiare e ballare la rumba in padella. Poco olio molto fumo, diceva la buonanima di mammà, e nello stomaco la frittura ti arriva dritta come una chiancata.

Com’è, come non è, il venerdì appresso rifeci i carciofi fritti per il giovane buongustaio e, tanto per fare la grande, nel piatto aggiunsi pure uno spicchio di limone, come si fa nei ristoranti chic. Scorza venne a prendere la mangerìa per il prigioniero e, come vide il servizio, smadonnò e mi scagliò addosso la saliera di cristallo. Io fui pronta a scansarmi, la saliera con tutto il sale andò a far scintille contro il calendario di Frate Indovino, ma non dissi ba. Lui agguantò la roba e se la portò via, compresi i carciofi fritti con tanto di limone, e a me scappò da ridere. Non so se mi sentivo più scema o più contenta. M’immaginavo il ragazzo – mai visto di persona, secondo le buone regole – in qualche casotto sperduto nei campi, che si gustava le mie finezze soddisfatto, insieme al guardiano di turno (Scorza o Malombra o qualche altro fesso che non conosco). E magari si prendeva un calcio come dessert, ma anche lui come me se la rideva sotto i baffi. Legato: era legato? C’era luce nel capanno? La brandina era pulita? E dove faceva i suoi bisogni?

Io queste cose non le ho mai domandate né a Scorza né al Padreterno, ché meno sai meglio è. Il patto è che ognuno pensi al suo mestiere senza ficcare il naso in quello degli altri. Pure Scorza e Malombra sanno quel tanto che basta. Uno gli dice il cosa, il come e il dove, e loro eseguono. Punto.

Mi misi a friggere carciofi tutti i venerdì, e Scorza già dalla terza volta non ebbe più niente da ridire. Anzi. Un giorno che di proposito lasciai perdere la frittura dei carciofi, lui mi squadrò strano e mi domando perché. «È uno sbaglio abituarlo troppo bene», dissi, tanto per sondare la reazione. Lui prima si lasciò sfuggire che ero una stronza, poi si affrettò a mettere in chiaro che del ragazzo non gli fregava un chiodo, e che aveva voglia di scarciofare lui in persona come tutti i santi venerdì. Allora gli feci notare che questa storia del venerdì era troppo regolare, e che se i carciofi fritti sono buoni di venerdì, vuol dire che sono buoni anche di sabato. Così il giorno dopo ci furono carciofi a sorpresa, anche per il ragazzo e per Malombra. Ma poi ripresi tranquillamente l’usanza del venerdì, senza il minimo commento da parte di Scorza.

Qualche volta, indipendentemente dal mangiare, Scorza mi riferiva cose senza importanza che il ragazzo aveva detto o fatto. Per esempio: «Oggi non gli andava di giocare a briscola», «Oggi mi ha chiesto se poteva avere un walkman tanto per passare il tempo», «Oggi non aveva voglia di leggere la Gazzetta». Degli ospiti precedenti non era mai venuto a raccontare nulla. E col tempo non fece più riferimento a botte, calci o incazzature. Io ascoltavo queste frasi buttate qua e là senza fare domande, perché sapevo che se avessi mostrato curiosità si sarebbe chiuso a riccio e non avrebbe più aperto bocca.

Senza accorgermene, e senza capirne il motivo, avevo preso l’abitudine di aspettare i ritorni di Scorza con una certa trepidazione. Mi andava di sentire le scarne chiacchiere sulla giornata del ragazzo. Soprattutto rizzavo le orecchie le rare volte che c’erano reazioni o commenti sul cibo: «Oggi ha pulito il piatto», «Ha lasciato la carne a metà», «Ieri ha detto che la pasta era al dente». Non è che prima lasciassi scuocere la pasta: è che arrivava laggiù fredda e rammollita per via della distanza. Ma avevo scoperto ultimamente una pasta glutinata, che rimaneva bella soda per ore.

Un venerdì Scorza mi disse che, dopo aver mangiato i soliti carciofi, il giovane era stato preso da una brutta malinconia, e gli era pure scappata mezza lacrima. Io che non dicevo mai niente quella volta azzardai due parole. «Può essere», dissi, «che anche sua madre frigga i carciofi senza lessarli.» Invece di darmi una botta in testa, Scorza mugugnò: «Può essere.» Poi si accese un sigaro puzzolente e si mise a guardare la televisione, mentre io sparecchiavo.

Qualche settimana più tardi, sempre di venerdì, Scorza tornò fuori orario – era quasi mezzanotte – con la borsa dei piatti e delle posate da lavare. La posò sul tavolo della cucina e cominciò a tirare fuori il contenuto, senza una parola. Con un po’ di stringicuore vidi che non erano i piatti sporchi, ma le vivande tali e quali gliele avevo date ore prima. Non era stato toccato niente: neanche i carciofi fritti, neanche lo spicchio di limone. «Il ragazzo torna a casa», disse finalmente Scorza, a bassa voce. «Lo abbiamo lasciato andare, prima dell’ora di cena.»

«Allora si sono decisi a pagare il riscatto», feci io tanto per dire qualcosa.

«È stato un affare di lusso. Liscio come l’olio.»

«E la parte nostra?»

«Tutto a posto, non ti preoccupare.»

«L’avranno già trovato?»

«Chi? Ah. No, credo di no, è ancora presto. Forse stanotte. O di prima mattina, quando comincia il traffico dei camion.»

«Non fa tanto freddo. E c’è la luna piena, uno può vedere dove mette i piedi. Non mi hai mai detto se fuma.»

«Fuma, fuma. Gli ho lasciato un pacchetto nuovo, non si sa mai.»

Eravamo contenti perché anche stavolta era finita bene. Però avevo come un nodo qui. Alla fine sbottai:

«Ma perché mandarlo via prima di cena? M’avete fatto sgobbare per niente.»

Mi guardò storto e disse che gli orari non erano cazzi nostri.

Eravamo stanchi ma nessuno dei due aveva sonno, così sgombrai la tavola e ci mettemmo a giocare a briscola. Mentre Scorza mi portava via un tre di cuori, io pensavo che quella sera il ragazzo aveva avuto una grande gioia ma anche una piccola fregatura. E m’illudevo che qualche volta si sarebbe ricordato, senza sputare maledizioni, i carciofi fritti di una sconosciuta.

© Pasquale Barbella.


Amore molesto

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Chimica della lettura


Leggevo L’amore molestodi Elena Ferrante e, ad ogni slittamento di paragrafo, sentivo il mio occhio interiore partecipare, volente o nolente, a un effervescente processo chimico. Non ero più io, ma un grumo di bicarbonato di sodio in un bicchier d’acqua; e il libro agiva su di me con gocce d’aceto. La reazione produceva sale, anidride carbonica e inquiete bollicine; ma il mio palato psichico, sollecitato da onde contraddittorie, subiva incerto una mistura di attrazione e repulsione.

Mi piaceva, mi piace la scrittura di Elena Ferrante. Al tempo stesso, sono contento di essere arrivato alla fine dell’Amore molesto; è come se mi fossi liberato di una spina di pesce piantata in gola. Non so se riaprirò quelle pagine: temo di no. Non so se leggerò altri romanzi dell’autrice: non presto, comunque. L’idea che mi sono fatta ha uno sgradevole odore di cliché, ma non posso farci nulla. L’idea che mi sono fatta è che Elena Ferrante è una straordinaria pensatrice e scrittrice per un pubblico di donne. Io, in quanto maschio, sono – come dicono quelli del marketing – fuori target.

Da quel libro, come da molta narrativa contemporanea “al femminile”, mi sento escluso, anche se so che ogni singola autrice e ogni singola opera andrebbero considerate, senza pregiudizi, per il loro valore specifico. Com’è noto, Elena Ferrante è lo pseudonimo di una persona che non desidera essere riconosciuta: si sono fatte diverse congetture sulla sua identità, e non manca chi le attribuisce nomi maschili; ma non posso credere che Elena Ferrante sia un uomo. Se lo fosse, sarebbe il massimo genio letterario del ventunesimo secolo; perché nessun uomo, nemmeno un grande scrittore che sia anche psicanalista e ginecologo, saprebbe entrare con altrettanta pertinenza e sensibilità sotto la pelle di una donna.

All’Amore molesto mi sento estraneo perché non mi riconosco in nessuno dei suoi personaggi: non negli uomini, che sembrano appartenere senza eccezioni a un universo di zombie rapacissimi e osceni; né posso provare empatia per le donne, distantissime da me per manifesta incompatibilità col genere maschile.

Trovo “molesto” questo romanzo, pur magnifico per profondità e sottigliezza d’analisi, perché me ne sento respinto: non sono io a non amarlo, è il libro a non amare me. Elena Ferrante disegna in modo magistrale due ritratti femminili (madre e figlia) degni di stabilirsi a lungo sugli altari della letteratura; ma instilla il sospetto che la narrativa abbia intrapreso o ulteriormente biforcato strade diversificate per gender, con scrittrici che si rivolgono a lettrici e scrittori che si rivolgono a lettori. Del resto è proprio quanto accade nel piccolo circolo di lettura che frequento. Donne (tante) che leggono donne, e uomini (pochi) che leggono uomini. Salvo eccezioni, ovviamente. Il fenomeno, mi pare, riguarda i libri recenti, diciamo degli ultimi venti o trent’anni; nessuna o nessuno si sognerebbe di pensare alla Némirovsky o alla Szymborska come “autrici per lettrici”.

Elena Ferrante parla del mondo femminile (anima, corpo, oggetti) osservandolo da un interno che più interno non si può: «La vedevo sgusciare dal suo vecchio tailleur e avevo l’impressione che l’abito restasse rigido e desolato, sospeso sulla sabbia fredda come era sospeso adesso, contro la parete. La vedevo mentre si sforzava di entrare in quella biancheria di lusso, in quegli abiti troppo giovanili, barcollante di ubriachezza. La vedevo fino a quando, esausta, non si era coperta con la vestaglia di raso.»

Ho la testa dura. Mi divertono le contraddizioni e voglio contraddirmi fino in fondo. L’amore di queste pagine sarà molesto, ma Ferrante è di una bravura mostruosa. E anche se l’io narrante (Delia) non esce mai da sé stessa, il mondo esterno – una Napoli rumorosa, inquinata, maleodorante – si fa sentire con prepotenza inaudita e feroce. La città, pure, è “scavata” quasi fisicamente dallo sguardo e dal corpo di Delia, come se si trattasse d’una persona; non a caso, verso la fine, la protagonista s’inabissa in un livido e fetente scantinato a caccia di verità rimosse, ed è la classica discesa agli inferi. Quanto all’abiezione degli “altri” (soprattutto maschi), Ferrante sa farla emergere non solo dai passaggi drammatici (violenze domestiche, risse, tentativi di stupro, etc.) ma anche dalle parole, dalle reazioni e dai gesti in apparenza irrilevanti.

L’amore molesto, servito nel 1995 da un film di Mario Martone che ho dimenticato in fretta (ma che forse rivedrò), si può leggere anche come un thriller insolito e sofisticato. L’incipit va in quella direzione e non tradisce le aspettative: «Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno.» Senza quell’incipit, forse non avrei avuto la scorza per arrivare fino in fondo.

© Pasquale Barbella.



Huysmans illustrato

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Controcorrente.

À rebours, il romanzo di Joris-Karl Huysmans (Parigi, 1848-1907) pubblicato nel 1884, non è solo un capolavoro della narrativa ma anche uno straordinario telescopio sulla cultura dell’epoca e sull’estetica del decadentismo. Huysmans scrive di arte, letteratura, musica, religione, morale, medicina, profumeria, cosmesi, arredamento, floricoltura e di qualunque altro argomento gli passi per la testa: il suo alter ego, il protagonista del romanzo Des Esseintes, discetta di tutto a modo suo, con un furore polemico di rara, amara e – per noi posteri – divertente scontrosità. I suoi giudizi sono fuori dal coro e irresistibilmente tranchant, illividiti da una implacabile misantropia; tale è il disprezzo di Des Esseintes per i suoi simili e per le idee correnti che, abbandonata una vita di bagordi, si rifugia in una tetra e isolata abitazione di provincia, dove si macera l’animo fino a dubitare persino del suo ateismo. A poco a poco, le sue ossessioni lo portano dalla nevrosi all’anoressia e ad altre devastanti affezioni fisiche. È noto che, verso la fine della vita, Huysmans si ritirò in un convento come oblato benedettino: la sua conversione è uno dei temi ricorrenti di Sottomissione, il romanzo di Michel Houellebecq recensito qui.

À rebours circola in Italia in varie edizioni. C’è una traduzione esemplare di Camillo Sbarbaro, intitolata Controcorrente, che rende bene le ricercatezze linguistiche e poetiche dell’originale. Questa versione risale al 1944, quando fu pubblicata da un piccolo editore presto fallito; fu poi ripresa da Scheiwiller nel 1968 e da Garzanti nel 1975. Qui ne pubblichiamo alcuni stralci, illustrandoli con i documenti ai quali si riferiscono.

Le donne sono belle, ma le locomotive di più.



«Esiste forse quaggiù un essere concepito nelle gioie della fornicazione ed uscito dalle doglie di una matrice, il cui modello sia più abbagliante, più perfetto delle due locomotive in servizio sulle ferrovie del Nord?



L’una, la Crampton, un’adorabile bionda dalla voce squillante, dalla taglia imponente e delicata imprigionata in uno scintillante busto di rame, dalle mosse elastiche e nervose di gatta; una bionda azzimata e dorata, d’una straordinaria grazia, d’una grazia che incute spavento allorché, irrigidendo i muscoli d’acciaio, grondando dai caldi fianchi sudore, mette in moto l’immenso rosone della snella ruota e, prepotente di vita, s’avventa in testa alle rapide e alle maree.»



«L’altra, la Engerth, una maestosa e fosca bruna, dal grido sordo e rauco, dalle reni possenti prese in una corazza di ghisa; mostruoso animale dalla criniera scarmigliata di negro fumo, che poggia su sei tozze coppie di ruote, quale tremenda forza sviluppa, allorché, facendo tremare la terra, rimorchia, greve e massiccia, il pesante codazzo delle sue mercanzie!


Indarno cerchereste tra le fragili beltà bionde e le maestose beltà brune, tipi di delicata sveltezza e di terrificante forza che reggano al confronto. Senza tema di smentita, lo si può proclamare: nel suo genere l’uomo non è riuscito men bene del Dio nel quale crede.»

La carne di Salomé.

«Fra tutti, un artista esisteva che lo gettava in lunghe estasi e del quale aveva acquistato ambedue i capolavori: Gustave Moreau.



Della sua tela che rappresentava Salomé, Des Esseintes indugiava in contemplazione intere notti.
»



Salomé è una figura ricorrente nell’opera di Gustave Moreau. Questa è Salomé che danza davanti a Erode: olio su tela del 1874, conservato al Musée Gustave Moreau di Parigi. 


«Simile all’altar maggiore d’una cattedrale, un trono s’ergeva sotto una fuga a perdita d’occhio di volte, in cui si placava l’impeto di colonne, tozze come pilastri romani; colonne smaltate di piastrelle policrome, incastonate di mosaici, incrostate di lapislazzuli e di sardoniche – dentro un palagio simile ad una basilica, d’una architettura musulmana e al tempo stesso bizantina.



Al centro del tabernacolo che sorgeva in cima all’altare e cui si saliva per gradini a semicerchio, sedeva il Tetrarca Erode, coperto d’una tiara, le gambe raccolte, le mani sui ginocchi.



La sua faccia era gialla, incartapecorita, gualcita di rughe concentriche, devastata dall’età; sulle stelle di gemme che gremivano la tunica ricamata d’oro, aderente al petto, la barba ondeggiava come candida nuvola.



Intorno a quella statua immota, congelata in una posa ieratica da nume indù, profumi bruciavano attorcendo spire di fumo che trapassavano, quasi fosforescenti occhi di belva, i fuochi delle pietre preziose che ingemmavano il trono; quindi il vapore saliva, si perdeva in volute sotto le arcate, mescendo il suo azzurro al pulviscolo d’oro che a fasci cadeva dalle cupole.



Tra quegli effluvi perversi, nell’aria surriscaldata di quella chiesa, Salomé, il braccio sinistro disteso in atto di comando, con la destra reggendo all’altezza del viso un grande loto, avanza adagio sulle punte, agli accordi d’una chitarra che pizzica una donna accoccolata.



L’espressione raccolta, solenne, augusta quasi, Salomé dà inizio alla lubrica danza che deve ridestare i sensi del vecchio Erode.
»




«I seni ondeggiano; stuzzicati dalle collane che vorticano, i capezzoli s’ergono; nel madore della pelle, i diamanti scintillano; sulla veste trionfale, rabescata d’argento, laminata d’oro, dalle costure di perle, il busto, preso in una maglia di gemme, entra in combustione, dardeggia serpentelli di fuoco, brulica sulle carni compatte, sul rosa tea della pelle, simile ad un visibilio d’insetti dalle elitre abbaglianti, marmorizzate di carminio, punteggiate di giallo aurora, screziate di blu acciaio, striate di verde pavone.


Assorta, gli occhi fissi, pari a una sonnambula, essa non vede né il fremente Tetrarca né la madre – la feroce Erodiade – che la sorveglia; né l’ermafrodito o l’eunuco che si tiene, con la sciabola in pugno, a pié del trono: terribile, velato; la mammella di castrato che, come una fiaschetta, penzola sotto la tunica variegata d’arancione.»


Gustave Moreau, L’apparition, acquerello, 1876. Parigi, Musée d’Orsay.


«Eppure l’acquarello intitolato “L’Apparizione” era forse anche più inquietante.»




«Qui il palazzo di Erode si lanciava, come una Alhambra, su lievi colonne iridate di quadrelle moresche, cementate si sarebbe detto fra loro da una malta d’argento, da un calcestruzzo d’oro. Arabeschi partivano da losanghe di lapislazzuli, correvano tutto lungo cupole, dove, su tarsie di madreperla, si propagavano bagliori di arcobaleno, fuochi di prisma.
»



«L’omicidio era consumato; ora il carnefice si teneva impassibile, le mani sul pomo della lunga spada, maculata di sangue.
»



«Dal piatto deposto sul pavimento, il mozzo capo del Santo s’era alzato: livido, la bocca schiusa, esangue, il collo paonazzo, grondando lacrime guardava. Un mosaico circondava il viso, dal quale s’irraggiava un’aureola che proiettava raggi sotto le arcate, circonfondeva di luce l’ascendere del capo, accendeva il vitreo globo delle pupille che fissavano, impugnavano sto per dire, la danzatrice.
»



«In un gesto di spavento, Salomé respinge la terrificante apparizione che la inchioda, senza fiato, sulle punte; ha gli occhi sbarrati; si stringe con la mano convulsa la gola.



È quasi ignuda; nella frenesia della danza, i veli si sono disfatti, i broccati son caduti. Non è più vestita che d’un luccichio minerale, d’un baglior d’ori; una gorgiera la serra, a mo’ di corsaletto, alla vita; e, a mo’ di superbo fermaglio, un meraviglioso gioiello sfreccia lampi nell’incavo dei seni. Più giù, una cintura le abbraccia le anche, cela l’alto delle cosce, battute da un gigantesco ciondolo rutilante di carbonchi e smeraldi; mentre sul corpo che resta scoperto, tra la gorgiera e la cintura, il ventre s’incurva e l’ombelico vi mette il suo sigillo d’onice, latteo, d’un rosa tenero d’unghia.
»



«Percossa dai fulgori che emana il capo del Precursore, tutta quella gioielleria s’incendia, arde in ogni faccetta come bragia; le gemme s’animano; a tratti incandescenti disegnano il corpo della donna; la pungono al collo alle gambe alle braccia di stilettate di fuoco, di marchi di fuoco: vermigli come tizzoni, violacei come fiamma di gaz, azzurri come alcole che brucia, bianche come raggi di stelle.
»


«La spaventosa testa fiammeggia; seguita a perder sangue; appende grumi di fosca porpora ai capelli, alla barba.
 Visibile solo per Salomé, essa non abbraccia nel suo sguardo né Erodiade che cova il suo odio alfine appagato, né il Tetrarca che, sporto un po’ in avanti, le mani sulle ginocchia, ansa ancora, ossessionato da quella nudità di donna, esalante un odor bestiale, conciata dai balsami in cui s’è rotolata, odorante d’incensi e di mirre.
»


«Non diversamente dal vecchio re, Des Esseintes stava senza fiato, annientato, in preda a vertigine, davanti a quella danzatrice; meno maestosa, meno altera, ma più inquietante della Salomé del quadro ad olio.
»


Virgilio con l’Eneidetra Clio e Melpomene, mosaico romano del III secolo d.C. Tunisi, Museo del Bardo.


Povero Virgilio.




«Fra tutti, l’ineffabile Virgilio, colui che i prefetti di camerata chiamano il cigno di Mantova – evidentemente perché non è nato in tale città – gli appariva non solo uno dei più esosi pedanti, ma anche uno dei più sinistri rompiscatole che l’antichità abbia mai prodotto. I suoi pastori, usciti pur mo’ dal bagno ed azzimati di tutto punto, che si scaricano a vicenda sul capo filastrocche di versi sentenziosi e gelati; il suo Orfeo ch’egli paragona a un usignolo in lagrime; il suo Aristeo che piagnucola per delle api; il suo Enea, questo personaggio indeciso e ondeggiante che si muove come un’ombra cinese, con mosse di marionetta, dietro il trasparente malfermo e male oliato del poema, lo mettevano fuori dei gangheri.


E ancora, egli sarebbe passato sopra alle noiose scemenze che quei burattini si scambiano a vuoto; avrebbe chiuso un occhio sugli impudenti plagi di cui fan le spese Omero, Teocrito, Ennio, Lucrezio; sul furto bell’e buono, di cui ci informa Macrobio, costituito dal secondo libro dell’Eneide, copiato si può dire parola per parola da un poema di Pisandro; su tutta insomma la indicibile vuotaggine di quel centone di canti; ma ciò cui non poteva passar sopra era la fattura di quegli esametri che rendon suono di latta, di fiasca di latta vuota; che alternano le lunghe e le brevi di parole pesate a chilo secondo l’immutabile schema d’una prosodia arida e pedante; l’ordito di quei versi rasposi e burbanzosi, nella loro tenuta ufficiale, nella loro bassa soggezione alla grammatica; di quei versi meccanicamente spezzati da un’impassibile cesura, turati in coda sempre allo stesso modo dall’inciampare d’un dattilo in uno spondeo.


Tolta in prestito alla perfezionata officina di Catullo, quella invariabile metrica, senza fantasia, senza discrezione, impinzata di parole inutili, di zeppe, di appigli sempre eguali e previsti; quella miseria dell’epiteto omerico che torna ogni momento e non dice nulla, non evoca nulla; tutto quell’indigente vocabolario sordo e piatto, lo mettevano alla tortura.»


Giacomo Di Chirico, Quinto Orazio Flacco, 1871. Rubato anni fa dalla Pinacoteca comunale di Venosa.


Orazio elefante.

«Ma se la sua ammirazione per Virgilio era delle meno calorose e dei più modesti e sordi il fascino che esercitavano su lui le evidenti cacate di Ovidio, una sconfinata avversione provava per le grazie elefantesche di Orazio, per il balbettìo di questo insopportabile centochili che fa lo smorfioso con lazzi di vecchio saltimbanco infarinato.» 


Ritratto di Cicerone, scultura in marmo del I secolo a.C. Roma, Musei Capitolini.


La pomposità di Cicerone.


«Nella prosa la verbosità, le ridondanti metafore, le gratuite disgressioni del Cece, non lo allettavano di più. La jattanza delle sue apostrofi, l’alluvione di luoghi comuni patriottici, l’enfasi delle sue concioni, la greve compattezza del suo stile carnoso, ben nutrito ma degenerato in grasso, privo d’osso e di midolla; le intollerabili scorie degli avverbi sesquipedali coi quali apre le frasi, l’inalterabile schema su cui son calcati i suoi adiposi periodi, mal cuciti insieme dal filo delle congiunzioni; infine il tedioso vezzo della tautologia, lo seducevano mediocremente. Né molto di più di Cicerone lo entusiasmava Cesare, famoso pel suo laconismo; perché l’eccesso contrario diventava in questo aridità da caporalmaggiore, secchezza da appunto, stitichezza incredibile e sconveniente.


Tirate le somme, non trovava di che pascersi né in questi né in quegli altri scrittori che pure fan la delizia dei falsi letterati: Sallustio, ancorché meno sbiadito degli altri; Tito Livio, patetico e pomposo; Seneca, turgido e scialbo; Svetonio, linfatico ed embrionale; Tacito, il più nerboruto tuttavia nella sua voluta concisione, il più aspro, il più muscoloso di tutti costoro.»
Amorphophallus titanus nel giardino zoologico e botanico Wilhelma, a Stoccarda. Foto di Lothar Grünz.

Botanica ideologica.

«Ormai da gran tempo egli disprezzava le piante banali che, al riparo d’un copertone o d’un ombrellone rosso stinto, s’offrono sui mercati parigini, in vasi inaffiati, al passante.
Via via che i suoi gusti letterari, le sue esigenze estetiche s’erano raffinate, facendogli accettare più soltanto opere quintessenziate, distillate da cervelli tormentati e sottili; via via che s’era precisata in lui l’avversione per le idee di tutti; anche l’amore per i fiori s’era liberato d’ogni impurità, d’ogni scoria, s’era - come si direbbe per l’alcole – “rettificato”.


Des Esseintes paragonava volentieri il vivaio d’un floricultore ad un mondo in miniatura, dove si trovavano rappresentati tutti i ceti sociali: i fiori poveri e canaglieschi dalle radici pigiate in una latta od in una terrina fuori uso, i fiori da bugigattolo, come ad esempio il garofano, che non stonano solo sull’orlo d’un abbaino; i fiori pretenziosi, convenzionali, stupidi, che sono al posto loro soltanto in portavasi di porcellana dipinti da signorinette: la rosa, poniamo; infine i fiori d’alto lignaggio, quale l’orchidea, delicata e piena di grazia, sensitiva e freddolosa; i fiori esotici, in esilio a Parigi, tenuti al caldo in palazzi di cristallo: i principi del regno vegetale, che se ne vivono in disparte e che più nulla hanno in comune con le piante della strada né con la flora piccolo-borghese.


Insomma, se una punta di interesse, di pietà Des Esseintes non poteva a meno di sentire ancora pel fiore plebeo che nei quartieri poveri campa a stento, avvelenato com’è dalle esalazioni delle chiaviche e delle condutture di piombo, detestava in compenso i fiori da mazzo che s’accordano così bene coi salottini crema ed oro delle case nuove; e gioia intera davan solo ai suoi occhi le piante rare, aristocratiche, venute di lontano, che da noi si mantengono in vita solo grazie a sottili accorgimenti, in fittizi climi torridi prodotti dalle ben regolate calorie delle stufe.»












Post interattivo

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Questo è un post sperimentale, da redigere a più voci. Ha forma d’intervista, per facilitare l’intervento di chiunque voglia collaborare. Dixit Café pone le domande, voi rispondete in assoluta libertà. Basta non esagerare in lunghezza: cercate di non superare le 500 battute per risposta, spazi inclusi.

Il gioco funziona così: in origine trovate una domanda, una risposta e un’altra domanda. A quest’ultima fornite la vostra risposta. Dixit Café esamina le risposte, ne sceglie una, la pubblica e propone una nuova domanda conseguente all’argomento che si è andato delineando. Lo schema si ripete ad libitum, fino alla costruzione di un’intervista surreale ma a suo modo plausibile.

Si può entrare e uscire dal gioco in qualsiasi momento. Non si vince niente, non si perde niente. È solo un esercizio mentale collettivo. Il risultato finale può essere divertente o abominevole: impossibile fare previsioni.

Le risposte potete inserirle nel riquadro dei commenti, a pie’ di pagina. So che alcuni non riescono a pubblicare commenti, per ragioni che hanno a che fare con la policy di Google+ e che a me risultano totalmente misteriose. In tal caso potete raggiungermi con un messaggio su questa pagina di Facebook.

Ogni risposta sarà firmata dal suo autore o dalla sua autrice. Nome vero o pseudonimo non importa. Anche se l’intervista è fatta a più persone, dovrà risultare leggibile come se si trattasse di un colloquio a due voci.

Proviamo.


L’intervista in corso.


Dixit Café:

Che stai facendo?



Alter ego:

La vittima.



Dixit Café:

In che senso?



Romolo Chiancone:

In senso vietato.



Dixit Café:

Spiegati meglio.



Anonymous:

Siedo su uno sgabello di ghiaccio, in una camera frigorifera, e fisso un punto dello scaffale metallico che ho davanti. Aspetto. È da molto che sono qui. Ma non so quanto. Il tempo sembra essersi ghiacciato.



Dixit Café:

Che hai fatto per ridurti così? Di che cosa ti accusano?


...



Al cinema con Wise/1

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Premessa sulla critica e la critica alla critica.


Mi capita, a volte, di leggere giudizi sprezzanti su film che hanno conquistato il mio favore o addirittura suscitato il mio entusiasmo. Non parlo di quei colpi di machete che sibilano in gagliarda e sanguinaria allegria nei social network; ma di elucubrazioni dotte, firmate da sovrani della critica ufficiale, come ad esempio il Vincent Canby che per decenni pontificò sul New York Times. Mi è bastato imbattermi in una sua sentenza alla paprica su Alamo Bay, film americano di Louis Malle (1985) da me sommamente apprezzato, per farmi arrivare a questa conclusione sentimentale: preferisco Malle a Canby e, in generale, gli autori ai critici. Anche gli autori meno titolati di Malle, i tanti artigiani dell’intrattenimento senza soverchie ambizioni artistiche ma devoti alla cura del mestiere, alla “chiave a stella” onorata dal libro di Primo Levi; anche chi allestisce manufatti di chiara impronta commerciale, o persino apertamente propagandistici, è degno della mia attenzione, purché non giochi troppo sporco o non spacci fetente spazzatura con la scusa che le folle non desiderano o non meritano niente di meglio.

Non mi piace la spocchia di chi liquida a priori i film “di genere” trattandoli come merce avariata; meno ancora condivido il puntiglio togato, il rigore permaloso, l’impulso al dileggio e alla stroncatura applicato a opere d’ingegno, create da progettisti la cui serietà sia fuori discussione persino in caso di imperfezione presunta o tangibile. In certi processi alle intenzioni, i killer in agguato rivelano un’artificiosa quanto sgradevole attitudine alla competizione; più autorevole è la vittima di turno, più cresce l’orgoglio dell’affossatore. E pazienza; anche a me è capitato di sparare su qualche cineasta che venero; ma l’ho fatto solo sull’onda di una delusione totale e senza provarne alcun piacere. La verità incontrovertibile, che qualsiasi recensore dovrebbe tener presente, è che fare un film è più difficile e creativo che ammazzarlo.

Robert Wise, 1960 circa.

La critica è dunque inutile, sterile, assurda? Me lo chiedo spesso, specialmente da quando le recensioni d’una volta, articolatissime, sono scomparse dai nostri giornali, sostituite da fulminei resumé corredati da pareri o allusioni meno consistenti d’un sospiro. No, non credo che la critica sia superflua o, peggio, bugiarda e dannosa. La rispetto, e moltissimo, quando è anche informazione incline ai rimandi e raccordi storici, quando esprime teorie e metodologie controverse ma anche illuminanti, quando ravvisa e rivela correlazioni tra il materiale esaminato e il multiforme groviglio di radici da cui deriva – etiche, estetiche, produttive, artigianali, sociali, etc.

Una critica cinematografica che consideri dignitosa solo l’estrema opera d’arte, o ciò che ritiene tale, è accettabile solo se espressa da militanti: ovvero da soggetti in grado di influenzare, in prima persona o mediante una rete di connessioni attive, la ricerca e lo sviluppo di linguaggi e tendenze. Si può fare avanguardia, insomma, solo realizzando esperimenti, creando opere; il lavoro di un Godard puoi condividerlo o respingerlo, con tutte le sfumature di mezzo, ma il rispetto è doveroso anche se gli preferisci Walt Disney.

Il cinema confina con l’arte, ma assai di rado. Arte “impura”, a detta di molti, perché di rado il risultato può dirsi opera d’un unico e solo demiurgo; e anche perché nella realizzazione convergono troppe forme d’espressione, dalla scrittura alla fotografia, dalla musica al teatro, senza che nessuna di esse possa giustificarsi autonomamente, al di fuori dellinsieme in cui è inserita. Il cinema è essenzialmente prodotto di consumo, affine per ingegneria produttiva e analogia di funzioni ad altri mezzi – la televisione, il libro, il circo, lo stadio o l’arena in cui si svolga uno spettacolo.

L’industria sforna prodotti che non ha senso biasimare in quanto tali. Non ha senso deprezzare la Nutella in quanto “prodotto”: può essere amata o rifiutata in base ad altri parametri, che hanno a che fare col gusto e la percezione individuali, con l’idea che ci siamo fatti della ricetta, degli ingredienti, della ditta produttrice, persino della confezione. Nessuno pretende che la Nutella sia un’opera d’arte, nessun creatore di oggetti – alimentari o culturali che siano – ha il dovere di porsi un obiettivo così altisonante. Perché dovrebbe farlo uno Spielberg o uno Scorsese?

Logo della RKO Radio Pictures, una delle cinque major del cinema hollywoodiano (produzione e circuiti di distribuzione) tra gli anni trenta e cinquanta del Novecento. RKO era l’acronimo di Radio-Keith Orpheum.

È certamente meraviglioso che in tanti, da Luis Buñuel a Orson Welles, da Akira Kurosawa a Stanley Kubrick, siano riusciti a nobilitare l’artigianato del cinema sopraelevandolo di molte spanne rispetto alla produzione corrente. Ma il cinema è anche altro: promette soddisfazione e sorpresa in molti modi, e non solo al pubblico di bocca buona. La storia del cinema è popolata di figure di talento che, pur sforzandosi di adeguarsi al volere – spesso idiota e arrogante – dei mandatari, sono riuscite non solo a mantenere nel tempo un profilo dignitoso, ma anche a piazzare, qua e là, il colpo di genio, lidea di pregio, il racconto indimenticabile.

Da tempo coltivo l’idea di studiare uno qualsiasi di questi autori poco aureolati ma efficaci: uno di quegli artigiani onesti e prolifici che, una tantum, spiazzano tutti con un Casablanca (è il caso di Michael Curtiz, ungherese, che tra Budapest e Hollywood diresse non meno di 172 lungometraggi). Mi sono lasciato ispirare dal caso e ho puntato su Robert Wise (Winchester, Indiana, 10 settembre 1914 – Los Angeles, 14 settembre 2015). Cercherò di seguirlo dagli esordi alla fine, per capire come nasce e come cresce un vincitore di Oscar perfettamente inserito nel mainstream, illustre per alcuni dei risultati raggiunti ma immune (credo) da quelle ferratissime concezioni intellettuali che rendono singolare l’artista e univoca la sua opera. Wise è stato, come altri, un bravo capomastro da cantiere, artefice di architetture e successi su ordinazione; ha attraversato onorevolmente tutti i generi, dall’horror al noir, dal western al musical, dalla commedia al dramma, trasvolando con disinvoltura dal low budget al sontuoso, dal capolavoro al kitsch e viceversa, senza presumere mai di imprimere un proprio marchio di fabbrica ai suoi film, il segno da cui si potesse ricavare un “questo l’ho fatto io”. I Wise sono la quintessenza di Hollywood e dell’industria cinematografica in generale; sono coloro senza i quali il cinema non potrebbe sopravvivere; sono i brillanti compagni di viaggio che ci aiutano a persistere nel ruolo di spettatori, durante la lunga attesa che separa un capolavoro dall’altro.

Non ho visto tutti i film di Wise e non me ne preoccupo granché. Non m’interessa valutare ogni pelo del suo operato (anche se, a volte, esulterò o mi lagnerò da “spettatore emotivamente coinvolto”); sono invece incuriosito dalla macchina di cui ha fatto parte, dal contesto dei suoi film, dall’ondeggiare dei favori del pubblico e della critica, dal suo rapporto con i generi narrativi affrontati e – se disponibili – dagli aneddoti relativi alle sue produzioni.

Maureen O’Hara è Esmeralda in Notre Dame di William Dieterle, 1939.

Dal reparto spedizioni alla moviola. 


Prima di diventare il regista di Stasera ho vinto anch’io, Ultimatum alla terra, Lassù qualcuno mi ama, Non voglio morire, West Side Story e Tutti insieme appassionatamente, Robert Wise sudò come tuttofare nella fabbrica concreta del cinema. Aveva diciannove anni quando, a causa della Grande Depressione, dovette abbandonare gli studi (aspirava al giornalismo) dopo un solo anno di università e cercarsi un impiego. Il fratello maggiore, che lavorava alla RKO Radio Pictures, gli procurò un colloquio e riuscì a farlo assumere al gradino più basso della scala dei sogni: il reparto spedizioni. La RKO era una delle big five di Hollywood: una delle case più potenti, proprietarie non solo di studios ma anche di un proprio circuito di sale di proiezione. Le altre quattro erano, all’epoca, la Metro-Goldwyn-Mayer, la Paramount, la Warner Bros. e la 20th Century Pictures (poi 20th Century Fox). A un livello di business inferiore, perché prive di circuiti diretti di distribuzione, seguivano la Columbia, la Universal e la United Artists.

Il giovane Robert svolse i lavori più umili finché non fu notato da qualcuno del dipartimento edizioni. Fu preso come assistente da T.K. Wood, capo dei tecnici del suono, e nel 1935 vide per la prima volta il suo nome nei credits d’un lavoro: un documentario di dieci minuti costruito a tavolino, assemblato con i rimasugli d’una produzione abortita e intitolato A Trip to Fijiland.

Dal suono volle passare alledizione delle immagini, e fu accontentato. Tra il 1936 e il 1939 fece da assistente a William Hamilton per il montaggio di Sotto i ponti di New York, Palcoscenico, Girandola, Vacanze d’amore, La ragazza della Quinta Strada, Notre Dame, La vita di Vernon e Irene Castle. Insieme a Henry Berman montò Situazione imbarazzante, prima di essere abilitato a gestirsi la moviola in proprio. Diversi dei lavori cui aveva messo mano in questa fase di apprendistato erano commedie musicali, con Fred Astaire o Ginger Rogers o tutti e due; esperienza che dev’essergli tornata utile in seguito, nella costruzione di musical ambiziosi come West Side Story e Tutti insieme appassionatamente.

Cary Grant in Le mie due mogli di Garson Kanin, 1940.

I primi montaggi da “solista” riguardarono due altre commedie, Le mie due mogli di Garson Kanin e Dance, Girl, Dance di Dorothy Arzner, ex stenografa della Paramount, poi pioniera del filmmaking femminile.

Nel 1941 arriva uno dei momenti storici di una biografia come la sua: gli affidano il montaggio di Quarto potere, presto salutato come il film più notevole della storia del cinema. (Pauline Kael, imperatrice della critica statunitense, fece incazzare Orson Welles per aver sostenuto, con un’analisi più lunga e insistita di una risoluzione delle Brigate rosse, che almeno metà del merito del film era di Herman J. Mankiewicz, co-sceneggiatore del maestro. Per poco non fu trascinata in tribunale per questa tesi, smentita da numerose testimonianze ed evidenze).


P.B.

(Wise 1 – Continua)

 

Film citati in questo post.

1936, Winterset (Sotto i ponti di New York). Regia: Alfred Santell. Sceneggiatura: Anthony Veiller, da un dramma teatrale diMaxwell Anderson. Direzione della fotografia: J. Peverell Marley. Musica: Nathaniel Shilkret. Cast: Burgess Meredith, Margo, Eduardo Ciannelli, John Carradine. Produzione: RKO.


1937, Stage Door (Palcoscenico). Regia: Gregory La Cava. Sceneggiatura: Anthony Veiller e Morrie Ryskind, da una commedia diEdna Ferber e George S. Kaufman. Direzione della fotografia: Robert De Grasse. Musica: Roy Webb. Cast: Katharine Hepburn, Ginger Rogers, Adolphe Menjou, Lucille Ball. Produzione: RKO.


1938, Carefree (Girandola). Regia: Mark Sandrich. Sceneggiatura: Allan Scott, Ernest Pagano, Dudley Nichols, Hagar Wilde. Direzione della fotografia: Robert De Grasse. Musica: Robert Russell Bennett. Cast: Fred Astaire, Ginger Rogers, Ralph Bellamy, Jack Carson. Produzione: RKO.


1938, Having Wonderful Time (Vacanze d’amore). Regia: Alfred Santell. Sceneggiatura: Arthur Kober. Direzione della fotografia: Robert De Grasse. Musica: Roy Webb. Cast: Ginger Rogers, Douglas Fairbanks Jr., Lucille Ball. Produzione: RKO.


Lucille Ball in Dance, Girl, Dance di Dorothy Arzner, 1940.

1939, Bachelor Mother (Situazione imbarazzante). Regia: Garson Kanin. Sceneggiatura: Norman Krasna, da un soggetto di Felix Jackson. Direzione della fotografia: Robert De Grasse. Musica: Roy Webb. Cast: Ginger Rogers, David Niven, Charles Coburn. Produzione: RKO.


1939, 5th Ave Girl (La ragazza della Quinta Strada). Regia: Gregory La Cava. Sceneggiatura: Allan Scott. Direzione della fotografia: Robert De Grasse. Musica: Robert Russell Bennett. Cast: Ginger Rogers, Walter Connolly, Tim Holt. Produzione: RKO.


1939, The Story of Vernon and Irene Castle (La vita di Vernon e Irene Castle). Regia: H.C. Potter. Sceneggiatura: Richard Sherman, Oscar Hammerstein II, Dorothy Yost. Direzione della fotografia: Robert De Grasse. Musica: Robert Russell Bennett.Produzione: RKO.


1939, The Hunchback of Notre Dame (Notre Dame). Regia: William Dieterle. Sceneggiatura: Sonya Levien e Bruno Frank, dal romanzo di Victor Hugo. Direzione della fotografia: Joseph H. August. Musica: Alfred Newman. Cast: Charles Laughton, Maureen O’Hara, Cedric Hardwicke, Thomas Mitchell, Edmond O’Brien. Produzione: RKO.


1940, My Favorite Wife (Le mie due mogli). Regia: Garson Kanin. Sceneggiatura: Bella Spewack, Sam Spewack, Leo McCarey, liberamente ispirata al poema Enoch Ardendi Alfred Tennyson. Direzione della fotografia: Rudolph Maté. Musica: Roy Webb. Cast: Irene Dunne, Cary Grant, Randolph Scott. Produzione: RKO.


1940, Dance, Girl, Dance (inedito in Italia). Regia: Dorothy Arzner. Sceneggiatura: Frank Davis, Tess Slesinger, da un racconto di Vicki Baum. Fotografia: Russell Metty e Joseph H. August. Cast: Maureen O’Hara, Louis Hayward, Lucille Ball. Produzione: RKO.


Orson Welles in Quarto potere, 1941.

1941, Citizen Kane (Quarto potere). Regia: Orson Welles. Sceneggiatura: Orson Welles, Herman J. Mankiewicz. Direzione della fotografia: Gregg Toland. Musica: Bernard Herrmann. Produzione: RKO.


1985, Alamo Bay. Regia: Louis Malle. Sceneggiatura: Alice Arlen. Direzione della fotografia: Curtis Clark. Musica: Ry Cooder. Cast: Amy Madigan, Ed Harris, Ho Nguyen, Donald Moffat.



Sidney Lumet

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Sidney Lumet nel 2006, sul set di Prova a incastrarmi.



Le illuminazioni di Lumet


di Till Neuburg


Amo i registi che nei cineforum militanti sono considerati director di seconda fila, routinier, mestieranti: Benton, Siegel, Raimi, Pollack, Hill, Rafelson… gente così.


Come Peckinpah, Altman e Spielberg, anche Sidney Lumet era nato dentro e con la tv. La velocità nello shooting, la concretezza produttiva, il montaggio asciutto, allora s’imparavano soprattutto lì. A parte i suoi titoli più popolari (L’uomo del banco dei pegni, Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani,Quinto potere, Il verdetto), voglio ricordare alcuni suoi film – decisamente i miei preferiti – dove la sua incredibile capacità di tirare fuori il meglio da attori di cosiddetto secondo livello era particolarmente evidente.


Dopo i molti anni sui set televisivi, finalmente nel 1957 Lumet esordì con un theatrical feature. La parola ai giurati era una pièce appunto teatrale, che si svolgeva in un unico, piccolo interno. A parte la straordinaria conferma del protagonista Henry Fonda, con quel film Lumet ci faceva scoprire alcuni character di bravura strepitosa: Lee J. Cobb, Martin Balsam, E.G. Marshall, Jack Klugman, Jack Warden, Ed Begley, oltre al futuro hardboiled mascelluto Robert Webber. Per l’epoca, un film formidabile.


Nel 1965 diresse un film antimilitarista, La collina del disonore, con un cast interamente inglese/scozzese: Sean Connery, Harry Andrews, Ian Bannen, Michael Redgrave, Roy Kinnear. Il film svelava, in modo cronachistico e quasi distaccato, l’assurdità degli ideali e dei principii soldateschi: la gerarchia, l’ordine, la disciplina, l’obbedienza e l’onore ­– paroloni che in quegli anni (c’era la guerra in Vietnam) colpivano sotto la cintura soprattutto i giovani, sempre più traditi e più disillusi.



Treat Williams in Prince of the City di Sidney Lumet, 1981.


Nel 1981 Lumet ci regalò un cop movie basato su un racconto (vero) di Robert Daley: Il principe della città, con un Treat Williams che per quella parte avrebbe meritato l’Oscar. È un film con uno script, una regia e dei dialoghi semplicemente sensazionali. Inutile cercare la versione italiana su DVD. Non esiste. Era un racconto secco e duro sulla corruzione tra gli sbirri americani, ma provvisto di un plot ancora più potente che nei vari Serpico, Copland, L.A. Confidential, Training day, American gangster– tutti poliziotteschi mitici e osannati. Per me, quel film era, ed è, un capolavoro non capito, poi snobbato, oggi praticamente dimenticato. (Vedi trailer).



Treat Williams e Jerry Orbach in Prince of the City di Sidney Lumet, 1981.


Per l’Academy Award nemmeno una nomination; ma nel concorso americano più severo e professionale, il New York Film Critics Circle Award, Prince of the City ottenne il primo premio per la regia.

Con una sceneggiatura ispirata da un altro libro di Robert Daley, nel 1996 Lumet diresse Prove apparenti. I due protagonisti, Andy Garcia e Lena Olin, erano nettamente surclassati dagli attori secondari Ian Holm (il padre poliziotto), James Gandolfini (il corrotto collega-amico del padre), ma soprattutto dal capo degli sbirri Ron Leibman – una prestazione memorabile per la quale, francamente, è difficile decidere chi, tra il regista e l’attore, sia stato più bravo.


Nel 2006, Lumet riassumeva i suoi temi e ambienti preferiti (la corruzione nella polizia e nella magistratura), con un Vin Diesel mai visto tanto bravo e convincente. Prova a incastrarmi aveva un cast quasi interamente italoamericano: Annabella Sciorra, Alex Rocco, Frank Pietrangolare, Richard DeDomenico, Tony Ray Rossi, Vinny Vella, Paul Borghese, Nicholas Puccio, Frankie Perrone, Salvatore Piro, James Biberi, Steven Randazzo, Gerry Vichi, Aleksa Palladino, Gene Ruffini, Domenick Lombardozzi... più altri venticinque caratteristi, tutti di origine italiana. L’unico attore che non avesse un cognome da compaisà era il noto cattivone Ron Silver.


Ethan Hawke, Philip Seymour Hoffman e Sidney Lumet sul set di Onora il padre e la madre, 2007.


La sua ultima regia è di soli otto anni fa, quando Lumet aveva ormai 83 anni. Onora il padre e la madre, scritto come opera d’esordio dall’ex teologo Kelly Masterson, racconta il piano di due fratelli squattrinati che fanno rapinare la gioielleria dei loro genitori, assumendo un delinquente che fallisce il colpo. È scritto, diretto, recitato e montato come se fosse il meglio di Mamet, Scorsese e dei Coen messi insieme. Su come abbia fatto un ultraottantenne a dirigere un film talmente moderno, dinamico e potente, non c’è spiegazione. Mai visto un Albert Finney e un Philip Seymour Hoffman in uno stato di grazia così!


Quando nel 1997 in un’intervista chiesero a Lumet cosa pensasse della morte, rispose: «Non ci penso. Sono ateo. Crematemi e disperdete le mie ceneri nel negozio Katz’s Delikatessen.»


T.N.


Filmografia (non TV) di Sidney Lumet


1957, Twelve Angry Men (La parola ai giurati). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Reginald Rose (dalla sua commedia). Fotografia: Boris Kaufman. Musica: Kenyon Hopkins. Cast: Henry Fonda, Lee J. Cobb, Ed Begley, Martin Balsam, Jack Warden, E.G. Marshall, Robert Webber, John Fiedler, Jack Klugman, George Voskovec, Edward Binns, Joseph Sweeney. USA, United Artists.


1958, Stage Struck (Fascino del palcoscenico). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Ruth e Augustus Goetz. Fotografia: Maurice Hartzband, Franz Planer. Musica: Alex North. Cast: Henry Fonda, Susan Strasberg, Joan Greenwood, Herbert Marshall, Christopher Plummer. USA, RKO Radio Pictures.


1959, That kind of woman (Quel tipo di donna). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Walter Bernstein, da un soggetto di Robert Lowry. Fotografia: Boris Kaufman. Musica: Daniele Amfitheatrof. Cast: Sophia Loren, Tab Hunter, Jack Warden, Barbara Nichols, Keenan Wynn, George Sanders. USA, Paramount.


1960, The Fugitive Kind(Pelle di serpente). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Tennessee Williams, Meade Roberts. Fotografia: Boris Kaufman. Musica: Kenyon Hopkins. Cast: Marlon Brando, Anna Magnani, Joanne Woodward, Maureen Stapleton, Victor Jory. USA, United Artists.


1962, Long Day’s Journey Into Night (Il lungo viaggio attraverso la notte). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Eugene O’Neill. Fotografia: Boris Kaufman. Musica: André Previn. Cast: Katharine Hepburn, Ralph Richardson, Jason Robards, Dean Stockwell, Jeanne Barr. USA.


1962, Vu du pont (Uno sguardo dal ponte). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Norman Rosten, dal dramma di Arthur Miller. Fotografia: Michel Kelber. Musica: Maurice Leroux. Cast: Raf Vallone, Jean Sorel, Maureen Stapleton, Carol Lawrence, Raymond Pellegrin, Vincent Gardenia. Francia-Italia, Cocinor.


1964, Fail-safe (A prova di errore). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Walter Bernstein, dal romanzo di Eugene Burdick e Harvey Wheeler. Fotografia: Gerard Hirschfeld. Cast: Dan O’Herlihy, Walter Matthau, Frank Overton, Edward Binns, Fritz Weaver, Henry Fonda, Larry Hagman. USA, Columbia.


1964, The Pawnbroker (L’uomo del banco dei pegni). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: David Friedkin, Morton S. Fine, da un romanzo di Edward Lewis Wallant. Fotografia: Boris Kaufman. Musica: Quincy Jones. Cast: Rod Steiger, Geraldine Fitzgerald, Brock Peters, Jaime Sánchez. USA, Allied Artists.

1965, The Hill (La collina del disonore). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Ray Rigby. Fotografia: Oswald Morris. Cast: Sean Connery, Harry Andrews, Ian Bannen, Alfred Lynch, Ossie Davis, Michael Redgrave. Regno Unito, Metro-Goldwyn-Mayer.

1966, The Group(Il gruppo e le sue passioni). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Sidney Buchman, dal romanzo di Mary McCarthy. Fotografia: Boris Kaufman. Musica: Charles Gross. Cast: Candice Bergen, Joan Hackett, Elizabeth Hartman, Shirley Knight, Joanna Pettet. USA, United Artists.

1966, The Deadly Affair (Chiamata per il morto). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Paul Dehn, da un romanzo di John Le Carré. Fotografia: Freddie Young. Musica: Quincy Jones. Cast: James Mason, Simone Signoret, Maximilian Schell, Harriet Andersson, Harry Andrews. Regno Unito, Columbia.

1968, The Sea Gull. Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Moura Budberg, da Il gabbianodi Anton Cechov. Fotografia: Gerry Fisher. Cast: James Mason, Vanessa Redgrave, Simone Signoret, David Warner, Harry Andrews, Denholm Elliott. Regno Unito-USA, Warner Bros.

1968, Bye Bye Braverman (Addio Braverman). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Herbert Sargent, da un romanzo di Wallace Markfield. Fotografia: Boris Kaufman. Musica: Peter Matz. Cast: George Segal, Jack Warden, Jessica Walter, Godfrey Cambridge. USA, Warner Bros.

1969, The Appointment (La virtù sdraiata). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: James Salter, Antonio Leonviola. Fotografia: Carlo Di Palma. Musica: John Barry. Cast: Omar Sharif, Anouk Aimée, Didi Perego, Fausto Tozzi, Gigi Proietti, Paola Barbara. USA, Metro-Goldwyn-Mayer.

1970, King: A Filmed Record... Montgomery to Memphis (King: una testimonianza filmata... da Montgomery a Memphis). Regia: Sidney Lumet e Joseph L. Mankiewicz. Documentario su Martin Luther King. USA, Maron Films.


1970, Last of the Mobile Hot Shots (La poiana vola sul tetto). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Gore Vidal, da un dramma di Tennessee Williams. Fotografia: James Wong Howe. Musica. Quincy Jones. Cast: James Coburn, Lynn Redgrave, Robert Hooks. USA, Warner Bros.

1971, The Anderson Tapes (Rapina record a New York). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Frank Pierson, da un romanzo di Lawrence Sanders. Fotografia: Arthur J. Ornitz. Musica: Quincy Jones. Cast: Sean Connery, Dyan Cannon, Martin Balsam, Ralph Meeker, Alan King, Christopher Walken, Val Avery. USA, Columbia.

1972, Child’s Play (Spirale d’odio). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Leon Prochnik, da un dramma di Robert Marasco. Fotografia: Gerald Hirschfeld. Musica: Michael Small. Cast: James Mason, Robert Preston, Beau Bridges, Ron Weyand, Charles White. USA, Paramount.

1972, The Offence (Riflessi in uno specchio scuro). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: John Hopkins. Fotografia: Gerry Fisher. Musica: Harrison Birtwistle. Cast: Sean Connery, Trevor Howard, Vivien Merchant, Ian Bannen, Peter Bowles. Regno Unito-USA, United Artists.

1973, Serpico. Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Waldo Salt, Norman Wexler, da un libro di Peter Maas. Fotografia: Arthur J. Ornitz. Musica: Mikis Theodorakis. Cast: Al Pacino, John Randolph, Jack Kehoe, Biff McGuire. USA-Italia, Columbia.


1974, Murder on the Orient Express (Assassinio sull’Orient Express). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Paul Dehn, da un romanzo di Agatha Christie. Fotografia: Geoffrey Unsworth. Musica: Richard Rodney Bennett. Cast: Albert Finney, Lauren Bacall, Martin Balsam, Ingrid Bergman, Jacqueline Bisset, Jean-Pierre Cassel, Sean Connery, John Gielgud, Wendy Hiller, Anthony Perkins, Vanessa Redgrave, Rachel Roberts, Richard Widmark, Michael York, Colin Blakely. Regno Unito, Paramount.

1974, Lovin’ Molly. Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Stephen J. Friedman, da un romanzo di Larry McMurtry. Fotografia: Edward R. Brown. Musica: Fred Hellerman. Cast: Anthony Perkins, Beau Bridges, Susan Sarandon. USA, Columbia.


1975, Dog Day Afternoon (Quel pomeriggio di un giorno da cani). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Frank Pierson, da un articolo di P.F. Kluge e Thomas Moore e un libro di Leslie Waller. Fotografia: Victor J. Kemper. Cast: Al Pacino, John Cazale, Charles Durning, Judith Malina. USA, Warner Bros.


1976, Network (Quinto potere). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Paddy Chayefsky. Fotografia: Owen Roizman. Musica: Elliott Lawrence. Cast: Faye Dunaway, William Holden, Peter Finch, Robert Duvall, Ned Beatty. USA, United Artists.


1977, Equus. Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Peter Shaffer. Fotografia: Oswald Morris. Musica: Richard Rodney Bennett. Cast: Richard Burton, Peter Firth, Colin Blakely, Joan Plowright, Harry Andrews. USA-Regno Unito, United Artists.


1978, The Wiz (I’m magic). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Joel Schumacher, da un musical di William F. Brown e un libro di L. Frank Baum. Fotografia: Oswald Morris. Musica: Charlie Smalls. Cast: Diana Ross, Michael Jackson. USA, Universal.


1980, Just Tell Me What You Want (Dimmi quello che vuoi). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Jay Presson Allen. Fotografia: Oswald Morris. Musica: Charles Strouse. Cast: Ali MacGraw, Alan King, Myrna Loy, Keenan Wynn, Tony Roberts. USA, Warner Bros.


Treat Williams in Prince of the City di Sidney Lumet, 1981.


1981, Prince of the City (Il principe della città). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Sidney Lumet e Jay Presson Allen, da un libro di Robert Daley. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Paul Chihara. Cast: Treat Williams, Jerry Orbach. USA, Orion.


1982, Deathtrap (Trappola mortale). Regia. Sidney Lumet. Sceneggiatura: Jay Presson Allen, da un romanzo di Ira Levin. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Johnny Mandel. Cast: Michael Caine, Christopher Reeve, Dyan Cannon. USA, Warner Bros.


1982, The Verdict (Il verdetto). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: David Mamet, da un romanzo di Barry Reed. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Johnny Mandel. Cast: Paul Newman, Charlotte Rampling, Jack Warden, James Mason, Milo O’Shea. USA, 20th Century Fox.


1983, Daniel. Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: E.L. Doctorow. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Cast: Timothy Hutton, Mandy Patinkin, Lindsay Crouse, Ellen Barkin. Regno Unito-USA.


1984, Garbo Talks (La Garbo dice). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Larry Grusin. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Cy Coleman. Cast: Anne Bancroft, Ron Silver, Carrie Fisher. USA, United Artists.


1986, The Morning After (Il mattino dopo). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: James Cresson. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Paul Chihara. Cast: Jane Fonda, Jeff Bridges, Raul Julia. USA, Lorimar.


1986, Power (Power - Potere). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: David Himmelstein. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Cy Coleman. Cast: Richard Gere, Julie Christie, Gene Hackman, Kate Capshaw, Denzel Washington. USA, Lorimar.


1988, Running on Empty (Vivere in fuga). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Naomi Foner. Fotografia: Gerry Fisher. Musica: Tony Mottola. Cast: Christine Lahti, River Phoenix, Judd Hirsch. USA, Lorimar.


1989, Family Business (Sono affari di famiglia). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Vincent Patrick. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Cy Coleman. Cast: Sean Connery, Dustin Hoffman, Matthew Broderick. USA, TriStar.


1990, Q & A (Terzo grado). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Sidney Lumet, da un libro di Edwin Torres. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Rubén Blades. Cast: Nick Nolte, Timothy Hutton, Armand Assante. USA, Regency International Pictures.


1992, A Stranger Among Us (Un’estranea fra noi). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Robert J. Avrech. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica: Jerry Bock. Cast: Melanie Griffith, Eric Thal, John Pankow. USA, Hollywood Pictures.


1993, Guilty As Sin (Per legittima accusa). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Larry Cohen. Fotografia:  Andrzej Bartkowiak. Musica: Howard Shore. Cast: Rebecca De Mornay, Don Johnson, Stephen Lang, Jack Warden. USA, Hollywood Pictures.


1996, Night Falls on Manhattan (Prove apparenti). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Sidney Lumet, da un romanzo di Robert Daley. Fotografia: David Watkin. Musica: Mark Isham. Cast: Andy Garcia, Ian Holm, James Gandolfini, Lena Olin, Ron Leibman, Richard Dreyfuss. USA, Paramount.


1997, Critical Care (Se mi amate). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Steven Schwartz, da un romanzo di Richard Dooling. Fotografia: David Watkin. Cast: James Spader, Kyra Sedgwick, Helen Mirren, Anne Bancroft. Australia-USA, ASQA Film Partnership.


1999, Gloria. Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: John Cassavetes, Steve Antin (remake del film omonimo di John Cassavetes). Fotografia: David Watkin. Musica: Howard Shore. Cast: Sharon Stone, Jean-Luke Figueroa, George C. Scott. USA, Columbia.


2006, Find Me Guilty (Prova a incastrarmi). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Sidney Lumet, T.J. Mancini, Robert J. McCrea. Fotografia: Ron Fortunato. Musica: Jonathan Tunick. Cast: Vin Diesel, Alex Rocco, Frank Pietrangolare. USA-Germania, Yari Film Group.


2007, Before the Devil Knows You’re Dead (Onora il padre e la madre). Regia: Sidney Lumet. Sceneggiatura: Kelly Masterson. Fotografia: Ron Fortunato. Musica: Carter Burwell. Cast: Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Albert Finney, Marisa Tomei. USA, THINKFilm.




Al cinema con Wise/2

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Agnes Moorehead in Citizen Kane.

La strategia del softball

Aveva appena finito di montare Le mie due mogli, una commedia con Cary Grant e Irene Dunne, quando Robert Wise fu convocato dal suo capo, Jimmy Wilkinson.

«Hai sentito di quel tipo, Orson Welles, l’ultima scoperta degli studios?»

«Come no», rispose Wise. «È quello che a New York è diventato famoso per le cose fatte in teatro. Per non dire di quella trasmissione radiofonica che ha terrorizzato la nazione.»

«Ha giocato un bel tiro alla RKO.»

«Che tiro?»

«Si è fatto autorizzare a girare tre test per il film che ha in mente di realizzare, e invece ha girato tre scene vere e proprie. Le hanno viste e hanno approvato il progetto. È già in azione con il resto dello shooting e vuole scegliere fin d’ora il montatore.»[1]

Wilkinson aveva pensato a Wise per via dell’età: fra coetanei ci s’intende meglio. Così lo spedì a Culver City, allo studio RKO Pathé, dove Welles stava girando la sequenza della spiaggia. In una pausa i due si incontrarono e Welles lo intervistò per capire se Wise fosse il tipo adatto a quel lavoro. Il regista incuteva timore perché era truccato da vecchio e indossava il costume di scena. Il colloquio non durò più di dieci minuti. Il giovane montatore tornò in sede, a Hollywood, ed era lì da venti minuti quando squillò il telefono e gli dissero che il montaggio di Quarto potere era suo.


Orson Welles era un genio, e i geni non sono quasi mai dei tipi accomodanti. Aveva solo ventiquattro anni e non aveva ancora girato nessun film quando, grazie alla reputazione costruitasi con il teatro e la radio, strappò alla RKO Radio Pictures un contratto senza precedenti: direzione artistica assoluta sulla realizzazione di tre film; nessuno tra i piedi sul set senza la sua autorizzazione; attori e collaboratori di sua scelta. Praticamente carta bianca. Si racconta che la RKO provasse più volte a inviare emissari di soppiatto sui luoghi delle riprese in corso. Venivano puntualmente smascherati. Al minimo sospetto della presenza d’una spia, Welles e la troupe abbandonavano di colpo il lavoro per mettersi a giocare a softball.

Sebbene la carriera artistica di Welles sia stata costellata da scazzi con la produzione, polemiche, litigi e tradimenti, Quarto potere filò via abbastanza liscio e ne uscì il capolavoro che sappiamo, ricco di innovazioni narrative, tematiche, stilistiche. Hearst, il magnate dei media alla cui biografia liberamente si ispira la vicenda del potente cittadino Kane, cercò di boicottare in tutti i modi il film: riuscì probabilmente a influenzare la giuria degli Academy Award, tanto che delle nove candidature all’Oscar andò in porto solo quella della sceneggiatura.
Anne Baxter e Tim Holt in una scena de L’orgoglio degli Amberson, 1942, diretto da Orson Welles.

Fra i candidati dell’Academy c’era anche Robert Wise, il montatore. Non ancora regista, ma già avviato su un sentiero tutto in salita. L’editor svolge un mestiere eccitante e al tempo stesso irto di insidie, perché deve obbedire a tre padroni: alla produzione, al regista di turno e a sé stesso. Con quell’osso duro che era Orson Welles dovette andare d’amore e d’accordo, tanto che i due si ritrovarono insieme nella sala di montaggio per L’orgoglio degli Amberson. Per Quarto potere, Wise ebbe anche un’idea originale apprezzata da Welles: quella di “sporcare” le riprese del cinegiornale, all’inizio del film, per imprimervi una grana di autenticità. Un pezzo grosso della distribuzione, che controllava parecchie sale, protestò con la RKO per la qualità mediocre della stampa del cinegiornale; pretese a gran voce, e ottenne, nuove copie del film senza il trattamento sabbioso di Wise.

Piccoli episodi come questi testimoniano dell’infinita distanza fra i progressi del cinema d’autore e le aspettative del marketing. Quarto potere, nonostante i premi potenziali dell’Academy e quelli effettivi del National Board of Review e del New York Film Critics Circle, balzò nella sfera dei classici con dieci anni di ritardo. Nel frattempo, vivacchiò trattato alla stregua di un B-movie. Nel gennaio 1942, a sette mesi dall’inizio dell’avventura nelle sale, la RKO – delusa dai risultati dell’investimento – distribuì nuovamente la pellicola per farla proiettare in coppia con Piccole volpi: due film al prezzo di uno.
 
Joseph Cotten e Agnes Moorehead in L’orgoglio degli Amberson.

Paperino va alla guerra

Nel 1941 Robert Wise montò L’oro del demonio di William Dieterle, l’eccentrico regista tedesco che dirigeva i suoi film in guanti bianchi. Grazie a questo film Bernard Herrmann, che aveva composto anche le musiche di Quarto potere, portò a casa l’Oscar che l’anno prima gli era mancato per un pelo. Più tardi sarebbe diventato famoso in tutto il mondo con le colonne sonore di tanti film di Hitchcock.

La tragedia di Pearl Harbor era vicina. L’oro del demonio cominciò a circolare nelle sale statunitensi il 29 ottobre 1941, poco più d’un mese prima del fatale 7 dicembre. Noialtri italiani, che in guerra ci stavamo ammazzando già da un pezzo, avremmo potuto vedere questo e altri film dell’epoca, compreso Quarto potere, solo alle soglie degli anni cinquanta.

Ci si mise anche la guerra a rendere drammatica e rancorosa la post-produzione de L’orgoglio degli Amberson. All’indomani dell’attacco giapponese Nelson Rockefeller, che era tra i maggiori azionisti della RKO, chiese – per conto del governo – di mandare un cineasta di valore in Brasile, a occuparsi di un film che promuovesse le buone relazioni tra gli USA e l’America Latina nel timore che questa subisse pressioni dalla Germania nazista e uscisse dalla neutralità. Welles partì di buon grado, anche perché aveva per la testa un nuovo progetto al quale sarebbe servito un po’ di esotismo. Per tutto il periodo della guerra Hollywood fu mobilitata a scopo patriottico, e una parte dei tanti film di propaganda dell’epoca mirava a rinsaldare l’amicizia tra le due Americhe, esaltando lo scambio culturale e turistico. Persino Paperino partecipò alla solenne missione diplomatica.I cartonisti della Walt Disney assemblarono in fretta e furia Saludos amigos, un collage di short a base di samba, Ande e sombrero, da esportare a sud seduta stante; e più tardi allestirono, sempre a scopo di relazioni pubbliche, I tre caballerosLe sorelle brasiliane Aurora e Carmen Miranda, quest’ultima famosissima per i monumentali turbanti alla frutta inalberati nei numeri musicali, sambeggiarono in diverse commedie musicali hollywoodiane prima e durante gli anni di fuoco.

1941. Walt Disney in Argentina con il disegnatore Florencio Molina Campos durante la produzione di Saludos Amigos


Ma ballano anche i topi, quando il gatto è distratto. Durante l’assenza di Welles, i boss della RKO notarono con orrore che gli Amberson eccedevano di ben cinquanta minuti la durata standard di un film commerciabile. «Taglia, taglia», ordinavano al povero montatore. Wise era marcato a vista da Jack Moss, uno degli executive producer. Dal Brasile, Orson tempestava Jack di telefonate per dare istruzioni di montaggio. Jack non si faceva trovare. Orson spediva telegrammi. Jack li cestinava. Orson implorava «Mandami Robert». Spiacenti: guerra in corso, nuove restrizioni sulla libertà di recarsi all’estero.

Senza volerlo, e preso nel turbine di quanto andava accadendo sopra e intorno a lui, Robert Wise si macchiò di alto tradimento nei confronti dell’assente. Che altro poteva fare, se non obbedire agli ordini di Moss? Tagliò i cinquanta minuti di troppo, ricavando in cambio quarantadue anni di ferocissimo astio da parte di Welles (i due si riappacificarono solo nel 1984, quando la Directors Guild of America – corporazione dei registi statunitensi – conferì a Welles il premio alla carriera; durante la cerimonia i nemici s’incontrarono e si strinsero la mano). Poiché non c’è limite al peggio, Moss – oltre a mutilare il film e la colonna sonora, suscitando l’indignazione di Bernard Herrmann che ritirò il suo nome dai credits – fece sparire fisicamente la pellicola non utilizzata (mai ritrovata da allora) e costrinse Robert Wise e Fred Fleck a girare delle scene non previste dal programma del regista ufficiale. Anche Mark Robson, che poi sarebbe diventato un regista di punta, fu coinvolto nella manipolazione del progetto. L’orgoglio degli Amberson rimane un gran film nonostante tutto, ma non sappiamo come sarebbe stato se Orson Welles fosse rimasto a casa a prendersi cura della sua creatura.

© Pasquale Barbella.

(Wise 2 – Continua)


Film citati


1940, My Favorite Wife (Le mie due mogli). Regia: Garson Kanin. Sceneggiatura: Bella Spewack, Sam Spewack, Leo McCarey, liberamente ispirata al poema Enoch Arden di Alfred Tennyson. Direzione della fotografia: Rudolph Maté. Musica: Roy Webb. Cast: Irene Dunne, Cary Grant, Randolph Scott. USA, RKO Radio Pictures.


1941, All That Money Can Buy(L’oro del demonio). Regia: William Dieterle. Sceneggiatura: Dan Totheroh, Stephen Vincent Benet. Fotografia: Joseph H. August. Musica: Bernard Herrmann. Cast: Edward Arnold, Walter Huston, Jane Darwell, Simone Simon, Gene Lockhart. USA, RKO Radio Pictures.


1941, Citizen Kane (Quarto potere). Regia: Orson Welles. Sceneggiatura: Orson Welles, Herman J. Mankiewicz. Fotografia: Gregg Toland. Musica: Bernard Herrmann. Cast: Orson Welles, Joseph Cotten, Dorothy Comingore, Agnes Moorehead, Ruth Warrick. USA, RKO Radio Pictures.


1941, The Little Foxes(Piccole volpi). Regia: William Wyler. Sceneggiatura: Lillian Hellman. Fotografia: Gregg Toland. Musica: Meredith Willson. Cast: Bette Davis, Herbert Marshall, Teresa Wright, Richard Carlson, Dan Duryea. USA, RKO Radio Pictures.



1942, Saludos amigos. Film d’animazione. Regia: Wilfred Jackson, Jack Kinney, Hamilton Luske, Bill Roberts. Sceneggiatura: Horner Brightman, William Cottrell, Ralph Wright, Roy Williams, Harry Reeves, Dick Huemer, Joe Grant, Ted Sears, Webb Smith. Musica: Edward H. Plumb, Paul J. Smith. USA, Walt Disney Productions.


1942, The Magnificent Ambersons(L’orgoglio degli Amberson). Regia: Orson Welles. Sceneggiatura: Orson Welles, da un romanzo di Booth Tarkington. Fotografia: Stanley Cortez, Jack MacKenzie, Orson Welles. Musica: Bernard Herrmann. Cast: Dolores Costello, Joseph Cotten, Anne Baxter, Tim Holt, Agnes Moorehead. USA, RKO Radio Pictures.


Carmen Miranda.

1943, The Gang’s All Here(Banana split). Regia: Busby Berkeley. Sceneggiatura: Walter Bullock. Fotografia: Edward Cronjager. Musica: Hugo Friedhofer, Arthur Lange, Cyril J. Mockridge, Alfred Newman, Gene Rose. Cast: Alice Faye, Carmen Miranda, Phil Baker, Benny Goodman, Jeanne Crain. USA, 20th Century Fox.


1944, The Three Caballeros (I tre caballeros). Film in parte d’animazione e in parte dal vero. Regia: Norman Ferguson, Clyde Geronimi, Jack Kinney, Bill Roberts, Harold Young. Sceneggiatura: Homer Brightman, Ernest Terrazas, Ted Sears, Bill Peet, Ralph Wright, Elmer Plummer, Roy Williams, William Cottrell, Del Connell, James Bodrero. Musica: Edward H. Plumb, Paul J. Smith, Charles Wolcott. Cast: Aurora Miranda, Carmen Molina, Sterling Holloway. USA, Walt Disney Productions.

Aurora Miranda e Paperino in una scena da I tre caballeros.





[1]Robert Wise in un’intervista rilasciata a Harry Kreisler nel 1998 per conto dell’Institute of International Studies dell’Università di Berkeley.

Verbale di libertà

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Dal libro Lesmo. Istantanee di storia, immagini di vita a cura di Fausto Testi, Comune di Lesmo, 2002.



Il 25 aprile e il giorno dopo


Lesmo, Camparada e Correzzana sono tre piccoli comuni della Brianza. Oggi contano complessivamente circa 13.000 abitanti, ma al censimento del 1951 i residenti erano meno di 5.000. L’incremento è dovuto soprattutto allo sviluppo, piuttosto notevole, dell’edilizia residenziale. La tabella qui sotto dà un’idea della dimensione demografica nelle tre località risultante dai censimenti effettuati prima e dopo la seconda guerra mondiale (1936 e 1951). La colonna a destra si riferisce invece al censimento più recente (2011).

Anno

Lesmo

Camparada

Correzzana
1936

2.957

944

739

1951

3.214

1.022

744

2011

8.094

2.074

2.657

Dal libro Lesmo. Istantanee di storia, immagini di vita a cura di Fausto Testi, Comune di Lesmo, 2002.


A ridosso dell’anniversario della Liberazione, circola in zona la fotocopia di un verbale del CLN che ne riporta le prime decisioni assunte dopo il 25 aprile 1945. Il documento è interessante per almeno due motivi: la totale assenza di retorica e l’assoluto pragmatismo. La vita civile ricomincia quasi da zero: con l’addio alle armi e una praticabile strategia di rifornimento alimentare. I morti (non pochi da queste parti), le lacrime, la gioia per la tempesta finita diventano quasi una questione privata; per chi ha assunto impegni pubblici, la priorità non spetta alle emozioni ma alla rapida ricostruzione di un habitat vivibile.
Dal libro Lesmo. Istantanee di storia, immagini di vita a cura di Fausto Testi, Comune di Lesmo, 2002.


Letto settant’anni dopo, lo scarno rapportino – due pagine redatte in stile burocratico, non senza qualche ingenuità – commuove proprio per la sua ruvidezza: “fatti e non parole”, come diceva un vecchio slogan degli elettrodomestici Rex. Alle parole, tante e altisonanti, ci penseranno gli storici, la propaganda elettorale, i comizi e le commemorazioni ufficiali; c’è tempo. Adesso occupiamoci del pane, del latte, delle mucche e della legna. Senza pane non c’è evocazione che tenga. La fame non produce libertà.

Trascrivo letteralmente il verbale, non senza un pensiero di gratitudine nei confronti degli umili pionieri di rappacificazione in esso citati.

COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE
LESMO – CAMPARADA e CORREZZANA

Oggi, 26 aprile 1945 alle ore 19.15, in Lesmo e nella sala consigliare del Municipio si è riunito per la prima volta il Comitato di Liberazione Nazionale già in precedenza costituito nelle persone dei signori:

1°) Franchini Vitale per il Partito Socialista con Viganò Mario, Colombo Alfredo, Galbiati Luigi, Mauri Antonio e Cappelli Santo

3°) Ghitti Cesarino per il Partito Liberale;

4°) Villa Carlo e Beretta Tarcisio per il Partito Democratico Cristiano.[1]

Fanno parte del citato C.L.N. i tre partiti: Socialista, Liberale, e Democratico Cristiano.

Scopo principale dell’adunanza è quello di trattare in ordine all’approvvigionamento della popolazione civile ed al mantenimento dell’ordine pubblico in luogo. A tale scopo i rappresentanti dei tre partiti hanno deciso di nominare i propri rappresentanti in seno al Comitato. Dopo esauriente discussione si procede alla nomina del Presidente del C.L.N. in persona del sig. Franchini Vitale di Paolo, e dei membri nelle persone dei signori Viganò Mario, Galbiati Luigi, Cappelli Santo, Ghitti Cesarino, Villa Carlo e Beretta Tarcisio.

Per i Comuni di Camparada e Correzzana rimangono rappresentanti solamente i signori: Viganò Mario e Cappelli Santo.

Il Comitato come sopra riunito ha di comune accordo deliberato in via temporanea di nominare come Sindaco del Comune di Lesmo il signor Mauri Antonio, per Camparada e Correzzana il sig. Vimercati Vincenzo, salvo ratifica da parte degli Organi competenti Superiori.

Ritenuta l’urgenza e la necessità di provvedere alla tutela dell’ordine pubblico, il C.L.N.  stabilisce di invitare la popolazione a mantenersi calma e tranquilla ed a fare ritorno alle proprie normali occupazioni. Stabilisce inoltre di far consegnare alla sede del Comitato qualsiasi arma detenuta a qualsiasi titolo, della qual consegna verrà rilasciata regolare ricevuta.

Da oggi non saranno autorizzati a portare e a detenere armi se non coloro che avranno ottenuto una speciale autorizzazione dal C.L.N.

Per quanto riguarda l’approvvigionamento per la popolazione civile, il Comitato prende i seguenti provvedimenti:

PANE – I panificatori siano diffidati[2]a provvedere alla migliore confezione del pane sia per quanto riguarda la qualità e la cottura, fermo restando le razioni individuali precedentemente fissate in attesa di ulteriori superiori disposizioni.

LATTE – Per la distribuzione al consumo del latte e per quanto riguarda la produzione del burro rimangono ferme le disposizioni date in precedenza al lattaio Perego Vittorio, fino al 30 aprile c.m. Dopo di che saranno impartite precise disposizioni in armonia con le direttive che verranno superiormente emanate, sia in relazione al dato di produzione, come per la vendita diretta.

LEGNA – I membri del C.L.N. incaricano il sig. Caldirola Angelo di formulare proposte concrete, in accordo con l’amministrazione Comunale per l’approvvigionamento della legna necessaria alla panificazione ed alla popolazione civile, con riserva di adottare i provvedimenti che saranno ritenuti più opportuni.

CARNE – Dato atto che il Comune di Lesmo, in antecedenza ha provveduto all’acquisto diretto di cinque mucche a mezzo del negoziante Tremolada Pierino, di cui una è stata consegnata al Raduno di Seregno del 17 corr.; e che pertanto restano da pagare al Tremolada £ 553.600= (cinquecento cinquantatremilaseicento) a saldo, allo scopo di sanare la pendenza, il C.L.N. decide di procedere all’abbattimento immediato di n. 3 bovine, riservando la quarta bestia per un prossimo approvvigionamento.

Letto, confermato e sottoscritto.

[Seguono firme].



[1]L’enumerazione salta il n. 2 per ragioni oscure. Semplice distrazione?
[2]Sic. Si voleva dire certamente il contrario: siano impegnati, si assumano il dovere di. Tutto il paragrafo è zoppicante, ma lascia intendere che la qualità del pane prima del 25 aprile fosse alquanto scadente.

Un casino di jazz

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Lulu White, maîtresse della storica Mahogany Hall di New Orleans, in una foto segnaletica della polizia scattata nel 1920.


Mahogany Hall stomp

Come tutti i bordelli di Storyville – il ghetto a luci rosse di New Orleans che tanta parte ha avuto nella storia del jazz – anche la Sala di Mogano di madame Lulu White è ormai chiusa e smantellata da dodici anni quando Spencer Williams, per nostalgia del quartiere in cui è nato e cresciuto fino al 1907, o per omaggio al “professore” Jelly Roll Morton che si vantava di aver suonato l’intera giovinezza in quel salotto, le dedica un pezzo dal ritmo bruciante, Mahogany Hall stomp.

La Mahogany Hall stava all’incrocio tra Bienville Street e Basin Street, indirizzo evidentemente caro ai jazzisti d’ogni tempo e in particolare a Spencer Williams (il suo famosissimo Basin Street bluesè del ’28), ed era una delle case di piacere più lussuose e costose della città. Ma subito dopo l’ordinanza che decreta, dal 1° ottobre 1917, il risanamento – edilizio e morale – del quartiere, la Mahogany subisce lo stesso trattamento dei postriboli più malandati. Sopravvive ai bulldozer solo un piano dell’edificio, ovviamente decantato, come ogni muro nel quartiere, dalle guide turistiche. Storyville di fatto non esiste più da molto tempo, ed è solo il jazz ad averne fatto un luogo della memoria, ad aver tenuto sempre accesa la fiaccola del mito.

Due pagine dal catalogo di Lulu White.

Il jazz ha reso immortale un ghetto di puttane e truffatori che, in quanto tale, ebbe vita breve, vent’anni secchi dal 1897 al 1917. La vox populi lo chiamava Storyville dal nome di Sidney Story, agente di cambio e assessore di New Orleans, il quale aveva proposto con successo una delibera per confinare la prostituzione in un solo district, allo scopo di rendere più sicuro e rispettabile il resto della città. «Naturalmente, la cosa fece molto scalpore», osserva – non senza malizia – l’ex tenutaria Nell Kimball nelle sue Memorie di una maîtresse americana (Adelphi, 1975); «si invocò Dio, si parlò di Sodoma e Gomorra, e della decadenza morale degli uomini del Sud. Bisognò tranquillizzare la polizia e i politici dicendogli che per loro ci sarebbe sempre stato da mangiare, poiché sarebbe stato approvato un regolamento, e a loro sarebbe stato affidato il compito di farlo rispettare. Nel luglio 1897, la proposta di Story fu approvata, e vennero definite due zone segregate, una nel quartiere francese, e l’altra al di sopra di Canal Street.»

La facciata della Mahogany Hall poco prima dello smantellamento dell’edificio, nel 1949. Il bordello era in disuso dal 1917.

Nei bordelli di Storyville chiamavamo “professori” i pianisti che intrattenevano gli ospiti nei salotti, come Jelly Roll Morton, Tony Jackson, Frank “Dude” Amacker. Il loro lavoro era compensato unicamente dalle mance. Molti dei grandi musicisti di New Orleans suonarono in quei saloon con le loro orchestre. Vi passarono King Oliver, Buddy Bolden, Kid Ory, Bunk Johnson, Sidney Bechet, Louis “Big Eye” Nelson. E il giovane Armstrong, che le maîtresse e le prostitute del quartiere conoscevano da quando andava a rifornire di carbone le loro stufe, sfacchinando tutto il giorno col furgone della ditta. «Nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato un grande suonatore di tromba, su al Nord. Non voglio dare l’impressione che ne sapessi qualcosa, di jazz, o che avessi un orecchio particolare per quel tipo di musica. Fui semplicemente testimone del suo sviluppo. I bianchi lo chiamavano “musica da casino” e veniva suonato con gran strepito nei posti da quattro soldi e nei lupanari più degradati, e con un po’ più di controllo nelle case più eleganti. Ci volle del tempo prima che il jazz diventasse una musica largamente popolare, e fu quando noi cominciammo a suonarla molto, nei casini. E v’era sempre la musica di Stephen Foster. Non so proprio che cosa avrebbe potuto toccare il cuore, alle tenutarie, e anche alla gente rispettabile, se non ci fossero state le arie di Foster. Avevano qualcosa di dolce e di malinconico, come riposarsi e rievocare il passato dopo una dura esistenza.» (Kimball, op. cit.)


La Kimball ha nostalgia per le delicate ballate di Foster scritte nel periodo della guerra civile, ma per le nuove generazioni, e per i neri specialmente, ciò che conta – nelle grandi città lungo il corso del Mississippi – è quella nuova, rumorosa tendenza chiamata jazz. Mahogany Hall stomp non sarebbe piaciuta alla vecchia maîtresse: appartiene alla categoria «gran strepito», cioè al dixieland più svitato e festaiolo. Del resto, stompè il rumore che si fa battendo con forza i piedi sul pavimento per accompagnare i ritmi più agitati e contagiosi.


P.B.


Mahogany Hall stomp. {Pezzo sincopato per la Sala di Mogano}, composizione di Spencer Williams, 1929, usa. © Edwin H. Morris & Co. Incisa più volte da Louis Armstrong, a partire dal 5 marzo 1929 (Okeh) con i suoi Savoy Ballroom Five e una band diretta dal pianista Luis Russell: l’organico comprendeva, oltre ad Armstrong e Russell, J. C. Higginbotham (trombone), Albert Nicholas, Charlie Holmes, Teddy Hill (ance), Eddie Condon (banjo), Lonnie Johnson (chitarra), Pops Foster (contrabbasso) e Paul Barbarian (batteria).



Selezione discografica


1929, Louis Armstrong, The complete Hot Five and Hot Seven recordings, Columbia Legacy.

1933, Louis Armstrong and His Orchestra, Victor.

1936, Louis Armstrong, Louis Armstrong 1936, vol. 2, Ambassador.

1937, Bunny Berigan, The chronological Bunny Berigan and His Orchestra, 1937, Classics.

1947, Carlo Krahmer’s Hot Seven, Esquire.

1948, Humphrey Lyttelton, Delving back and forth with Humph, Stomp Off/Lake.

1950, Kid Ory and His Creole Dixieland Band, Kid Ory, Columbia.

1950, Santo Pecora and His Dixieland Jass Band, Clef/Mercury.

1953, Henri Renaud’s All Stars, New sound from France, Vogue.

1955, George Lewis and His New Orleans Stompers, Volume 3, Blue Note.


1955, Kid Ory’s Creole Jazz Band 1956, The legendary Kid, Good Time Jazz.

1957, Louis Armstrong, Mack the Knife, Pablo.

1957, The Barney Bigard Sextet & Monette Moore, Kabc/Tv.

1994, Hal Smith, California here I come, Jazzology/Ghb Records.

1994, New Orleans Blue Serenaders, New Orleans Blue Serenaders, Ghb Records.

2000, The Manhattan Transfer (“Stompin’ at Mahogany Hall”), The Spirit of St. Louis, Atlantic.

2001, Jim McNeely, The power and the glory. A salute to Louis Armstrong, Storyville.

Lulu White.

Bella ciao

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Bella ciao. Parole e musica di autori anonimi, 1943, Italia. Canto popolare della Resistenza, la cui circolazione, prima limitata fra alcune formazioni partigiane attive in Emilia-Romagna, comincia a diffondersi largamente attraverso i mezzi di comunicazione a partire dal 1948. Si tratta, come spesso avviene per i canti spontanei, di una rielaborazione di testi e melodie preesistenti.


Il partigiano Milazzo ucciso a Pavia.



Il sacchetto di carbone


Fino al 2006 si è ritenuto che le radici di Bella ciao fossero squisitamente italiane; nessuno aveva sospettato – sebbene, detto col senno di poi, i suoi stilemi melodici siano un chiaro indizio della verità – che la parte musicale fosse puro folklore yiddish. Non è stato un musicologo ma un turista curioso, l’ingegner Fausto Giovannardi di Borgo San Lorenzo, a scoprire una precisa relazione tra Bella ciao e Koilen, ballabile klezmer proveniente dall’Europa dell’est e inciso nel 1919 negli Stati Uniti dal fisarmonicista ucraino Mishka Tziganov, zingaro cristianizzato titolare di un ristorante a New York. Giovannardi compra a Parigi un CD con vecchie registrazioni di musica popolare ebraica. Sorpreso dall’assoluta identità delle due melodie, si mette a investigare per conto suo consultando musicologi e studiosi di cultura ebraica di mezzo mondo. Appura, tra l’altro, che Koilen (o anche Koilin, Koyln, Koylyn) è una versione della canzone yiddish Dus zekele Koilen, ovvero “Il sacchetto di carbone”; e risale ad altre registrazioni d’epoca (Abraham Moskowitz, 1921; Morris Goldstein, 1922).[1]

Il secchio dell’acqua


Non si hanno notizie su come e quando il “sacchetto di carbone” si trasferì in Italia dall’Europa dell’est: forse nella valigia di un immigrato di ritorno? Qualcosa invece si sa sulle sue vicende italiane. Roberto Leydi fa risalire il canto a una vecchia rima per giochi infantili molto diffusa nell’Italia del nord: La me nòna l’è vecchierèlla (Trentino) o la variante La mia nonna l’è vecchierèlla (Lombardia); e a un ciclo di ballate comunemente intitolate Fiore di tomba. Dalla rima infantile, Bella ciao deriva la ripetizione del “ciao”:


La me nòna l’è vecchierèlla

La me fa ciau

La me dis ciau

La me fa ciau ciau ciau

La me manda a la funtanèla

A tor l’aqua per desinar.

Fontanèla mi no ghe vago

La me fa ciau

La me dis ciau

La me fa ciau ciau ciau

Fontanèla mi no ghe vago

Perché l’aqua la me pol bagnar.

Ti darò cincento scudi

La me fa ciau

La me dis ciau

La me fa ciau ciau ciau

Ti darò cincento scudi

Perché l’aqua la te pol bagnar.

Cinque scudi l’è assai denaro

La me fa ciau

La me dis ciau

La me fa ciau ciau ciau

Cinque scudi l’è assai denaro

Perché l’aqua la me pol bagnar.

Alor corro a la funtanèla

La me fa ciau

La me dis ciau

La me fa ciau ciau ciau

Alor corro a la funtanèla

A tor l’aqua per desinar.


Napoli, 2 ottobre 1943. Donne in lacrime al funerale di venti partigiani adolescenti in lotta contro i tedeschi prima dell’arrivo degli Alleati. Foto di Robert Capa. Robert Capa © International Center of Photography.


Il fiore sulla tomba


Protagonista di Fiore di tombaè a volte una Cecilia, altre una Rosina, che minaccia di morire per una delusione d’amore; le trasformazioni del testo sono infinite, ma la costante è rappresentata dall’idea del fiore che lei chiede di piantare sulla propria sepoltura,


E tuta la gent chi passa

lor diranno che bel fior.

Si l’è il fior della Cicilia

Che l’è morta per l’amor.


I versi qui riportati provengono da una variante raccolta in provincia di Bergamo e debitrice, a sua volta, di numerosi altri cicli narrativi oltre che di una ballata risorgimentale.[2]


Nel romanzo I piccoli maestri,[3] Luigi Meneghello riporta frammenti di un’altra versione:


Ha mangiato l’insalatina

Poverina morirà.

Se morissi questa sera

Mi farete seppellir.

Mi farete seppellire

Sotto l’ombra d’un bel fior.

E la gente che passeranno

Le diranno: Che bel fior.

Sarà il fior della Rosina

Che l’è morta per amor.

Ma d’amore non si muore

Ma si muore di dolor.


I partigiani in corso Ticinese, a Milano, il 25 aprile 1945. Mondadori Portfolio.


La ragazza del partigiano


A morire in Bella ciaonon è più né Cecilia, né Rosina, né Teresina, ma il partigiano:


Questa mattina mi son svegliata

O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

Questa mattina mi son svegliata

E ò trovato l’invasor.

Bel partigiano portami via

O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

Bel partigiano portami via

Che mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano

O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

E se io muoio da partigiano

Tu mi devi seppellir.

Mi seppellirai lassú in montagna

O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

Mi seppellirai lassú in montagna

Sotto l’ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno

O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

E le genti che passeranno

E diranno o che bel fior.

È questo il fiore del partigiano

O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

È questo il fiore del partigiano

Morto per la libertà.


Riso amaro


Nel dopoguerra, da Fiore di tomba e Bella ciao si genera un’altra costola, un canto di mondine delle risaie piemontesi. La folk singer Giovanna Daffini canta in pubblico, nel 1962, la versione


Alla mattina, appena alzate,

o bella ciao, bella ciao, bella ciao,

alla mattina, appena alzate,

là giù in risaia ci tocca andar…


C’è chi sostiene trattarsi di un vecchio canto di mondariso, ma Vasco Scansani, cittadino di Gualtieri (Reggio Emilia), precisa di aver scritto personalmente quel testo nel 1951. Ciò non esclude che l’errabonda melodia abbia potuto far tappa, nel suo inquieto girovagare, anche tra le nostre risaie, in un tempo imprecisato fra le due guerre. Quanto all’inno partigiano, si deve prima a Yves Montand, poi a uno spettacolo teatrale di Filippo Crivelli presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1964, una notorietà che varca i confini nazionali.


Bella ciao su disco


1964, Yves Montand, Les années Philips, Universal.

1965, Il Nuovo Canzoniere Italiano, Bella ciao, Dischi del Sole.

1965, Milva, Canti della libertà, Cetra.

1965, The Minstrels, Bella ciao, cbs.

1966, Orchestra e Coro dell’Armata Rossa (voci soliste: Ivan Bukreev, B. Slastnoj), The best of the Red Army Choir, Silva America.

1968, Giorgio Gaber, Studio collection, emi.

1969, Quilapayún, Basta, Dom/wea International.

1972, Coro A. Toscanini di Torino, Canti rivoluzionari italiani, Vedette.

1974, Duo di Piadena, Il vento fischia ancora, Fonit Cetra.

1975 Giovanna Daffini, Amore mio non piangere, Dischi del Sole.

1975, Claudio Villa, Bella ciao / Bandiera rossa, cbs.

1975, Achill, Zachar, Bolek (“Květy Pláčou”), Supraphon.

1976, Cappuccino, Cappuccino, Produttori Associati.

1977, Nanni Svampa, I donn a lavorà e numm a soldà, Durium.

1977, Hannes Wader, Hannes Wader singt Arbeiterlieder, Philips.

1977, Tramteatret, Og mere til, Plateselskapet mai (Norvegia).

1977, Lô, , L’Oiseau Musicien.

1978, Blaguebolle, Blaguebolle, L’Oiseau Musicien.

1979, Maria Farantouri, Live, Pläne.

1980, Kollektief Internationale Nieuwe Scene, De Herkuls, Racoon.

1981, Ran Blake, The blue potato and other outrages, Milestone.

1982, Savage Rose, En Vugge af Stål, Nexø.

1982, Zupfgeigenhansel, Miteinander, Musikant.

1984, Pyhät Nuket, Bella ciao, Kräk!/Propaganda.

1984, Arja Saijonmaa, Tango jalousie, Metronome.

1990, Tony Coe, Les voix d’Itxassou, Nato.

1993, Banda Bassotti & The Gang, Bella ciao, Gridalo Forte.

1993, Pascal Comelade, Danses et chants de Syldavie, Delabel.

1993, Modena City Ramblers, Riportando tutto a casa, Black Out.

1995, Spaceheads, Spaceheads, Dark Beloved Cloud.

1997, Leny Escudero, Chante la liberté, Déclic/emiFrance.

1998, Boikot, La ruta del Che – No callar, Dro Atlantic.

1999, Mauro Palmas, A volte ritornano, Dunya/Robi Droli.

1999, Modena City Ramblers e Goran Bregovic, Appunti partigiani, Universal/Modena City Records.

2000, Giovanni Mirabassi, Avanti!, Sketch.

2000, Maria Farantouri, Live in Düsseldorf, Celia.

2001, Anita Lane, Sex o’clock, Mute.

2001, Lazare Bogossian, Bella ciao – Colonna sonora, Sergent Major.

2002, Giovanna Marini, Francesco De Gregori & Giovanna Marini: Il fischio del vapore, Caravan/Sony.

2003, Noël Akchoté, Cabaret modern. A night at the magic mirror tent, Winter & Winter.

2003, Pippo Pollina (in dialetto siciliano, accompagnato da musicisti egiziani, ciprioti e un’orchestra ucraina), Racconti brevi, Storie di Note.

2004, Commandantes, Lieder für die Arbeiterklasse, Mad Butcher Records.

2005, Chumbawamba, A singsong and a scrap, No Masters.

2005, Yo Yo Mundi, Resistenza, Mescal.

2006, Talco, Combat circus, Kob/Mad Butcher.

2008, Modena City Ramblers, Bella ciao – Italian combat folk for the masses, Mescal.

2010, Stefano Giaccone, Il giardino dell’ossigeno, Stella Nera.


Film


2001, “Bella ciao” di Stéphane Giusti.


Citazioni


«Il piantone Giazza aveva una voce altissima, quasi femminea: le strofette che cantava disteso sulla branda, erano strilli armoniosi.» (Luigi Meneghello, I piccoli maestri, nuova ed., Milano: Rizzoli,  1976).


«Oggi è molto diffusa tra i movimenti di Resistenza in tutto il mondo, dove è stata portata da militanti italiani. Ad esempio è cantata da molte comunità zapatistein Chiapas, naturalmente eseguita in lingua spagnola. A Cuba è cantata nei campeggi dei Pionieri, mettendo la parola “guerrillero” al posto della parola “partigiano”. È conosciuta e tradotta anche in cinese. Nella sua storia recente (dal 1968 in poi), questa canzone è stata spesso considerata alla stregua di un inno ufficiale dei movimenti comunistio anarchici. Una versione sessantottina aggiungeva una finale che recitava: “Era rossa la sua bandiera... come il sangue che versò”. Per questo motivo ancora oggi ispira autori italiani e stranieri, ed è utilizzata in numerose occasioni, anche non direttamente collegate alla Resistenza.» Nel 1999il producerS.K. pubblica una versione Italodance della canzone, dal nome “Una mattina”.»(Wikipedia)






[1]Informazioni desunte da Jenner Meletti, autore del servizio Da ballata yiddish a inno partigiano il lungo viaggio di Bella ciao, “La Repubblica”, 12 aprile 2008.
[2]R. Leydi, I canti popolari italiani, Milano: Mondadori, 1973.
[3]Feltrinelli 1964, nuova edizione riveduta Rizzoli 1976.

Dopo Pearl Harbor

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Elmi e pantere

Nel 1942 gli Stati Uniti, attaccati in casa dall’aviazione giapponese, sono in pieno turbine di guerra. Nessun mezzo viene risparmiato per educare il paese alla nuova condizione in cui si è venuto a trovare. 
Pubblicità Coca-Cola in tempo di guerra.

Hollywood si butta a capofitto nella propaganda. Ce n’è di lavoro da fare: incoraggiare reclutamenti, istruire le truppe, chiedere e giustificare sacrifici, tenere alto il morale di militari e civili, favorire le relazioni con i paesi alleati e quelli neutrali. Il dipartimento della guerra mobilita il mondo dello spettacolo, e in particolare il cinema, con raccomandazioni e commesse dirette. Frank Capra è incaricato di produrre una serie di documentari bellici: presto esce il primo, Preludio alla guerra, diretto in tandem con Anatole Litvak. La Marina spedisce John Ford alle Midway per un reportage a colori sulla battaglia. Tutti i registi più stimati – da Edward Dmytryk a Fred Zinnemann, da Michael Curtiz a Raoul Walsh, da William A. Wellman a William Wyler – concorrono all’impresa con storie a sfondo bellico, spionistico, edificante, eroico. Per la propaganda indiretta va bene qualsiasi minestra: commedia, cartoni animati, musical, persino il western. A volte basta infilare nella storia un marinaio simpatico, uno show musicale dedicato alle truppe, un aviere coraggioso, una donna in uniforme, una famiglia in trepida attesa del soldato in licenza, un Bugs Benny alle prese coi sabotatori. Tutto fa brodo.
Pearl Harbor, Hawaii, 7 dicembre 1941. 
L’esplosione del cacciatorpediniere Shaw della Marina statunitense, colpito dalle bombe giapponesi.


Nella sua postazione di montaggio, Robert Wise provvede a sistemare Tre ragazze e un caporale(1942), commediola di Tim Whelan che di militare ha solo il maschio del titolo; 19° stormo bombardieri (1943) di Richard Wallace, che è invece un tipico prodotto di guerra e serve anche come “tutorial” negli addestramenti; Il passo del carnefice (1943) di Richard Wallace, nel quale John Garfield dà la caccia al killer di un tale che lo aveva aiutato a evadere da un campo di concentramento nazista. Nel 1943, insieme a Philip Martin, Wise edita Il comandante di ferro di Ray Enright. È la biografia di un allenatore di football, William “Frank” Cavanaugh, noto per aver sacrificato la carriera alla difesa della patria. Era andato a combattere nella prima guerra mondiale, riportandone una reputazione da eroe.

A Robert Wise, nel 1944, i tempi sembrano maturi per passare dalla moviola alla macchina da presa. Ci tiene, e spinge. A imbarcarlo nella scuderia registi della RKO è Val Lewton, da due anni responsabile del comparto B-movies. È un russo della Crimea americanizzato, il suo vero nome è Vladimir Ivan Leventon e ha una passione per gli horror raffinati: i mostri non si vedono ma incutono un terrore palpabile. Nel 1942 ha prodotto un cult, Cat People (Il bacio della pantera) di Jacques Tourneur, la cui protagonista (impersonata dall’attrice francese Simone Simon) è ossessionata dall’idea di essere l’incarnazione di una belva sanguinaria e di riacquisire la sua vera identità in caso di congiunzione carnale con un uomo. Dopo aver sfornato, sull’onda di quel successo, altre storie spaventevoli dai titoli eloquenti (Ho camminato con uno zombi, L’uomo leopardo, La settima vittima, The Ghost Ship), Lewton affida a un regista di cortometraggi, Gunther von Frisch, la realizzazione di The Curse of the Cat People (noto in Italia come Il giardino delle streghe). L’intenzione è quella di replicare il ruggito della pantera, che ha lasciato brividi indelebili nella audience: lo sceneggiatore (DeWitt Bodeen) e gli attori principali (Simone Simon, Kent Smith, Jane Randolph) sono gli stessi di Cat People. Per risparmiare vengono riutilizzati alcuni set de L’orgoglio degli Amberson.

Simone Simon, protagonista de Il bacio della pantera di Jacques Tourneur, Il giardino delle streghe di Gunther von Fritsch 
e Robert Wise e Mademoiselle Fifidi Robert Wise.


Von Fritsch non ce la fa a rispettare la tabella di marcia, ed è qui che entra in ballo Robert Wise. Il come ce lo racconta lui stesso: «Stavo montando un piccolo film intitolato Curse of the Cat People. Era il debutto nel cinema di finzione di un regista che nel curriculum aveva solo un buon documentario. Non che fossero scontenti di lui, ma era troppo lento. Il piano prevedeva diciotto giorni di riprese a un budget stracciato (200.000 dollari). Ma non riuscivano a fargli capire che doveva girare più materiale e più in fretta. Alla fine dei diciotto giorni aveva coperto appena metà dello script. Nel frattempo avevo chiesto di poter girare anch’io qualcuno di quei filmetti a basso costo. Allora mi chiama Sid Rogell, l’executive producer, e mi fa: vediamoci tutti e tre a pranzo [con Lewton, ndr] nel ristorante di fronte. E lì mi dicono: “Senti, non riusciamo a far capire a Gunther che deve sbrigarsi. Tu volevi un’opportunità di regia. Oggi lo sciogliamo dall’incarico, lunedì mattina attacchi tu.”»

Gli danno dieci giorni e un po’ di soldi extra budget per chiudere il lavoro. In dieci giorni lo chiude. In premio, gli stipulano un contratto da regista per sette anni. Il mondo del business è duro con chi non ne regge il ritmo. Von Fritsch farà una sua carriera senza infamia e senza lode, soprattutto nelle aree del corto, del documentario e, più tardi, della televisione. Wise invece andrà alla grande. È solo questione di tempo.
Simone Simon e la piccola Ann Carter in una scena de Il giardino delle streghe.


Ma com’è Il giardino delle streghe? All’epoca non fu un gran successo di pubblico, anche perché la RKO s’intestardì a promuoverlo con una campagna inappropriata e ingannevole. Lo spacciarono come sequel del Bacio della pantera ma era un’altra cosa, anche se di quell’archetipo riprendeva il clima psicopatologico e alcuni personaggi; né si poteva definire un vero film dell’orrore, improntato com’era sugli incubi di una bambina (interpretata da Ann Carter) e sul suo difficile adattamento alla realtà. La critica invece apprezzò l’originalità dell’idea e la qualità della realizzazione. Lo storico del cinema William K. Everson ha accostato Il giardino delle streghe a La bella e la bestia di Jean Cocteau. Joe Dante, il regista di Gremlins, è un suo estimatore e ha definito il film «una fiaba disneyana disturbante». Nel 2010, The Moving Arts Film Journal lo ha classificato – forse un po’ troppo generosamente – al 35° posto nella graduatoria dei migliori film d’ogni tempo. E ci sono università che lo hanno utilizzato nei loro corsi di psicologia.


Partito come B-movie, Il giardino ha acquisito la dignità di un film d’autore; ma non si capisce di quale autore. Chi gli ha dato l’impronta che lo rende così anticonvenzionale? Forse von Fritsch più di Wise, dal momento che la lavorazione era già in corso inoltrato quando il secondo subentrò al primo. Ma non va sottovalutato l’apporto di Val Lewton, deus ex machina del progetto: probabilmente il vero autore è stato lui.

En passant, Maupassant

L’apprendistato di Robert Wise continua con Mademoiselle Fifi, dramma che si può iscrivere a buon diritto nel filone di propaganda antitedesca. Val Lewton deve aver fiutato la flessibilità cinematografica di Guy de Maupassant. John Ford si era ispirato a una delle sue novelle più famose, Boule de suif, per mettere a segno il western più onorato nelle cineteche di tutto il mondo, Ombre rosse. Nelle cucine della RKO, la stessa novella viene combinata con un’altra dello stesso scrittore – quella che s’intitola, per l’appunto, Mademoiselle Fifi. In comune, i due racconti hanno il patriottismo delle protagoniste, entrambe prostitute, sullo sfondo della guerra franco-prussiana. Boule de suif (Palla di sego) è il nomignolo appioppato a una “ragazza di piacere” rotondetta, che si trova a viaggiare in diligenza con un gruppo di benpensanti accomunati da una rivoltante ipocrisia. Ostili ma affamati, accettano da lei le provviste che si è portata per il viaggio. Hanno tutti un regolare lasciapassare per raggiungere Le Havre da Rouen (la Francia è occupata dall’invasore), ma a metà strada il comandante di una guarnigione prussiana esige, senza ottenerle, le prestazioni sessuali di Boule de suif, che non vuole saperne di spartire il suo corpo col nemico. Per forzarla al suo volere, lufficiale trattiene tutti i passeggeri come ostaggi, per giorni e giorni; finché questi non riescono a convincere la ragazza a sacrificarsi  per il bene comune. Obtorto collo, la refrattaria cede. Per tutto ringraziamento, viene isolata dai beneficiari che la trattano come uno scarto dell’umanità.

Elisabeth, protagonista della seconda vicenda, viene “noleggiata” con quattro compagne da cinque ufficiali prussiani che hanno occupato un castello in Normandia. A lei tocca la compagnia del più spregevole, chiamato “signorina Fifi” dai compagni di crapula. Il sordido Fifi – vandalo con le cose e sadico con le persone – ha già devastato tutto ciò che di bello e di artistico c’era nel castello, dagli arazzi ai dipinti, dagli arredi alle porcellane. Ora stringe e addenta Elisabeth come fosse un pork chop e, già che c’è, insulta e deride la Francia e i francesi. La ragazza gli assesta una prodigiosa coltellata in gola, scappa dal castello, si rifugia nel campanile della chiesa e agita le campane (mute da quando il villaggio è sotto controllo nemico) per scuotere i concittadini e incitarli alla rivolta.

Il primo film interamente firmato da Wise, che prende da un racconto la carrozza e dall’altro i prussiani del castello, non è minimamente all’altezza dei due capolavori di Maupassant, ed è distante anni luce anche dalla magnifica rielaborazione fatta per Ombre rosse. A rovinare Mademoiselle Fifi concorre non poco lavventata censura dell’epoca: nel film Elisabeth non è una puttana, ma una lavandaia. Il che, oltre a tradire in modo irrimediabile la portata etica del plot, lo rende anche incomprensibile.

© P. Barbella.

(Robert Wise 3 – Continua)

Film citati

The Battle of Midway (La battaglia delle Midway). Documentario bellico, cortometraggio. Regia: John Ford. Sceneggiatura: John Ford, Dudley Nichols, James Kevin McGuinness. Fotografia: Joseph H. August, John Ford, Jack MacKenzie, Kenneth M. Pier. Musica: Alfred Newman. Cast: voci fuori campo di Henry Fonda, Jane Darwell, Donald Crisp, Irving Pichel. The United States Navy/Paramount Pictures. USA, 1942.


La belle et la bête (La bella e la bestia). Regia: Jean Cocteau. Sceneggiatura: Jean Cocteau, Jeanne-Marie Leprince de Beaumont. Fotografia: Henri Alekan. Musica: Georges Auric. Cast: Jean Marais, Josette Day, Mila Parély, Michel Auclair. Produzione: DisCina. Francia, 1946.


Bombardier (19° stormo bombardieri). Regia: Richard Wallace, Lambert Hillyer. Sceneggiatura: John Twist, Martin Rackin. Fotografia: Nicholas Musuraca. Musica: Roy Webb. Cast: Eugene L. Eubank, Pat O’Brien, Randolph Scott, Eddie Albert, Robert Ryan. RKO Radio Pictures. USA, 1943.


Cat People (Il bacio della pantera). Regia: Jacques Tourneur. Sceneggiatura: DeWitt Bodeen. Fotografia: Nicholas Musuraca. Musica: Roy Webb. Cast: Simone Simon, Kent Smith, Tom Conway, Jane Randolph, Jack Holt. RKO Radio Pictures. USA, 1942.


The Curse of the Cat People (Il giardino delle streghe). Regia: Gunther von Fritsch, Robert Wise. Sceneggiatura: DeWitt Bodeen. Fotografia: Nicholas Musuraca. Musica: Roy Webb. Cast: Ann Carter, Simone Simon, Kent Smith, Jane Randolph. RKO Radio Pictures. USA, 1944.

Maureen O’Hara in Il passo del carnefice di Richard Wallace, 1943.


The Fallen Sparrow (Il passo del carnefice). Regia: Richard Wallace. Sceneggiatura: Warren Duff, da un romanzo di Dorothy B. Hughes. Fotografia: Nicholas Musuraca. Musica: Roy Webb. Cast: John Garfield, Maureen O’Hara, Walter Slezak. RKO Radio Pictures. USA. 1943.


The Ghost Ship. Regia: Mark Robson. Sceneggiatura: Donald Henderson Clarke, Leo Mittler. Fotografia: Nicholas Musuraca. Musica: Roy Webb. Cast: Richard Dix, Russell Wade, Edith Barrett. RKO Radio Pictures. USA, 1943.


Gremlins (Gremlins). Regia: Joe Dante. Sceneggiatura: Chris Columbus. Fotografia: John Hora. Musica: Jerry Goldsmith. Cast: Hoyt Axton, John Louie, Keye Luke. Warner Bros. USA, 1984.


The Iron Major (Il comandante di ferro). Regia: Ray Enright. Sceneggiatura: Aben Kandel, Warren Duff, da un soggetto di Florence E. Cavanaugh. Fotografia: Robert De Grasse. Musica: Roy Webb. Cast: Pat O’Brien, Ruth Warrick, Robert Ryan, Leon Ames. RKO Radio Pictures. USA, 1943.


I Walked with a Zombie (Ho camminato con uno zombi). Regia: Jacques Tourneur. Sceneggiatura: Curt Siodmak, Ardel Wray, Inez Wallace, da “Jane Eyre” di Charlotte Brontë. Fotografia: J. Roy Hunt. Musica: Roy Webb. Cast: James Ellison, Frances Dee, Tom Conway. RKO Radio Pictures. USA, 1943.


The Leopard Man (L’uomo leopardo). Regia: Jacques Tourneur. Sceneggiatura: Ardel Wray, Edward Dein, da un romanzo di Cornell Woolrich. Fotografia: Robert DeGrasse. Musica: Roy Webb. Cast: Dennis O’Keefe, Margo, Jean Brooks. RKO Radio Pictures. USA, 1943.


Mademoiselle Fifi. Regia: Robert Wise. Sceneggiatura: Josef Mischel e Peter Ruric, dalle novelle Mademoiselle Fifi e Boule de suifdi Guy de Maupassant. Fotografia: Harry J. Wild. Musica: Werner R. Heymann. Cast: Simone Simon, John Emery, Kurt Kreuger, Alan Napier. RKO Radio Pictures. USA, 1944.

Una scena da Prelude to War (1942), regia di Frank Capra e Anatole Litvak, primo episodio della serie Why We Fight promossa dal Dipartimento della guerra degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. Oscar 1943 nella categoria documentari.


Prelude to War (Preludio alla guerra). Documentario. Regia: Frank Capra, Anatole Litvak. Fotografia: Robert J. Flaherty. Musica: Hugo Friedhofer, Leigh Harline, Arthur Lange, Cyril J. Mockridge, Alfred Newman, David Raksin. Cast: Walter Huston (voce fuori campo). U.S. War Department. USA, 1942.


Seven Days’ Leave (Tre ragazze e un caporale). Regia: Tim Whelan. Sceneggiatura: William Bowers, Ralph Spence, Curtis Kenyon, Kenneth Earl. Fotografia: Robert De Grasse. Musica: Roy Webb. Cast: Victor Mature, Lucille Ball, Harold Peary, Ginny Simms. RKO Radio Pictures. USA, 1942.


The Seventh Victim (La settima vittima). Regia: Mark Robson. Sceneggiatura: Charles O’Neal, DeWitt Bodeen. Fotografia: Nicholas Musuraca. Musica: Roy Webb. Cast: Tom Conway, Jean Brooks, Isabel Jewell, Kim Hunter. RKO Radio Pictures. USA, 1943.


Stagecoach (Ombre rosse). Regia: John Ford. Sceneggiatura: Ernest Haycox, Dudley Nichols, Ben Hecht, dalla novella Boule de suif di Guy de Maupassant. Fotografia: Bert Glennon. Musica: Gerard Carbonara. Cast: Claire Trevor, John Wayne, Andy Devine, John Carradine, Thomas Mitchell, George Bancroft. Walter Wanger Productions/United Artists. USA, 1939.

Il cast di Ombre rosse. Da sinistra: Claire Trevor, John Wayne, Andy Devine, John Carradine, Louise Platt, Thomas Mitchell, Barton Churchill, Donald Meek, George Bancroft.



Pronto soccorso

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«Per la miseria! Che ti è successo?»


Visto dal basso, Roi sembrava alto come una torre. Mi ero seduto sul gradino del marciapiede, per riprendere fiato. Dolori dappertutto.


«Una Panda. Mi ha investito una Panda», dissi sforzandomi – chissà perché – di sorridere, come se ci fosse del comico in quell’avvenimento.


«E dov’è il farabutto? Se l’è svignata lasciandoti a terra?»


«No, no, tutt’altro. Era una brava persona, ha cercato in tutti i modi di aiutarmi...»


Gli spiegai, ansimando, che il proprietario dell’auto voleva a tutti i costi portarmi all’ospedale, ma che avevo rifiutato. A botta calda mi sentivo in forma, mi ero rialzato in un baleno. Non avevo nulla di rotto, nemmeno lo smartphone. Avevo tranquillizzato il mio investitore, che sembrava più scosso di me e mi faceva pena. Finalmente se n’era andato, e la sua scomparsa mi aveva procurato un vago sollievo. I dolori erano arrivati subito dopo.


«Basta, non ti affaticare, ne parliamo più tardi. Adesso dimmi soltanto se ce la fai a rimetterti in piedi. Fa’ piano, la cosa importante è capire se le ossa sono a posto.»


«Dammi una mano», dissi tendendogli la destra. Mi rialzai, ma mi sentivo a pezzi.


«Va bene, va bene, risiediti e sta’ calmo. Prendo la macchina di mia madre e ti porto al pronto soccorso. Dammi tre minuti.»


Prima di schizzare via mi passò un pacchetto di fazzoletti di carta. «Datti una pulita, hai un taglio sulla faccia. Roba da poco, ma comincia a sanguinare.»


Si affrettò. Abitava a due o tre isolati di distanza. Mi pentii di averlo scomodato; avrei dovuto chiamare un’ambulanza. Mio padre no, e men che meno Cristina; si sarebbero allarmati a morte, meglio lasciarli in pace. Avevo pensato subito a Roi, per via del quartiere. Sapevo che stava a due passi.

Mi aiutò a montare sull’auto (una Golf, mi pare), tenendomi il braccio intorno alle spalle, tra mille precauzioni. Mi sentivo, al tempo stesso, stupido e importante.

«Non sapevo che hai la patente», biascicai mentre cambiava marcia e accelerava con una certa furia.

«Non ce l’ho, infatti. Compio i diciotto fra un mese. Ma so guidare meglio di quel pirla che ti ha travolto.»

«Non mi ha travolto, mi ha dato una spintarella qui, sul fianco, e sono cascato a terra come un salame.»

«Sulle strisce?»

«No. Attraversavo così, senza pensarci, e non mi sono accorto che quello...»

«Peccato. Fosse stato sulle strisce, potresti spremere all’assicurazione un sacco di soldi. Hai preso i suoi dati?»

«No», dissi con un filo di voce.

«Nemmeno la targa?»

«Credo di averle dato unocchiata, ma non me la ricordo.» (Dio, perché mi hai fatto così scemo?)

«C’erano testimoni? Qualcuno ha visto com’è andata

«Forse. Non lo so, non ci ho fatto caso. È successo proprio davanti alla pizzeria, di solito c’è gente che va e viene. Ma a quest’ora...»

Dovevano essere le quattro del pomeriggio, più o meno. Il traffico era decente, niente di paragonabile al casino delle ore di punta. Roi guidava spedito, scafato come un taxista. Cominciai a temere che potesse avere dei guai con la stradale. Il mio senso di colpa nei suoi confronti si acuì.

«Reggi? Andiamo al San Paolo, è più lontano ma con la tangenziale ci arrivo in un attimo.»

Capii che non voleva imbarcarsi nel centro città, dove c’erano maggiori probabilità di imbattersi in un vigile.

«Faresti meglio a piantarmi qui, chiamo un’ambulanza», sospirai sperando segretamente che non raccogliesse la proposta. Non la raccolse. Continuò a guidare senza rispondere.

Dopo un po’ mi domandò come mi sentivo.

«Un po’ meglio», mentii. Mi faceva male tutto il lato della botta, testa compresa. Sotto i panni mi figuravo una gigantesca macchia nera. Un ematoma da Rambo ferito. Sopra di noi, invece, si anneriva velocemente il cielo, come se fosse stato investito da una Panda anche lui. Cera un gran traffico di nuvole scure, una più incazzata dellaltra. 

«Siamo quasi arrivati. Rilassati.»

Doveva essersi accorto anche lui dello stato di agitazione in cui mi trovavo, nonostante i miei sforzi per darmi un contegno. A un certo punto staccò gli occhi dal volante per darmi una rapida occhiata.

«Stai tremando», disse. «Vedrai che non è niente.»

«Mi dispiace di averti coinvolto. Magari avevi da fare.»

«Anche tu avevi da fare, suppongo. Gli esami sono esami.»

Avrei preferito che non toccasse quel punto. Ero terrorizzato dagli esami. Quasi ero contento di essermi fatto male. Avevo il diritto di non pensare ai libri, per un giorno o due. Forse per una settimana. Chissà.

Gli chiesi se anche lui fosse preoccupato per gli esami. Disse di no: me l’aspettavo. Roi è il tipo che non ha paura di niente. Forse era questo il vero motivo per cui avevo telefonato proprio a lui.

All’accettazione mi fecero delle domande e mi assegnarono un bollino verde. Roi protestò con durezza: «Forse non ha capito, signora. È stato investito da un pirata della strada, non so se mi spiego. A momenti lo ammazzavano.»

«Lei è un parente?», gli chiese la donna a denti stretti. Aveva l’aria di una che sta per sbatterti fuori. Tirai a Roi la manica della camicia, come per supplicarlo di tacere. Tacque. Andammo a sederci in sala d’aspetto. C’era un viavai di barellati, sembravano tutti in fin di vita. Sul monitor sfilava una sequenza di codici rossi e gialli.

«Te ne puoi andare, sono al sicuro adesso», dissi debolmente.

«Come va con Cristina?»

«Così così. Forse non sono alla sua altezza.»

«In che senso?»

«Ho provato a combinare le vacanze con lei. In principio sembrava entusiasta. Poi ha cominciato a tirar fuori una difficoltà dopo l’altra.»

«Difficoltà oggettive o pretesti per darti buca?»

«Vallo a capire. Dice che i suoi insistono per portarla con loro a New York.»

«Allora sei fritto. Se i miei mi portano a New York ci vado di corsa.»

«E Marisa?»

«Marisa si arrangia.»

«Ma così la perdi.»

«Non credo. Non è mica stupida.»

Lo disse come se le ragazze intelligenti non si sarebbero lasciate scappare un tipo come lui. Provai fastidio per la sua sicurezza. Eppure la mia ammirazione per lui quasi quasi aumentò.

«Guarda quel vecchio», disse cambiando argomento.

Era uno steso sulla barella, pallido come il ghiaccio. Aveva il  respiro di un treno a vapore.

«Povero cristo. Avrà cent’anni. Dev’essere pesante arrivare a cent’anni», mormorai.

«Ne avrà sì e no settanta. Guarda la moglie e la figlia, sono troppo giovani per avere un padre centenario.»

«Ha l’aria di uno che non ce la fa.»

«Non ce la farà. Buon per lui.»

«Non passa gli esami», dissi con un sorriso del cazzo. A volte mi escono di bocca le peggiori idiozie. Poi me ne pento, e sto male.

«Come mai non sei su Facebook?», domandò Roi dopo qualche minuto di sbadigli.

«Ho paura di scrivere scemenze. Mi conosco.»

«Le scemenze sono divertenti.»

«Le mie no.»

«Tu non hai molta stima di te stesso.»

Era vero. Non avevo molta stima di me stesso. Che potevo farci?

«Se questi non si sbrigano, tuo padre non ti troverà a casa e fra un po comincerà a domandarsi che fine hai fatto. Senza contare che potrebbero ricoverarti, se qualcosa non va. Ti conviene avvertirlo che sei qui.»

Non risposi. Mi giravano in testa pensieri a casaccio, appena abbozzati e subito sciolti. Più che pensieri erano scie fosforescenti: rosse, gialle, verdi e bianche, come i codici del pronto soccorso. Un po’ mi dispiaceva che Roi passasse di colpo da un argomento allaltro, senza approfondirne nessuno. E poi, quell’esortazione ad avvertire mio padre era segno che si era stancato di perdere tempo con me. Non ero neanche il suo migliore amico, dopotutto, anche se mi sarebbe piaciuto esserlo.

La prima ora passò con una lentezza inesorabile, specialmente per Roi. Si vedeva. Allungava le gambe, le ritraeva; le allungava di nuovo, le ritraeva ancora; le accavallava e le scavallava, di scatto; si alzava, faceva quattro passi, ricadeva sulla sedia di botto. Ogni suo movimento mi scuoteva come unaccusa.

«Ti secca se esco a fumare una sigaretta?»

Uscì. Telefonai a mio padre e balbettai la premessa sbagliata: «Non spaventarti.» Ovviamente andò subito nel panico, prima ancora di ascoltare il resto. Era in officina, disse che l’avrebbe chiusa immediatamente e che sarebbe corso da me. Mi sentivo sempre più fragile. E colpevole.

«Ma come è successo esattamente?» Dopo la pausa fumo, Roi ritornò per la quarta o quinta volta sulla dinamica dell’incidente, come se non fossi riuscito a spiegarlo con soddisfacente chiarezza. Pure mi parve di cogliere un sottile rimprovero nel tono della domanda. Il mio imbarazzo cresceva.

Guardai l’orologio. «Mio padre arriva da un momento allaltro. Vai pure. E grazie davvero, sei un amico.»

«Se sta arrivando, aspetto che arrivi. Non mi va di lasciarti da solo.»

«Solo non direi», dissi accennando col mento alla moltitudine di disgraziati in attesa. Era sopraggiunto anche un gruppo di skinhead. Alcuni erano feriti. Uno si teneva la pancia, come se lavessero sbudellato. Però stava in piedi senza fatica, e continuava a rognare e bestemmiare contro chissà chi. Dovevano essersi accoltellati con una banda rivale. C’erano un paio di poliziotti con loro.

«A quelli, magari, hanno dato il codice rosso. Non è giusto», osservò Roi con aria schifata.

«Saranno in condizioni gravi», buttai.

«Gravi o non gravi, se la sono cercata.»

«Sei duro col prossimo.»

«Prossimo quello? È feccia, lo vedi da te. Non meritano niente.»

Ero troppo debole per opinioni così decise. Cercavo una scappatoia che assolvesse Roi dalle piccole delusioni che mi andava procurando.

«Secondo te sono fascisti?»

Forse era una domanda fuori luogo e forse no.

«Fascisti è dir poco. Il peggio del peggio del nazifascismo. Scommetto che hanno le svastiche tatuate sul culo.»

Scoppiai a ridere, e Roi rise con me. Per mezzo minuto mi sentii sulla sua stessa lunghezza d’onda. Proprio allora mio padre irruppe nella sala, trafelato. Si guardò intorno smarrito, prima di localizzarmi. Aveva due guance così rosse che sembravano papaveri.

«Che è successo? Come stai?», disse baciandomi sulla fronte, davanti a tutti. Era imbarazzante. Roi gli cedette il posto e si fece un po’ da parte.

«Papà, non è niente di grave, ho solo il bollino verde. Ti voglio presentare un amico, un compagno di classe. Si è preso cura di me. È lui che mi ha portato qui e mi ha tenuto compagnia.»

C’era una punta di orgoglio nella mia voce. Ero fiero di presentare a mio padre un amico come Roi. Mio padre si alzò per stringergli la mano, con la faccia traboccante di umiltà e gratitudine.

Ma Roi era tutto preso da una discussione al telefono, di quelle in cui si ripetono a catena, senza saperlo, le stesse cose e le stesse parole, accompagnandole con gran movimento di mani e di braccia. E nemmeno si accorse di lui.

© Pasquale Barbella.

Scrittori di luce/1

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Marisa Berenson in una inquadratura di Barry Lyndon, regia di Stanley Kubrick. Oscar 1976 a John Alcott per la fotografia; a Ken Adam, Roy Walker e Vernon Dixon per la scenografia; a Ulla-Britt Soderlund e Milena Canonero per i costumi; a Leonard Rosenman per la colonna sonora. Tre nomination per Kubrick (miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura).


Scrittori di luce

di Till Neuburg

Ceci n’est pas une pipe non è solo il titolo (dipinto) di un dipinto epocale, ma un’enunciazione strutturalista e concettuale su cosa diavolo sia in realtà l’arte figurativa. Avrebbe potuto pronunciarla gente come Warhol, Chomsky o Lévi-Strauss, oppure Houdini, Corrado Guzzanti o Totò… e invece è stato il botto semantico di un poeta visivo che amava divertirsi col reale e sul reale.[1]


Se questo sguardo a prima vista laterale lo spostiamo dalle pareti museali al grande schermo, il vecchissimo derby tra forma e contenuto si fa ancora più bizzarro e complicato.


Quando a metà del secolo scorso il critico cinematografico e futuro regista Jean-Luc Godard sentenziò che «La photographie c’est la vérité et le cinéma c’est vingt-quatre fois la vérité par seconde...»[2], affermava una cosa tecnicamente coerente – ma culturalmente insostenibile e forse persino fraudolenta. Infatti, pochi anni dopo, uno dei maestri della nouvelle vague américaine, Brian De Palma, sosteneva che «In ogni forma d’arte, tu crei nel pubblico l’illusione di guardare la realtà attraverso il tuo occhio. La cinepresa mente sempre. Mente ventiquattro volte al secondo.»[3]

Il direttore della fotografia Raoul Coutard riprende una scena dall’alto per Fino all’ultimo respirodi Jean-Luc Godard.

A seconda della circostanza e del luogo, il cinema è registrazione o remake, quasi sempre riproduzione, finzione, simulazione, inganno. In altre parole: visione diventata azione, meglio ancora “immaginazione”. Esattamente come succede con le foto scattate singolarmente, anche le immagini cinematografiche sgorgano da affluenti tecnici a misura d’uomo: 1) dalla luce (trovata, riprodotta, inventata) e 2) dall’inquadratura. Ma rispetto all’istantanea singola, sempre unica e separata, la ripresa sequenziale si avventura in un’ulteriore dimensione dell’abbaglio: il movimento.


Un movimento spesso multiplo, composto, incrociato. Si muove 1) ciò che credi di vedere (un missile, un’onda lunga, il fugace battito di una palpebra); si muove 2) il tuo punto di vista (messa a fuoco, panoramica, volée, carrello, dolly, steadicam, zoom); ma in modo spesso impercettibile o addirittura fuori campo, si può muovere pure 3) la primaria energia generatrice di qualsiasi cosa che percepiamo: la luce. Parliamo di una fonte vitale che in natura può chiamarsi sole, lampo, luna, meteora, fuoco, arcobaleno… ma che nel cinema si traveste volentieri da lampadina, flash, candela, finestra, specchio, esplosione, fessura, neon.

Il direttore della fotografia romano Vittorio Storaro, vincitore di tre Oscar: per Apocalypse Nowdi Francis Ford Coppola (1979), Redsdi Warren Beatty (1981) e L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci (1987).

È un artificio che il triplo vincitore di Oscar per la migliore fotografia, Vittorio Storaro, definisce così: «Sono andato all’origine della parola: foto-grafia, letteralmente scrittura con la luce. Chi fa foto-grafia scrive con la luce la storia del film, come il compositore la scrive con le note, come lo sceneggiatore o lo scrittore la scrive con le parole.»[4]


Eppure, nella tavola periodica degli elementi in uso tra chi assegna le fatidiche stellette di gradimento per i film (soggetto, sceneggiatura, dialoghi, recitazione, location, scenografia, costumi, colonna sonora, montaggio, fotografia, regia), la cinematographyè spesso relegata nell’ultima fila dove si trastullano i superficiali ed imperterriti esteti. A facile prova e riprova che la buona o la pessima fotografia non decreti per forza la valenza storica e culturale di un film, per i colpevolisti della bruttezza visiva (come me) gli indizi sono sempre pessimi e abbondanti. Per esempio, Il cavaliere della valle solitaria (1953), L’uomo che sapeva troppo (1956), La grande fuga (1963), La decima vittima (1965), Il laureato (1967), Bella di giorno (1967), La classe operaia va in paradiso (1971), La vita è bella (1997), fino a La stanza del figlio (Palma d’Oro a Cannes 2001), sono stati tutti successi di critica e di botteghino; ma si distinguevano per una fotografia dozzinale, sciatta, in qualche caso addirittura infame. Non stiamo sparlando di cine-panettoni, ma di titoli rinchiusi a doppia mandata nelle bacheche di migliaia e migliaia di entusiastici cinéphile.

Francis Ford Coppola e Vittorio Storaro.

Naturalmente ci sono anche film con immagini di straordinaria magia visiva, ma che dal punto di vista script, regia o recitazione sono autentici disastri. Forse l’esempio più clamoroso di questa sottocategoria è stato l’esordio cinematografico del compianto Tony Scott: il titolo era The Hunger (distribuito in Italia con la solita rinominazione demenziale dell’epoca, Miriam si sveglia a mezzanotte). Considerando l’anno di uscita (1983), il cast, la costumista, la musica introduttiva e la fotografia erano di lusso: David Bowie, Catherine Deneuve, Susan Sarandon, Willem Dafoe, Milena Canonero, i Bauhaus, Stephen Goldblatt. Eppure, nonostante le splendide immagini inventate dal direttore della fotografia sudafricano, non era altro che un horror movie sessista e misogino, di rara lentezza e banalità.[5]


Prima che alcuni grandi “scrittori della luce” si profilassero come consapevoli co-autori di un’opera cinematografica, per lunghi decenni nei titoli di testa i loro nomi furono elencati in mezzo alla ciurma della mera manualità – insieme a chi si occupava del montaggio, del suono, del guardaroba, del trucco.


Quando, alla fine degli anni ’60, i vari Midnight Cowboy, Easy Rider, Bob & Carol & Ted & Alice, M*A*S*H, Rosemary’s Baby, Bonnie and Clyde, Non si uccidono così anche i cavalli? (tutti film che oggi si considererebbero indie) spostarono le attenzioni produttive dal mondo family a quello molto più ricettivo dei juveniles, piano piano lo star system, alimentato dai media, prese a muoversi anche in direzione della regia indipendente, della colonna sonora trendy, della fotografia di qualità. Ed ecco profilarsi, tra un pubblico sempre più giovane, una nuova consapevolezza estetica che ai tempi di Via col vento, Duello al sole, I dieci comandamenti, Ben-Hur, Quo Vadis?, Il ponte sul fiume Kwai non era neppure lontanamente immaginabile.


Jean-Louis Trintignant (sopra) e Stefania Sandrelli illuminati da Storaro per Il conformistadi Bernardo Bertolucci.


Nella seconda metà del secolo scorso, il pubblico cominciò finalmente a percepire e apprezzare il valore della fotografia. Barry Lyndon, I giorni del cielo, Il cacciatore, Apocalypse Now, Manhattan, Toro scatenato, Mission, Schindler’s List, Il padrino, La sottile linea rossa non erano solo ottimi film, ma anche gran bei pezzi di storia, di vita, di drammaturgia – da osservare, ammirare, celebrare, memorizzare.


Fu un periodo di innovazioni impressionanti. Anche i grandi studios cominciarono a convertirsi agli esterni “veri”, lasciando perdere – sempre di più – i backlot dei loro megateatri. Una volta individuate le location – non sempre comode, ma palesemente più reali, – i sopralluoghi, le previsioni meteo, il controllo del percorso solare dall’alba al tramonto, il prelighting diventavano fasi essenziali del processo produttivo. Le riprese esterne imponevano un’autentica svolta di pensiero: occorreva cambiare il modo di programmare l’organizzazione, il timing, la logistica. Diventava indispensabile, ad esempio, l’uso di generatori di corrente (spesso alimentati da potenti e silenziosi motori Rolls-Royce), che a loro volta esigevano tecniche di insonorizzazione sempre più raffinate. Ricorrere al know-how sviluppato con le macchine da presa “blimpate” diventò un’astuzia impossibile da ignorare.

Stanley Kubrick (a destra) e Garrett Brown, l’inventore della Steadicam, sul set di The Shining.

L’invenzione della Steadicam, a metà degli anni settanta, da parte del genio ingegneristico-fotografico Garrett Brown, consentì agli operatori di sostituire gran parte delle carrellate su binario ad altezza uomo (sempre complesse e lente da preparare, provinare e smontare), con agili e ravvicinati piani sequenza “umani”, facilmente e rapidamente ripetibili. E questo con l’impiego di troupe di gran lunga meno numerose e costose.[6] Il primo lungometraggio realizzato con questo tool rivoluzionario fu Questa terra è la mia terra (bio-pic sul folk singer Woody Guthrie), diretto da Hal Ashby e fotografato da Haskell Wexler (1976). L’anno successivo il film vinse l’Oscar per la migliore fotografia, oltre che per la migliore colonna sonora.


Prima che Stanley Kubrick, quattro anni più tardi, riscrivesse gran parte della sceneggiatura per il mitico The Shining dopo aver attentamente studiato le mirabili e rivoluzionarie opzioni tecniche offerte della Steadicam, uscirono quattro altri lungometraggi il cui successo fu ampiamente determinato dall’invenzione di Garrett Brown: Il maratoneta di John Schlesinger, Rocky di John G. Avildsen, Halloween, la notte delle streghe di John Carpenter e Convoy - Trincea d’asfalto del combattivo loner Sam Peckinpah. Finalmente, nel 1979, Kubrick si decise a utilizzare la nuova diavoleria di Brown nella maniera che ormai tutti sappiamo. A detta dello stesso ideatore/operatore, dopo quell’esperienza condivisa con Kubrick, mai più un altro regista avrebbe raggiunto un tale grado di perizia e padronanza stilistica nell’uso della sua invenzione.

John Alcott e Stanley Kubrick al lavoro per The Shining.

Forse il piano-sequenza più citato, ottenuto grazie al virtuosismo tecnico/atletico dell’operatore steady Andy Shuttleworth, è l’inizio di Boogie Nights, realizzato nel 1997 da Paul Thomas Anderson con la fotografia di Robert Elswit: per la prima volta si vedeva un magico passaggio da un esterno notte urbano al caos, infernale e semibuio, di una location interna.[7]


Va detto però, non senza una certa dose di disincanto, che trentanove anni prima, nel 1958, in diabolica combutta tecnica e artistica con il direttore della fotografia Russell Metty e dell’operatore alla macchina Philip H. Lathrop (che a sua volta sarebbe poi diventato un grande direttore della fotografia con titoli come  Colazione da Tiffany, Senza un attimo di tregua, Non si uccidono così anche i cavalli?, Driver, l’imprendibile), l’immenso Orson Welles aveva già stupito il mondo (e continua a stupirlo ancora oggi) con un incipit di inaudita bellezza e complessità. Fu un prodigio di virtuosismo, con risultati del tutto imprevedibili e, sia visivamente che metaforicamente, profondamente noir, senza alcun mezzo che assomigliasse solo alla lontana all’appena osannata Steadicam. L’opening long shot de L’infernale Quinlan, creato con mezzi tecnici assolutamente tradizionali (piattaforma con dolly), è stato rivisto, simulato, analizzato e celebrato da chiunque ami il cinema… non importa se di qua o di là di un ciak, dentro o fuori una sala casting, lontano o sopra un qualsiasi tappeto rosso.

Orson Welles e Gregg Toland (seduto) sul set di Quarto potere.

Nella versione voluta da Welles, proprio per assegnare al “suo” opening shot tutta la magia che quell’intro meritava, il titolo e i credit sarebbero apparsi solo alla fine del film. Perciò l’unica versione originale e autentica di quella magnifica sequenza di 5.016 immagini in bianco e nero (per un’eternità di 3 minuti + 29 secondi), è questa: senza alcun titling o sovraimpressione di truka, che invece i boss della Universal avevano imposto alla prima versione uscita negli States.[8]


Non è invece un caso che nell’opening shot più lungo della storia del cinema, durante gli otto minuti e dieci secondi iniziali de I protagonisti (The Player, 1992), i reali “protagonisti” del plot commentassero animatamente proprio la mitica scena iniziale di Orson Welles. Per esasperare da subito il lato straniante di questo storico pezzo di cinema nel cinema, la primissima inquadratura mostra la battuta di un ciak del film che stiamo per vedere dove, oltre al solito titolo, alla data e ai codici tecnici della scena, leggiamo i nomi del regista Robert Altman e del direttore della fotografia canadese Jean Lépine. Secondo la testimonianza del regista, si trattò di un entusiasmante take unico che aveva richiesto un solo giorno di prove, l’uso di 11 microfoni e appena 14 ripetizioni – tutte quante effettuate in una splendida domenica mattina dell’estate 1991. Oltre al virtuosismo registico, recitativo e della squadra che gestiva la macchina da presa, l’aspetto più sensazionale di quell’avvenimento consiste nel fatto che, da quanto raccontava lo stesso autore, i dialoghi erano tutti quanti improvvisati.[9]


A parte l’eccezionalità tecnica di questa scena, dal punto di vista meramente “fotografico” non l’avrei mai inclusa in una list di qualità visiva sublime. I movimenti e il coordinamento con gli attori sono strepitosi, ma la luce è esattamente quello che in quel momento passava il convento, cioè il sole. Infatti, a parte il suo successivo contributo fotografico a uno dei film più brutti di Altman (Prêt-à-porter), di Lépine non si è più parlato.

Un interno di Barry Lyndon. Evidenti le citazioni – luminose e compositive – della pittura settecentesca.


Si continua invece a parlare, con sempre più ammirata partecipazione, di come siano nate le suggestive scene a lume di candela di Barry Lyndon. Kubrick sapeva bene che, con le pellicole Eastman 5247 100T e gli obiettivi più luminosi di allora, quelle scene da lui sognate non avrebbero mai potute essere riprese senza alcuna aggiunta di luce artificiale. La conquista della luna era un’esperienza ancora recente, e Kubrick venne a sapere che dei dieci Planar 50mm con la sensazionale luminosità 1 : 0,7 ordinati dalla NASA alla Zeiss, l’ente spaziale americano ne aveva ritirati solo sette. Il regista si assicurò gli altri tre e si mise in contatto con Ed Di Giulio (il tecnico che insieme a Garrett Brown aveva sviluppato la Steadicam), per far collimare otticamente questi incredibili Zeiss ad uso esclusivamente fotografico con due macchine da presa Mitchell BNC, già acquistate e utilizzate per Arancia meccanica. Insieme al direttore della fotografia John Alcott, l’ambizione di riuscire a girare in condizioni talmente pittoriche ed estreme da suscitare incredulità, era nata quando Kubrick stava preparando un bio-movie su Napoleone che purtroppo non avrebbe mai “visto la luce” nel firmamento cinematografico. Ma intanto, il dado era tratto. Sebbene allora, sia dalla critica che al botteghino, Barry Lyndonnon avesse riscosso un grande successo, oggi i dieci anni di stretta complicità artistica e tecnica tra Kubrick e Alcott (Arancia meccanica, Barry Lyndon, Shining) hanno per sempre segnato la storia della fotografia cinematografica – e forse del cinema tout court.

Una delle sequenze in esterni di Barry Lyndon.

È naturale che Alcott diventasse una leggenda come autore di interni mai visti prima, ma sarebbe profondamente ingiusto non riconoscergli una pari maestria nelle riprese di esterni. Memorabili i paesaggi ammirati nello stesso Barry Lyndon, ma anche nei film di guerra Operazione Overlorde Sotto tiro e, soprattutto, nell’eco-movie basato sull’epico romanzo di Edgar Rice Burrough Greystoke di Hugh Hudson, dove per gran parte del film la giungla africana fa da sfondo magico alla leggenda dell’uomo-scimmia Tarzan.


Nel 1974, appena un anno prima che il talento di Alcott rimescolasse completamente i parametri della luce “naturale”, un altro gigante del lightingaveva scosso la scala valori della tribù che ama sedurre – e farsi sedurre – dalla magia della (finta) luce naturale: Gordon Willis. Nel 1972 usciva il primo capitolo della saga de Il padrino. Il mondo fu scosso dalla conferma cinematografica di un romanzo di enorme successo popolare, dall’esaltazione di un brutale e sadico machismo mai visto prima nel cinema americano, dall’insperato ritorno di un enorme talento ormai dato per perso (Marlon Brando). Questi fattori oscurarono, in parte, l’immenso contributo tecnico e formale che Willis aveva conferito a quel film. Con l’uscita del secondo capitolo non solo i critici e gli addetti ai lavori, ma chiunque corresse nelle sale a vedere il solito sequel “deludente”, furono scioccati dalla magia e dalla bellezza delle immagini che Willis era riuscito a ri-creare. Forse mai prima di allora ­– almeno in un film a colori – il pubblico s’era reso conto di quanto contassero l’atmosfera, la mimica, i silenzi descritti ed esaltati da una luce allo stesso tempo così intima, insinuante e violenta.

Gordon Willis al lavoro per Io & Annie di Woody Allen.

Ciò che Willis era riuscito a realizzare in quei film andava ben oltre la bella fotografia. In parecchie scene interne, quell’apparente naturalezza ­– allo stesso tempo magica, tragica e cupa, – era stata ottenuta grazie a una non-illuminazione di rara ricercatezza e complessità: interi ambienti erano descritti solo grazie alle luci emanate dalle lampade inquadrate e riconoscibili nell’ambiente. Una sfida artistica, tecnica e persino psicologica, che prima di allora nessun altro dei suoi colleghi era mai riuscito a portare a livelli tanto inattesi e raffinati.


Che Willis (nonostante abbia “illuminato” anche gran parte dei migliori film di Alan J. Pakula e Woody Allen), non abbia mai vinto l’Oscar per la migliore fotografia, rimane una ferita per chiunque ami il cinema di qualità.

Marlon Brando in The Godfather di Francis Ford Coppola. Direzione della fotografia di Gordon Willis.

È un’ingiustizia che, in proporzioni forse ancora più assurde, a tutt’oggi condivide con lui il grande Roger Deakins. Il quale (è il caso di scriverlo) ha firmato la fotografia di una lunga serie di capolavori realizzati da Michael Apted, Ethan e Joel Coen, Frank Darabont, Mike Figgis, Paul Haggis, Agnieszka Holland, Ron Howard, Norman Jewison, David Mamet, Sam Mendes, Bob Rafelson, Tim Robbins, John Sayles, Martin Scorsese, M. Night Shyamalan. Fino a oggi, su un totale di ben dodici nomination, Deakins non ha ancora vinto un solo Oscar.


© Till Neuburg


(Scrittori di luce, 1 – Continua)

I fratelli Coen con Roger Deakins sul set di Non è un paese per vecchi.


Una scena di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. 
Alla fotografia si alternarono Geoffrey Unsworth e John Alcott.



[1]René Magritte, La trahison des images, olio su tela, 1929.

[2]Battuta di un personaggio nel film Le petit soldat di Jean-Luc Godard, 1960.
[3]Dal documentario Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese, 1995.
[4]V. Storaro, Scrivere con la luce / Writing with Light, a cura dell’Accademia dell’immagine dell’Aquila. Milano: Electa, 2001.

[5]https://www.youtube.com/watch?v=7a6YFwC2zKA
[6]La steadicam è un’attrezzatura mobile di ripresa montata su un corpetto. “Indossata” dall’operatore, gli consente ampia libertà di movimento assicurandogli la stabilizzazione dell’immagine.

Luce del nord

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Un fotogramma de I giorni del cielo di Terrence Malick (Days of Heaven, 1978). 


Scrittori di luce/2 

(Se non lo hai ancora fatto, leggi la prima parte.)

di Till Neuburg

Néstor Almendros (a destra) con François Truffaut, probabilmente sul set di Adele H. – Una storia d’amore(1975).
© N. Almendros, Un homme à la caméra, Hatier 1980.



Un altro gigante della fotografia, lo spagnolo Néstor Almendros, che invece un Oscar l’aveva preso (per I giorni del cielo, secondo film di Terrence Malick), è considerato un autentico pittore di esterni. Prima di iniziare le riprese, il regista gli parlò a lungo delle opere di Vermeer, Andrew Wyeth ed Edward Hopper. Concordarono di riprendere tutte le scene esterne a luce esclusivamente naturale, e finirono poi per girare quasi sempre solo di prima mattina e al tramonto, moltiplicando in tal modo i problemi produttivi. Oltre a creare incantesimi con la fotografia, Almendros si mostrò geniale nell’ideazione di artifici tecnici di particolare inventiva: per la scena della biblica invasione di cavallette, propose di far muovere nell’aria milioni di gusci di noccioline, agitati dal vento delle pale di due elicotteri fuori campo. Per far sì che nel montaggio le finte locuste non si muovessero dall’alto verso il suolo ma in senso contrario, decise di riprenderle con la macchina da presa in marcia reverse, obbligando gli attori in campo a camminare all’indietro. Come previsto, nell’edizione finale tutti i movimenti risultarono perfettamente naturali. Le ricercatezze di questo tipo, e i tempi morti fra le albe e i tramonti, dilatarono i tempi di produzione fino a mettere fuori gioco lo stesso Almendros. L’impegno con Malick non  era ancora terminato quando dovette, per un contratto già firmato, mollare tutto e passare alla realizzazione di un progetto successivo. Fu lui stesso a risolvere il problema, facendosi sostituire – per le scene da completare – da un collega più che affidabile: Haskell Wexler.


Andrew Wyeth, Christina’s World, tempera su pannello, 1948. New York, The Museum of Modern Art.



Edward Hopper, House by the Railroad, olio su tela, 1925. New York, The Museum of Modern Art.


Per capire e apprezzare fino in fondo da dove tutti questi maestri siano partiti, disertiamo per un momento le amatissime sale e le nostre collezioni DVD  per compiere un breve tour guidato in un museo immaginario. A differenza dello sfarzoso e spesso “estroverso” Rinascimento italiano, la pittura fiamminga penetra un mondo tendenzialmente chiuso, intimo, domestico, raccolto quasi sempre in un interno. Le figure umane, quando ci sono, sono spesso impegnate in azioni – di lavoro, accademiche, familiari – che non si svolgono in campo aperto ma al riparo dal sole: in studi, botteghe, quiete abitazioni. I commercianti, gli scienziati, i padri di famiglia delle Fiandre – e le loro devote donne – li vediamo sempre immersi in momenti di lettura, d’ascolto, di studio, di meditazione. Le energie che li guidano sono il dovere, la fede, il lavoro. La luce che li avvolge non è mai splendente. Il raggio, lo squarcio, il fascio luminoso che ispira quelle silenti pennellate non arriva direttamente dal sole, ma da una finestra che spesso non è nemmeno inquadrata. La luce non è diretta, illuminante, frontale, ma inevitabilmente incidentale, laterale. E come succede con gli ambienti, anche i volti sono accarezzati da mezze luci, barlumi, chiaroscuri, penombre. È come se di sé stessi amassero parlare solo in terza persona. Non è un mondo dominato dall’io e dal tu, ma dal discreto bisbiglio del noi.


Jan Vermeer, L’astronomo, olio su tela, 1668. Parigi, Musée du Louvre.


Quando i ritrattisti inglesi dell’Ottocento iniziarono a sostituire il pennello e la tela con i dagherrotipi, gli sembrò naturale ispirarsi alla pittura dei loro antichi dirimpettai d’Oltremanica. Il timido sole londinese non era diverso da quello di Amsterdam, di Leida o di Delft: una fonte di vita esterna, nordica, indiretta, a volte persino evitata. Più tardi, nell’era della fotografia moderna, l’avrebbero semplicemente chiamata North light. Luce del nord, del primo mattino o del repentino imbrunire, spesso e volentieri filtrata dalla bruma o da mutevoli nuvoloni.


Mentre in tutto il mondo il cinema amava sfavillare di luce propria – diretta, esaltante, drammatica, teatrale, – negli studi inglesi di Pinewood, di Ealing, della Rank e della BBC si preferiva simulare la luce naturale, quella che ogni tanto riesce a squarciare i banchi di nebbia sopra il Tamigi, che entra discretamente dalle finestre di Westminster o di una qualsiasi dimora borghese. In Italia, non sempre convinti di quanto vedevano fare a teatro, nel cinema dozzinale e alla Rai, molti di noi presero a identificare la bella fotografia con la luce inglese. Che altro non era se non quella del cinema, degli spot, della televisione britannica di allora: niente proiettori, nessuna luce diretta, assenza di qualsiasi illuminazione totale o frontale. Memori di quanto avevano visto nei ritratti fotografici dei loro nonni – e prima ancora negli interni dei vari Gerard ter Borch, Antoon van Dyck, Frans Hals, Pieter de Hooch, Gabriel Metsu, Rembrandt van Rijn, Jan Steen e soprattutto dell’immenso Jan Vermeer, – i lighting cameramen inglesi illuminavano i loro interni con un finestrone sostitutivo, ricostruito, che loro chiamavano semplicemente bank. Era un elementare parallelepipedo bianco, con dentro fonti di luce a incandescenza oppure al neon; all’esterno, una delle facce era ricoperta da un velo di carta semitrasparente. Ed era proprio questo lato, attraverso il quale filtrava la luce indiretta come quella di una finestra appena velata da una tenda, che fungeva da fonte misteriosa di luce naturale. A illuminare la scena (un ambiente, un volto, un oggetto, una natura morta, una tavola imbandita), quei dannati inglesi ci mettevano sempre pochissimo tempo e, soprattutto, consumavano meno corrente elettrica, evitando il noleggio dei soliti proiettori, costosi quanto ingombranti. Nella fotografia dei nostri spot i primi ad aver capito, assimilato e talvolta persino perfezionato la sapienza e la semplicità dei colleghi britannici, sono stati il romano Claudio Collepiccolo e i milanesi Marcello Fracca e Dido Mariani. Naturalmente era una fotografia on the edge: rischiosa, estrema, a volte addirittura al limite della percezione.


Alexander Bassano, Ritratto della regina Vittoria, 1882.



Julia Margaret Cameron, Charles Darwin, 1868. 


Nel nostro cinema, questo percorso è interamente riconducibile all’immenso talento di Vittorio Storaro: forse il primo italiano ad aver saputo tradurre, in modo creativo, un know how sostanzialmente bianco e nero nel complesso e dominante colonialismo tecnico del Technicolor. Storaro aveva scovato e incoraggiato, in uno stabilimento che ne portava il nome, Ernesto Novelli Rimo, datore luci di straordinario coraggio e sensibilità. Grazie a un sofisticato procedimento chimico da lui inventato (ENR), Novelli Rimo riusciva a controllare, in modo molto più efficace del solito, il contrasto e la saturazione cromatica laddove serviva esaltare i segni e contorni sagomanti del nero. Fu anche grazie a questo ricercatissimo procedimento che, nel 1982, il kolossal storico Reds di Warren Beatty con la fotografia di Storaro stravinse l’Oscar per la Best cinematography.


Una inquadratura di Reds, di e con Warren Beatty. Fotografia di Vittorio Storaro.


Tanto tempo prima, quando invece il colore veniva ancora espresso in tutte le sue immaginabili e inimmaginabili “sfumature di grigio”, la cultura cinematografica più influente parlava ancora prevalentemente la lingua di Kafka, Walter Gropius e Sigmund Freud. Fu a Berlino e a Vienna che s’accesero le prime scintille della Hollywood più grandiosa: William Dieterle, Henry Koster, Ernst Lubitsch, Max Ophüls, Otto Preminger, Robert Siodmak, Douglas Sirk, Erich von Stroheim, Edgar G. Ulmer, Billy Wilder erano tutti fuorusciti da una forza del male che stava adombrando non solo le patrie di Beethoven e Mozart, ma un intero continente.

C’è una catena estetica che connette gli ideali del romanticismo mitteleuropeo alla retorica del nazismo, al di là delle ovvie differenze storiche e morali fra i due periodi. Un fil rouge che ha generato non solo Der junge Werther di Goethe, la Toteninsel di Arnold Böcklin, il Lohengrin di Wagner, Der Untergang des Abendlandes di Oswald Spengler, Der Steppenwolf di Hermann Hesse, ma anche Triumph des Willens di Leni Riefenstahl. Tra intricati ma contigui estremi storici, filosofici ed esistenziali, andò a incunearsi un periodo estetico ed espressivo che in meno di vent’anni avrebbe generato – e molte volte accomunato – il movimento Dada, l’Euritmia, Die Brücke, la Dodecafonia, l’Espressionismo, l’Antroposofia, Die Neue Sachlichkeit, Der Blaue Reiter, la Bauhaus… e, selbstverständlich, il cinema dei vari Karl Freund, Fritz Lang, Carl Mayer, Friedrich Wilhelm Murnau, Georg Wilhelm Pabst, Josef von Sternberg e Robert Wiene, praticamente tutti a libro paga del colosso produttivo UFA di Berlino.


È lì, nei pochi anni intercorsi tra il Trattato di Versailles del 1919 e la presa di potere di Hitler nel 1933, che si cela l’imprinting visuale del mystery, del thriller, dell’epico crime & cop movie americano, un genere cinematografico e fotografico che si è sempre distinto, in modo cupo e ossessivamente estetizzante, nell’esaltazione degli incubi, delle colpe, della perversa e ineluttabile contiguità tipicamente americana tra bugia e vulnerabilità, tra brama di potere e amore perdente, tra i sacrifici epici dei padri e i tradimenti dei figli, tra la solitudine dei tanti e l’eroismo del cavaliere solitario.


La matrice culturale tedesca è stata, per il cinema americano, un’autentica scuola di coming out visivi e fotografici: confessati, proiettati e moltiplicati ovunque, nei nickelodeon e a Broadway, nei drive-in e sul Sunset Boulevard. Tra il Giovedì nero del 1929 e le blacklist del senatore McCarthy, quella visione – importata dal vecchio continente e presto assorbita – non poteva che essere etichettata con un perentorio europeismo: noir. Nero come l’ombra, il lato oscuro, l’incubo, il malcelato, l’altro. Ma nero anche come percezione e condivisione della purezza del black and white.


A metà strada tra il crollo borsistico di New York e la conclusione tragica delle paranoie maccartiste, nel 1940 un giovanotto appena ventiquattrenne, affascinante, presuntuoso e geniale firmò un contratto con la major RKO. Per il suo esordio cinematografico gli veniva assicurata carta bianca totale, che però si sarebbe pian piano tramutata in una pagina nera della censura e della libertà.


Il soggetto concordato prevedeva una sorta di shoot out tra l’establishment americano e chi invece cercò di smascherarne gli infiniti opportunismi, devianze e corruttele: cioè lo stesso autore del film. Ciò che il proprietario della casa di produzione (Joseph P. Kennedy, il padre del futuro presidente degli USA) non poteva sapere è che il film avrebbe preso una piega politicamente scomoda. Il Kane di Welles non si sarebbe rivelato come un citizen eroico ed edificante, ma come la controfigura paranoide e malefica di un vivente e potente tycoon. Uno che all’epoca possedeva 28 giornali con una tiratura totale di oltre 20 milioni di copie: William Randolph Hearst. Quando il magnate seppe del progetto, prima fece di tutto perché Quarto potere non si producesse, e poi che non lo si proiettasse nelle sale controllate dalle sue numerose società. E infine, che gli venisse negata l’assegnazione dell’Oscar come miglior film: trionfo che invece tutti gli altri media e la stessa Hollywood avevano ampiamente dato per scontato.
Luci e ombre di Gregg Toland in Quarto potere.

Il giovane Welles s’era imbarcato in una faccenda che avrebbe ben presto superato i contorni di un semplice film. Per esaltare al massimo l’impatto del suo confronto impari con uno dei più potenti magnati del capitalismo americano, Welles mise insieme un autentico dream team: per lo script coinvolse Herman J. Mankiewicz (grazie al quale, su un totale di ben nove nomination, il film avrebbe poi vinto l’unico Oscar); per la musica scritturò Bernard Herrmann (futuro autore delle colonne di La donna che visse due volte, Intrigo internazionale, Psycho, Taxi Driver); per il montaggio coinvolse Robert Wise (prossimo regista di Ultimatum alla terra, Lassù qualcuno mi ama, Non voglio morire, Strategia di una rapina, West Side Story, Gli invasati, Tutti insieme appassionatamente); quanto alla fotografia, volle a tutti i costi la complicità tecnica e professionale di un gigante: Gregg Toland.


Per tanti successi dei vari William Dieterle, John Ford, Howard Hawks, Mervyn LeRoy, Rouben Mamoulian, Leo McCarey, Erich von Stroheim, King Vidor e William Wyler, Gregg Toland aveva già inventato e messo in pratica una quantità di accorgimenti tecnici che avrebbero reso possibile e perfetto un prodigio: la messa a fuoco su più piani di visibilità. Lontano dagli studi, Toland era un giovane professionista, timido e gentile; ma sul set diventava temerario e sicuro di sé, un autentico rivoluzionario in un ambiente rigidamente controllato da codici e rituali di uomini di mezza o addirittura di avanzata età.


All’epoca, i direttori della fotografia erano ancora considerati poco più che dei semplici tecnici esecutivi al servizio dei mogul delle società di produzione e dei registi. Nei titoli di testa il loro nome figurava solo nell’elenco finale, insieme a quelli di chi curava mansioni secondarie tipo montaggio, costumi, trucco. Più che come co-autori di un’opera artistica o d’intrattenimento, i cinematographers erano pagati per risolvere, al pari di chi si occupava del make-up e nel minor tempo possibile, problemi scenografici e di bassa praticità; gli toccava dissimulare gli accrocchi tecnici troppo pacchiani, per esempio, e soddisfare le bizze delle star. L’illuminazione era praticamente fissa, generale, sempre gestita dal soffitto. Nelle scene interne, sempre allestite nei teatri di posa (le location erano praticamente sconosciute, tutto veniva ricostruito negli studios), questo implicava che l’inquadratura non si alzasse mai oltre l’altezza delle pareti. La luce fissa e l’esclusione di inquadrature verso l’alto erano inevitabili must. Solo con l’arrivo di gente come Toland, e di pochi altri, il ruolo del direttore della fotografia iniziò a guadagnare punti nella gerarchia sui set.


Oltre ad avere una padronanza fotografica ed estetica fuori dal comune, Toland era un mago dell’ottica, nell’uso dei fuochi, della doppia esposizione della pellicola, dei trucchi optical e di cosa si potesse ottenere in fase di sviluppo. L’uso di obiettivi a focale media o tele riduceva drasticamente la profondità di campo; mettere a fuoco contemporaneamente un primo piano e qualcosa che fosse distante solo qualche metro era un problema insormontabile. Solo l’impiego di ottiche grandangolari consentiva di riprendere in modo leggibile delle scene multipiano, con il rischio, però, di inquadrare anche i maledetti soffitti – dove erano piazzate le luci. Con Quarto potere tutto cambiò: Toland spostò le fonti luminose dal soffitto verso il basso, illuminò molte scene da posizioni laterali (aumentando così l’effetto drammatico della fotografia) e, sempre più d’accordo con il complice Welles, abbassò spesso la macchina da presa persino a livello pavimento. Solo così potevano ottenere quell’effetto di cupa grandiosità degli ambienti che contraddistingue parecchie scene di quel film.


Quando nel 2006, oltre mezzo secolo dopo la sua morte, il congresso Cine Gear Expo – dedicato alla fotografia cinematografica – organizzò un’inchiesta tra i più importanti direttori della fotografia del mondo, per individuare quali fossero stati i loro colleghi, viventi o deceduti, che avessero influenzato maggiormente la loro carriera, tutti quanti, senza eccezione alcuna, misero Gregg Toland in cima alla loro lista.

Sebbene Toland avesse fotografato anche due film a colori (The Kid from Brooklyn del 1946 e A Song Is Born del 1948), la sua visione del mondo era sempre stata in chiaro-oscuro. A tal punto che, secondo lui, il colore non avrebbe mai potuto spodestare il dominio del black and white. Naturalmente si sbagliò, ma in un certo senso aveva anche ragione: proviamo a immaginare di rivedere La battaglia di Algeri, L’ultimo spettacolo o Toro scatenato a colori. Sarebbe come ascoltare le Variazioni Goldberg eseguite con un Moog, o ammirare la Dama con l’ermellino sul display di un iPhone.


Il primo lungometraggio a colori, proiettato nelle sale americane, fu un documentario del 1935, intitolato Legong: Dance of the Virgins. Un film etno-erotico muto, della durata di 65 minuti, fotografato dal tre volte vincitore di Academy Award per la migliore fotografia, W. Howard Green. È stato restaurato nel 1999 e oggi è disponibile in DVD. Da quella programmazione negli USA sono trascorsi esattamente ottant’anni; e da allora la dolce morte dei film in bianco e nero è stata annunciata innumerevoli volte, ma pare che l’eutanasia non abbia ancora funzionato. Ecco un elenco di (grandi) film in bianco e nero, usciti a partire dal 1965, cioè da mezzo secolo fa – quando il colore era ormai diventato lo standard, ovvio e quasi dovuto, della fotografia cinematografica:


La battaglia di Algeridi Gillo Pontecorvo (1965)

Repulsion di Roman Polanski (1965)

Agente Lemmy Caution, missione Alphaville di Jean-Luc Godard (1965)

Au hasard Balthazardi Robert Bresson (1966)

Andrej Rublev di Andrei Tarkovsky (1966)

Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols (1966)

Persona di Ingmar Bergman (1966)

La notte dei morti viventi di George A. Romero (1968)

Volti di John Cassavetes (1968)

Se… di Lindsay Anderson (1968)

L’ultimo spettacolodi Peter Bogdanovich (1971)

Solaris di Andrei Tarkovsky(1972)

Paper Moon di Peter Bogdanovich (1973)

Frankenstein juniordi Mel Brooks (1974)

Lenny di Bob Fosse (1974)

Stalker di Andrei Tarkovsky (1979)

Manhattan di Woody Allen (1979)

The Elephant Man di David Lynch (1980)

Toro scatenato di Martin Scorsese (1980)

Zelig di Woody Allen (1983)

Daunbailò di Jim Jarmusch (1986)

Schindler’s List di Steven Spielberg (1993)

Ed Wood di Tim Burton (1994)

Clerks di Kevin Smith (1994)

Dead Man di Jim Jarmusch (1995)

L’odio di Mathieu Kassovitz (1995)

Pleasantville di Gary Ross (1998)

Pi greco - Il teorema del delirio di Darren Aronovsky (1998)

American History Xdi Tony Kaye (1998)

The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez (1999)

L’uomo che non c’eradi Ethan e Joel Coen (2001)

Good Night, and Good Luck di George Clooney (2005)

Sin City di Frank Miller e Robert Rodriguez (2005)

The Mist di Frank Darabont (2007)

Il nastro bianco di Michael Haneke (2009)

The Artist di Michel Hazanavicius (2011)

Nebraska di Alexander Payne (2013)


Per non passare per nostalgico dei bei tempi o per un officiante di roba vintage oppure per un rabdomante dell’ultima trovata trendy, torniamo a parlare ­– benissimo – del colore. Al contrario di quanto abbiamo detto riguardo ai valori visivi di La battaglia di Algeri, L’ultimo spettacolo e Toro scatenato, proviamo a immaginare di rivedere I giorni del cielo, Apocalypse Now o Incontri ravvicinati del terzo tipo in un’edizione cromaticamente neutralizzata fino a dimenticare di che colore fossero la casa di Sam Shepard, il capellaccio di Robert Duvall o gli occhi increduli di Richard Dreyfuss. Il risultato non sarebbe solo un profondo stordimento, ma prima ancora un tradimento.


Esattamente come abbiamo fatto per esaltare la magia, il realismo e la bellezza fotografica di alcuni film in bianco e nero, potremmo tranquillamente celebrare il mistero, la poesia, la crudeltà visiva e le raffinatezze cromatiche di tante opere girate a colori. Potrebbe essere una compilation molto ricca, forse non proprio infinita ma comunque tostissima, altissima, purissima. A mettere giù un tale genere di lista della spesa ci hanno già pensato in tanti: nel web ce n’è per tutti i gusti e disgusti. A me, piuttosto che elencare la solita raccolta di filmoni fotografati bene, mi premeva individuare, setacciare e ordinare una categoria di co-autori che, secondo me, in molti casi sono stati addirittura più meritevoli dei registi che li hanno coinvolti. O che sono, quantomeno, alla loro pari.


Mi sembra una ricerca decisamente più rivelatrice, inattesa, trasversale.


Per ciascuno di questi miei eroi ho elencato le battaglie dalle quali sono usciti vincitori. Chi non è mai stato a soffrire/gioire su un set (ovviamente dalla parte giusta: non di fronte alla macchina da presa o, addirittura, a sgomitare davanti a un monitor di controllo per conto terzi), non si rende conto di che tipo di direttore sia colui che dirige il traffico sempre difficile, faticoso, teso, con l’operatore alla macchina, gli assistenti per il controllo del fuoco e il caricamento degli chassis, gli elettricisti, l’attrezzista, i truccatori… per non parlare del director in persona… Uscire da questi continui esami non solo illesi, ma addirittura soddisfatti, rafforzati e vincitori, significa aver conquistato un palmarès quasi anonimo, discreto e individuale.


Sapere che anche in Italia con questo tipo di combutta non si è sempre stati soli, è una soddisfazione non da poco. Nell’anno di Pink Floyd: The Wall, La scelta di Sophie e Blade Runner, a Milano un regista e un produttore di spot, Massimo Magrì e Sergio Lentati, si misero a registrare e montare una serie di documentari dal nome apparentemente new age, ma che in realtà era un’autentica sfida al nostro establishment cinematografico, pubblicitario e televisivo. Six Kinds of Light non fu solo un tributo all’illuminazione e all’illuminismo, ma anche una magnifica provocazione. Il cast non era particolarmente giovanile, ma decisamente internazionale. Nei credit si leggevano i nomi di un inglese, di uno svedese, di due italiani, di un americano e di un esule ungherese: John Alcott, Sven Nykvist, Giuseppe Rotunno, Vittorio Storaro, Gordon Willis, Vilmos Zsigmond.


Era un’operazione non profit, di respiro internazionale. Per poter rivedere quei pezzi di storia, la nostra tv pubblica potrebbe rivolgersi a Federica Sciarelli, magari aggiornando il titolo in: Sei esempi di luce e 33 anni di oscuramento culturale.


T.N.


(Scrittori di luce, 2 – Continua)


Richard Gere e Brooke Adams ne I giorni del cielo.



Filmografie illuminate

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Una immagine da Olympia di Leni Riefenstahl, 1938.


Scrittori di luce


di Till Neuburg

(Per le puntate precedenti, vedi Scrittori di luce/1 e Luce del nord).

Segue un tributo, commosso e strettamente individuale, a chi ha reso ancora più bello, magico ed eccitante il mio infinito trip nel magnifico chiaro-scuro dell’immaginazione. 

Nella circostanza, mi sembra corretto anteporre un breve commento sui kolossal nazisti di Leni Riefenstahl, fotograficamente straordinari. Più che avvalersi di un direttore della fotografia, la regista tedesca usava mettere insieme un team di validi operatori che eseguivano i suoi ordini, sempre insoliti, precisi e perentori. Che la Riefenstahl avesse un gusto fotografico particolarmente attento e raffinato lo dimostra anche il fatto che in età avanzata, parecchio tempo dopo la conclusione della sua carriera cinematografica come attrice, produttrice e regista, si sarebbe messa a scattare reportage di superba bellezza sul popolo Nuba africano e avrebbe preso il brevetto di diving per realizzare libri di grande fascino sulle barriere coralline. In sostanza si può tranquillamente sostenere che il vero direttore della fotografia de Il trionfo della volontà e di Olympia fosse stata la regista stessa.

Per alcuni autori ho tralasciato di citare film famosi e osannati, semplicemente perché, dal punto di vista della cinematography, non li considero degni di essere ricordati. Vale come esempio il grande Robert Surtees, del quale ho deliberatamente censurato una serie di blockbuster che non dimenticheremo mai: Oklahoma, Quo Vadis?, Ben-Hur, La stangata, Il laureato.

Ma qui non stiamo ricordando i tanti batticuore che avevano segnato la nostra crescita di eterni bambini: solo lo stupore che milioni e milioni di fotogrammi mozzafiato ci hanno regalato. 


Remi Adefarasin (GB) *1948

“Elizabeth” di Shekhar Kapur (1998)
“Sliding Doors” di Peter Howitt (1998)
“Match Point” di Woody Allen (2005)
“Amazing Grace” di Michael Apted (2006)

John Alcott (GB) 1931-1986


“Arancia meccanica” di Stanley Kubrick (1971)

“Barry Lyndon” di Stanley Kubrick (1975)

“Shining” di Stanley Kubrick (1980)

“Greystoke - La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie” di Hugh Hudson (1984)


Néstor Almendros(SPA/CUB) 1930-1992


“Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut (1970)

“Adèle H., una storia d’amore” di François Truffaut (1975)

“I giorni del cielo” di Terrence Malick (1978)

“La scelta di Sophie” di Alan J. Pakula (1982)

“Billy Bathgate - A scuola di gangster” di Robert Benton (1991)


John A. Alonzo (USA) 1934-2001


“Il clan dei Barker” di Roger Corman (1970)

“Harold e Maude” di Hal Ashby (1971)

“Chinatown” di Roman Polanski (1974)

“Scarface” di Brian De Palma (1983)

“Affari sporchi” di Mike Figgis (1990)


Michael Ballhaus(GER/USA) *1935


“Le lacrime amare di Petra von Kant” di Rainer Werner Fassbinder (1972)

“Roulette cinese” di Rainer Werner Fassbinder (1976)

“Il matrimonio di Maria Braun” di Rainer Werner Fassbinder (1979)

“Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese (1990)

“Dracula di Bram Stoker” di Francis Ford Coppola (1992)

“Sleepers” di Barry Levinson (1996)

“The Departed - Il bene e il male” di Martin Scorsese (2006)


Andrzej Bartkowiak (POL) *1950


“Il principe della città” di Sidney Lumet (1981)

“Il verdetto” di Sidney Lumet (1982)

“L’onore dei Prizzi” di John Huston (1985)

“Un giorno di ordinaria follia” di Joel Schumacher (1993)


Luca Bigazzi (ITA) *1958


“Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone (1992)

“L’amore molesto” di Mario Martone (1995)

“Le conseguenze dell’amore” di Paolo Sorrentino (2004)

“Romanzo criminale” di Michele Placido (2005)

“Il gioiellino” di Andrea Molaioli (2011)

“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino (2013)


Peter Biziou (GB) *1944


“Piccoli gangsters” di Alan Parker (1976)

“Un mondo a parte” di Chris Menges (1988)

“Il danno” di Louis Malle (1992)

“Nel nome del padre” di Jim Sheridan (1993)

“The Truman Show” di Peter Weir (1998)


Jack Cardiff (GB) 1914-2009


“Scala di paradiso” di Michael Powell ed Emeric Pressburger (1946)

“Scarpette rosse” di Michael Powell ed Emeric Pressburger (1948)

“Il peccato di Lady Considine” di Alfred Hitchcock (1949)

“La Regina d’Africa” di John Huston (1951)


Robert Helpmann e Moira Shearer in Scarpette rosse di Michael Powell ed Emeric Pressburger, 1948. 
Fotografia: Jack Cardiff.


Michael Chapman (USA) *1935


“L’ultima corvée” di Hal Ashby (1973)

“Taxi Driver” di Martin Scorsese (1976)

“Toro scatenato” di Martin Scorsese (1980)

“Il fuggitivo” di Andrew Davis (1993)

“Schegge di paura” di Gregory Hoblit (1996)


Stanley Cortez (USA) 1908-1997


“L’orgoglio degli Amberson” di Orson Welles (1942)

“Delitto in prima pagina” di Cy Enfield (1950)

“Pioggia di piombo” di Hugo Fregonese (1954)

“La morte corre sul fiume” di Charles Laughton (1955)

“La donna dai tre volti” di Nunnally Johnson (1957)

“Il corridoio della paura” di Samuel Fuller (1963)

“Il bacio nudo” di Samuel Fuller (1964)


Lillian Gish e Sally Jane Bruce in The Night of the Hunter (La morte corre sul fiume) di Charles Laughton, 1955. Fotografia: Stanley Cortez.


Raoul Coutard (FRA) *1924


“Fino all’ultimo respiro” di Jean-Luc Godard (1960)

“Jules e Jim” di François Truffaut (1962)

“Bande à part” di Jean-Luc Godard (1964)

“Agente Lemmy Caution, missione Alphaville” di Jean-Luc Godard (1965)


Jeff Cronenweth (USA) *1962


“Blade Runner” di Ridley Scott (1982)

“Fight Club” di David Fincher (1999)

“K-19” di Kathryn Bigelow (2002)

“The Social Network” di David Fincher (2010)

“Millennium - Uomini che odiano le donne” di David Fincher (2011)

“L’amore bugiardo - Gone Girl” di David Fincher (2014)


Roger Deakins (GB) *1949


“Orwell 1984” di Michael Radford (1984)

“Le ali della libertà” di Frank Darabont (1994)

“Fargo” di Joel Coen (1996)

“Il grande Lebowski” di Joel Coen (1998)

“L’uomo che non c’era” di Joel Coen (2001)

“A Beautiful Mind” di Ron Howard (2001)

“The Village” di M. Night Shyamalan (2004)

“Non è un paese per vecchi” di Ethan e Joel Coen (2007)

“Nella valle di Elah” di Paul Haggis (2007)

“Revolutionary Road” di Sam Mendes (2008)

“Skyfall” di Sam Mendes (2012)

“Prisoners” di Denis Villeneuve (2013)


Scarlett Johansson in The Man Who Wasn’t There (L’uomo che non c’era) dei fratelli Coen, 2001. 
Fotografia: Roger Deakins.


Tonino Delli Colli (ITA) 1922-2005


“Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini (1964)

“Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini (1966)

“La Cina è vicina” di Marco Bellocchio (1967)

“C’era una volta in America” di Sergio Leone (1984)

“Il nome della rosa” di Jean-Jacques Annaud (1986)


Gianni Di Venanzo (ITA) 1920-1966


“Le amiche” di Michelangelo Antonio (1955)

“Il grido” di Michelangelo Antonioni (1957)

“I soliti ignoti” di Mario Monicelli (1958)

“I magliari” di Francesco Rosi (1959)

“Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi (1962)

“L’eclisse” di Michelangelo Antonioni (1962)

“8½” di Federico Fellini (1963)

“Le mani sulla città” di Francesco Rosi (1963)

“I basilischi” di Lina Wertmüller (1963)

“Il momento della verità” di Francesco Rosi (1965)

Rod Steiger in Le mani sulla città di Francesco Rosi, 1963. Fotografia: Gianni Di Venanzo.

Pawel Edelman (POL) *1958


“Il pianista” di Roman Polanski (2002)

“Oliver Twist” di Roman Polanski (2005)

“Tutti gli uomini del re” di Steven Zaillian (2006)

“L’uomo nell’ombra” di Roman Polanski (2010)

“Carnage” di Roman Polanski (2011)


Robert Elswit (USA) *1950


“Boogie Nights - L’altra Hollywood” di Paul Thomas Anderson (1997)

“Magnolia” di Paul Thomas Anderson (1999)

“Il colpo” di David Mamet (2001)

“Good Night, and Good Luck” di George Clooney (2005)

“Michael Clayton” di Tony Gilroy (2007)

“Il petroliere” di Paul Thomas Anderson (2007)

“The Burning Plain - Il confine della solitudine” di Guillermo Arriaga (2008)

“The Bourne Legacy” di Tony Gilroy (2012)


Stéphane Fontaine (FRA)


“Tutti i battiti del mio cuore” di Jacques Audiard (2005)

“Il profeta” di Jacques Audiard (2009)

“The Next Three Days” di Paul Haggis (2010)

“Un sapore di ruggine e ossa” di Jacques Audiard (2012)

Robert Fraisse (FRA) *1940


“L’amante” di Jean-Jacques Annaud (1992)

“Sette anni in Tibet” di Jean-Jacques Annaud (1997)

“Ronin” di John Frankenheimer (1998)

“Vatel” di Roland Joffé (2000)

“Il nemico alle porte” di Jean-Jacques Annaud (2001)

“Alpha Dog” di Nick Cassavetes (2006)


Tak Fujimoto (USA) *1939


“La rabbia giovane” di Terrence Malick (1973)

“Il silenzio degli innocenti” di Jonathan Demme (1991)

“Philadelphia” di Jonathan Demme (1993)

“Il sesto senso” di M. Night Shyamalan (1999)

“Signs” di M. Night Shyamalan (2002)

“Breach - L’infiltrato” di Billy Ray (2007)


Lee Garmes (USA) 1898-1978


“Scarface - Lo sfregiato” di Howard Hawks (1932)

“Duello al sole” di King Vidor (1946)

“Pietà per i giusti” di William Wyler (1951)

“La città prigioniera” di Robert Wise (1952)

“Ore disperate” di William Wyler (1955)


Agnès Godard (FRA) *1951


“La vita sognata degli angeli” di Erick Zonca (1998)

“Nuovomondo” di Emanuele Crialese (2006)

“Sister” di Ursula Meier (2012)


Stephen Goldblatt (SAF) * 1945


“Atmosfera zero” di Peter Hyams (1981)

“Miriam si sveglia a mezzanotte” di Tony Scott (1983)

“Cotton Club” di Francis Ford Coppola (1984)

“Il principe delle maree” di Barbra Streisand (1991)

“Closer” di Mike Nichols (2004)

“La guerra di Charlie Wilson” di Mike Nichols (2007)


Conrad L. Hall (USA) 1926-2003


“Detective’s Story” di Jack Smight (1966)

“A sangue freddo” di Richard Brooks (1967)

“Butch Cassidy” di George Roy Hill (1969)

“Città amara” di John Huston (1972)

“Gli occhi del delitto” di Bruce Robinson (1992)

“American Beauty” di Sam Mendes (1999)

“Era mio padre” di Sam Mendes (2002)


Russell Harlan (USA) 1903-1974


“Il fiume rosso” di Howard Hawks (1948)

“La sanguinaria” di Joseph H. Lewis (1950)

“Rivolta al blocco 11” di Don Siegel (1954)

“Testimone d’accusa” di Billy Wilder (1957)

“Il buio oltre la siepe” di Robert Mulligan (1962)


Janusz Kaminski (POL) *1959


“Schindler’s List” di Steven Spielberg (1993)

“Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg (1998)

“A.I. - Intelligenza artificiale” di Steven Spielberg (2001)

“Minority Report” di Steven Spielberg (2002)

“La guerra dei mondi” di Steven Spielberg (2005)

“Lo scafandro e la farfalla” di Julian Schnabel (2007)

“War Horse” di Steven Spielberg (2011)

“Lincoln” di Steven Spielberg (2012)

Daniel Day-Lewis in Lincoln di Steven Spielberg, 2012. Fotografia: Janusz Kaminski.

Boris Kaufman (POL) 1897-1980


“L’Atalante” di Jean Vigo (1934)

“La parola ai giurati” di Sidney Lumet (1957)

“Pelle di serpente” di Sidney Lumet (1960)

“L’uomo del banco dei pegni” di Sidney Lumet (1964)


Robert Krasker (GB) 1913-1981


“Enrico V” di Laurence Olivier (1944)

“Fuggiasco” di Carol Reed (1947)

“Il terzo uomo” di Carol Reed (1949)

“La fossa dei peccati” di Irving Rapper (1951)

“Senso” di Luchino Visconti (1954)


Matthew Libatique (USA) *1968


“Tigerland” di Joel Schumacher (2000)

“In linea con l’assassino” di Joel Schumacher (2002)

“Inside Man” di Spike Lee (2006)

“L’albero della vita - The Fountain” di Darren Aronofsky (2006)

“Il cigno nero” di Darren Aronofsky (2010)


Matthew J. Lloyd (CAN) *1984


“Savages” di Oliver Stone (2012)

“Robot & Frank” di Jake Schreier (2014)

“Benvenuta a ieri” di Dean Israelite (2014)

“The Better Angels” di A.J. Edwards (2014)

“Cop Car” di Jon Watts (2015)


Emmanuel Lubezki (MEX) *1964


“Il profumo del mosto selvatico” di Alfonso Arau (1995)

“Vi presento Joe Black” di Martin Brest (1998)

“Il mistero di Sleepy Hollow” di Tim Burton (1999)

“Le cose che so di lei” di Rodrigo Garcia (2000)

“Ali” di Michael Mann (2001)

“The New World” di Terrence Malick (2005)

“I figli degli uomini” di Alfonso Cuaron (2006)

“Burn After Reading - A prova di spia” di Ethan e Joel Coen (2008)

“The Tree of Life” di Terrence Malick (2011)

“To The Wonder” di Terrence Malick (2012)

“Gravity” di Alfonso Cuaron (2013)

“Birdman o L’imprevedibile virtù dell’ignoranza” di Alejandro González Iñárritu (2014)


Chris Menges (GB) *1940


“Urla del silenzio” di Roland Joffé (1984)

“Mission” di Roland Joffé (1986)

“Michael Collins” di Neil Jordan (1996)

“The Boxer” di Jim Sheridan (1997)

“La promessa” di Sean Penn (2001)

“Triplo gioco” di Neil Jordan (2002)

“Le tre sepolture” di Tommy Lee Jones (2005)

“North Country” di Niki Caro (2005)

“Diario di uno scandalo” di Richard Eyre (2006)

“The Reader - A voce alta” di Stephen Daldry (2008)

“L’altra verità” di Ken Loach (2010)

“Molto forte, incredibilmente vicino” di Stephen Daldry (2011)


Russell Metty (USA) 1906-1978


“Lo straniero” di Orson Welles (1946)

“Anatomia di un delitto” di Jerry Hopper (1954)

“L’uomo senza paura” di King Vidor (1955)

“L’infernale Quinlan” di Orson Welles (1958)

“Spartacus” di Stanley Kubrick (1960)

“A sud di Sonora” di Sidney J. Furie (1966)

“Squadra omicidi, sparate a vista!” di Don Siegel (1968)


Robby Müller (NED/USA) *1940


“Nel corso del tempo” di Wim Wenders (1976)

“L’amico americano” di Wim Wenders (1977)

“Paris, Texas” di Wim Wenders (1984)

“Vivere e morire a Los Angeles” di William Friedkin (1985)

“Daunbailò” di Jim Jarmusch (1986)

“Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders (1991)

“Dead Man” di Jim Jarmusch (1995)

“Le onde del destino” di Lars von Trier (1996)

“Lezioni di tango” di Sally Potter (1997)

“Dancer in the Dark” di Lars von Trier (2000)


Nicholas Musuraca(ITA/USA) 1892-1975


“Il bacio della pantera” di Jacques Tourneur (1942)

“Il passo del carnefice” di Richard Wallace (1943)

“La scala a chiocciola” di Robert Siodmak (1945)

“Le catene della colpa” di Jacques Tourneur (1947)

“Sangue sulla luna” di Robert Wise (1948)

“Gardenia blu” di Fritz Lang (1953)


Asakazu Nakai (JAP) 1901-1988


“Cane randagio” di Akira Kurosawa (1949)

“Vivere” di Akira Kurosawa (1952)

“I sette Samurai” di Akira Kurosawa (1954)

“Il trono di sangue” di Akira Kurosawa (1957)

“Anatomia di un rapimento” di Akira Kurosawa (1963)

“Dersu Uzala” di Akira Kurosawa (1975)

“Ran” di Akira Kurosawa (1985)


Sven Nykvist (SWE) 1922-2006


“Come in uno specchio” di Ingmar Bergman (1961)

“Il silenzio” di Ingmar Bergman (1963)

“Persona” di Ingmar Bergman (1966)

“La vergogna” di Ingmar Bergman (1968)

“Sussurri e grida” di Ingmar Bergman (1972)

“L’inquilino del terzo piano” di Roman Polanski (1976)

“Pretty Baby” di Louis Malle (1978)

“Il postino suona sempre due volte” di Bob Rafelson (1981)

“L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Philip Kaufman (1988)

“Un’altra donna” di Woody Allen (1988)

“Crimini e misfatti” di Woody Allen (1989)

“Buon compleanno Mr. Grape” di Lasse Hallström (1993)

Liv Ullman in Persona di Ingmar Bergman, 1966. Fotografia: Sven Nykvist.

Marco Onorato (ITA)1953-2012


“I ragazzi di via Panisperna” di Gianni Amelio (1988)

“L’imbalsamatore” di Matteo Garrone (2002)

“Gomorra” di Matteo Garrone (2008)

“Fortapàsc” di Marco Risi (2009)

“Reality” di Matteo Garrone (2012)


Wally Pfister (USA) *1961


“Memento” di Christopher Nolan (2000)

“Insomnia” di Christopher Nolan (2002)

“The Prestige” di Christopher Nolan (2006)

“Il cavaliere oscuro” di Christopher Nolan (2008)

“Inception” di Christopher Nolan (2013)


Rodrigo Prieto (MEX) *1965


“Amores perros” di Alejandro González Iñárritu (2000)

“Frida” di Julie Taymor (2002)

“8 Mile” di Curtis Hanson (2002)

“La 25° ora” di Spike Lee (2002)

“21 grammi - Il peso dell’anima!” di Alejandro González Iñárritu (2003)

“I segreti di Brokeback Mountain” di Ang Lee (2005)

“Babel” di Alejandro González Iñárritu (2006)

“State of Play” di Kevin McDonald (2009)

“Biutiful”di Alejandro González Iñárritu (2013)


Robert Richardson (USA) *1955


“Salvador” di Oliver Stone (1986)

“Platoon” di Oliver Stone (1986)

“Wall Street” di Oliver Stone (1987)

“Assassini nati” di Oliver Stone (1994)

“Casinò” di Martin Scorsese (1995)

“L’uomo che sussurava ai cavalli” di Robert Redford (1998)

“La neve cade sui cedri” di Scott Hicks (1999)

“Le quattro piume” di Shekhar Kapur (2002)

“Kill Bill - Vol 1 + 2” di Quentin Tarantino (2003/4)

“Shutter Island” di Martin Scorsese (2010)

“Hugo Cabret” di Martin Scorsese (2011)


Günther Rittau (GER) 1893-1971


“Metropolis” di Fritz Lang (1927)

“L’angelo azzurro” di Josef von Sternberg (1930)

“Tempeste di passione” di Robert Siodmak (1932)


Brigitte Helm in Metropolis di Fritz Lang, 1927. Fotografia: Günther Rittau.


Owen Roizman (USA) *1936


“Il braccio violento della legge” di William Friedkin (1971)

“L’esorcista” di William Friedkin (1973)

“I tre giorni del Condor” di Sidney Pollack (1975)

“Quinto potere” di Sidney Lumet (1976)

“Il cavaliere elettrico” di Sidney Pollack (1979)

“Tootsie” di Sidney Pollack (1982)

“Wyatt Earp” di Lawrence Kasdan (1994)


Giuseppe Rotunno (ITA) *1923


“Le notti bianche” di Luchino Visconti (1957)

“La grande guerra” di Mario Monicelli (1959)

“Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti (1960)

“I compagni” di Mario Monicelli (1963)

“Prova d’orchestra” di Federico Fellini (1978)

“Cinque giorni una estate” di Fred Zinnemann (1982)

“Wolf . La belva è fuori” di Mike Nichols (1994)


Harris Savides (USA) 1957-2012


“The Game - Nessuna regola” di David Fincher (1997)

“The Yards” di James Gray (2000)

“Scoprendo Forrester” di Gus Van Sant (2000)

“Elephant” di Gus Van Sant (2003)

“Birth - Io sono Sean” di Jonathan Glazer (2004)

“Zodiac” di David Fincher (2007)

“American Gangster” di Ridley Scott (2007)

“Milk” di Gus Van Sant (2008)


Eugen Schüfftan(GER/FRA/USA) 1893-1977


“Uomini di domenica” di Curt e Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer, Fred Zinnemann (1930)

“Gli scherzi del denaro” di Max Ophüls (1936)

“Lo strano dramma del dottor Molyneux” di Marcel Carné (1937)

“Il porto delle nebbie” di Marcel Carné (1938)

“Avvenne domani” di René Clair (1944)

“Occhi senza volto” di George Franju (1960)

“Lo spaccone” di Robert Rossen (1961)

“Lilith - La dea dell’amore” (1964)


John Seale (AUS) * 1942


“Witness - Il testimone” di Peter Weir (1985)

“Mosquito Coast” di Peter Weir (1986)

“Gorilla nella nebbia” di Michael Apted (1988)

“L’attimo fuggente” di Peter Weir (1989)

“Il socio” di Sidney Pollack (1993)

“Oltre Rangoon” di John Boorman (1995)

“Il paziente inglese” di Anthony Minghella (1996)

“La tempesta perfetta” di Wolfgang Petersen (2000)

“Ritorno a Cold Montain” di Anthony Minghella (2003)


John F. Seitz (USA) 1892-1979


“I dimenticati” di Preston Sturges (1941)

“Il fuorilegge” di Frank Tuttle (1942)

“Giorni perduti” di Billy Wilder (1945)

“Pietà per i giusti” di William Wyler (1951) - (non accreditato)

“Imputazione omicidio” di Michael Curtiz (1959)


Michael Seresin (NZL) * 1942


“Fuga di mezzanotte” di Alan Parker (1978)

“Saranno famosi” di Alan Parker (1980)

“Birdy - Le ali della libertà” di Alan Parker (1984)

“Angel Heart” di Alan Parker (1987)

”City Hall” di Harold Becker (1996)

“Le ceneri di Angela” di Alan Parker (1999)

“Love & Secrets” di Andrew Jarecki (2010)


Newton Thomas Sigel(USA) *1955


“Three Kings” di David O. Russell (1999)

“Confessioni di una mente pericolosa” di George Clooney (2002)

“Operazione Valchiria” di Bryan Singer (2008)

“The Conspirator” di Robert Redford (2010)

“Drive” di Nicolas Winding Refn (2011)


Dante Spinotti (ITA) *1943


“Manhunter - Frammenti di un omicidio” di Michael Mann (1986)

“L’ultimo dei Mohicani” di Michael Mann (1992)

“Nell” di Michael Apted (1994)

“Pronti a morire” di Sam Raimi (1995)

“Heat - La sfida” di Michael Mann (1995)

“L.A. Confidential” di Curtis Hanson (1997)

“Insider - Dietro la verità” di Michael Mann (1999)

“Nemico pubblico” di Michael Mann (2009)


Tom Stern (USA) *1946


“Mystic River” di Clint Eastwood (2003)

“Million Dollar Baby” di Clint Eastwood (2004)

“Flags of Our Fathers” di Clint Eastwood (2006)

“Changeling” di Clint Eastwood (2008)

“Gran Torino” di Clint Eastwood (2008)

“Hereafter” di Clint Eastwood (2010)

“American Sniper” di Clint Eastwood (2014)


Vittorio Storaro (ITA) * 1940


“Il conformista” di Bernardo Bertolucci (1970)

“Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci (1972)

“Il segreto di Agatha Christie” di Michael Apted (1979)

“Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola (1979)

“Un sogno lungo un giorno” di Francis Ford Coppola (1981)

“Reds” di Warren Beatty (1981)

“L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci (1987)

“Dick Tracy” di Warren Beatty (1990)

“Il tè nel deserto” di Bernardo Bertolucci (1990)

“Piccolo Buddha” di Bernardo Bertolucci (1993)

“Goya” di Carlos Saura (1999)


Robert Surtees (USA) 1906-1985


“Atto di violenza” di Fred Zinnemann (1948)

“Il bruto e la bella” di Vincente Minelli (1952)

“Gli ammutinati del Bounty” di Lewis Milestone (1962)

“Il compromesso” di Elia Kazan (1969)

“Hindenburg” di Robert Wise (1975)


Peter Suschitzky(POL/USA) 1941


“The Rocky Horror Picture Game” di Jim Sharman (1975)

“Inseparabili” di David Cronenberg (1988)

“Occhio indiscreto” di Howard Franklin (1992)

“The Vanishing - Scomparsa” di George Sluizer (1993)

“Crash” di David Cronenberg (1996)

“Mars Attacks!” di Tim Burton (1996)

“eXistenZ” di David Cronenberg (1999)

“Spider” di David Cronenberg (2002)

“A history of violence” di David Cronenberg (2005)

“La promessa dell’assassino” di David Cronenberg (2007)

“Maps to the Stars” di David Cronenberg (2014)


Gregg Toland (USA) 1904-1948


“Strada sbarrata” di William Wyler (1937)

“Cime tempestose” di William Wyler (1939)

“Furore” di John Ford (1940)

“Quarto potere” di Orson Welles (1941)

“Il mio corpo ti scalderà” di Howard Hughes e Howard Hawks (1943)

Henry Fonda, John Carradine e John Qualen in Grapes of Wrath (Furore) di John Ford, 1940. Fotografia: Gregg Toland.

John Toll (USA) *1952


“Vento di passioni” di Edward Zwick (1994)

“Braveheart - Cuore impavido” di Mel Gibson (1995)

“L’uomo della pioggia” di Francis Ford Coppola (1997)

“La sottile linea rossa” di Terrence Malick (1998)

“Quasi famosi” di Cameron Crowe (2000)

“Vanilla Sky” di Cameron Crowe (2001)


Geoffrey Unsworth (GB) 1914-1978


“Becket e il suo re” di Peter Glenville (1964)

“2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick (1968)

“Cabaret” di Bob Fosse (1972)

“Assassinio sull’Orient Express” di Sidney Lumet (1974)

 “Quell’ultimo ponte” di Richard Attenborough (1977)

“Tess” di Roman Polanski (1979)


Hoyte Van Hoytema(SWI/NED) *1971


“Lasciami entrare” di Tomas Alfredson (2008)

“The Fighter” di David O. Russell (2010)

“La talpa” di Tomas Alfredson (2011)

“Lei” di Spike Jonze (2013)

“Interstellar” di Christopher Nolan (2014)


Fritz Arno Wagner (GER) 1894-1958


“Nosferatu - Il vampiro” di F.W. Murnau (1922)

“L’inafferabile” di Fritz Lang (1928)

“Il diario di una donna perduta” di Georg Wilhelm Papst (1929)

“M - Il mostro di Düsseldorf” di Fritz Lang (1931)

“Il testamento del dottor Mabuse” di Fritz Lang (1933)


David Watkin (GB) 1925-2008


“I seicento di Balaklava” di Tony Richardson (1968)

“Robin e Marian” di Richard Lester (1976)

“Momenti di gloria” di Hugh Hudson (1981)

“La mia Africa” di Sidney Pollack (1985)

“Memphis Belle” di Michael Caton Jones (1990)

“Prove apparenti” di Sidney Lumet (1996)


Haskell Wexler (USA) *1922


“Il ribelle dell’Anatolia (America America)” di Elia Kazan (1963)

“Il caro estinto” di Tony Richardson (1965)

“Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Mike Nichols (1966)

“La calda notte dell’ispettore Tibbs” di Norman Jewison (1967)

“Volti” di John Cassavetes (1968)

“Il caso Thomas Crown” di Norman Jewison (1968)

“La conversazione” di Francis Ford Coppola (1974)

“Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman (1975)

“Questa terra è la mia terra” di Hal Ashby (1976) - Primo uso della Steadicam

“Tornando a casa” di Hal Ashby (1978)

“Scomodi omicidi” di Lee Tamahori (1996)


Gordon Willis (USA) 1931-2014


“Una squillo per l’ispettore Klute” di Alan J. Pakula (1971)

“Cattive compagnie” di Robert Benton (1972)

“Perché un assassinio” di Alan J. Pakula (1974)

“Il Padrino - Parte II” di Francis Ford Coppola (1974)

“Detective Harper: acqua alla gola” di Stuart Rosenberg (1975)

“Tutti gli uomini del presidente” di Alan J. Pakula (1976)

“Io e Annie” di Woody Allen (1977)

“Manhattan” di Woody Allen (1979)

“L’ombra del diavolo” di Alan J. Pakula (1997)


James Wong Howe(CHI/USA) 1899-1976


“Anche i boia muoiono” di Fritz Lang (1943)

“Anima e corpo” di Robert Rossen (1947)

“Ho amato un fuorilegge” di John Berry (1951)

 “La rosa tatuata” di Daniel Mann (1955)

“Piombo rovente” di Alexander Mackendrick (1957)

“Hud il selvaggio” di Martin Ritt (1963)

“I cospiratori” di Martin Ritt (1970)


Vilmos Zsigmond(HUN/USA) *1930


“Un tranquillo week-end di paura” di John Boorman (1972)

“Il lungo addio” di Robert Altman (1973)

“Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg (1977)

“Il cacciatore” di Michael Cimino (1978)

“I cancelli del cielo” di Michael Cimino (1980)

“Il grande inganno” di Jack Nicholson (1990)

“Black Dahlia” di Brian De Palma (2006)



Isabelle Huppert e Kris Kristofferson in Heaven’s Gate (I cancelli del cielo) di Michael Cimino, 1980. 
Fotografia: Vilmos Zsigmond. 



In questa lista mancano un sacco di nomi. Alcuni perché il loro contributo, sebbene eccellente, non è stato determinante. Altri perché l’elenco dei loro film importanti sarebbe risultato troppo scarno. Va da sé, comunque, che anche i direttori della fotografia sottoindicati fanno solidamente parte della storia del cinema.


Americani: John Alton, Lucien Ballard, Joseph F. Biroc, Jack Couffer, William H. Daniels, Allen Daviau, Caleb Deschanel, William A. Fraker, Byron Haskin, Boris Kaufman, Victor J. Kemper, László Kovács, Milton Krasner, Ellen Kuras, Charles Lang, Philip H. Lathrop, Rudolph Maté, Joseph Ruttenberg, Leon Shamroy, Harry Stradling Sr., Bruce Surtees, Robert Yeoman.


Britannici: Adrian Biddle, Gerry Fisher, Freddie Francis, Phil Méheux, Oswald Morris, Robert Paynter, Douglas Slocombe, Freddie Young.


Francesi: Philippe Agostini, Yves Angelo, Etienne Becker, Henri Decae, Jean-Yves Escoffier, Elly Kurant, Pierre Lhomme, Bernard Lutic, Philippe Rousselot.


Un portoghese: Eduardo Serra.


E per finire, gli italiani: Alfio Contini, Pasqualino De Santis, Carlo Di Palma, Dario Di Palma, Marcello Gatti, Ennio Guarnieri, Luigi Kuveiller, Armando Nannuzzi, Aldo Tonti, Luciano Tovoli.


***

Termino con una nota estremamente personale: null’altro che un appassionato tentativo di “chiudere in bellezza” una bellezza (d’altri) che non mi abbandonerà mai.


I film che mi hanno più colpito dal punto di vista della fotografia.


**   Direttori della fotografia e registi citati due volte

*** Direttori della fotografia e registi citati tre volte



In neretto i film in bianco e nero



Anno

Titolo

Direttore fotografia

Regista





1927

Metropolis

Günther Rittau

Fritz Lang **

1931

M - Il mostro di Düsseldorf

Fritz Arno Wagner

Fritz Lang **

1940

Furore

Gregg Toland **

John Ford

1941

Quarto potere

Gregg Toland **

Orson Welles **

1947

Le catene della colpa

Nicholas Musuraca

Jacques Tourneur

1949

Il terzo uomo

Robert Krasker

Carol Reed

1958

L’infernale Quinlan

Russell Metty

Orson Welles **

1958

I soliti ignoti

Gianni Di Venanzo **

Mario Monicelli

1963

Le mani sulla città

Gianni Di Venanzo **

Francesco Rosi

1970

Il conformista

Vittorio Storaro ***

Bernardo Bertolucci

1975

Barry Lyndon

John Alcott

Stanley Kubrick

1978

I giorni del cielo

Néstor Almendros

Terrence Malick ***

1978

Il cacciatore

Vilmos Zsigmond **

Michael Cimino **

1979

Apocalypse Now

Vittorio Storaro ***

Francis Ford Coppola **

1979

Manhattan

Gordon Willis **

Woody Allen

1979

Il segreto di Agatha Christie

Vittorio Storaro ***

Michael Apted

1980

I cancelli del cielo

Vilmos Zsigmond **

Michael Cimino **

1980

Toro scatenato

Michael Chapman

Martin Scorsese **

1983

Miriam si sveglia a mezzanotte

Stephen Goldblatt

Tony Scott

1984

Birdy

Michael Seresin **

Alan Parker **

1986

Daunbailò

Robby Müller **

Jim Jarmusch **

1986

Mission

Chris Menges **

Roland Joffé

1987

Angel Heart

Michael Seresin **

Alan Parker **

1993

Schindler’s List

Janusz Kaminski

Steven Spielberg

1993

Tre colori - Film blu

Slawomir Idziak

Krzysztof Kieslowski

1994

Il padrino parte II

Gordon Willis **

Francis Ford Coppola **

1995

Dead Man

Robby Müller **

Jim Jarmusch **

1998

La sottile linea rossa

John Troll

Terrence Malick ***

1999

La neve cade sui cedri

Robert Richardson **

Scott Hicks

2000

Amores perros

Rodrigo Prieto **

Alejandro González Iñárritu **

2001

La promessa

Chris Menges **

Sean Penn

2001

L’uomo che non c’era

Roger Deakins

Joel Coen

2002

L’imbalsamatore

Marco Onorato

Matteo Garrone

2002

Era mio padre

Conrad L. Hall

Sam Mendes

2003

Mystic River

Tom Stern

Clint Eastwood

2005

Good Night and Good Luck

Robert Elswit

George Clooney

2011

Hugo Cabret

Robert Richardson **

Martin Scorsese **

2011

The Tree of Life

Emmanuel Lubezki

Terrence Malick ***

2011

La talpa

Hoyte Van Hoytema

Tomas Alfredson

2013

Biutiful

Rodrigo Prieto **

Alejandro González Iñárritu **

2013

La grande bellezza

Luca Bigazzi

Paolo Sorrentino

2014

The Better Angels

Matthew J. Lloyd

A.J. Edwards







Il creative briefing

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Il creative briefing


di Pasquale Barbella, da La comunicazione d’azienda a cura di Umberto Collesei e Vittorio Ravà, Isedi, Torino 2004.



L’ambientalismo è uno dei temi ricorrenti nella pubblicità contemporanea. «La natura. Amala finché dura. Vai su www.diesel.com e iscriviti alla Società Diesel amanti della natura.» Agenzia Kesselskramer di Amsterdam.


I. Cos’è un briefing.


In inglese i termini brief (aggettivo e sostantivo), to brief (verbo) e briefing (sostantivo ricavato dal gerundio del verbo to brief) provengono tutti dal latino brevis (= breve) e hanno tutti a che fare con la brevità, la velocità e la sintesi. Alla voce brief, il Webster’s International Dictionary fa corrispondere, tra altre, le seguenti definizioni: «Lettera o mandato formale o ufficiale», «Breve documento scritto», «La versione abbreviata, la sinossi, il sommario (p. es. di un testo scolastico)», «Un canovaccio formale di temi logicamente intercorrelati, i cui principali contenuti sono supportati da dichiarazioni e prove». Alla voce verbale to brief, una delle definizioni è: «Fornire istruzioni precise, informative e definitive a qualcuno (prima che i partecipanti comincino una missione o un’azione)». Quanto a briefing, si tratta delle «istruzioni o informazioni fornite».


Basta dunque la parola a delimitare con chiarezza il campo descrittivo, la natura dei contenuti, lo stile della procedura e la funzione specifica di un briefing. Alla pratica del briefing si associano, come si è letto nel Webster’s, i concetti di brevità e sintesi, di ufficialità, di documento scritto, di temi logicamente intercorrelati, di dichiarazioni motivate, di istruzioni, di precisione, di informazione; e il tutto prelude a una “missione” o “azione”.


In un progetto di comunicazione commerciale, il creative briefing non è l’unica forma di briefing circolante fra il committente e il team incaricato della “missione”. È solo l’ultima in ordine di tempo, e precede immediatamente l’azione, cioè lo sviluppo creativo della comunicazione (qualunque essa sia: annuncio occasionale, campagna, progetto di corporate identity, promozione, remake di un imballaggio, materiali da esposizione, stand fieristico, operazione di direct marketing, progettazione di un website, ecc.)


Il creative briefing, idealmente elaborato da uno strategic planner a tempo pieno o da altre figure professionali in grado di esercitarne la funzione, è il documento che formalizza e sintetizza i risultati di una serie più o meno fitta di ricognizioni e scambi di informazioni e di idee. Se il briefing iniziale (quello trasferito dal committente all’agenzia o ad altri consulenti) consiste prevalentemente nell’indicazione degli obiettivi che si intendono raggiungere, ed è debitamente accompagnato da informazioni e documenti di natura e di mole assai variabile, il briefing finale deriva di solito da una elaborazione razionale e approfondita dei problemi e delle opportunità e contiene precise istruzioni strategiche.


II. Dal committente all’agenzia.


Fase uno di qualsiasi[1]programma di comunicazione: il committente incarica qualcuno (poniamo: un’agenzia di pubblicità) di elaborare un determinato progetto. Racconta o ricorda agli interlocutori (account e/o altri specialisti dell’agenzia) tutto ciò che è noto sul prodotto o il servizio da pubblicizzare. Commenta e fornisce, se ne è in possesso, dati, informazioni e documenti utili alla migliore conoscenza del problema, ivi compresi i risultati di eventuali ricerche di mercato, ricerche motivazionali, rilevazioni occasionali o periodiche, studi sul consumatore, analisi sulla concorrenza, precedenti esperienze di comunicazione eventualmente ignorate dall’agenzia, ecc. Se la marca è già attiva, ne dichiara, commenta e discute il posizionamento attuale e indica gli eventuali spostamenti desiderati. Tutto ciò in funzione del briefing vero e proprio: quali obiettivi raggiungere; con quale posizionamento (se si ha già un’idea chiara in proposito); con quali eventuali istruzioni secondarie ma al tempo stesso obbligatorie (i cosiddetti must o constraint o mandatories, a seconda della terminologia in uso nell’azienda e/o nell’agenzia).


Talvolta – specie nei casi di lunga collaborazione tra gli stessi individui, sulla medesima marca e il medesimo prodotto o servizio – le informazioni, le problematiche e le opinioni sono già talmente note e condivise che il briefing del cliente può già considerarsi semidefinitivo o addirittura definitivo. Più spesso, la materia – voluminosa e rapsodica – di questo primo passaggio prelude a indagini ed elaborazioni ulteriori a cura del workteam d’agenzia. Account e direttore creativo, meglio se affiancati da uno strategic planner, e con la partecipazione – ove sia opportuna in questa fase – di altre funzioni (p. es. il direttore media), analizzano e interpretano il briefing e i supporti ricevuti, si aggiornano sul mercato in questione e sulle azioni dei principali concorrenti della marca, formulano delle prime ipotesi strategiche; se necessario riconsultano il cliente per ulteriori scambi d’idee prima di presentargli e discutere con lui un’ipotesi di “strategia di comunicazione”. Strategia che, se approvata, costituisce il nucleo fondamentale del creative briefing.


III. Dal planner al team creativo.


Detto in modo banale, il creative briefing è la sintesi ideale di tutto ciò che il team creativo deve sapere per affrontare correttamente il lavoro. Al team creativo si possono e si devono dire, naturalmente, molte cose in più di quelle indicate nel briefing (sarebbe assurdo, per esempio, che non fossero preventivamente documentati sulle campagne dei concorrenti della marca, o su eventuali ricerche significative e disponibili); ma è ciò che è scritto in quel documento la traccia che deve orientarli nella propria “missione”. Evadere da quella traccia è sbagliato nel 99% dei casi, geniale nel rimanente 1%.


Il creative briefing dovrà rispondere, in forma sintetica (brief = brevis) ma rigorosamente precisa, alle seguenti domande:


          1.    Qual è l’essential equity della marca e/o del prodotto?

         2.    Cos’è essenziale sapere del mercato di riferimento e/o del brand?

         3.    In futuro, cosa potrà influenzare lo scenario?

         4.    Quali sono, oggi, i punti di forza e di debolezza del brand?

          5.    Qual è il contesto competitivo?

         6.    Con chi deve davvero competere la marca per raggiungere (o confermare) una forma di leadership?

          7.    A chi parliamo?

         8.    Qual è il messaggio-chiave della comunicazione?

         9.    Perché dovrebbero crederci?

       10.    Quale stile, quale tono di voce conviene adottare?


Alcuni di questi punti – specificamente quelli contrassegnati dai numeri 1, 7, 8, 9 e 10 – costituiscono la “strategia di comunicazione” vera e propria; gli altri sono importanti ma accessori, nel senso che servono solo a far comprendere meglio i motivi per cui si è arrivati a “quella” strategia e non ad altre.


Prima di analizzare nel dettaglio, e corredare con esempi, il senso delle dieci domande, tentiamo di cogliere il nocciolo della questione e di definire meglio cosa si intende comunemente per “strategia di comunicazione”.[2] Si tratta, in sintesi, di un programma di intenzioni e d’azione volto al raggiungimento di un obiettivo: far sì che il pubblico al quale ci rivolgiamo (target group) percepisca in modo corretto ciò che abbiamo ritenuto utile comunicargli (brand positioning, brand message, brand vision), colga un vantaggio (benefit) nell’aderire alla nostra offerta o proposta e risulti convinto non solo da adeguate motivazioni (reason why), ma anche dal tono di voce e dallo stile con cui abbiamo acceso il suo interesse (tone & manner).


È evidente che la costruzione di un simile programma, basato in parte su dati di fatto e in parte su congetture, serve a rendere competitiva la marca in un mondo che di marche è affollato. Una strategia logica, incisiva e brillante consente alla marca X di emergere con caratteristiche proprie (brand personality) e di occupare un preciso e specifico spazio (positioning) nell’immaginario di chi ne riceve il messaggio, rendendosi in tal modo unica ed esclusiva nonostante la proliferazione di prodotti e servizi aventi la stessa funzione.


Il processo di elaborazione di una strategia è tanto più complesso e faticoso quanto più il mercato di riferimento è affollato di marche. Più ampia è l’offerta di mercato, più è difficile la caratterizzazione di una singola marca che, per sopravvivere, deve competere con tutte le altre. A meno che – caso sempre più raro – la marca non si distingua vistosamente da tutte le altre per una funzione non solo esclusiva, ma anche rilevante: come nel caso della Polaroid, che per molti anni fu l’unica macchina fotografica capace di produrre foto immediate: dallo scatto alla stampa in soli 60 secondi, senza i soliti lunghi passaggi (doppia visita al laboratorio per consegnare il rullino e prelevare le stampe), senza attese snervanti, e con la magia di vedere affiorare sulla carta, nelle tue mani, l’immagine appena concepita. Quello della Polaroid, e di prodotti altrettanto unici ed esclusivi nella propria prestazione, era l’USP ideale teorizzato da Reeves.[3]


La sfida di Reeves a chi si occupi di elaborazione strategica è, sostanzialmente, quella di rintracciare un USP anche laddove non si vede. La caccia all’USP, cioè al vantaggio competitivo senza il quale una marca non ha prospettive di sviluppo, richiede nella maggior parte dei casi un lavoro di investigazione molto intenso, che necessita spesso – a sua volta – di ricerche, sondaggi, studi sulle dinamiche di mercato e sulla sociologia dei consumi.


Il vantaggio competitivo è talvolta reale (come nel caso Polaroid), più spesso sfuggente. La sua natura è variabile: concreta e fattuale (es.: “solo il nostro trapano fa buchi nel muro senza provocare incidenti nel caso si imbattesse in un cavo elettrico”), oppure emotiva (es.: “il nostro sapone protegge così bene la bellezza della pelle che lo hanno scelto nove dive del cinema su dieci”). Una buona elaborazione strategica sa tener conto di quella materia impalpabile di cui sono fatti i sentimenti e le emozioni, anche quando il vantaggio è concreto e fattuale. Nell’esempio del trapano, la razionalità dell’USP – buchi senza incidenti – funge da convincente corredo motivante (reason why) a una promessa di sicurezza, rispondendo così a un bisogno psicologico e non solo meramente meccanico. Persino nel caso Polaroid, sebbene l’USP fosse talmente evidente da potersi spiegare e rendere interessante con semplici comunicati d’informazione, era stato necessario insistere sugli aspetti più emotivi della prestazione: scatta e vedi dopo pochi secondi il sorriso del tuo bambino…


Fatte queste premesse, possiamo tornare alle domande di partenza.


IV. Qual è l’essential equity della marca e/o del prodotto?


Era la prima delle nostre domande, e la sua formulazione alquanto misteriosa ci dà l’opportunità di una piccola digressione sulla terminologia in uso nel marketing e nella comunicazione commerciale. Terminologia che, già di per sé, costituisce un problema. Il problema dipende dal fatto che tale terminologia non è univoca e costante, ma mutevole in funzione del luogo e dei tempi. Mentre buona parte del nostro vocabolario di riferimento rimane più o meno stabile ed è piuttosto semplice da decodificare (es.: consumer benefit = beneficio o vantaggio per il consumatore), altre espressioni verbali si inseriscono continuamente nel gergo, talvolta per enunciare nuovi concetti, più spesso per sostituirne altri ritenuti, a torto o a ragione, obsoleti. Il motivo di questa incessante fabbrica di linguaggi e di metafore risiede nel fatto che molte aziende e soprattutto molte agenzie, specie le internazionali, tendono a differenziare e a personalizzare il proprio lessico, con l’obiettivo di far apparire originali ed esclusivi i propri metodi professionali. L’invenzione verbale fa dunque parte, a sua volta, di una strategia di comunicazione atta a dimostrare l’unicità del metodo operativo di un’azienda o di un’agenzia. Il risultato – quello di diffondere l’idea di esclusività metodologica – è a volte raggiunto, ma non dura a lungo: presto molte delle nuove espressioni così introdotte circolano nell’ambiente, diventano di uso comune e nessuno ne ricorda più la provenienza.


L’inflazione di formule verbali nel gergo professionale genera il rischio di causare equivoci e incomprensioni tra interlocutori che non hanno un vocabolario comune. È opportuno quindi concentrarsi più sui significati che non sui significanti, sui concetti più che sulle formule che li esprimono. Qua e là, nel nostro capitolo, adotteremo anche noi qualche termine ambizioso o addirittura arrogante, al solo scopo di non crearvi imbarazzo quando lo ascolterete pronunciare in una situazione di lavoro.


Essential equity, per esempio, è un’acquisizione relativamente recente. Non ha nulla a che vedere con l’equitazione: piuttosto con il latino aequus e con il concetto di equità e giustizia. Ma anche questo non aiuta a capire il senso voluto nel nostro contesto. Equity (equità) è una parola che appartiene propriamente al campo della giurisprudenza innanzitutto, e per indiretta estensione al mondo finanziario, azionario e contrattualistico, attraverso una serie di elaborati passaggi che in questa sede vi risparmiamo ma che hanno a che fare con regole e discipline riportabili al concetto giuridico di “equità”.


Nel settore che ci interessa, quello del marketing e della comunicazione, equityè l’insieme dei principii che ispirano e connotano il temperamento e la corretta evoluzione di una marca. Alcuni preferiscono usare, invece di equity, frasi come brand personality (personalità della marca), altri brand vision (visione di marca) per esprimere una gamma di concetti analoghi. Al di là delle parole, è importante registrare il bisogno che le ha prodotte: quello di arricchire il concetto di positioning (posizionamento) di nuove e più profonde valenze, persino etiche e filosofiche.[4]


Facciamo un passetto indietro. Come già altrove accennato, stabilire il posizionamento di una marca equivale a “collocarla” nello spazio mentale del suo pubblico, a farla riconoscere come “la (unica) marca che fa quella cosa per me”. Risulta chiaro che individuare il giusto posizionamento di una marca equivale ad aver già fatto un gran bel lavoro. È come aver centrato il cuore della strategia, trovato il nucleo dal quale discenderanno a catena tutte le successive decisioni. Cosa c’è allora di superato nel concetto di “posizionamento”? Perché si sente il bisogno di ampliarne e approfondirne il senso, ricorrendo a formule ambiziose come l’equity o la brand vision?


La risposta è sempre la stessa: sfondare nel mercato, o mantenere le posizioni raggiunte, diventa di giorno in giorno più arduo. La competizione globale conta ogni giorno i suoi feriti e i suoi caduti, anche fra le imprese e i marchi più prestigiosi d’ogni tempo. Basta scorrere con media assiduità i titoli d’un giornale finanziario per accorgersi di quanto mutevole e precario sia diventato l’universo dell’industria e degli affari. Per le marche non esistono più né garanzie né facili certezze. Il pensiero che sorreggeva le politiche di marca nei periodi di crescita lineare, o nei momenti in cui era meno incerta la previsione dei fenomeni a venire, si rivela assai meno adeguato a fronteggiare crisi e recessioni di nuovo stampo, e un futuro che si preannuncia incerto nel migliore dei casi, o addirittura ostile.


Rispondere in modo intelligente alla domanda n. 1, “qual è la nostra equity essenziale?”, comporta un’analisi affilata del mercato e delle sue opportunità, una notevole sensibilità introspettiva (capire i mutamenti in atto nella società),  e se possibile – a certe condizioni – persino il coraggio di rovesciare luoghi comuni dati per inscalfibili.


Per meglio comprendere la differenza tra un semplice posizionamento e una più “filosofica” e completa visione di marca, facciamo un esempio pratico. Ho bisogno di arredare una stanza, ho pochi soldi e non ho alcuna intenzione di indebitarmi. La mente corre a una soluzione. “Cerco un posto dove vendano mobili decenti a buon mercato.” Mi viene in mente qualche nome, me ne faccio suggerire altri dagli amici. Mi metto al volante e batto tutti i negozi e le showroom della Brianza, se è quella l’area in cui risiedo. Oppure non ho tempo da perdere e decido di concentrarmi su non più di due destinazioni, ricordandomi di qualche spot sulla TV locale, o di qualche campagna radiofonica, o di un cartellone stradale. “Il posto dove si vendono mobili decenti al prezzo più basso” è probabilmente un buon posizionamento, se a esprimerlo è una marca sola e non una pletora di marche.


IKEA risolve problemi di spazio e problemi estetici: «La bellezza sta dentro.» Agenzia Jung von Matt Alster, Amburgo. Direttori creativi Fabian Frese e Goetz Ulmer. Autori Till Monshausen, Paul Pfau, Jo Marie Farwick, Tobias Grimm. Fotografia: Wrongside Pictures. 2007.


Se appartengo al target group individuato dalla IKEA, non potrò fare a meno di fare un salto nel suo punto vendita più vicino, anche se “più vicino” può voler dire, per me, 20 o 30 km. Perché? Perché quello di IKEA è qualcosa di più che un semplice posizionamento. È una brand vision. IKEA è riuscita a convincere milioni di persone, in diversi paesi, che i suoi prodotti hanno il miglior rapporto qualità-prezzo in assoluto. Che sono soluzioni intelligenti per sfruttare al meglio, e nel modo più decoroso, anche gli spazi più angusti di un ambiente. Che buona parte del risparmio non deriva dalla povertà dei materiali o del design, ma dal fatto che te li puoi portare a casa e montare da solo; e subito.


Dicevamo che i concetti di equity e di vision implicano connotazioni assai più ricche, persino sul piano etico e filosofico (o, se vogliamo evitare paroloni, sul piano sociale), di quelle sufficienti a denotare un puro posizionamento inteso in senso tradizionale. Il caso IKEA (unico nel suo settore merceologico, ma si possono citare esempi analoghi – sebbene infrequenti – in altri settori) ha definitivamente fatto piazza pulita di un vecchio cliché secondo il quale i simboli di status debbano essere per forza costosi. IKEA, come Nike o Swatch, è alla portata di tutte le tasche ma attrae più la middle classche i ceti popolari: frequentare i suoi magazzini fa chic, tanto da impensierire un poco l’anima democratica e interclassista dell’azienda.


La promessa di value for money, nella visione di marca dell’IKEA, non si esaurisce nel suo significato più mercantile. Comprende un caleidoscopio di valenze più nobili e inconsuete, allusioni a stili di vita che non discriminano nessuno[5]e segnali etici raccolti con simpatia dal suo pubblico:


     Economizzare con intelligenza è una forma di creatività;

     Il fai-da-te (trasportare e montare personalmente i mobili acquistati) denota intraprendenza, apertura mentale e savoir faire;

     Non siamo solo fornitori di arredi, ma solutori di problemi;

     I nostri prodotti suggeriscono idee brillanti per sfruttare con decoro anche gli spazi più esigui;

     Tanti sono capaci di tirare al ribasso, qualcuno magari affibbiandoti merce scadente; noi vogliamo invece renderti felice e orgoglioso della scelta;

     Risparmiare in genere è una necessità tetra e malinconica; da noi è un divertimento;

     Prezzi stracciati non vuol dire necessariamente cattivo gusto; i nostri mobili e i nostri accessori possono fare bella figura ovunque;

     Veniamo da un paese spartano, libero e democratico, la Svezia, che se ne infischia di orpelli e apparenze e predilige la schiettezza, la solidità, la razionalità e l’efficienza.


V. Cos’è essenziale sapere del mercato di riferimento e/o del brand?


Rispondere a questa domanda è relativamente più facile che a quella precedente, specialmente se si dispone di ricerche effettuate di recente. Si tratta di selezionare le informazioni (i fatti) più utili al lavoro da compiere:


     Di quale prodotto stiamo parlando?

     Come è fatto?

     Come si usa abitualmente?

   Come altrimenti si potrebbe usare?

     Cos’è che lo rende intrinsecamente differente?

     Quali bisogni pensiamo che soddisfi?

     Qual è la sua quota di mercato?

     Le vendite sono in crescita o in calo? Perché?

     Ha già un posizionamento? Esistono i presupposti per mantenerlo?


E via di seguito. Sebbene su una marca si possano formulare mille domande e ottenere mille risposte, è opportuno selezionare e limitare il loro numero nel creative briefing, per evitare di lanciare troppe esche e generare disorientamento e dispersione.


Il planner o chi per lui avrà cura di riportare nel creative briefing solo gli argomenti che giudica essenziali. È pessima idea rovesciare sul tavolo dei creativi interi dossier di dati Nielsen; isolarne uno o due, talmente significanti da poter orientare in modo meditato la strategia e la creatività, è di gran lunga più efficace.


VI. In futuro, cosa potrà influenzare lo scenario?


Ecco la classica domanda da un milione di dollari. Talmente importante, e talmente difficile, da intimidire – in certi settori – anche l’analista più avveduto. Si è letto sui giornali, all’inizio dell’autunno 2003, che la Playstation 2 ha avuto un successo così strabiliante da saturare il mercato: ha sbaragliato la concorrenza, è entrata in 50 milioni di case in tutto il mondo e ha ormai dato tutto quello che poteva dare.[6]I giochi elettronici costituiscono il 12,5% del business della Sony e sono stati, negli ultimi anni, la voce più redditizia fra le specialità della casa giapponese. Interrogarsi sugli scenari del futuro, anche del futuro più immediato, è dunque esercizio vitale per la salute e la sopravvivenza delle marche, considerando che persino il successo – seppure strepitoso – può diventare l’anticamera di un problema.[7]


All’interrogativo sugli scenari di domani si possono solo tentare risposte fiaccate dal virus dell’ipotesi e della congettura, partendo dagli indizi disponibili o procurandosene altri con l’aiuto di ricerche sui macrofenomeni, sul mercato, sull’andamento dei consumi, sugli spostamenti del comportamento individuale e sociale. Si cerca insomma di individuare, tra non poche incognite derivanti da situazioni nazionali o globali sempre più agitate, tendenze, sintomi e avvisaglie, e di ipotizzare il genere di ripercussioni che potrebbero avere sulla marca di cui ci stiamo occupando.


Si danno naturalmente anche casi meno misteriosi sul piano della previsione. Negli anni ottanta, per esempio, l’introduzione della legge che rendeva obbligatorio l’uso del casco anche sui ciclomotori e gli scooter di bassa cilindrata, essendo stata annunciata con un certo anticipo, apriva prospettive chiare, precise, inequivocabili – di buon auspicio per i produttori di caschi, allarmanti – almeno a breve termine – per l’industria dei ciclomotori e degli scooter. Le prime leggi antifumo, che misero al bando in molti paesi la pubblicità alle sigarette, non piovvero giù dal cielo all’improvviso; le aziende più previdenti ebbero tempo e modo di inventarsi strategie alternative.


Chi produce superalcolici sa che i consumi in Italia sono da anni in calo, talvolta vertiginoso, in quasi tutti i segmenti della categoria, a causa di un drastico rinnovamento degli stili di vita riferiti al benessere. Dal momento che non esistono, o che non sono al momento visibili, le condizioni per una imminente risalita di questi consumi, lo scenario per le imprese del settore continua ad essere – generalmente parlando – piuttosto scoraggiante. L’analisi tuttavia dei pochi segmenti di successo (p. es. la curiosa riscoperta e ascesa del cosiddetto “limoncello”), o di talune marche in controtendenza seppure appartenenti a comparti in difficoltà, può generare osservazioni utili alla diversificazione (il lancio di nuovi prodotti a minor tasso alcolico), al riposizionamento (spostando il prodotto su un target diverso da quello tradizionale, o indicando modalità di consumo innovative), o addirittura all’abbandono della pubblicità sui mass media e alla sua sostituzione con campagne di relazioni pubbliche (iniziative di interesse sociale o culturale che facciano un po’ “perdonare” gli aspetti problematici dell’alcool).


Ci sono scenari che influenzano molteplici settori merceologici, altri che incidono su un numero circoscritto di categorie. Abbiamo accennato al fumo e all’alcool in quanto consumi direttamente influenzati da una diversa coscienza (e da una diversa politica) della salute e del benessere diffusasi, in modo progressivo, solo negli ultimi vent’anni. La revisione del rapporto col proprio organismo è stato, ed è, un macrofenomeno sociale che ha interessato e continua a interessare non solo i settori sui quali si addensano le accuse più gravi (quelli, appunto come il fumo e l’alcool, legati a piaceri semiproibiti), ma l’intero comparto alimentare (favorendo l’ascesa di certi consumi e la discesa di altri: si pensi al revival della dieta mediterranea), quello delle bevande poco alcoliche o analcoliche (generalmente avvantaggiate dalla crisi dei superalcolici), il mercato della fitness (dall’abbigliamento sportivo alle palestre, dagli integratori alimentari agli attrezzi da ginnastica), i prodotti della bioagricoltura, l’agriturismo, la medicina alternativa, i preservativi, l’industria dei prodotti per la cura e l’igiene della persona, e insomma tutto ciò che abbia a che fare – anche indirettamente – con la salute, la forma fisica, l’ecologia, la difesa e la protezione del corpo.


La recessione economica è, per dimensioni e impatto, un fenomeno ancora più “macro” di quello appena ricordato. Qui l’equazione è facile: meno soldi in tasca = meno consumi. Il che non vuol dire, semplicisticamente, che tutti i comparti e tutte le marche si troveranno a disagio. Sopravvivono meglio le marche che, pur operanti in un mercato o segmento duramente colpito dalla crisi, riescono a farsi largo fra i concorrenti con efficaci politiche basate sul value for money. Né si può escludere che altre imprese, ancora più accorte e lungimiranti, riescano a escogitare strategie tali da spostare la spesa del consumatore da tutt’altro mercato al proprio – come dev’essere accaduto durante il periodo di maggior allarme per la mucca pazza, quando molti hanno abbandonato la bistecca per passare alle carni bianche, al pesce surgelato o inscatolato, ai legumi e a chissà quali e quante ulteriori fonti alternative di sostentamento.


Se spingiamo il naso più in là, ci avvediamo che il futuro è un gran punto interrogativo. Che impatto avrà l’aggravarsi della crisi del petrolio sull’industria dell’automobile e su tutti gli altri settori che dipendono da quella fonte d’energia? Come dovrà reagire l’industria della surgelazione se i blackout già sperimentati negli Stati Uniti e in Italia dovessero ripetersi con frequenza allarmante? Come dovranno muoversi le majorsdell’establishment tecnologico aggredite da concorrenti più piccoli, ma agguerriti e dinamici? Che succederà alle global brands se il movimento che le contesta montasse a dismisura, fino a rendere indispensabile un drastico cambio di rotta nelle policy aziendali? Cosa dovrà inventarsi un McDonald’s per evitare nuovi sassi contro le sue vetrine?


Non esistono strategic planner in grado di rispondere a tutto questo. Ma esistono imprese più sensibili di altre ai cambiamenti, e più lungimiranti della media. Collaborando con imprese di questa specie, un’agenzia seria può fare – persino in un quadro per molti versi inquietante come l’attuale – ancora un buon lavoro.


VII. Quali sono, oggi, i punti di forza e di debolezza del brand?


Eccoci al momento diagnostico. Una fedele e onesta disamina delle virtù della marca, ma anche – se non soprattutto – dei suoi possibili malesseri, presenti o solo temuti, intrinseci o indotti dall’esterno, sarà di notevole aiuto a una comunicazione che voglia essere costruttiva e proficua.


Nella pratica, scopriremo di frequente che certi valori di marca possono rivelarsi ambigui, e quindi collocarsi sia nell’elenco dei “buoni” (i punti di forza) sia nell’elenco dei “cattivi” (i punti di debolezza). Supponiamo di avere tra le mani un prodotto di illustre e riconosciuta tradizione storica – un’enciclopedia della Treccani, un amaro del Risorgimento, una poltrona Vanity Fair, quello che volete. È ovvio che l’aura aristocratica e talvolta leggendaria che circonda una marca “storica” è da annoverare tra i suoi punti di forza; ma quanta fedeltà riserva ancora la società contemporanea al rispetto della memoria e del passato? Come la mettiamo con il culto, a volte motivato ma spesso provinciale e acritico, verso il “nuovo che avanza”? Quanto pesa, se pesa, il fascino del vintagenella scala valori d’un cittadino di oggi? In quali settori la tradizione rende, in quali altri è un ostacolo? Chi può dirsi “sempre giovane”, chi irrimediabilmente invecchiato? E cosa può fare la nostra comunicazione per correggere impressioni e pregiudizi?


Persino le assolute leadership di mercato possono ritorcersi contro la marca. Abbiamo menzionato altrove il caso della Playstation 2. Punto di forza: the best. Punto di debolezza: the best. In quale direzione dovrà incamminarsi la Sony per recuperare le paventate flessioni di vendite? La situazione dei grandi leader è spesso più attaccabile di quanto non sembri, specialmente se hanno raggiunto quote di mercato talmente elevate da non giustificare ragionevoli speranze di crescita ulteriore. In qualche caso basta persino una piccola marca me-too a erodere quello 0,1% di market share che darà filo da torcere al gigante, proprio perché è il gigante a detenere il parco più abbondante di adepti dal quale attingere. Nel remoto 1915 Theodore F. MacManus, fondatore dell’omonima agenzia, scrisse su questo argomento un memorabile annuncio per la Cadillac intitolato The Penalty of Leadership, «Il castigo della leadership». Vi si leggeva tra l’altro: «Chi è primo viene aggredito perché è primo, e lo sforzo di eguagliarlo è solo una prova in più di questo primato. Gli inseguitori cercano di deprezzare e distruggere ciò che non riescono a eguagliare o superare – ma non fanno che confermare la superiorità di colui che si sforzano di soppiantare. In questo non c’è nulla di nuovo. […] Colui che è abile o grande si fa riconoscere, non importa quanto sia forte il clamore delle negazioni. Colui che merita di vivere, vive.» Bene, MacManus era pagato per difendere la superiorità del leader e per questo tratta a pesci in faccia gli inseguitori, che non sono necessariamente né dei criminali né delle mezze calzette. Ma c’è molta verità ancora attuale sia nell’assunto (la leadership mostra sempre il fianco agli attacchi), sia nella proverbiale frase finale (“Colui che merita di vivere, vive”), un solenne riconoscimento al merito delle aziende che aprono nuove piste senza imitare pedissequamente nessuno, che si impegnano con intelligenza e creatività nel proprio ramo, e che sanno rivolgersi al prossimo con una comunicazione dignitosa, rilevante ed efficace.


VIII. Qual è il contesto competitivo?


Per rispondere con esattezza a questa domanda non basta elencare i diretti concorrenti della marca. Fin là ci può arrivare chiunque. Né è sufficiente passare in rassegna la pubblicità dei competitorsper desumerne i rispettivi e reali posizionamenti sul mercato. Tutt’al più, quella pubblicità (o quella promozione) potrà svelarci il loro posizionamento desiderato; ma non prova che il tentativo compiuto abbia effettivamente modificato l’opinione o i sentimenti del target nei confronti di questa o quella marca.


Il vero contesto competitivo va desunto da nozioni più precise sulla dinamica delle marche operanti nel settore: p. es. “La marca X ha visto crescere negli ultimi due anni la propria quota dopo aver lanciato una nuova formulazione a base di miele e vitamine; le marche più penalizzate sono state Y e Z, l’una perché il target tende ad abbandonare i prodotti ritenuti troppo grassi e l’altra per aver ridotto gli investimenti in comunicazione al di sotto della media di settore. Noi ci siamo difesi con una promozione di successo, ma consideriamo rischioso proseguire in una politica di taglio-prezzo.”


Ma il contesto competitivo è sempre e soltanto l’area merceologica di appartenenza? Se ho puntato tutto sui piatti pronti, e se fra le mie sette ricette quella ampiamente preferita dagli italiani era l’involtino di manzo al ragù, come me la cavo con la crisi della mucca pazza e con il tonno Tonton, che ha creato quel maledetto battage con la campagna «Meglio un tonno intelligente che un involtino deficiente?» E, boutades a parte: dove sta scritto che il signor Rossi comprerà questa o quella fotocamera digitale con la tredicesima natalizia? E se invece decidesse di regalare a sua moglie una lavapiatti? O un gioiello? E se gli venisse in mente di acquistare due telefonini di nuova generazione, uno per la moglie e uno per l’amica, e spendere il resto in caviale e champagne?


D’accordo: non è consigliabile affrontare una tematica così oceanica e dispersiva in un creative briefing, altrimenti addio brevità. Ma chi si occupa di marketing farebbe bene a tenere gli occhi aperti non solo su quanto accade nel proprio orticello. Le dinamiche dei vari mercati sono diabolicamente interconnesse, e una moderna attitudine alla riflessione strategica dovrebbe scrutare tutto l’orizzonte anziché concentrarsi verso un solo punto cardinale. Le idee migliori nascono anche dall’osservazione di ciò che ci sembra, a prima vista, estraneo e distante. 


La durata del prodotto come elemento integrante della sua immagine di culto. «Non ti abituerai mai all’idea di andare in pensione. Perché dovrebbero farlo i tuoi scarponi?» Agenzia Leagas Delaney, Londra. Direttore creativo Tim Delaney. Autori Chris Clarke e Matt Moreland.


IX. Con chi devedavvero competere la marca per raggiungere (o confermare) una forma di leadership?


Il gruppo D’Arcy, network di agenzie ora assorbito da terzi, ha elaborato anni fa uno studio piuttosto stimolante sulla costruzione dei primati di marca, partendo da una ridefinizione del concetto di “leadership”.  Leader, secondo quello studio, non è solo la marca che detiene la quota maggiore del suo mercato; ma anche la marca che riesce a collocarsi come top-of-mind in una determinata area di posizionamento. Rolex non è il leader del mercato degli orologi, ma è un top-of-mind nell’ambito della sua classe. Così la Ferrari, per citare un altro nome di culto. Ma si possono rintracciare esempi di leadership psicologica in tutte le categorie, comprese quelle del mass market. La Coca-Cola è il leader indiscusso nella categoria dei soft drink, ma in molti paesi la Pepsi è considerata alla stregua di un “leader dell’opposizione” – molto più che un semplice follower. Lo stesso dicasi, in Italia, per Infostrada, “leader dell’opposizione” rispetto a Telecom. Nike è il gigante che sappiamo, ma quando in Italia si pensa a una felpa si pensa a Champion, e se si vuole un certo tipo di tuta sportiva indossabile anche a scuola viene in mente Adidas con le sue tre strisce bianche su nero. Negli anni ottanta sono esplose cult brands come Timberland, sebbene in Italia non fossero ancora distribuite. Quanto alla Swatch, poi diventata effettivamente il n. 1 nel mercato degli orologi, è riuscita fin dagli esordi a promuoversi come marca di culto, scatenando una caccia senza precedenti ai modelli più introvabili.


«Guardare l’orologio costa a Bill Gates 300 dollari al secondo. Quanto vale il tuo tempo?» Esercitazione studentesca alla Miami Ad School di San Francisco. Copywriter: Ian Going. Esempio di snob appeal applicato a una icon brand.


La teoria D’Arcy sulla leadership muove da queste o analoghe considerazioni per sostenere che ogni marca, di qualsiasi dimensione e settore merceologico, dovrebbe aspirare a una forma di leadership, cercando di conquistare il ruolo influente di marca-guida (e diventare così il primo nome che viene in mente) di una specifica categoria. I processi strategici e creativi dovrebbero mirare a questo scopo, anziché limitarsi all’ottenimento di un risultato soddisfacente ma non duraturo. Le marche-guida, piccole o grandi che siano, sono i trend setter dell’area che hanno saputo occupare.


Se si sposa questa premessa, e si vuole passare dall’astratto al concreto, occorre definire in modo più approfondito le possibili forme di primato di marca. L’osservazione di centinaia di casi ha portato i planner della D’Arcy a individuare quattro grandi tipologie di influenzatori: le power brands, le identity brands, le icon brands e le explorer brands.


Power brand sono le marche che si guadagnano la reputazione di “più brave a svolgere il proprio compito”. Trionfano nella funzione. Così, se penso a un detersivo che lavi più bianco, mi viene in mente Dash. Se penso a un trapano che trapana alla grande, mi viene in mente Black-&-Decker. Se penso ai tortellini industriali più buoni e dalla sfoglia più sottile, mi viene in mente Giovanni Rana. Se penso al ketchup più denso, penso a Heinz.


Identificazione assoluta, anche se paradossale, fra Levi’s Jeans e chi li indossa, per il lancio di una linea (Reconstructed) che si ispira ai modelli originali della marca. Agenzia Bartle Bogle Hegarty di Singapore. Direttore creativo Todd Waldron. Autori Hoon Pin Kek e Douglas Hamilton. Fotografo Simon Harsent. Editor Dave Phung. 2007.


Se le power brand lavorano e comunicano soprattutto sulla funzione del prodotto, le identity brand si concentrano essenzialmente sul proprio target, promuovendosi come le marche più vicine al mondo reale delle persone. Nei prodotti e nella comunicazione della Levi’s, per esempio, si riconoscono legioni di teenager; le frange più ribelli si identificano, invece, più facilmente nei mondi spregiudicati e corrosivi proposti dalla Diesel. La già citata Pepsi è un modello di identity brand, avendo lavorato per anni sul concetto di Pepsi Generation e rappresentato con simpatia “i giovani che non amano seguire la corrente”.


Marlboro (“Come to Marlboro Country”) e Lux (“Il sapone di nove stelle su dieci”) sono invece delle tipiche icon brand. Propongono mondi in cui nessuno si riconosce, ma che fanno sognare. Anziché sul processo di identificazione, lavorano sul processo di proiezione: “Questo mondo non mi appartiene, ma vorrei esserci anch’io.” È questa un’area sovrabbondante di profumi, griffes, beni di lusso ma anche prodotti più abbordabili, accomunati dalla celebrazione simbolica e dall’esaltazione di stili di vita aspirazionali.


Una interpretazione coreana di Just do it: «Allena i tuoi piedi.» Agenzia Diamond Ogilvy.


Quella delle explorer brand è una classe di recente generazione; la si può far risalire al lancio di Apple Macintosh (1984) ed è del tutto anomala rispetto ai modelli strategici tradizionali. Comprende le marche che coinvolgono il target in una specie di gioco interattivo, invitandolo a sperimentare (“esplorare”), in piena autonomia e libertà, spazi e opportunità senza restrizioni. I giochi elettronici come Playstation rispecchiano perfettamente questo modello di leadership; ma anche campagne come «Just do it» (Nike), «Where do you want to go today?» (Microsoft), «Think different» (Apple), «Time is what you make of it» (Swatch), i cui prodotti si mettono al servizio di un target a sua volta “creativo”.


Connubio tra moda e telefonia per il Samsung Galaxy di Armani: «Parla per te.» Agenzia Y&R Brands, Milano. Direttore creativo Vicky Gitto. Autori Cristian Comand e Matteo Lazzarini. Fotografo Richard Burbridge. 2010.


I quattro modelli di brand leadership sommariamente descritti non costituiscono, di per sé, altrettanti posizionamenti; ma sono la base per costruirli. Taluni sono combinabili fra loro (p. es. una power brand può rappresentarsi attraverso tranches de vie in cui il pubblico possa identificarsi, e nulla esclude che una explorer brand si manifesti attraverso i segnali di una identity oppure di una icon brand. Vicendevolmente incompatibili sono invece le identity e le icon brand.


Con chi deve competere la marca per raggiungere o confermare il suo ambito di eccellenza? Un’analisi della concorrenza eseguita, oltre che con gli strumenti tradizionali, anche utilizzando la griglia dei brand leadership models, aiuta a identificare meglio i territori altrui e gli altrui punti di forza e debolezza. E a individuare eventuali territori non ancora presidiati, o occupati senza la necessaria autorevolezza.


X. A chi parliamo?


Siamo a una delle voci-chiave della strategia creativa: il cosiddetto target group. L’evoluzione delle indagini demoscopiche, delle analisi sui convincimenti valoriali e gli orientamenti comportamentali (famose e applicatissime le ricerche Psicografia e Sinottica dell’istituto Eurisko, le cui prime edizioni risalgono rispettivamente al 1976 e al 1986), le rilevazioni sulla sociologia dei consumi e quelle sui fruitori dei mezzi di comunicazione hanno contributo a radiografare con crescente e raffinata precisione le segmentazioni socioculturali della popolazione, assortendole in cluster il più possibile omogenei. Fino alla prima metà degli anni settanta le fasce di pubblico venivano individuate in modo più generico, meno accurato, sulla base di elementari indicatori anagrafici (sesso, età, grado d’istruzione, classe socioeconomica, residenza in grandi o piccoli centri).


Nella compilazione di un creative briefing è bene descrivere il target group – identificato attraverso i sofisticati strumenti disponibili – in modo sintetico ma “vivo”, come se si trattasse del ritratto di un vicino di casa: es. “Giovane, tra i 25 e i 34, diplomato, curioso, aperto al nuovo, fan dei Radiohead, della Golf e di internet”.


Buona norma è anche, in alcuni casi, specificare qual è il target effettivo e quale il target “di riferimento”. Gli spot della Coca-Cola mostrano teenager in continuazione, ma le mamme cinquantenni che comprano il prodotto formato-famiglia al supermercato sono una miriade. I ragazzi sono dunque il target di riferimento della pubblicità per mantenere sempre giovane l’immagine della marca, ma il target effettivo è di gran lunga più vasto.


Capita a volte di vedere annunci sui giornali apparentemente rivolti al consumatore, mentre invece il target reale (e occulto) è costituito dai canali di vendita. E certe campagne istituzionali che in apparenza si rivolgono a un pubblico indifferenziato mirano invece a influenzare la classe politica o gli investitori finanziari, magari in vista di una quotazione in borsa.


XIV. Qual è il messaggio-chiave della comunicazione?


Stiamo parlando del main benefit, ovvero della promessa principale della marca al proprio pubblico. Dopo lunghe e laboriose peregrinazioni mentali, il cuore della pubblicità è qui: nel promettere qualcosa a qualcuno. Qualcosa che abbia, per lui o per lei, un valore autentico, rilevante. Qualcosa che gli offra un beneficio, un vantaggio: alimentare o psicologico, funzionale o sentimentale, necessario o superfluo – ma che corrisponda a un reale bisogno, anche se talvolta latente: non a un bisogno inventato a tavolino dall’azienda o dall’agenzia.


Un esempio di benefit: la sicurezza. «C’è una ragione per cui le auto vanno in discarica e le persone vanno in paradiso. Una vita umana vale più di mille automobili di lusso. O di qualsiasi altra cosa, se è per questo. Ecco il motivo per cui Volvo produce le macchine più sicure che possiate trovare in giro. Non perché ci stiano a cuore i dispositivi di sicurezza, o le auto di per sé. Ma perché ci stanno a cuore le persone.» Agenzia Euro RSCG, Chicago. Direttori creativi Steffan Postaer e Blake Ebel. Autori Simon Kao e Merrideth Kalil. Illustrazione di Giannini Imaging. Fotografia di Chris Katahara, Jupiter Images.


Il benefit può essere espresso in modo esplicito e verbale: «Scarpone che non fa male» (Rossignol Soft); «Dash lava più bianco che più bianco non si può.»


In modo verbale ma allusivo: «Chi Vespa mangia le mele», campagna Piaggio del ’68, agenzia Leader di Firenze, con una promessa che invita a farsi decodificare (libertà in generale? Primi approcci sessuali in campagna?)


Senza parole, ma con un’immagine attraente (alta moda, occhiali griffati, profumi, gioielli): promesse di seduzione, di eleganza, di bellezza, di promozione sociale, di successo.


Senza parole, ma con immagini che evocano da sole un racconto dal significato promettente: un nuovo modello di Mercedes parcheggiato in città, e sull’asfalto, alla sua sinistra, segni di molteplici e bruschissime frenate, lasciate da automobilisti evidentemente colti di sorpresa dal fascino irresistibile della sua linea; una sedia costosissima graffiata dal tappo a corona della Stella Artois, brutale sacrificio compiuto da chi aveva una voglia improcrastinabile della sua birra preferita ma non riusciva a trovare il cavatappi; una giacca a vento Moncler imprigionata in un lastrone di ghiaccio. 


Promesse articolate con immagini e parole: un vero foglio di carta vetrata incollata in una pagina di magazine, e il titolo: «Se è questo che prova la tua donna quando ti accarezza, prova il nuovo rasoio elettrico Sunbeam.»


XVI. Perché dovrebbero crederci?


La reason why– la ragion per cui – è l’informazione, o l’argomentazione, che completa la promessa per renderla (sperabilmente) credibile. Come accade per il benefit, anche questa parte del messaggio può manifestarsi in modo palese o allusivo. La si può cogliere in un titolo o in una body copy, in un’immagine o addirittura semplicemente in una firma riconosciuta e autorevole: Armani, Versace, Cartier…


Reason why espressa con un paradosso visivo: «Ecco perché avete bisogno di fanali che svoltano dove svoltate voi. Škoda con fanali autoadattabili Bi-Xenon.» Agenzia Saatchi & Saatchi di Istanbul. Direttore creativo Tarkan Barlas. Autori Aytaç Ateş, Sedef Karakaş, Senem Demirayak, Emre Altundağ. Fotografo Nejat Talas. 


Talvolta basta la sola reason why a evocare anche la promessa. Un annuncio Volvo della Pirella Göttsche Lowe del 1995 mostra il ritratto di un bambino al mare con entrambe le braccia infilate nei cuscinetti salvagente. Titolo: «Solo la Volvo ha gli airbag laterali.» La promessa di sicurezza è lampante, anche se per eccesso di prudenza un sottotitolo precisa: «La protezione. Un’altra sicurezza Volvo.»


L’annuncio già citato e senza parole di Moncler, con il “piumino” incastrato in una morsa di ghiaccio, promette (in modo allusivo) protezione anche alle temperature più rigide; implica, senza dichiararlo, che si tratta di un capo di abbigliamento tecnico per sport d’alta montagna; e a mo’ di reason why esibisce solo il logo Moncler, marca che già gode di eccellente reputazione.


In molti casi, la reason why corrisponde o si accompagna a una supporting evidence; in altri, è sostituita o rafforzata da un endorsement. Si tratta di tre diversi tipi di “garanzia di verità”. La reason why risponde alle domande: Come? Perché? I due airbag laterali della Volvo sono il “come” e il “perché” la Volvo è più sicura. La supporting evidence sta, letteralmente, per “prova a supporto”: ti ho detto la verità e ora te lo dimostro. Gli spot della Procter & Gamble, e non solo quelli, sono normalmente interrotti a metà strada da una demo, una dimostrazione didattica, una prova scientifica, spesso nella forma di un disegno animato che, a seconda del prodotto, simula ingrandimenti di particelle, fibre tessili, molecole, pori, microrganismi, additivi speciali, ecc.: il dentifricio sbiancante AZ Ultrabrait non solo ti dà un sorriso di cui essere fiera, ma non ti graffia i denti perché contiene microparticelle sbiancanti perfettamente sferoidali, senza punte aguzze. Nella sequenza appena tracciata abbiamo una promessa comune a tutto il segmento degli sbiancanti (il sorriso bianchissimo e seducente), la promessa esclusiva e competitiva del prodotto pubblicizzato (bel sorriso sì, ma senza danneggiare i denti), la reason why (microparticelle arrotondate), la supporting evidence (ti dimostriamo che non solo è vera la promessa, ma è vera anche la reason why), il problem solving (prima di scoprire il prodotto la protagonista dello spot provava imbarazzo a sorridere in pubblico) e l’end result (ora sorride apertamente anche al potenziale corteggiatore appena conosciuto).


Dimostrazione visiva (demo) delle capacità di assorbenza e resistenza di un foglio di carta asciugatutto Foxy. Agenzia Lowe Pirella, Milano. Direttore creativo Daniele Dionisi. Autori Ferdinando Galletti e Davide Pasquale. Generazione ed elaborazione dell’immagine: Carioca Studio. 2015.


La storia della pubblicità è piena di straordinarie campagne basate sulla demo. Un vecchio spot per l’attaccatutto Araldite mostrava in dettaglio le mani di un uomo che prima riparava con la colla il manico spezzato di un martello, poi ricomponeva un chiodo anch’esso spezzato in due, e infine conficcava il chiodo nella parete servendosi del martello.


L’endorsementè la dichiarazione, sottoscritta da un’autorità del settore, che comprova la veridicità dei contenuti di un annuncio. Con qualche licenza, si possono considerare forme di endorsement molte campagne testimonial, soprattutto quando il testimone ha effettivamente qualcosa a che fare con l’oggetto trattato.                                                                                                                                                                                                                                                                 


XVII. Quale stile, quale tono di voce conviene adottare?


Il creative briefing vero e proprio si conclude[8]con l’indicazione del tone & manner, lo stile della comunicazione: giovanile o maturo, autorevole o scherzoso, fattuale o emozionale, ironico o serioso, etc.


Va da sé che il tono di voce deve essere adeguato alla circostanza, cioè al particolare tipo di brand vision, di target group, di promessa e di reason why che ci siamo dati. Lo stile di una comunicazione non può che essere la logica conseguenza di tutte le indicazioni precedenti.


P.B.





[1] A meno che non si tratti di un’operazione suggerita proattivamente, e in via eccezionale, dall’agenzia al cliente.
[2] Il termine “strategia”, così come altri sostantivi che l’accompagnano (“obiettivo”, “target”), rimanda alla fraseologia militare: la “missione” o “azione” evocata dal Webster’s– sul campo di battaglia, così come nelle iniziative commerciali – si applica simbolicamente alla pubblicità per ricordarci che il suo scopo è sempre, direttamente o indirettamente, di natura competitiva.
[3] USP, Unique Selling Proposition: la “proposta esclusiva di vendita” auspicata da Rosser Reeves nel saggio Reality in Advertising (1961).
[4] Una definizione più precisa e aggiornata del concetto di brand equityè stata fornita nel 2014 da Bruno Schivinsky e Dariusz Dabrowski in The consumer-based brand equity inventory: scale construct and validation, Working Paper Series A, Gdansk University of Technology, Faculty of Management and Economics: «Il patrimonio di marca o valore del marchio (conosciuto anche con la locuzione inglese brand equity) è una risorsa immateriale d’impresa che si fonda sulla conoscenza di una marca da parte di un determinato mercato.» Esso può essere definito come lo stato, in un dato momento, della relazione instaurata tra una determinata offerta e una domanda. Esprime il valore della marca in condizioni di funzionamento sintetizzando la forza di una marca sul mercato di riferimento.

[5] In certi paesi IKEA è stata la prima azienda a rivolgersi esplicitamente, con la sua pubblicità, anche alle coppie omosessuali.
[6] V. articolo di Marco Panara su La Repubblica / Affari & Finanza del 3 novembre 2003.
[7] Non dimentichiamo che questo testo risale al 2004. I casi e i dati riportati si riferiscono all’epoca, e qui hanno un valore puramente funzionale all’analisi teorica dei temi di cui ci stiamo occupando (briefing, strategia di comunicazione, etc.)
[8] Se previsti, si indicano dopo il tone & manner i must o constraints o mandatories: elementi da inserire obbligatoriamente nella comunicazione, p. es. gli ingredienti di un format che non si ritenga opportuno modificare (base-line, musica, tipo di pack-shot, etc.), formule legali, inserimento di una demo, etc.

Briefing. Post scriptum

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Creative briefing/2


Il mio post sul creative briefing, estratto da un manuale pubblicato nel 2004, induce a riflessioni ulteriori e merita un aggiornamento. La domanda che ci si pone è la seguente:


Lo scenario contemporaneo si è andato spostando sempre di più non solo verso la comunicazione one-to-one, ma anche verso nuove o rinnovate forme di intervento sull’ambiente circostante (guerrilla marketing, ambient advertising, street happening, etc.), a scapito della tradizionale pubblicità sui mezzi “classici”. In che modo, e con quali modificazioni o prospettive, il nuovo orizzonte influenza le modalità di costruzione e successo di un brand?

La prima risposta, a botta calda, è che l’ossatura metodologica delle strategie di comunicazione non cambia. Ciò che cambia è la quantità e la tipologia delle opzioni mediatiche, oggi decisamente più generosa che in passato e, soprattutto, più flessibile. Qualche riflessione, tuttavia, s’impone – se non altro per pesare le convinzioni di ieri sulle bilance di oggi.


Il testo precedente, quello di undici anni fa (tantissimi, ormai, se consideriamo la rapidità dei mutamenti indotti dal progresso tecnologico e dai fattori socioeconomici e geopolitici), si concludeva con l’irruzione di una nuova categoria, denominata “explorer”, tra i terreni di coltura dei possibili posizionamenti di marca. A differenza delle altre, che si concentravano sulle prestazioni di prodotto (power brands), le relazioni di prossimità col consumatore (identity brands) o con le sue aspirazioni (icon brands), questa tendeva – e tende – all’istituzione di un nuovo tipo di rapporto con il target, più aperto e democratico. La marca dal “posizionamento esplorativo” invita il suo pubblico alla partecipazione attiva: ti offre determinati strumenti (i suoi prodotti o servizi) e ti consente, ti sollecita o ti sfida a fare qualcosa. Un “fare” che non è necessariamente o soltanto “comprare”, ma “partecipare”, “stare al gioco”, “intervenire”, “piazzare un feedback personale”. Com’era auspicabile e prevedibile, il nuovo modello metodologico basato sulla comunicazione “aperta” e sulla libertà di reazione del target ha avuto ampio sviluppo in questi anni, e ne avrà sempre di più. Anche se continueranno ad esserci marche dal profilo power, identitye icon, esse si avvantaggeranno dalla commistione con le pratiche specifiche di una explorer brand.


La moltiplicazione delle opzioni e l’incremento delle opportunità creative possono costituire una tentazione irresistibile all’allestimento di azioni occasionali di formidabile impatto e al tradimento di posizionamenti concepiti per durare nel tempo. Lo stesso termine gergale di positioning fa pensare a qualcosa di statico e irremovibile, un ostacolo all’immaginazione più che trampolino di lancio della fantasia. Continuo a credere, invece, che la marca abbia tutto da guadagnare da un programma di coerenza strategica: specialmente se è molto nota, e ancora di più se opera sulla scena internazionale. Si può inventare tutto ciò che si vuole su Volvo o su Apple, a condizione di rispettarne i valori fin qui condivisi: la solidità e indistruttibilità della prima, la singolarità e innovatività dell’altra (Think different).


Fra le tante novità della web era, una delle più interessanti consiste nella revisione delle coordinate geografiche. La comunicazione virtuale se ne frega del territorio inteso come puro spazio fisico. Se da Campofelice di Roccella pubblico un video su YouTube o Vimeo posso suscitare reazioni a Seoul come a Detroit. Se piazzo una ciotola di cibo per cani sul pavimento di una piazza di Salerno, e riprendo con una telecamera il comportamento dei cani che le si avvicinano e lancio il video sul website di quella marca di pet foods, oltre che sul blog di un dog trainer e su Facebook, posso suscitare sorrisi, commenti e adesioni non solo a Salerno, ma anche in Islanda e nel Laos. Il web ha un potere di amplificazione che supera il vecchio dualismo tra local e globalcommunication.


Le nuove strategie di marketing e comunicazione dispongono di canali e combinazioni inimmaginabili vent’anni fa. Questo fa sì che anche i concetti di advertising e public relations, una volta considerati come articolazioni autonome e separate della policy d’impresa, tendono a incrociarsi e sovrapporsi sempre di più; il che presenta, allo stesso tempo, nuove opportunità e nuovi rischi che conviene calcolare in anticipo. Soprattutto perché il pubblico, prima passivo o tutt’al più libero di scegliere fra comprare e non comprare, è diventato interlocutore e persino co-autore di chi promuove questa o quella marca. E, con i suoi commenti o addirittura con strumenti mediatici che controlla in modo diretto (blog, per esempio), può contribuire fattivamente al successo o alla demolizione degli sforzi altrui. “Target” è un’altra parola che ha perso di senso: voleva dire “bersaglio”, secondo una concezione militare e strafottente del marketing d’altri tempi; ma il target ha alzato la testa e la mira, ed è in grado di rispondere agli spari sparando a sua volta. Pensare al pubblico come a un target da colpire è diventato il più stupido dei boomerang. Il pubblico va coinvolto e invitato alle danze, non aggredito; e questa semplice verità non può che influire sulla scelta dei modi di comunicare, a partire dal tono di voce.


La comunicazione commerciale one-to-one ha aperto una serie di prospettive stimolanti allo strategic planner. Per esempio, e alla rinfusa:


  1. L’idea di rivolgersi a un gregge di “consumatori” è definitivamente obsoleta. Era già stantia nei tempi andati (nessuno vuole essere considerato “consumatore”; uno può anche “consumare”, e persino tantissimo, ma aspira ad essere riconosciuto in quanto “persona”, con un’identità che trascende gli atti di consumo). E oggi lo è ancora di più, perché il web gli dà il potere di interagire con i pastori del gregge e far sentire la propria voce.


  1. Quando si ragionava solo in funzione dei media tradizionali, e quindi dalla solitaria posizione su un pulpito, si ascriveva a questo o quel VIP il potere di influenzare le masse. Sicché si scomodavano, all’occorrenza, i cosiddetti opinion makers, che svolgevano un ruolo essenziale nelle campagne di P.R. Oggi siamo tutti opinion maker: basta darsi un po’ da fare su internet. L’opinione pubblica ha trovato il modo di formarsi e di esprimersi anche da sola, senza intermediari, senza la spinta di demiurghi. Il passaparola è diventato più spontaneo di quanto potesse esserlo prima. Naturalmente è un fiume in parte navigabile, e persino pescosissimo; ma per orientarne il percorso è necessario un surplus di avvedutezza e creatività.


  1. La nuova comunicazione commerciale non può prescindere da un’inclinazione all’entertainment. Séguéla teorizzò trent’anni fa la pubblicità-spettacolo immaginando le marche come dive da star system. Intuizione, la sua, sorprendente e provocatoria ma non del tutto realizzabile con gli strumenti e i canali allora disponibili, se non a costo di operazioni dispendiose e non sempre efficaci. L’entertainment di cui parliamo è un’altra cosa. È la capacità di inscenare spettacoli coinvolgenti – anche a costo abbordabile – in grado di mobilitare partecipazioni attive da parte dello spettatore-interlocutore.


  1. La comunicazione online consente esperimenti e, se occorre, correzioni di percorso quasi immediate. Puoi misurare minuto per minuto l’andamento dei likes e delle views, e agire di conseguenza. Somiglia, per certi aspetti, al direct marketing postale del secolo scorso, quando potevi modificare l’impostazione di una lettera di vendita sulla base della redemption o addirittura testare in simultanea due diversi approcci per vedere quale funzionasse meglio. La differenza sta nell’orologio. Adesso tutto si svolge a velocità da autodromo; azioni e reazioni impongono la massima prontezza di decisione e intervento.


  1. Una moderna strategia di marketing e pianificazione deve tener conto di una nuova chance o necessità: quella di incrementare il numero e la varietà di occasioni di contatto con il pubblico, e di equilibrarne le tipologie. Se, per pura ipotesi, prendessi accordi con il Four Seasons di Milano e il giorno del mio compleanno invitassi i lettori di Dixit Café ad andarci per un breakfast a mie spese, potrei ricavare un po’ di simpatia anche da parte di qualche lettore di Guastalla o Ruvo di Puglia; ma ogni due mesi dovrei inventarmi una trappola affine, altrimenti avrei sprecato tempo e denaro.


  1. Istintivamente penso che le marche – anche le più adulte e consolidate, anche quelle che si rivolgono a un mercato di persone in età matura – saranno sempre più costrette a qualche forma di ringiovanimento. La capacità di parlare alle fasce più giovani della popolazione, anche nei casi in cui ciò può sembrare improprio o dispersivo, a lungo andare le premierà. Il passaparola degli adolescenti gira anche in famiglia, e ciò che circola in rete o sulle app dello smartphone può aspirare, volendo, a una diffusione trasversale e persino transgenerazionale. Ma l’opportunità maggiore sta nel preparare i giovani a familiarizzare e simpatizzare con le marche degli oggetti e dei servizi con cui avranno a che fare domani. L’habitat digitale è giovane di default, così come è giovane il suo utente più assiduo. Di più: la giovinezza mentale è destinata a protrarsi a lungo, almeno per quanto riguarda le emozioni e i comportamenti superficiali. Non è più conveniente, per nessuna marca, trincerarsi in un mondo troppo “adulto” o convenzionale.


  1. Notizia buona: internet è un forte acceleratore di consensi. Notizia cattiva: internet è un forte acceleratore di dissensi. Le società, specialmente le multinazionali, sono costantemente nel mirino. Da loro ci si aspetta una sensibilità etica che sia al di sopra di ogni sospetto. Puoi fare la migliore merendina del mondo, ma se spacci l’invenduto nel Burundi sei fottuto. E giustamente. Il 70% dei consumatori non acquista un prodotto se non apprezza l’operato dell’azienda che lo produce, secondo una ricerca di Weber Shandwick in collaborazione con Krc Research. Dallo studio condotto in USA, UK, Brasile e Cina nel 2011 su un campione di 1.375 consumatori e 575 senior executive di società con revenue annuale di oltre $500 milioni, emergono 6 punti: a) Il corporate brand è altrettanto importante del/dei brand di prodotto. b) La reputazione corporate è garanzia della qualità di un prodotto. c) Qualsiasi discrepanza tra la reputazione di un’azienda e quella del suo prodotto scatena una chiara reazione tra i consumatori. d) I prodotti e la loro reputazione fanno discutere. e) La percezione dei consumatori può cambiare in un clic. f) La reputazione corporate contribuisce al valore di mercato di un’azienda.


  1. Da quanto emerge al punto precedente, dobbiamo desumere – almeno nei limiti d’indagine che ci siamo posti, riguardanti metodi e pratiche del planning di comunicazione – che la questione dell’advertising e delle relazioni pubbliche non è più soltanto materia per dirigenti di marketing e d’agenzia, ma investe in pieno le politiche aziendali e determina la necessità di una coesione più solida fra le varie scrivanie decisionali. Basta con i segreti e, soprattutto, basta con tutto ciò che puzza di immorale. La migliore strategia d’impresa del mondo è sempre la stessa: quella di non dare adito, con i propri comportamenti, alla critica e all’ostilità.


  1. Nessuna azienda, nell’epoca dei social network, può più permettersi il lusso di essere indifferente al “sociale”. Di un magnate come Bill Gates si può dire tutto, tranne che accusarlo di essere socialmente insensibile: la sua fondazione è oggi considerata la più grande del mondo, ed è attiva nella ricerca medica, nella lotta all’AIDS e alla malaria, nel miglioramento delle condizioni di vita nel terzo mondo e nell’educazione.


Per essere un post scriptum, ho divagato fin troppo. E, comunque, non mi occupo più di queste cose. Lascio ai colleghi più giovani, e più informati e appassionati di me, il compito di rendere più organiche e utili le teorie professionali adeguate al loro tempo.


Pasquale Barbella


Dove ho visto quella faccia?

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Capita spesso, al cinema, di rivedere facce note ma senza nome: attori e attrici in eterni ruoli secondari; indaffaratissimi, ubiqui, talvolta così specializzati da impersonare più volte lo stesso stereotipo – il gangster, il poliziotto, il politico, la svampita, la suocera, la zia, il magnate, il cowboy, la spia, l’ufficiale nazista, etc. Con l’avanzare dell’età le ricognizioni si fanno sempre più ardue: ormai dimentico anche i nomi e l’identità di facce ultranote. E fosse solo al cinema, pazienza; il guaio è che mi succede anche nella vita – quando incontro persone che dovrebbero essermi familiari e imbastisco con loro tortuose e imbarazzate conversazioni, facendo finta di ricordarmi benissimo di loro.

Ossessionato dal cinema fin dall’infanzia, conosco molti volti e molti nomi ma divento sempre più incapace di abbinarli correttamente. Chi è Victor Jory? Quale delle sorelle di Rossella O’Hara è Evelyn Keyes? Quel tizio che fa il dottore non era il giudice in un film di Lassie, il cane? Ward Bond è quello magro o quello grasso?

I media si occupano poco dei cosiddetti caratteristi, anche quando si tratta di interpreti di genio. Sono i pilastri del cast e spesso talmente bravi ed espressivi da esser scelti per quello che sono, non certo per attirare le folle con nomi di grido. Se ti chiami Brad Pitt sei un tipo da copertina, ma se sei Lloyd Gough te lo scordi.

Può succedere che attori sempre apprezzati in ruoli di supporto balzino una tantum al protagonismo, favoriti da una banale questione di cachet. Richard Jenkins, candidato all’Oscar 2009 per l’interpretazione di un professore universitario stufo dell’insegnamento e attratto dalla vita alternativa di un percussionista senegalese (L’ospite inatteso di Thomas McCarthy, 2007), è una delle presenze più frequenti nel cinema contemporaneo e nelle serie televisive (lo si è notato di recente, come co-protagonista di Frances McDormand, in Olive Kitteridge). Jenkins viene dal teatro e forse anche per questo ha esperienza e credibilità da vendere. Ha fatto il procuratore distrettuale, il portavoce della Casa Bianca, il detective, lo psichiatra, lo sceriffo, il generale, il genitore di complessati; come il più famoso Robert Duvall, ha il physique du rôle per incarnare detentori di potere di mezza età, di indole a volte bonaria e a volte ambigua.

Presentiamo qui una prima, sommaria galleria di volti di ieri e di oggi. Ignoti famosi, o notissimi ma condannati alle altrui amnesie. Pescati quasi a caso, ma sempre tra i più dotati di talento.

P.B.

Inglese del Kent (1879-1954), il grasso e mellifluo Sydney Greenstreet esordì a teatro come assassino. Più tardi, a Hollywood, ebbe poche occasioni per fare la brava persona. Ne Il mistero del falco (John Huston, 1941) è l’equivoco cliente di Sam Spade, il detective privato creato da Dashiel Hammett. In Casablanca (Michael Curtiz, 1942) è il cinico signor Ferrari, faccendiere del mercato nero. Ne I trafficanti (Jack Conway, 1947) è l’irascibile industriale che sputa sul tavolo da meeting sotto lo sguardo allibito degli astanti. Greenstreet è stato uno dei cattivi più enigmatici e imponenti nei noir della Warner Bros.


Teatro. Televisione. Molto cinema indipendente (tre colpi da maestra in una sola edizione di Sundance). Amica intima e ficcanaso (Lontano dal paradiso), titolare di ristoranti (Sapori e dissapori) o agenzie di spionaggio industriale (The East), madre eccentrica o disperata, suocera ingombrante (Basta che funzioni), fedifraga romantica (Cairo Time)... Con un registro ironico adattabile a tutto, dal drammone (eroinomane in High Art) alla commedia brillante (Woody Allen e altri). È Patricia Clarkson, la “supporting actress” più ricercata del momento. Sul grande schermo dai tempi di The Untouchables (Brian De Palma, 1987), dov’era la moglie di Kevin Costner.


Il cattivo più cattivo del West. E si capisce perché: da boy scout, si beccò da un compagno un colpo di matita nell’occhio sinistro, e lo perse. Malasorte o fortuna? Jack Elam (1918-2003), con e senza cappellaccio, si è fatto odiare sulle praterie e nei ranch di Fred Zinnemann, John Farrow, Anthony Mann, King Vidor, John Sturges, Michael Curtiz, Robert Aldrich, Howard Hawks, Sam Peckinpah. E anche tra le spaghettate di Sergio Leone (C’era una volta il West). 


Joseph Calleia, gangster in Passione (Golden Boy) di Rouben Mamoulian, 1939. Maltese (1897-1975), lasciò l’isola a diciassette anni per inseguire una carriera europea da cantante e suonatore d’armonica. Si trasferì poi negli Stati Uniti, e a New York sfondò a Broadway prima di passare, nel 1931, al cinema. Con quella faccia poteva passare per italiano (si chiamava in realtà Giuseppe Maria), levantino, ispanico, persino indù come nel Libro della giungla di Zoltan Korda, 1942. Ottimo come mafioso, killer, sergente di polizia. Indimenticabile in La chiave di vetro (Stuart Heisler, 1942), Gilda (Charles Vidor, 1946), L’infernale Quinlan (Orson Welles, 1958), tanto per citare solo qualche titolo.


Elisha Cook Jr. (1903-1995). Piccolino, di lana fragile e innocua. Qualcuno però ebbe la geniale idea di trasformarlo in soggetto nevrotico, inquietante, pericoloso. Il tipico gregario di boss malavitosi, pronto a uccidere ma nato per soccombere, come tutti gli ombrosi del noir. Impressionante espressività drammatica. Qualche titolo: Il mistero del falco di John Huston (1941, vedi foto), Il grande sonno di Howard Hawks (1946), Rapina a mano armata di Stanley Kubrick (1956).


Jane Darwell (1879-1967) è l’indimenticabile madre di Henry Fonda (vedi foto) in Furore, capolavoro di John Ford (1940) sulla Grande Depressione. Per quel ruolo vinse l’Oscar. Era cresciuta in un ranch, aveva sognato di diventare cantante d’opera ma suo padre la osteggiò in ogni modo. Riuscì comunque a fare teatro di prosa, ed entrò nel cinema fin fall’epoca del muto. Perfetta in gentili ruoli materni e nonneschi, ma anche in quello della sguaiata forcaiola di Alba fatale (William A. Wellman, 1943).


Marcel Dalio (1900-1983), nome d’arte di Israel Moshe Blauschild. Parigino, infilò una promettente carriera nel cinema francese lavorando con registi del calibro di Robert Bresson, Julien Duvivier, Jean Renoir (La grande illusione, La regola del gioco). Scoppiata la guerra dovette rifugiarsi in America, per sfuggire alle persecuzioni antisemite. A Hollywood fu spesso impiegato in ruoli di stranieri melliflui. Il suo curriculum è sterminato. Era anche in Casablanca, come croupier del Rick’s Café Américain.


Elsa Lanchester (1902-1986). Londinese, fin da bambina votata allo show, andò a Parigi a studiare danza con Isadora Duncan. Da grande sposò Charles Laughton, lo seguì negli States, ebbe a Hollywood una lunghissima carriera dopo aver calcato i palcoscenici del vaudeville. Era la moglie di Frankenstein nell’omonimo horror del 1935. Impagabile nei ruoli di spiritosa, lunatica e rompiballe. Un centinaio di ruoli all’attivo, tra cui uno da infermiera, molto divertente, in Testimone d’accusa di Billy Wilder (1957).


Il tedesco Hannes Messemer (1924-1991), condannato in eterno a impersonare l’ufficiale nazista per esserlo stato davvero, seppure senza troppo entusiasmo: era stato spedito a Stalingrado per punizione, e ci restò come prigioniero di guerra dei sovietici. Ubiquo: si è visto in film italiani, francesi, inglesi e americani, quasi sempre in divisa. Da ricordare: Babette va alla guerra (Christian-Jaque, 1959), Il generale Della Rovere (Roberto Rossellini, 1959), Era notte a Roma (ancora Rossellini, 1960), La grande fuga(John Sturges, 1963), Parigi brucia?(René Clément, 1966), Dossier Odessa(Ronald Neame, 1974).


June Squibb, vecchia madre bisbetica in Nebraska (nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista), ha un curriculum più teatrale che cinematografico: ha esordito sui set solo dopo i sessant’anni. Vista in Alice di Woody Allen (1990) e poi in Scent of a Woman – Profumo di donna, L’età dell’innocenza, A proposito di Schmidt e diverse serie televisive.

Nessuno riconosce in lui il biondo, attraente e scriteriato midnight cowboy di John Schlesinger (Un uomo da marciapiede, 1969), né il reduce dal Vietnam ridotto sulla sedia a rotelle di Tornando a casa (Hal Ashby, 1978). Come Jon Voight (classe 1938), molti attori di primo piano passano – invecchiando – nell’oceanica categoria dei comprimari e dei caratteristi. Adesso Voight eccelle nelle parti di statista, lobbista, ministro, generale, ispettore. 


Lloyd Gough (1907-1984) in uniforme da generale per la serie televisiva The Outer Limits, 1964. In Viale del tramonto (Billy Wilder, 1950) era l’agente dello sceneggiatore fallito Gillis, gigolò di un’anziana diva del muto. Tra il 1940 e il 1982 è stato sceriffo, ispettore, capitano, sergente, giocatore d’azzardo, giornalista, psichiatra, chirurgo, magistrato, giudice, senatore e tante altre cose.

Mildred Dunnock (1901-1991). Fragile, minuta, temperamento da vendere. L’enorme successo teatrale in Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller le spalancò le porte del cinema, dove lo stesso ruolo le fruttò una candidatura all’Academy Award. Ne Il bacio della morte (Henry Hathaway, 1947) era la paralitica in sedia a rotelle scaraventata giù per le scale dallo psicopatico Richard Widmark. Zia sempliciotta e apprensiva in Baby Doll (Elia Kazan, 1956), insegnante comprensiva ne I peccatori di Peyton(Mark Robson, 1957) suora in La storia di una monaca (Fred Zinnemann, 1959), madre gretta e insensibile in Inchiesta in prima pagina(Clifford Odets, 1959). 


Mildred Natwick (1905-1994). Perfetta sui palcoscenici e sugli schermi come comare trasandata, stravagante, esuberante, risoluta, svitata, lunare, rigida, maliziosa, impicciona, bisbetica, intrigante. Una che rubava la scena nei film di John Ford, Joseph L. Mankiewicz, Alfred Hitchcock, Peter Bogdanovich e nelle commedie di Neil Simon.


Torin Thatcher (1905-1981). Prima di diventare un apprezzato caratterista è stato a lungo attore del teatro britannico (anche shakespeariano) e poi statunitense. Ruoli spesso severi e in costume: senatore Gallio in La tunica (1953), Ulisse in Elena di Troia (1956). Molto presente in film d’avventura, di guerra e d’azione, preferibilmente in uniforme o in ruoli altrimenti autoritari. Ha lavorato con Hitchcock, David Lean, Henry King, Robert Siodmak, Robert Wise, Billy Wilder, Raoul Walsh, Lewis Milestone, George Roy Hill e molti altri.


Thelma Ritter (1902-1969). Era la sarcastica infermiera di James Stewart in La finestra sul cortile(Hitchcock, 1954) ed è stata una presenza formidabile nel cinema americano, da Il miracolo della 34esima Strada (1947) a Una meravigliosa realtà (1968). Mai vinto un Oscar ma lo ha sfiorato ben sei volte, per i suoi ruoli in Eva contro Eva, La madre dello sposo, La dominatrice del destino, Mano pericolosa, Il letto racconta e L’uomo di Alcatraz. Molto teatro alle spalle: quasi una costante nelle biografie dei migliori caratteristi.


Oltre 260 presenze sullo schermo, senza contare le partecipazioni televisive. Ward Bond (1903-1960), amico di John Wayne e habitué nei cast di John Ford (come cowboy rude, irascibile ma in fondo bonario) ha lavorato spesso anche con Frank Capra, Howard Hawks, Anatole Litvak, Michael Curtiz, Victor Fleming (era un capitano yankee in Via col vento), Nicholas Ray. A metà degli anni cinquanta ebbe la soddisfazione di diventare protagonista di una serie tv, Carovane verso il West.


Richard Jenkins, speaker della Casa Bianca in Sotto assedio - White House Down di Roland Emmerich, 2013. Nato nel 1947 a DeKalb, Illinois, è comparso in dozzine di film e serie tv tra cui L’uomo che non c’era dei fratelli Coen (2001), L’ospite inatteso di Thomas McCarthy (2007), Olive Kitteridge di Lisa Cholodenko (tv, 2014). 


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